Gli economisti borghesi e riformisti, che hanno un interesse ideologico a presentare sotto una luce favorevole la condizione del capitalismo, dicono: di per se stessa l’attuale crisi non prova assolutamente nulla; al contrario, rappresenta un fenomeno normale. Subito dopo la guerra abbiamo assistito ad un boom industriale ed ora assistiamo a una crisi. Ne deriva che il capitalismo è vivo e vegeto.
È un fatto che il capitalismo vive passando attraverso le crisi e i boom, come un essere umano vive inspirando ed espirando. Prima c’è un boom dell’industria, poi un arresto e quindi una crisi, seguita da un arresto della crisi stessa, poi da un miglioramento, da un altro boom, da un altro arresto e così via.
La crisi e il boom, unitamente a tutte le fasi transitorie, costituiscono insieme un ciclo o uno dei grandi cicli dello sviluppo industriale. Ogni ciclo dura dagli otto ai nove o dieci anni e può arrivare agli undici. A causa delle sue contraddizioni interne il capitalismo non si sviluppa, dunque, in linea retta, ma a zig zag, con alti e bassi. E questo che sta alla base delle asserzioni degli apologeti del capitalismo. “Visto che riscontriamo dopo la guerra un succedersi di boom e di crisi” dicono “ne deriva che tutto sta andando per il meglio nel migliore dei mondi capitalisti”.
In realtà le cose stanno diversamente. Il fatto che dopo la guerra il capitalismo continui ad oscillare ciclicamente significa semplicemente che il capitalismo non è ancora morto, che non abbiamo a che fare con un cadavere. Sinché il capitalismo non sarà rovesciato dalla rivoluzione proletaria, continuerà a percorrere i suoi cicli, ascendenti e discendenti. Le crisi e i boom hanno caratterizzato il capitalismo sin dalla nascita e lo accompagneranno sino alla tomba. Ma per stabilire l’età del capitalismo e il suo stato generale, per stabilire se stia ancora sviluppandosi, se abbia raggiunto la sua maturità o se stia declinando, è necessario diagnosticare la natura dei cicli. Allo stesso modo lo stato di un organismo umano può essere diagnosticato verificando se il respiro è regolare o spasmodico, profondo o leggero ecc.
Il nocciolo della questione, compagni, può essere descritto come segue. Consideriamo lo sviluppo del capitalismo – l’aumento della produzione del carbone, dei prodotti tessili, del ferro, dell’acciaio, del commercio estero ecc. – e tracciamo una curva che rappresenti questo sviluppo. Se l’andamento della curva corrisponde al corso reale dello sviluppo economico, vediamo che la curva non sale in modo ininterrotto, ma a zig zag, con alti e bassi, che corrispondono rispettivamente ai boom e alle crisi. Così la curva dello sviluppo economico si compone di due movimenti: un movimento primario che esprime l’ascesa generale del capitalismo e un movimento secondario che consiste in continue oscillazioni periodiche in corrispondenza con i vari cicli industriali.
Nel gennaio di quest’anno il Times di Londra ha pubblicato una tabella che abbraccia un periodo di 138 anni, dalla guerra delle tredici colonie americane per l’indipendenza sino ai giorni nostri. In questo arco di tempo ci sono stati sedici cicli, cioè sedici crisi e sedici fasi di prosperità. Ogni ciclo ha avuto la durata media approssimativa di otto anni e otto mesi, cioè di circa nove anni. Permettetemi di attirare la vostra attenzione sugli zig zag che descrivono i movimenti. A un certo punto la tabella del Times indica un’ascesa. Comincia con la somma di 2 sterline o 25 marchi-oro per ogni inglese. Nel periodo considerato la popolazione è cresciuta circa di quattro volte, il commercio estero in misura anche maggiore e il dato pro capite è salito a 30,5 sterline; e nel 1921, espresso in termini monetari, ma non in valore reale, ha raggiunto le 65 sterline. Nella produzione del ferro riscontriamo un andamento analogo. Vediamo che nella prima parte del 1851 la domanda di ferro era di 4,5 chilogrammi pro capite. È cresciuta fino a 46 chilogrammi nel 1913. Poi è seguito un movimento in senso inverso.
Questo è il bilancio complessivo, è il risultato generale di 138 anni di sviluppo. Se analizziamo la curva dello sviluppo più da vicino, notiamo che può essere divisa in cinque parti, cinque periodi ben distinti. Dal 1771 al 1851 lo sviluppo è molto lento; ci sono movimenti appena percettibili. Osserviamo che nel corso di settant’anni il commercio estero cresce solo da 2 a 5 sterline pro capite. Il punto di rottura si produce solo dopo la rivoluzione del 1848 che agì nel senso di un’estensione del mercato europeo. Tra il 1851 e il 1873 la curva dello sviluppo sale fortemente. In ventidue anni il commercio estero passa da 5 a 21 sterline, mentre nello stesso periodo la produzione del ferro aumenta da 4,5 a 13 chilogrammi pro capite. A partire dal 1873 comincia un’epoca di depressione. Dal 1873 al 1894 circa riscontriamo un ristagno nel commercio inglese (anche prendendo in considerazione gli interessi del capitale investito in aziende estere): c’è una caduta da 21 a 17,4 sterline nel corso di ventidue anni. Poi viene un altro boom che dura sino al 1913: il commercio estero aumenta da 17 a 30 sterline. Infine, con il 1914 comincia il quinto periodo, il periodo della distruzione dell’economia capitalista.
Come si combinano fluttuazioni cicliche e movimento primario nella curva dello sviluppo capitalistico? Molto semplice. Nei periodi di rapido sviluppo capitalistico le crisi sono brevi e di carattere superficiale. Mentre i boom si prolungano ed acquistano dimensioni considerevoli. Nei periodi di declino capitalista, le crisi sono di carattere prolungato, mentre i boom sono limitati, superficiali e speculativi. Nei periodi di ristagno le fluttuazioni si producono allo stesso livello.
Questo significa solo che è necessario determinare lo stato generale dell’organismo capitalistico verificando come precisamente respiri e a quale ritmo batte il suo polso.
Il boom postbellico
Immediatamente dopo la guerra si è prodotta una situazione economica non bene definita. Ma con la primavera del 1919 si è delineato un boom: il mercato delle azioni si è attivizzato, i prezzi sono saliti vertiginosamente come una colonna di mercurio immersa nell’acqua bollente, la speculazione si è sviluppata vertiginosamente. E l’industria? Nell’Europa centrale, orientale e meridionale la caduta è continuata, come indicato dalle statistiche che abbiamo citato. In Francia c’è stato un certo miglioramento, dovuto soprattutto al saccheggio della Germania. In Inghilterra c’è stato in parte un ristagno, in parte una caduta con la sola eccezione della flotta commerciale il cui tonnellaggio è aumentato in proporzione al declino del commercio effettivo. Così il boom europeo complessivamente considerato ha assunto un carattere in parte fittizio e speculativo, il che ha comportato non un progresso, ma un ulteriore declino dell’economia.
Negli Stati Uniti, dopo la guerra, l’industria ha rallentato la produzione bellica e ha cominciato la riconversione alla produzione di pace. Si è verificata un’ascesa degna di nota nell’industria dei petrolio, in quella automobilistica e in quella delle costruzioni navali.
Anno | Petrolio | Automobili | Costruzioni navali |
(milioni di barili) |
(unità) |
(in migliaia di tonnellate) | |
1918 |
356 |
1.153000 |
3.033 |
1919 | 378 |
1.974.000 |
4.075 |
1920 |
442 | 2.350.000 |
2.746 |
Nel suo pregevole opuscolo il compagno Varga dice del tutto giustamente:
“Il fatto che il boom postbellico abbia avuto carattere speculativo è rivelato nel modo più chiaro dall’esempio della Germania. Proprio mentre i prezzi si sono moltiplicati per sette durante diciotto mesi, l’industria tedesca ha continuato ad andare indietro... La sua congiuntura economica era una congiuntura di vendite di liquidazione; i residui delle riserve di merci esistenti sul mercato interno sono stati gettati sui mercati esteri a prezzi favolosamente bassi”.
In Germania i prezzi hanno raggiunto i livelli più elevati mentre l’industria è in continuo regresso. Negli Stati Uniti, dove l’industria continua a crescere, i prezzi sono saliti in minore misura. La Francia e l’Inghilterra si trovano in una posizione intermedia tra la Germania e gli Stati Uniti.
Come spiegare questi fatti e il boom stesso? In primo luogo, ci sono cause economiche: dopo la guerra le relazioni internazionali sono state ristabilite, anche se in forma approssimativa, e c’è stata una domanda universale di ogni tipo di merci. In secondo luogo, ci sono cause finanziarie: i governi europei hanno avuto una paura mortale della crisi che sarebbe seguita alla guerra e hanno fatto ricorso ad ogni sorta di misure per sostenere durante il periodo della smobilitazione il boom creato artificialmente dalla guerra. I governi hanno continuato a mettere in circolazione grandi quantità di cartamoneta, hanno emesso nuovi prestiti, hanno introdotto controlli sui profitti, sui salari e sul prezzo del pane, assicurando così dei sussidi ai lavoratori smobilitati con un drenaggio di fondi nazionali di base e determinando nei rispettivi paesi una ripresa economica artificiale. In questo lasso di tempo il capitale fittizio ha continuato ad espandersi, specie nei paesi in cui l’industria ha continuato a ristagnare.
Il fittizio boom postbellico ha avuto, tuttavia, grandi ripercussioni politiche. C’è qualche motivo per affermare che ha salvato la borghesia. Se gli operai smobilitati fossero stati colpiti fin dall’inizio dalla disoccupazione e da una riduzione del tenore di vita a livelli ancor più bassi di quelli dell’anteguerra, ciò avrebbe potuto avere conseguenze fatali per la borghesia. A questo proposito un professore inglese, Edwin Cannan, ha scritto nella rassegna dell’anno nuovo del Manchester Guardian che “l’impazienza degli uomini che tornano dai campi di battaglia è una cosa molto pericolosa”. E ha spiegato del tutto giustamente che proprio il fatto che il governo e la borghesia avessero con uno sforzo congiunto rinviato la crisi e creato un’artificiale prosperità con un’ulteriore distruzione del capitale di base europeo, aveva permesso di superare indenni il momento più grave del dopoguerra, l’anno 1919. Dice Cannan: “Se nel gennaio 1919 si fosse creata la stessa situazione economica del 1921, l’Europa occidentale avrebbe potuto precipitare nel caos”. La violenta febbre della guerra è stata prolungata per un altro anno e mezzo e la crisi è scoppiata solo dopo che le masse di operai e contadini smobilitati erano state rimesse nelle loro piccole gabbie.
Crisi, boom e rivoluzione
Il rapporto reciproco tra boom e crisi economica da una parte e sviluppo della rivoluzione dall’altra è per noi del massimo interesse, non solo dal punto di vista teorico, ma anche e soprattutto dal punto di vista pratico. Molti di voi ricorderanno che nel 1851, quando il boom aveva raggiunto il punto più alto, Marx ed Engels hanno scritto che era necessario in quel momento riconoscere che la rivoluzione del 1848 era finita o, quanto meno, era interrotta fino alla prossima crisi. Engels ha scritto che, se la crisi del 1847 era stata la madre della rivoluzione, il boom del 18491851 aveva generato la controrivoluzione trionfante. Sarebbe, tuttavia, assai unilaterale e completamente erroneo interpretare queste valutazioni nel senso che una crisi determina invariabilmente un’attività rivoluzionaria, mentre, al contrario, il boom determina una passività della classe operaia. La rivoluzione del 1848 non è stata provocata dalla crisi. La crisi non ha fatto che dare l’ultima spinta. Essenzialmente la rivoluzione è stata il prodotto delle contraddizioni tra i bisogni dello sviluppo capitalistico e le catene del sistema sociale e politico semifeudale. La rivoluzione del 1848, per quanto indecisa e rimasta a mezza strada, ha spazzato via i residui del regime delle corporazioni e della servitù ed ha, quindi, ampliato il quadro dello sviluppo capitalistico. Per questo e solo per questo il boom del 1851 ha segnato l’inizio di tutta un’epoca di prosperità capitalistica durata sino al 1873.
Citando Engels è molto pericoloso trascurare questi elementi fondamentali. Proprio dopo il 1850, cioè dopo il periodo in cui Marx ed Engels avevano fatto i loro rilievi, si determinava non una situazione normale o regolare, ma un’epoca di Sturm und Drang del capitalismo cui la rivoluzione del 1848 aveva spianato il terreno. Si tratta di un dato di importanza estrema.
Anche il periodo terminato con la rivoluzione era stato un’epoca di Sturm und Drang, nel corso del quale la prosperità e le congiunture favorevoli erano state molto sostenute, mentre le crisi erano state superficiali e di breve durata. Quello che dobbiamo stabilire ora non è se sia possibile un miglioramento della congiuntura, ma se le fluttuazioni della congiuntura si inseriscono in una curva ascendente o in una curva discendente. Questo è l’aspetto più importante di tutta la questione.
Possiamo attenderci dal rilancio economico del 1919-20 gli stessi effetti registrati in epoche di ascesa complessiva? In nessun caso. Un allargamento del quadro dello sviluppo capitalistico non si è neppure delineato. Questo significa che è escluso in futuro, in un futuro più o meno prossimo, un nuovo rilancio commerciale e industriale? Niente affatto! Ho già detto che sinché il capitalismo rimane in vita, continua ad inspirare e ad espirare. Ma nell’epoca in cui siamo entrati – l’epoca dell’espiazione per il drenaggio e la distruzione del tempo di guerra, l’epoca del livellamento in senso negativo – i rilanci possono essere solo di carattere superficiale e principalmente speculativo, mentre le crisi diventano più lunghe e più profonde.
Lo sviluppo storico non ha ancora portato a dittature proletarie vittoriose nell’Europa centrale e occidentale. Ma sarebbe la più sfacciata e contemporaneamente la più stupida delle menzogne asserire, come fanno i riformisti, che l’equilibrio economico del mondo capitalistico è stato surrettiziamente ristabilito. Questo non lo pretendono neppure i peggiori reazionari, almeno quelli che sono capaci di pensare, per esempio il professor Hoetzch. Nella sua rassegna dell’anno questo professore ha affermato, infatti, che l’anno 1920 non ha portato alla vittoria della rivoluzione, ma non ha neppure ristabilizzato l’economia mondiale capitalistica. È stato soltanto ottenuto un equilibrio instabile e del tutto temporaneo. Il signor Chavenon, per parte sua, ha detto: “In Francia, oggi possiamo solo constatare la possibilità di un’ulteriore rovina dell’economia capitalistica a causa del deterioramento delle finanze dello Stato, dell’inflazione corrente e dell’aperta bancarotta”.
Ho già cercato di spiegare che cosa ciò significhi. Ho descritto la crisi più acuta che il mondo capitalistico abbia mai conosciuto. Tre o quattro settimane fa sono stati segnalati dalla stampa borghese sintomi di un miglioramento imminente, dell’avvicinarsi di un’epoca di prosperità. Ma è ormai del tutto chiaro che si trattava di una brezza primaverile prematura. Un certo miglioramento si è prodotto nella situazione finanziaria, che non è più grave come prima. Sui mercati i prezzi sono caduti, ma ciò non significa affatto un rilancio del commercio. Il mercato delle azioni è stagnante, mentre nella produzione continua la recessione. La metallurgia americana opera attualmente a un terzo della sua capacità produttiva. In Inghilterra sono Stati chiusi gli ultimi altiforni. Il che indica che la contrazione della produzione non è finita.
Questo movimento negativo non continuerà certo indefinitamente e con lo stesso ritmo. Ciò è assolutamente escluso. L’organismo capitalistico avrà dei momenti di respiro. Ma dal fatto che aspirerà un po’ di aria fresca e si produrrà un certo miglioramento sarebbe prematuro trarre la conclusione che è ritornata la prosperità. Si delineerà una nuova fase quando si cercherà di eliminare la contraddizione tra la povertà di fondo e la sovrapproduzione di ricchezza fittizia. Dopo di che il parossismo dell’organismo economico continuerà. Tutto questo ci dà, come è stato detto, un quadro di profonda depressione economica.
A causa di questa depressione economica la borghesia sarà costretta ad esercitare una pressione sempre più forte sulla classe operaia. Ciò a cominciato già a verificarsi con il taglio dei salari nei paesi capitalisti più sanguigni, l’America e l’Inghilterra, e quindi in tutta Europa. La conseguenza sarà un’ondata di lotte salariali. Il nostro compito è di estendere queste lotte partendo da una chiara comprensione della situazione economica. Questo è del tutto ovvio.
Ci si potrebbe chiedere se grandi lotte salariali, di cui lo sciopero dei minatori inglesi è un esempio classico, possano portare automaticamente alla rivoluzione mondiale, alla guerra civile finale e alla lotta per il potere politico. Ma porre la questione in questi termini non è da marxisti. Non esiste nessuna garanzia di uno sviluppo automatico.
Comunque, se alla crisi seguirà una congiuntura transitoriamente favorevole, che cosa significherà questo per il nostro sviluppo? Molti compagni dicono che, se in questo periodo ci sarà un miglioramento, sarà fatale alla rivoluzione. No, in nessun caso. In linea generale non c’è nessuna corrispondenza automatica tra crisi e movimento rivoluzionario proletario. Esiste solo un rapporto dialettico. È essenziale comprenderlo.
Consideriamo questo rapporto per quanto riguarda la Russia. La rivoluzione del 1905 si è conclusa con una sconfitta. Gli operai hanno dovuto sopportare grandi sacrifici. Nel 1906 e nel 1907 ci sono state le ultime fiammate e nell’autunno del 1907 è scoppiata una grande crisi mondiale di cui il venerdì nero di Wall Street ha dato il segnale. Nel 1907, 1908 e 1909 c’è stata una crisi terribile anche in Russia, Questa crisi ha ucciso completamente il movimento perché gli operai avevano talmente sofferto durante la lotta che la depressione poteva solo demoralizzarli. Tra noi ci sono state allora molte dispute sulla situazione che avrebbe portato a una nuova rivoluzione: sarebbe stata una crisi o una congiuntura favorevole?
In quel periodo molti di noi sostenevano il punto di vista che il movimento rivoluzionario russo avrebbe conosciuto una ripresa solo in seguito a una congiuntura economica favorevole. È quello che è avvenuto. Nel 1910, nel 1911 e nel 1912 c’è stato un miglioramento nella nostra situazione economica e la congiuntura favorevole ha agito nel senso di rimettere insieme gli operai demoralizzati e scoraggiati che avevano perso fiducia in se stessi. Gli operai si sono resi di nuovo conto di quale importanza avessero nella produzione e sono passati all’offensiva, prima sul piano economico e poi anche su quello politico. Alla vigilia della guerra la classe operaia si era riconsolidata, grazie al periodo di prosperità, al punto di essere in grado di passare direttamente all’attacco.
Se oggi, in un periodo di grande usura della classe operaia derivante dalla crisi e dalla continua lotta, non riuscissimo a conquistare la vittoria – il che è possibile –, allora un mutamento di congiuntura e un aumento del livello di vita non avrebbero conseguenze pregiudizievoli per la rivoluzione, ma, al contrario, sarebbero un fattore altamente favorevole. Un mutamento del genere si rivelerebbe pregiudizievole solo nel caso che una congiuntura favorevole segnasse l’inizio di una lunga epoca di prosperità. Ma un lungo periodo di prosperità esigerebbe una espansione del mercato che è assolutamente esclusa. Dopotutto, l’economia capitalista si estende già a tutto il globo.
L’impoverimento dell’Europa e il grandioso fiorire dell’America grazie al gigantesco mercato bellico confermano che la prosperità non può essere realizzata con uno sviluppo capitalistico della Cina, della Siberia, dell’America del Sud o di altri paesi e che, se l’America sta sicuramente cercando e creando nuovi mercati di sbocco, si tratta di mercati in nessun caso paragonabili a quello costituito dall’Europa. Ne segue che siamo alla vigilia di un periodo di depressione; e questo è incontestabile.
Se questa è la prospettiva, un’attenuazione della crisi non comporterà un colpo mortale alla rivoluzione, al contrario concederà alla classe operaia un momento di respiro che le consentirà di riorganizzare le sue fila per passare poi all’attacco su una base più solida. Questa è una possibilità. L’altra possibilità è che la crisi da acuta diventi cronica, si intensifichi e duri per molti anni. Tutto questo non è escluso. In una situazione del genere resta aperta la possibilità che la classe operaia riunisca le sue ultime forze e, istruita dall’esperienza, conquisti il potere statale nei paesi capitalisti più importanti. La sola cosa da escludere è una ristabilizzazione automatica dell’equilibrio capitalistico su una nuova base e un rilancio capitalistico nei prossimi anni. Ciò è assolutamente impossibile nelle condizioni del moderno ristagno dell’economia.
Qui dobbiamo affrontare il problema dell’equilibrio sociale. Dopo tutto, si dice di frequente – è questa l’idea fondamentale non solo di Cunow, ma anche di Hilferding – che il capitalismo si sta ristabilizzando automaticamente su una nuova base. La fede nell’evoluzione automatica è il tratto più importante e più caratteristico dell’opportunismo.
Se ammettiamo – e ammettiamolo per un momento – che la classe operaia non riesca a raggiungere il livello della lotta rivoluzionaria, ma permetta alla borghesia di decidere le sorti del mondo per un lungo numero di anni, diciamo per due o tre decenni, allora sicuramente un nuovo equilibrio sarà in qualche modo ristabilito. L’Europa sarà spinta violentemente in direzione opposta. Milioni di operai europei moriranno per la disoccupazione e la denutrizione. Gli Stati Uniti saranno costretti a riorientarsi sul mercato mondiale, a riconvertire la loro industria e a subire una contrazione per un periodo considerevole. Dopo di che, dopo che con grandi lacerazioni sarà stata ristabilita una nuova divisione mondiale del lavoro per 15, 20 o 25 anni, forse seguirà una nuova epoca di rilancio capitalistico.
Ma tutta questa ipotesi è completamente astratta e unilaterale. Le cose sono presentate come se il proletariato avesse cessato di lottare. Invece, per il momento, non possiamo neppure avanzare una simile ipotesi non fosse che per la ragione che proprio negli ultimi anni le contraddizioni di classe si sono acutizzate all’estremo.
Questo il nocciolo della schematica concezione di un equilibrio ristabilito che il signor Heinrich Cunow e altri sognano ad occhi aperti. Ogni misura che il capitalismo è costretto a prendere per fare un passo in avanti nel ristabilimento dell’equilibrio, assume immediatamente una decisiva importanza per l’equilibrio sociale, tende a minare sempre di più questo equilibrio e spinge ancor più la classe operaia alla lotta. Il primo obiettivo per realizzare l’equilibrio è quello di rimettere in ordine l’apparato produttivo, ma per far questo è indispensabile accumulare capitale. E per accumulare capitale è necessario aumentare la produttività del lavoro. Come? Nella misura in cui il declino della produttività della forza-lavoro nei tre anni del dopoguerra è un dato di fatto largamente noto, è necessario uno sfruttamento accresciuto e intensificato della classe operaia.
D’altra parte, per ristabilire l’economia mondiale sulle sue basi capitalistiche è indispensabile disporre di nuovo di un’unità di misura mondiale, il gold standard (valuta aurea). Senza la quale l’economia capitalistica non può sussistere, come non può sussistere nessuna produzione sinché i prezzi continuano la loro danza della morte aumentando del 100% in un mese, come accade in Germania in seguito alle fluttuazioni della moneta tedesca.
Il capitalista non è interessato alla produzione. Viene attratto sempre più dalla speculazione che lo tenta con profitti molto più elevati di quelli che potrebbe ricavare da un’industria che si sviluppa lentamente. Che cosa significa ristabilizzazione della moneta? Per la Francia e per la Germania significa dichiarazione di bancarotta da parte dello Stato. Ma dichiarare uno Stato insolvente significa provocare un vasto spostamento di rapporti di proprietà nell’ambito di un paese. E gli Stati che proclamano la loro insolvenza divengono teatro di nuove lotte per la distribuzione della ricchezza nazionale, il che rappresenta un gigantesco passo avanti nell’acutizzazione della lotta di classe.
Allo stesso tempo tutto questo significa rinunciare all’equilibrio sociale e politico, provocare sconvolgimenti rivoluzionari. In ogni modo, la dichiarazione di bancarotta dello Stato non consente di imporre immediatamente una ristabilizzazione dell’equilibrio. Alla dichiarazione devono seguire il prolungamento della settimana lavorativa, l’abolizione della giornata di otto ore e uno sfruttamento intensificato. Per tutto questo, naturalmente, è necessario che sia spezzata la resistenza della classe operaia.
In breve, in linea teorica e astratta, il ristabilimento dell’equilibrio capitalistico è possibile. Ma non avviene in un vuoto sociale e politico, può avere luogo solo passando attraverso le classi. Ogni passo, se pur minimo, verso un ristabilimento dell’equilibrio nella vita economica è un colpo all’instabile equilibrio sociale su cui i signori capitalisti continuano a reggersi. E questa è la cosa più importante.
Ultima modifica 28-09-2009