DAVID | ||
---|---|---|
DIO |
Che un giovane contadino, cercando delle asine, trovi un regno, non è un fatto molto comune; che un altro contadino guarisca il suo re da un accesso di follia suonando l'arpa, è un fatto quasi incredibile; ma che quel piccolo suonatore d'arpa diventi re perché ad un angolo della strada s'è trovato davanti un prete di villaggio che gli ha versato sul capo una bottiglia d'olio d'oliva, questo è un fatto davvero prodigioso.
Quando e da chi furono scritte tali meraviglie? Io non lo so, ma sono ben sicuro che non furono scritte né da un Polibio, né da un Tacito. Riverisco profondamente quel degno e buon giudeo, chiunque sia stato, che scrisse la storia vera del potente regno degli ebrei per l'istruzione dell'universo, sotto la dettatura del Dio che lo ispirò; ma mi duole vivamente che il mio amico David cominci col radunare una banda di ladroni in numero di quattrocento, che alla testa di questa truppa di gentiluomini si accordi con Abimelec, il gran sacerdote, il quale lo arma con la spada di Golia e gli dà i pani consacrati (I Re, XXI, 13).
Sono anche un po' scandalizzato che David, l'unto del Signore, l'uomo secondo il cuore di Dio, ribellatosi a Saul, altro unto del Signore, se ne vada con quattrocento banditi a taglieggiare il paese, a derubare quel brav'uomo di Nabal, e che immediatamente dopo costui muoia e David ne sposi subito la vedova. (I Re, XXV, 10-11).
Provo qualche scrupolo per la sua condotta col re Achish, possessore, se non sbaglio, di cinque o sei villaggi nel cantone di Gat. David, allora, alla testa di seicento banditi, compiva scorrerie contro gli alleati del suo benefattore Achish; saccheggiava tutto, ammazzava tutti, vecchi, donne, bambini, lattanti. E perché sgozzava i lattanti? «Perché,» dice il divino autore giudeo, «temeva che questi lattanti avrebbero raccontato le sue imprese a re Achish» (I Re, XXVII, 8-9-11).
I banditi si adirano contro di lui, lo vogliono lapidare. Che fa allora questo Mandrin giudeo? Consulta il Signore. E il Signore gli risponde che deve andare ad attaccare gli Amaleciti: così i suoi banditi vi guadagneranno un buon bottino e si arricchiranno (I Re, XXX).
Intanto, l'unto del Signore, Saul, perde una battaglia contro i filistei e si fa ammazzare. Un ebreo ne porta la notizia a David. David, che a quanto pare non aveva un soldo da dare come mancia al corriere, per tutta ricompensa lo fa assassinare (II Re, I, 10).
Isboset succede a suo padre Saul. David è abbastanza forte per fargli guerra; alla fine Isboset viene assassinato.
David s'impadronisce di tutto il regno: sorprende la piccola città o villaggio di Rabbat, e ne fa morire tutti gli abitanti con supplizi abbastanza eccezionali; segandoli in due, straziandoli con erpici di ferro, bruciandoli in forni da mattoni: un modo di fare la guerra davvero nobile e generoso (II Re, XII).
Dopo queste belle imprese, il paese è afflitto da una carestia che dura tre anni. Lo credo bene, perché, dato il modo con cui il buon David faceva la guerra, le terre non dovevano essere molto ben seminate. Si consulta il Signore e gli si domanda perché c'è la carestia. La risposta sarebbe stata molto facile: senza dubbio perché, in un paese che produce a stento del grano, quando si son fatti cuocere i contadini in forni da mattoni e li si è segati in due, restano poche braccia per coltivare la terra; invece il Signore risponde che è perché Saul tempo prima aveva ucciso dei Gabaoniti.
Che fa allora il buon David? Riunisce i Gabaoniti; dice loro che Saul aveva avuto gran torto di fare loro la guerra, che Saul non era come lui un uomo secondo il cuore di Dio, e che era giusto punire la sua stirpe; e così dà loro da ammazzare sette nipotini di Saul, i quali furono impiccati perché c'era la carestia. (II Re, XXI).
È un piacere vedere come quell'imbecille di don Calmet giustifichi e canonizzi tutte queste azioni, che farebbero fremere d'orrore se non fossero incredibili.
Non parlerò qui dell'assassinio abominevole di Uria e dell'adulterio di David con Betsabea: la storia è abbastanza nota, e le vie del Signore sono così diverse da quelle degli uomini ch'egli permise che Gesù Cristo discendesse da quell'infame Betsabea, pur restando purificato da quel santo mistero.
Ora, non domando come mai il predicatore Jurieu abbia avuto l'insolenza di perseguitare il saggio Bayle per non aver approvato tutte le azioni del buon re David; ma domando come si sia potuto permettere che un miserabile come Jurieu molestasse un uomo come Bayle.
Percorrete tutta la terra: troverete che il furto, l'omicidio, la calunnia sono considerati delitti che la società condanna e reprime; ma quello che è approvato in Inghilterra, e condannato in Italia, deve essere punito in Italia come un attentato contro l'intera umanità? È questo che io chiamo «delitto locale». Ciò che è criminale solo entro la cerchia di alcune montagne, o tra due fiumi, non esige forse dai giudici più indulgenza di quegli attentati che suscitano orrore in tutti i paesi? Il giudice non dovrebbe dire a se stesso: «Non oserei punire a Ragusa quel che punisco a Loreto»? Questa riflessione non dovrebbe addolcire nel suo cuore quella durezza che egli troppo facilmente ha contratto nel lungo esercizio del suo ufficio?
Sono note le Kermesses della Fiandra: nel secolo scorso arrivavano a un'indecenza che poteva disgustare occhi non abituati a simili spettacoli.
Ecco come si celebrava la festa di Natale in alcune città.
Per primo appariva un giovanotto seminudo, con le ali sulla schiena; recitava l'Ave Maria a una ragazza che gli rispondeva «fiat», e l'angelo la baciava sulla bocca. Poi un bambino, rinchiuso in un gran gallo di cartone, gridava, imitando il canto del gallo: «Puer natus est nobis.» Un grosso bove, muggendo, diceva «ubi?», che pronunziava «oubi». Una pecora belava forte: «Bethleem». Un asino ragliava: «Hihànus», per significare eamus; una lunga processione, preceduta da quattro buffoni con sonagli e bastoni, chiudeva il corteo. Restano ancora oggi tracce di queste devozioni popolari, che presso popoli più istruiti sarebbero considerate profanazioni. Uno svizzero di cattivo umore, e forse più ubriaco di coloro che facevano la parte del bove e dell'asino, si prese a parole con costoro a Louvanio; ci fu uno scambio di botte; si voleva far impiccare lo svizzero, che si salvò a stento.
Lo stesso uomo ebbe una violenta lite all'Aja, in Olanda, per aver preso apertamente le difese di Barneveldt contro un fanatico gomarista. Fu messo in prigione ad Amsterdam, per aver detto che i preti sono il flagello dell'umanità e la fonte di tutti i nostri mali. «Ma come!» diceva. «Se uno crede che le buone opere possono servire alla nostra salvezza, finisce in galera; se si fa beffe d'un gallo e d'un asino, rischia la forca.» Questa avventura, per quanto burlesca, dimostra abbastanza chiaramente che si può essere reprensibili in uno o due punti del nostro emisfero, ed essere del tutto innocenti nel resto della terra.
Di tutti gli scritti giunti fino a noi, il più antico è quello di Omero: è qui che si trovano i costumi dell'antichità profana: rozzi eroi, rozzi dei, fatti a immagine dell'uomo; ma vi si trovano anche i germi della filosofia, e soprattutto l'idea del destino, che è signore degli dei, come gli dei sono i signori del mondo.
Invano Giove vorrebbe salvare Ettore: consulta i Fati, pesa su una bilancia i destini di Ettore e di Achille; si rende conto che il troiano deve assolutamente essere ucciso dal greco, e non può opporsi; e da quel momento Apollo, il genio protettore di Ettore, è obbligato ad abbandonarlo. Non che Omero non prodighi spesso nel suo poema idee del tutto contrarie, secondo il privilegio dell'antichità, ma, infine, è il primo in cui si trovi la nozione di destino. Ai suoi tempi, essa era dunque molto diffusa.
I farisei, presso il piccolo popolo ebreo, non adottarono tale concetto che molti secoli dopo: infatti i farisei, che furono i primi uomini istruiti fra i giudei, erano molto «moderni».
Mischiarono in Alessandria una parte dei dogmi degli stoici con le antiche idee ebraiche. San Girolamo pretende anzi che la loro setta non sia stata di molto anteriore alla nostra era volgare.
I filosofi non ebbero mai bisogno né di Omero né dei farisei per convincersi che tutto accade secondo leggi immutabili, che tutto è preordinato, che tutto è un effetto necessario.
O il mondo sussiste per sua propria natura, per le sue leggi fisiche, o è stato formato da un Essere supremo secondo le sue leggi superne: nell'un caso o nell'altro queste leggi sono immutabili; nell'un caso o nell'altro, tutto è necessario; i corpi gravi tendono verso il centro della terra, senza poter tendere a riposarsi nell'aria; i peri non possono mai fruttare ananassi; l'istinto di uno spaniel non può essere l'istinto di uno struzzo. Tutto è predisposto, ingranato e limitato.
L'uomo non può avere che un certo numero di denti, di capelli e di idee; e viene il momento in cui perde necessariamente i suoi denti, i suoi capelli e le sue idee.
È contraddittorio credere che ciò che fu ieri non sia stato, che ciò che è oggi non sia; ed è altrettanto contraddittorio credere che ciò che deve essere possa non dover essere.
Se tu potessi mutare il destino di una mosca, non ci sarebbe nessuna ragione che potrebbe impedirti di mutare il destino di tutte le altre mosche, di tutti gli altri animali, di tutti gli uomini, di tutta la natura: alla fine ti troveresti più potente di Dio.
Certi imbecilli dicono: «Il mio medico ha salvato mia zia da una malattia mortale: l'ha fatta vivere dieci anni più di quanti ne avrebbe dovuto vivere.» Altri, che fanno i saputi, dicono «L'uomo accorto foggia lui stesso il proprio destino.»
Nullum numen abest, si sit prudentia, sed nos
te facimus, fortuna, deam coeloque locamus.
Ma spesso l'uomo accorto soccombe al suo destino, anziché foggiarselo; è il destino che fa gli uomini accorti.
Certi profondi politici sostengono che, se Cromwell, Ludlow, Ireton, e una dozzina di altri parlamentari fossero stati assassinati otto giorni prima che venisse decapitato Carlo I, questo re avrebbe potuto vivere ancora e morire poi nel suo letto: hanno ragione; potrebbero anche aggiungere che se tutta l'Inghilterra fosse stata inghiottita dal mare, quel monarca non sarebbe morto sul patibolo nei pressi di Whitehall; ma i fatti erano ordinati in modo che Carlo dovesse avere il collo mozzato.
Il cardinale d'Ossat era senza dubbio più prudente di un pazzo delle Petites-Maisons; ma non è anche evidente che gli organi del saggio d'Ossat erano diversi da quelli del pazzo, così come gli organi di una volpe sono differenti da quelli di una gru e di un'allodola?
Il tuo medico ha salvato tua zia; ma è certo che in questo egli non ha contraddetto l'ordine naturale; lo ha seguito. È chiaro che tua zia non poteva fare a meno di nascere in una determinata città, non poteva fare a meno di avere in un determinato momento una certa malattia; che il medico non poteva essere altrove che nella città dov'era; che tua zia doveva chiamarlo, e che egli doveva prescriverle le droghe che l'hanno guarita.
Un contadino crede che sia grandinato per puro caso nel suo campo; ma il filosofo sa che il caso non esiste, e che era impossibile, data la costituzione di questo mondo, che quel giorno, in quel luogo, non grandinasse.
C'è gente che, spaventata da questa verità, l'accetta soltanto a mezzo, come quei debitori che offrono la metà ai loro creditori, e chiedono respiro per il resto. Ci sono - dicono - avvenimenti necessari, e altri che non lo sono. Sarebbe ben strano che una parte di questo mondo fosse preordinata e l'altra no; che una parte di quanto accade dovesse veramente accadere, e un'altra di quanto accade non dovesse accadere. Se la si esamina da vicino, si vede che la dottrina contraria a quella del destino è assurda; ma c'è molta gente destinata a ragionare male, altri a non ragionare affatto, altri a perseguitare coloro che ragionano.
C'è gente che vi dice: «Non credete al fatalismo; perché allora (tutto sembrandovi inevitabile) vi guarderete dal lavorare; marcirete nell'indifferenza; non amerete né le ricchezze né gli onori, né le lodi; non vorrete acquistare nulla; vi crederete senza merito come senza potere; nessun talento sarà più coltivato, tutto perirà per apatia.»
Non temete, signori miei; noi avremo sempre passioni e pregiudizi, perché il nostro destino è di essere soggetti ai pregiudizi e alle passioni; e dunque, potremo ben sapere che non dipende da noi possedere grandi meriti e gran talenti, come non dipende dalla nostra volontà l'avere capelli ben radicati e una bella mano; potremo essere convinti che non dobbiamo attribuirci nessun merito e tuttavia saremo sempre vanitosi.
Io ho necessariamente la passione di scrivere questo; tu hai la passione di condannarmi: siamo entrambi egualmente inutili, egualmente balocchi del destino. La tua natura è di fare il male, la mia è d'amare la verità e di pubblicarla tuo malgrado.
Il gufo, che si nutre di topi dentro il suo rifugio, disse all'usignolo: «Piantala di cantare fra le tue belle fronde e vieni nel mio buco, affinché ti divori.» E l'usignolo rispose: «Io sono nato per cantare qui, e per farmi beffe di te.»
Ora mi chiedete a cosa si riduce la libertà. Non vi capisco: non so cosa sia questa libertà di cui parlate; avete consumato tanto di quel tempo a disputare sulla sua natura che certamente non ne sapete niente. Se volete (o piuttosto se potete) esaminare pacatamente con me che cos'è, passate alla lettera L.
Sotto l'impero di Arcadio, Logomaco, teologo di Costantinopoli, andò nella Scizia e si fermò ai piedi del Caucaso, nelle fertili pianure di Zefirim, alle frontiere della Colchide. Il buon vecchio Dondindac era nel suo basso salone tra il grande ovile e il vasto granaio; stava in ginocchio con la moglie, i cinque figli e le cinque figlie, i parenti e i servitori, e tutti cantavano le lodi del Signore, dopo un pasto frugale.
«Che fai, idolatra?» gli disse Logomaco. «Io non sono idolatra,» disse Dondindac. «Non puoi non essere idolatra,» disse Logomaco, «poiché sei scita e non greco. Dimmi un poco, che cosa cantavi nel tuo barbaro idioma di Scizia?» «Tutte le lingue sono uguali agli orecchi di Dio,» rispose lo scita: «cantavamo le sue lodi.» «Questa è proprio straordinaria,» ribatté il teologo: «una famiglia scita che prega Dio senza essere stata istruita da noi!» Ben presto s'impegnò in una conversazione con lo scita Dondindac: poiché il teologo sapeva un po' di scita e l'altro un po' di greco. Questa conversazione è stata ritrovata in un manoscritto conservato nella biblioteca di Costantinopoli.
LOGOMACO: Vediamo se sai il tuo catechismo. Perché preghi Dio?
DONDINDAC: Perché è giusto adorare l'Essere supremo, che ci elargisce tutti i suoi beni.
LOGOMACO: Mica male per un barbaro! E che cosa gli chiedi?
DONDINDAC: Lo ringrazio dei beni di cui godo, e anche dei mali con cui mi mette alla prova; ma mi guardo dal chiedergli qualcosa: egli sa meglio di me quel che ci occorre, e del resto temerei di chiedergli il bel tempo mentre il mio vicino gli sta chiedendo la pioggia.
LOGOMACO: Ah, me l'aspettavo che avrebbe detto qualche sciocchezza. Guardiamo le cose più dall'alto. Barbaro, chi ti ha detto che c'è un Dio?
DONDINDAC: La natura tutta.
LOGOMACO: Questo non basta. Che idea hai di Dio?
DONDINDAC: L'idea del mio creatore, del mio signore, che mi ricompenserà se faccio bene e mi punirà se faccio male.
LOGOMACO: Quisquilie, bazzecole! Veniamo all'essenziale. Dio è infinito secundum quid, oppure secondo l'essenza?
DONDINDAC: Non vi capisco.
LOGOMACO: Bestia bruta! Dio è in un luogo, o fuori i qualsiasi luogo, o in ogni luogo.
DONDINDAC: Non ne so niente... come preferite voi.
LOGOMACO: Ignorante! Può fare che ciò che è stato non sia stato, che un bastone non abbia due estremità? Vede il futuro come futuro o come presente? Come fa per trarre l'essere dal nulla e per annientare l'essere?
DONDINDAC: Non ho mai esaminato queste cose.
LOGOMACO: Che zoticone! Suvvia, bisogna abbassarsi, proporzionarsi. Dimmi un poco, amico mio, credi che la materia possa essere eterna?
DONDINDAC: E che m'importa che esista o non esista dall'eternità? Io no, non esisto dall'eternità. Dio è sempre il mio signore: mi ha dato la nozione della giustizia, devo seguirla; non voglio essere filosofo, voglio essere uomo.
LOGOMACO: Che fatica con queste teste dure. Su, andiamo passo passo: che cos'è Dio?
DONDINDAC: Il mio sovrano, il mio giudice, mio padre.
LOGOMACO: Non ti chiedo questo. Qual è la sua natura?
DONDINDAC: Di essere potente e buono.
LOGOMACO: Ma è corporeo o spirituale?
DONDINDAC: Come volete che lo sappia?
LOGOMACO: Come? Non sai che cosa è uno spirito?
DONDINDAC: Non ne ho idea: a che cosa mi servirebbe? Sarei più giusto per questo? Sarei miglior marito, miglior padre, miglior padrone, miglior cittadino?
LOGOMACO: Bisogna assolutamente insegnarti che cosa è uno spirito. Ascolta: è, è, è... te lo dirò un'altra volta.
DONDINDAC: Ho paura che mi parlerete più di quel che non è che di quel che è. Permettetemi di farvi a mia volta una domanda. Ho visto una volta uno dei vostri templi: perché dipingete Dio con una gran barba?
LOGOMACO: È una domanda molto difficile, che richiede certe istruzioni preliminari.
DONDINDAC: Prima di ricevere le vostre istruzioni, vi devo raccontare quel che mi è accaduto un giorno. Avevo appena fatto costruire un capanno in fondo al mio giardino; udii una talpa che ragionava con un maggiolino: «Ecco una bella costruzione,» diceva la talpa; «dev'essere stata una talpa molto potente a far questo lavoro.» «Voi scherzate,» disse il maggiolino, «l'architetto di questo edificio è stato un maggiolino pieno di genio.» Da quella volta, ho deciso di non discutere più.
I sociniani, che sono considerati dei bestemmiatori, non riconoscono la divinità di Gesù Cristo. Essi osano pretendere, con i filosofi dell'antichità, con gli ebrei, i musulmani e tanti altri popoli, che l'idea di un Dio-uomo è mostruosa, che la distanza tra Dio e l'uomo è infinita, e che è impossibile che l'Essere infinito, immenso, eterno, sia stato contenuto in un corpo perituro.
Essi non temono di citare in loro favore Eusebio, vescovo di Cesarca, il quale, nella sua Storia ecclesiastica, libro I cap. XI, dichiara assurdo che la natura increata, immutabile di Dio onnipotente, assuma la forma di un uomo. Citano i Padri della Chiesa, Giustino e Tertulliano, che hanno detto la stessa cosa: Giustino nel suo Dialogo con l'ebreo Trifone, e Tertulliano nel suo discorso Adversus Praxean.
Citano anche san Paolo, che non chiama mai Gesù Cristo «Dio», e che lo chiama molto spesso «uomo». Spingono la loro audacia fino al punto di affermare che i cristiani ci misero tre secoli interi per formare a poco a poco l'apoteosi di Gesù, e che elevarono questo stupefacente edificio seguendo l'esempio dei pagani, che avevano divinizzato dei mortali. Dapprima secondo costoro, si considerò Gesù solo come un uomo ispirato da Dio; poi, come una creatura più perfetta delle altre. Qualche tempo dopo gli fu dato un posto al di sopra degli angeli, come dice san Paolo. Ogni giorno aumentava la sua grandezza. Diventò un'emanazione di Dio prodotta nel tempo. E non ci si fermò lì, lo si fece nascere prima del tempo. Infine lo si fece Dio, consustanziale a Dio. Crellius, Voquelsius, Natalis Alexander, Hornebeck sostennero tutte queste bestemmie con argomenti che sbalordiscono i saggi e pervertono i deboli. Fu soprattutto Fausto Socino a diffondere in Europa i semi di questa dottrina; e, verso la fine del XVI secolo, poco mancò che non stabilisse una nuova specie di cristianesimo: ce ne erano già più di trecento specie.
Il 18 febbraio dell'anno 1763 dell'era volgare, entrando il sole nella costellazione dei Pesci, fui trasportato in cielo, come sanno tutti i miei amici. Non salii a cavallo della giumenta Borac di Maometto, non ebbi per vettura il carro infiammato di Elia; non fui portato né sull'elefante del siamese Sammonocodom, né sul cavallo di san Giorgio, patrono d'Inghilterra, né sul porco di sant'Antonio: confesso ingenuamente che non so come feci quel viaggio.
Immaginerete bene come restai sbalordito; ma quel che non vorrete credere è che vidi giudicare tutti i morti. E chi erano i giudici? Erano, non vi dispiaccia, tutti coloro che fecero del bene agli uomini: Confucio, Solone, Socrate, Tito, gli Antonini, Epitteto, tutti i grandi uomini che, avendo insegnato e praticato le virtù che Dio esige, sembravano i soli in diritto di pronunciare le sue sentenze.
Non vi dirò su quali troni erano assisi, né quanti milioni di esseri celesti erano prosternati davanti al creatore di tutti i mondi, né quale folla di abitanti di questi innumerevoli mondi comparve davanti ai giudici. Renderò conto, qui, soltanto di alcuni piccoli particolari, molto interessanti, da cui fui colpito.
Osservai che ogni morto che perorava la propria causa e che esibiva i propri buoni sentimenti, aveva accanto a sé i testimoni delle sue azioni. Per esempio, quando il cardinale di Lorena si vantò d'aver fatto accogliere alcune sue opinioni dal concilio di Trento, e, per premio della sua ortodossia, chiese la vita eterna, subito apparvero attorno a lui venti cortigiane o dame di corte, che portavano scritto sulla fronte il numero dei loro convegni col cardinale. E si vedevano anche coloro che avevano gettato con lui le fondamenta della Lega: tutti i complici dei suoi perversi disegni venivano a circondarlo.
Di fronte al cardinale di Lorena era Calvino che si vantava, nel suo rozzo dialetto, d'aver preso a calci l'idolo papale dopo che altri l'avevano abbattuto. «Ho scritto contro la pittura e la scultura,» diceva, «ho dimostrato nel modo più evidente che le buone opere non servono a nulla e ho provato che è diabolico ballare il minuetto; presto, buttate fuori di qui il cardinale di Lorena, e mettetemi a fianco di san Paolo.»
Mentre parlava, si vide accanto a lui un rogo ardente: uno spaventevole spettro, che portava al collo una gorgiera spagnola mezzo bruciata, uscì da quelle fiamme gridando orribilmente: «Mostro! Mostro esecrabile, trema! Riconosci quel Serveto che facesti morire col più atroce dei supplizi, perché aveva disputato con te sulla maniera in cui tre persone possono costituire una sola sostanza!»
Tutti i giudici ordinarono allora che il cardinale di Lorena fosse precipitato nell'abisso, ma che Calvino fosse punito ancor più crudelmente.
Vidi una folla prodigiosa di morti che dicevano: «Ho creduto, ho creduto»; ma sulla loro fronte era scritto: «Ho fatto»; ed erano condannati.
Il gesuita Le Tellier apparì, fiero, con in mano la bolla Unigenitus. Ma al suo fianco sorse improvvisamente un mucchio di duemila mandati d'arresto. Un giansenista gli diede fuoco: Le Tellier fu bruciato fino alle ossa; e il giansenista, che non aveva meno intrigato di lui, ebbe la sua parte di bruciature. Vedevo arrivare da ogni parte schiere di fachiri, di talapoini, di bonzi, di monaci bianchi, neri e grigi che si eran tutti immaginati che, per fare la corte all'Essere supremo, bisognasse o cantare, o frustarsi, o camminare nudi. Udii una voce terribile che chiedeva loro: «Che bene avete fatto agli uomini?» A queste parole seguì un cupo silenzio; nessuno osò rispondere, e tutti furono spinti nel manicomio dell'universo: è uno dei più grandi edifici che si possano immaginare.
Un tale gridava: «È alle metamorfosi di Xaca che bisogna credere.» E un altro: «No! A quelle di Sammonocodom!» «Bacco fermò il sole e la luna,» diceva questo. «Gli dei risuscitarono Pelope,» diceva quello. «Ecco la bolla In coena Domini,» annunciava l'ultimo venuto. E l'usciere dei giudici gridava: «Al manicomio! Al manicomio!»
Quando tutti questi processi furono conclusi, udii promulgare questa sentenza: «In nome dell'eterno creatore, conservatore, remuneratore, vendicatore, misericorde eccetera, sia noto a tutti gli abitanti dei centomila milioni di miliardi di mondi che ci piacque creare, che noi non giudicheremo mai nessuno dei detti abitanti sulle sue idee contorte, ma unicamente sulle sue azioni; perché tale è la nostra giustizia.»
Confesso che fu la prima volta che sentii un tale editto: tutti quelli che avevo letto sul granellino di sabbia ove sono nato finivano invece con queste parole: «Perché tale è il nostro beneplacito.»
Ultima modifica 12.01.2009