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Il libro nero del comunismo
INTRODUZIONE: Parte prima.
UNO STATO CONTRO IL SUO POPOLO
Violenze, repressioni, terrori nell'Unione Sovietica (di Nicolas Werth).
1. Paradossi e malintesi dell'Ottobre
2. Il «braccio armato della dittatura del proletariato»
3. Il Terrore rosso
4. La «sporca guerra»
5. Da Tambov alla grande carestia
6. Dalla tregua alla «grande svolta»
7. Collettivizzazione forzata e dekulakizzazione
8. La grande carestia
9. «Elementi estranei alla società» e cicli di repressione
10. Il Grande terrore (1936-1938)
11. L'impero dei campi
12. L'altra faccia della vittoria
13. Apogeo e crisi del gulag
14. L'ultimo complotto
15. L'uscita dallo stalinismo
In conclusione
5.
DA TAMBOV ALLA GRANDE CARESTIA
Alla fine del 1920 il regime bolscevico sembrava trionfare. L'ultimo
esercito bianco era stato battuto, i cosacchi potevano dirsi sconfitti
e i distaccamenti di Mahno erano in rotta. Tuttavia, anche se la
guerra dichiarata, quella dei Rossi contro i Bianchi, era finita, lo
scontro fra il regime e alcune grandi categorie sociali proseguiva a
pieno ritmo. L'apogeo delle guerre contadine si colloca all'inizio del
1921, quando intere province sfuggivano al controllo dei bolscevichi.
Nella provincia di Tambov, in una parte delle province del Volga
(Samara, Saratov, Caricyn, Simbirsk) e in Siberia occidentale, i
bolscevichi tenevano soltanto le città. Le campagne erano sotto il
controllo di centinaia di bande di Verdi, o addirittura di veri e
propri eserciti contadini. Fra le unità dell'Armata rossa ogni giorno
scoppiavano ammutinamenti. Scioperi, sommosse e proteste operaie si
moltiplicavano negli ultimi centri industriali del paese ancora in
attività, a Mosca, Pietrogrado, Ivanovo-Voznesensk e Tula. Alla fine
di febbraio del 1921 si ammutinarono anche i marinai della base navale
di Kronstadt, al largo di Pietrogrado. La situazione era esplosiva, il
paese stava diventando ingovernabile. Di fronte alla minaccia di un
vero e proprio maremoto sociale che rischiava di travolgere il regime,
i dirigenti bolscevichi furono costretti a fare marcia indietro e a
prendere l'unico provvedimento in grado di placare temporaneamente il
malcontento più imponente, più generale e più pericoloso, quello dei
contadini: promisero di eliminare le requisizioni, sostituendole con
l'imposta in natura. In questo contesto di scontri fra regime e
società, a partire dal marzo del 1921 incominciò a delinearsi la NEP,
la Nuova politica economica.
L'impostazione storico-politica, che per lungo tempo ha prevalso, dava
eccessivo rilievo alla «rottura» del marzo del 1921. La sostituzione
delle requisizioni con l'imposta in natura, decisa in fretta e furia
l'ultimo giorno del Decimo Congresso del Partito bolscevico sotto la
minaccia di una conflagrazione sociale, non comportò né la fine delle
insurrezioni contadine e degli scioperi operai, né un allentamento
della repressione. Gli archivi oggi accessibili mostrano che nella
primavera del 1921 la pace sociale non si instaurò da un giorno
all'altro. Le tensioni rimasero molto forti almeno fino all'estate del
1922, e in alcune regioni per molto più tempo. Le squadre di
requisizione continuarono a setacciare le campagne, gli scioperi
operai furono selvaggiamente soffocati, gli ultimi militanti
socialisti vennero arrestati, e lo «snidamento dei banditi dalle
foreste» proseguì con ogni mezzo: fucilazioni in massa di ostaggi,
bombardamento dei villaggi con gas asfissiante. In fin dei conti, fu
la grande carestia del 1921-1922 a piegare le campagne più turbolente,
quelle che le squadre di requisizione avevano spremuto maggiormente e
che erano insorte per sopravvivere. La carta della carestia combacia
esattamente con quella delle zone in cui negli anni precedenti erano
state effettuate le requisizioni più significative e con quella delle
zone in cui si erano verificate le insurrezioni contadine più
importanti. Oltre a essere un'«alleata» del regime, l'arma finale
della pacificazione, la carestia servì da pretesto ai bolscevichi per
sferrare un colpo decisivo alla Chiesa ortodossa e all'intellighenzia,
che si erano mobilitate per lottare contro il flagello.
La rivolta contadina di Tambov fu la più lunga, la più importante e la
meglio organizzata di tutte quelle scoppiate da quando erano
incominciate le requisizioni, nell'estate del 1918. La provincia di
Tambov, a meno di 500 chilometri a sudest di Mosca, dall'inizio del
secolo era uno dei bastioni del Partito socialista rivoluzionario,
erede del populismo russo. Fra il 1918 e il 1920, nonostante le
repressioni che si erano abbattute sul partito, i militanti restavano
numerosi e attivi. Ma la provincia di Tambov era anche il granaio più
vicino a Mosca, e dall'autunno del 1918 in questa provincia agricola
densamente popolata imperversavano oltre cento squadre di
requisizione. Nel 1919 erano scoppiate decine di "bunt", sommosse
senza futuro che furono tutte soffocate implacabilmente. Nel 1920 le
quote previste per la requisizione vennero aumentate in modo
significativo, passando da 18 a 27 milioni di pud, mentre i contadini
avevano ridotto notevolmente le terre coltivate a grano, sapendo che
tutto quello che non facevano in tempo a consumare sarebbe stato
inesorabilmente requisito. Realizzare le quote significava dunque
far morire di fame i contadini. Il 19 agosto 1920 nel borgo di Hitrovo
alcuni incidenti del tipo in cui erano normalmente coinvolte le
squadre di vettovagliamento degenerarono. Le stesse autorità locali
ammisero i fatti: «I distaccamenti compivano una serie di abusi;
saccheggiavano tutto ciò che capitava loro sottomano, persino i
guanciali e gli attrezzi da cucina, si spartivano il bottino e
coprivano di botte sotto gli occhi di tutti anche vecchi di
settant'anni. I vecchi erano puniti per l'assenza dei figli disertori,
che si nascondevano nella foresta ... I contadini erano indignati
anche perché il grano confiscato, trasportato fino alla stazione più
vicina, era lasciato lì a marcire sotto il cielo».
La rivolta scoppiata a Hitrovo si propagò fulmineamente. Alla fine di
agosto del 1920 più di 14 mila uomini, per la maggior parte disertori,
armati di fucili, forconi e falci avevano cacciato o massacrato tutti
i «rappresentanti del potere sovietico» di tre distretti della
provincia di Tambov. Nel giro di alcune settimane l'insurrezione
contadina, che all'inizio non si distingueva in nulla da centinaia
d'altre scoppiate in Russia e in Ucraina negli ultimi due anni, in
quel bastione tradizionale dei socialisti rivoluzionari si trasformò
in un movimento insurrezionale ben organizzato sotto la direzione di
un capo militare ispirato, Aleksandr Stepanovic Antonov.
Antonov era un socialista rivoluzionario militante dal 1906; dal 1908
alla Rivoluzione di Febbraio del 1917 era stato esiliato in Siberia, e
poi, come molti altri socialisti rivoluzionari «di sinistra», aveva
aderito al regime bolscevico e aveva svolto le mansioni di capo della
milizia di Kirsanov, il suo distretto natale. Nell'agosto del 1918
aveva rotto con i bolscevichi e aveva assunto la guida di una delle
innumerevoli bande di disertori che controllavano la campagna,
affrontando le squadre di vettovagliamento e aggredendo i rari
funzionari sovietici che si arrischiavano a recarsi nei villaggi.
Nell'agosto del 1920, quando nel distretto di Kirsanov scoppiò
l'insurrezione contadina, Antonov creò un'efficiente organizzazione di
milizie, ma anche un notevole servizio di informazione che si infiltrò
persino nella Ceka di Tambov. Istituì inoltre un servizio di
propaganda, che diffondeva volantini e proclami denunciando la
«commissariocrazia bolscevica» e mobilitando i contadini su una serie
di rivendicazioni popolari, come la libertà di commercio, la fine
delle requisizioni, le libere elezioni e l'abolizione dei commissari
bolscevichi e della Ceka.
Parallelamente, l'organizzazione clandestina del Partito socialista
rivoluzionario istituì l'Unione dei lavoratori contadini, una rete
clandestina di militanti contadini ben inseriti localmente. Nonostante
le forti tensioni esistenti fra Antonov, socialista rivoluzionario
dissidente, e la direzione dell'Unione dei lavoratori contadini, il
movimento della provincia di Tambov disponeva di un'organizzazione
militare, di un servizio di informazioni e di un programma politico
che gli davano una forza e una coerenza sconosciute prima alla maggior
parte dei movimenti contadini, a eccezione del movimento mahnovista.
Nell'ottobre del 1920 il potere bolscevico controllava ormai soltanto
la città di Tambov e alcuni rari centri urbani di provincia. I
disertori entrarono a migliaia nell'esercito contadino di Antonov, che
al suo apogeo era costituito da oltre 50 mila uomini armati. Alla
fine, il 19 ottobre, rendendosi conto della gravità della situazione,
Lenin scrisse a Dzerzinskij: «Una rapidissima (ed esemplare)
liquidazione dell'insurrezione è assolutamente necessaria.... Bisogna
manifestare maggiore energia».
All'inizio di novembre i bolscevichi disponevano di appena 5000 uomini
delle Truppe di sicurezza interna della Repubblica, ma dopo la
sconfitta di Vrangel' in Crimea, gli effettivi delle truppe speciali
inviate a Tambov aumentarono rapidamente, fino a raggiungere i 100
mila uomini, compresi i distaccamenti dell'Armata rossa, sempre
minoritari perché considerati poco affidabili per reprimere
insurrezioni popolari.
All'inizio del 1921 le insurrezioni contadine divamparono in nuove
regioni: in tutto il Basso Volga (province di Samara, Saratov,
Caricyn, Astrakhan) ma anche nella Siberia occidentale. La situazione
diventava esplosiva, la carestia minacciava queste regioni ricche ma
saccheggiate spietatamente da anni. Il 12 febbraio 1921, nella
provincia di Samara il comandante del distretto militare del Volga
riferiva: «Folle di molte migliaia di contadini affamati assediano i
depositi dove i distaccamenti hanno stivato il grano requisito per le
città e l'esercito. La situazione è degenerata più volte, e l'esercito
ha dovuto sparare sulla folla ebbra di collera». Da Saratov, i
dirigenti bolscevichi locali telegrafarono a Mosca: «Il banditismo ha
conquistato l'intera provincia. I contadini si sono impadroniti di
tutte le riserve - 3 milioni di pud - nei depositi di Stato. Sono ben
armati grazie ai fucili forniti loro dai disertori. Intere unità
dell'Armata rossa si sono volatilizzate».
Nello stesso momento, a oltre 1000 chilometri verso est, si stava
formando un nuovo focolaio di disordini contadini. Il governo
bolscevico, dopo aver prosciugato tutte le risorse possibili nelle
prospere regioni della Russia meridionale e dell'Ucraina, nell'autunno
del 1920 aveva preso di mira la Siberia occidentale, dove le quote di
consegna furono fissate arbitrariamente in funzione delle esportazioni
di cereali realizzate nel... 1913! Ma si potevano paragonare le rese
destinate a esportazioni pagate in rubli oro sonanti alle rese che i
contadini riservavano a requisizioni estorte con la forza? I contadini
siberiani insorsero, come dappertutto, per difendere il frutto del
proprio lavoro e assicurarsi la sopravvivenza. Nel periodo gennaio-
marzo 1921 i bolscevichi persero il controllo delle province di
Tjumen', Omsk, Celjabinsk ed Ekaterinburg, un territorio più vasto
della Francia; la Transiberiana, l'unica ferrovia che collegasse la
Russia europea alla Siberia, fu interrotta. Il 21 febbraio un esercito
popolare contadino si impadronì della città di Tobol'sk, che le unità
dell'Armata rossa riuscirono a riconquistare solo il 30 marzo.
All'inizio del 1921, dall'altra parte del paese, nelle capitali -
quella vecchia, Pietrogrado, e quella nuova, Mosca - la situazione era
quasi altrettanto esplosiva. L'economia era pressoché bloccata, i
treni non circolavano più, quasi tutte le fabbriche erano chiuse o
lavoravano a ritmo ridotto per la penuria di combustibile e
l'approvvigionamento delle città non era più assicurato. Gli operai
erano in miseria oppure giravano nei villaggi circostanti alla ricerca
di cibo, o, ancora, discutevano negli stabilimenti gelidi e
semismantellati, perché ognuno aveva rubato tutto quello che poteva
portar via per scambiare i «manufatti» con un po' di cibo.
«Il malcontento è generale» concludeva il 16 gennaio un rapporto del
Dipartimento informazioni della Ceka. «Negli ambienti operai prevedono
una prossima caduta del regime. Non lavora più nessuno, la gente ha
fame. Sono imminenti scioperi di vasta portata. Le unità della
guarnigione di Mosca sono sempre meno sicure e possono sfuggire in
qualsiasi momento al nostro controllo. Si impongono misure preventive».
Il 21 gennaio un decreto governativo impose di ridurre di un terzo, a
partire dal giorno dopo, le razioni di pane a Mosca, Pietrogrado,
Ivanovo-Voznesensk e Kronstadt. Questo provvedimento, sopraggiunto in
un momento in cui il regime non poteva più sbandierare la minaccia del
pericolo controrivoluzionario e fare appello al patriottismo di classe
delle masse operaie - infatti le ultime armate bianche erano state
annientate -, diede fuoco alla miccia. Dalla fine di gennaio alla metà
di marzo del 1921 si succedettero quotidianamente scioperi, comizi di
protesta, marce della fame, manifestazioni, occupazioni di fabbriche.
Tanto a Mosca come a Pietrogrado i disordini raggiunsero il culmine
tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo. Tra il 22 e il 24
febbraio si verificarono gravi incidenti fra distaccamenti della Ceka
e manifestanti operai che cercavano di forzare l'ingresso delle
caserme per fraternizzare con i soldati. Alcuni lavoratori furono
uccisi e vennero eseguiti centinaia di arresti.
A Pietrogrado i disordini acquisirono nuova diffusione a partire dal
22 febbraio, quando gli operai di molte grandi fabbriche elessero,
come nel marzo del 1918, una «assemblea dei plenipotenziari operai» a
forte colorazione menscevica e socialista rivoluzionaria. Nel suo
primo proclama questa assemblea chiedeva l'abolizione della dittatura
bolscevica, libere elezioni dei soviet, libertà di parola, di
associazione e di stampa, e il rilascio di tutti i prigionieri
politici. Per raggiungere questi obiettivi l'assemblea proclamò lo
sciopero generale. Il comando militare non riuscì a impedire che in
diversi reggimenti si tenessero dei comizi, durante i quali furono
approvate mozioni di sostegno agli operai. Il 24 febbraio alcuni
distaccamenti della Ceka aprirono il fuoco su una manifestazione
operaia, uccidendo 12 lavoratori. Quel giorno furono arrestati quasi
mille fra operai e militanti socialisti. Ciò nonostante, il numero
dei manifestanti continuava ad aumentare, e migliaia di soldati
disertavano le proprie unità per unirsi agli operai. A quattro anni di
distanza dalle giornate di febbraio che avevano rovesciato il regime
zarista, sembrava che la scena si ripetesse: manifestanti operai e
soldati ammutinati fraternizzavano. Il 26 febbraio alle 21 Zinov'ev,
il dirigente dell'organizzazione bolscevica di Pietrogrado, inviò a
Lenin un telegramma da cui trapelava il panico: «Gli operai sono
entrati in contatto con i soldati di guarnigione.... Aspettiamo sempre
le unità di rinforzo richieste a Novgorod. Se le truppe fidate non
arrivano nelle prossime ore, verremo sopraffatti».
Due giorni dopo si verificò l'avvenimento che i dirigenti bolscevichi
temevano più di ogni altra cosa: l'ammutinamento dei marinai di due
corazzate della base navale di Kronstadt, al largo di Pietrogrado. Il
28 febbraio alle 23 Zinov'ev inviò un altro telegramma a Lenin:
«Kronstadt: le due navi principali, la "Sevastopol'" e la
"Petropavlovsk", hanno adottato risoluzioni S.R.-Centurie nere e dato
un ultimatum cui dobbiamo rispondere entro ventiquattr'ore. Fra gli
operai di Pietrogrado la situazione resta molto instabile. Le grandi
imprese sono in sciopero. Riteniamo che gli S.R. accelereranno il
movimento».
Le rivendicazioni che Zinov'ev definiva «S.R.-Centurie nere» erano
esattamente le stesse formulate dalla stragrande maggioranza dei
cittadini dopo tre anni di dittatura bolscevica: rielezione a
scrutinio segreto dei soviet dopo una fase di dibattito e libere
elezioni; libertà di parola e di stampa, anche se si precisava «in
favore degli operai, dei contadini, degli anarchici e dei partiti
socialisti di sinistra»; parità di razionamento per tutti e rilascio
di tutti i detenuti politici membri di partiti socialisti, di tutti
gli operai, i contadini, i soldati, i marinai imprigionati per le loro
attività in movimenti operai e contadini; costituzione di una
commissione incaricata di esaminare i casi di tutti i detenuti nelle
prigioni e nei campi di concentramento; fine delle requisizioni;
abolizione delle divisioni speciali della Ceka; libertà assoluta per i
contadini di fare quello che volevano sulla loro terra e di allevare
bestiame proprio, a condizione che se la cavassero con i propri mezzi.
A Kronstadt gli avvenimenti precipitarono. Il primo marzo si tenne un
immenso comizio che riunì oltre 15 mila persone, un quarto della
popolazione civile e militare della base navale. Mihail Kalinin,
presidente del Comitato esecutivo centrale dei soviet, arrivato sul
posto per cercare di salvare la situazione, fu cacciato fra gli
schiamazzi della folla. L'indomani gli insorti, ai quali si unì almeno
la metà dei 2000 bolscevichi di Kronstadt, formarono un Comitato
rivoluzionario provvisorio che tentò subito di entrare in contatto con
gli scioperanti e i soldati di Pietrogrado.
I rapporti quotidiani della Ceka sulla situazione a Pietrogrado nella
prima settimana di marzo del 1921 attestano l'ampio sostegno popolare
su cui poteva contare l'ammutinamento di Kronstadt: «Il Comitato
rivoluzionario di Kronstadt aspetta da un giorno all'altro
un'insurrezione generale a Pietrogrado. Gli ammutinati sono entrati in
contatto con un gran numero di industrie.... Oggi, durante un comizio
alla fabbrica Arsenal, gli operai hanno votato una risoluzione che
invitava a unirsi all'insurrezione. Per mantenere i contatti con
Kronstadt è stata eletta una delegazione di tre persone: un anarchico,
un menscevico, un socialista rivoluzionario».
Per tagliare le gambe al movimento, il 7 marzo la Ceka di Pietrogrado
ricevette l'ordine di «intraprendere azioni decisive contro gli
operai». In quarantott'ore furono arrestati oltre 2000 operai,
simpatizzanti e militanti socialisti o anarchici. A differenza degli
ammutinati, gli operai non avevano armi e non potevano opporre alcuna
resistenza ai distaccamenti della Ceka. Dopo aver eliminato la base
che sosteneva l'insurrezione, i bolscevichi prepararono minuziosamente
l'assalto contro Kronstadt. L'incarico di liquidare la ribellione fu
affidato al generale Tuhacevskij. Per sparare sul popolo, il vincitore
della campagna di Polonia del 1920 fece appello alle giovani reclute
della Scuola militare, senza tradizione rivoluzionaria, e alle truppe
speciali della Ceka. Le operazioni incominciarono l'8 marzo. Dieci
giorni dopo Kronstadt cadde: da entrambe le parti vi furono migliaia
di morti. La repressione dell'insurrezione fu spietata. Nei giorni
successivi alla disfatta furono passate per le armi diverse centinaia
di insorti. Gli archivi resi accessibili di recente attestano, nel
solo periodo aprile-giugno, 2103 condanne a morte e 6459 condanne a
pene detentive o ai lavori forzati. Subito prima che Kronstadt
venisse conquistata, quasi 8000 persone erano riuscite a fuggire
attraverso le distese ghiacciate del golfo fino in Finlandia, dove
vennero internate in campi profughi, a Terijoki, Vyborg e Ino. Nel
1922 molte di esse rientrarono in Russia ingannate da una promessa di
amnistia, ma furono subito arrestate e mandate nei campi di
concentramento delle isole Soloveckie e di Holmogory, uno dei più
terribili, nei dintorni di Arcangelo. Secondo fonti anarchiche,
dei 5000 prigionieri di Kronstadt inviati a Holmogory quelli ancora
vivi nella primavera del 1922 erano meno di 1500.
Il campo di Holmogory, che si trovava su un grande fiume, la Dvina,
era tristemente famoso per il modo sbrigativo con cui ci si sbarazzava
di molti detenuti. I malcapitati venivano imbarcati su chiatte e
precipitati nelle acque del fiume con una pietra al collo e le braccia
legate. Mihail Kedrov, uno dei principali dirigenti della Ceka, aveva
inaugurato questi annegamenti di massa nel giugno del 1920. Molte
testimonianze concordano sul fatto che nel 1922 sarebbero stati
annegati nella Dvina un gran numero di ammutinati di Kronstadt, di
cosacchi e contadini della provincia di Tambov deportati a Holmogory.
Nello stesso anno, una commissione speciale di evacuazione deportò in
Siberia 2514 civili di Kronstadt semplicemente perché erano rimasti
nella cittadella durante gli avvenimenti.
***
Dopo aver soffocato la rivolta di Kronstadt, il regime impegnò tutte
le sue forze per dare la caccia ai militanti socialisti, lottare
contro gli scioperi e la «negligenza» operaia, sedare le insurrezioni
contadine che continuavano a pieno ritmo benché ufficialmente fosse
stata dichiarata la fine delle requisizioni, e reprimere la Chiesa.
Già il 28 febbraio 1921 Dzerzinskij aveva ordinato a tutte le Ceka
provinciali: «1) di arrestare immediatamente tutta l'intellighenzia
anarchicheggiante, menscevica, socialista rivoluzionaria, in
particolare i funzionari che lavorano nei commissariati del popolo per
l'Agricoltura e l'approvvigionamento; 2) dopo questo esordio, di
arrestare tutti i menscevichi, i socialisti rivoluzionari e gli
anarchici che lavorano nelle fabbriche in cui possa verificarsi la
proclamazione di scioperi o manifestazioni».
Anziché segnare un allentamento della politica repressiva,
l'introduzione della NEP, nel marzo del 1921, fu accompagnata da una
recrudescenza della repressione contro i militanti socialisti
moderati. Tale repressione non era dettata dal pericolo che si
opponessero alla Nuova politica economica, quanto piuttosto dal fatto
che la reclamavano da tempo, dimostrando così la propria perspicacia e
la giustezza della propria analisi. Nell'aprile del 1921 Lenin
scriveva: «L'unico posto per i menscevichi e gli S.R., dichiarati o
camuffati, è la prigione».
Alcuni mesi dopo, ritenendo che i socialisti fossero ancora troppo
«turbolenti», scrisse: «Se menscevichi e S.R. mostrano ancora la punta
del naso, fucilarli senza pietà!». Fra il marzo e il giugno del 1921
furono arrestati più di 2000 militanti e simpatizzanti socialisti
moderati. Tutti i membri del Comitato centrale del Partito menscevico
finirono in prigione. Nel gennaio del 1922, rischiando di essere
deportati in Siberia, incominciarono lo sciopero della fame: dodici
dirigenti, fra cui Dan e Nikolaevskij, furono allora espulsi e
arrivarono a Berlino nel febbraio del 1922.
Nella primavera del 1921 uno degli obiettivi prioritari del regime era
di far ridecollare la produzione industriale calata a un decimo dei
livelli del 1913. Anziché allentare la pressione sugli operai, i
bolscevichi mantennero, o addirittura intensificarono, la
militarizzazione del lavoro istituita negli anni precedenti. A
opinione di molti, la politica condotta dopo l'adozione della NEP
nella grande regione industriale e mineraria del Donbass, che
produceva oltre l'80 per cento del carbone e dell'acciaio del paese,
dimostra chiaramente i metodi dittatoriali impiegati dai bolscevichi
per «far ricominciare a lavorare gli operai». Alla fine del 1920
Pjatakov, uno dei dirigenti più importanti e intimo di Trotsky, era
stato nominato a guidare la Direzione centrale dell'industria
carbonifera. Nel giro di un anno riuscì a quintuplicare la produzione
di carbone, con una politica di sfruttamento e di repressione della
classe operaia senza precedenti, basata sulla militarizzazione del
lavoro dei 120 mila minatori alle sue dipendenze. Pjatakov impose una
disciplina rigorosa: qualsiasi assenza era considerata «atto di
sabotaggio» e punita con la detenzione in campo di concentramento, o
addirittura con la pena di morte: nel 1921 furono giustiziati 18
minatori per «parassitismo aggravato». Pjatakov decretò l'allungamento
dell'orario di lavoro (in particolare introdusse il lavoro di
domenica) e generalizzò il «ricatto della carta annonaria» per
ottenere dagli operai un aumento della produttività. Tutti questi
provvedimenti furono presi in un momento in cui gli operai venivano
retribuiti esclusivamente con una quantità di pane che andava da un
terzo alla metà di quello necessario per sopravvivere, e in cui alla
fine della giornata di lavoro dovevano prestare l'unico paio di scarpe
che possedevano ai compagni del turno successivo. Come ammetteva la
stessa Direzione dell'industria carbonifera, fra le svariate ragioni
alla base del forte assenteismo operaio figuravano, oltre alle
epidemie, la «fame permanente» e l'«assenza quasi totale di abiti, di
pantaloni e di scarpe». Per ridurre il numero delle bocche da sfamare,
dato l'incombere della carestia, il 24 giugno 1921 Pjatakov ordinò
l'espulsione dalle città minerarie di tutte le persone che non
lavoravano nelle miniere e che rappresentavano perciò un «peso morto».
Ai membri delle famiglie dei minatori furono ritirate le carte
annonarie. Le norme di razionamento vennero rapportate strettamente
alle prestazioni individuali di ciascun minatore, e fu introdotta una
forma primitiva di salario a cottimo.
Tutte queste misure contrastavano con le idee di eguaglianza e di
«razionamento garantito» in cui si cullavano ancora molti operai,
tratti in inganno dalla mitologia operaistica bolscevica, e
prefiguravano molto da vicino le misure antioperaie degli anni Trenta.
Le masse operaie erano solo la "rabsila" (la forza lavoro) da
sfruttare nel modo più efficace possibile, aggirando la legislazione
sul lavoro e gli inutili sindacati, il cui unico ruolo era ormai
quello di stimolare la produttività. La militarizzazione del lavoro
sembrava la forma più efficace per inquadrare questa manodopera
indocile, affamata e poco produttiva. Non si può fare a meno di
rilevare l'affinità fra questa forma di sfruttamento del lavoro libero
e i lavori forzati dei grandi complessi penitenziari creati all'inizio
degli anni Trenta. Come molti altri episodi di quegli anni di
formazione del bolscevismo, che non possono essere ridotti
semplicemente alla guerra civile, ciò che accadeva nel Donbass nel
1921 preannunciava un certo numero di procedure che dovevano
costituire l'essenza dello stalinismo.
Fra le altre operazioni prioritarie per il regime bolscevico nella
primavera del 1921, c'era la «pacificazione» di tutte le regioni
controllate da bande e distaccamenti contadini. Il 27 aprile 1921
l'Ufficio politico ("Politbjuro") affidò al generale Tuhacevskij la
guida delle «operazioni di liquidazione delle bande di Antonov nella
provincia di Tambov». Tuhacevskij, alla testa di quasi 100 mila
uomini, molti dei quali appartenevano ai distaccamenti speciali della
Ceka e disponevano di artiglieria pesante e di aerei, riuscì a
sconfiggere i distaccamenti di Antonov, esercitando una repressione
d'inaudita violenza. Tuhacevskij e Antonov-Ovseenko, presidente della
Commissione plenipotenziaria del Comitato esecutivo centrale nominata
per insediare un vero e proprio regime di occupazione della provincia
di Tambov, fecero largo uso di sistemi come prendere ostaggi,
giustiziare, internare in campo di concentramento, sterminare con gas
asfissianti e deportare interi villaggi sospettati di aiutare o di
ospitare i «banditi».
L'Ordine del giorno n. 171, datato 11 giugno 1921 e firmato da
Antonov-Ovseenko e da Tuhacevskij, chiarisce i metodi con i quali fu
«pacificata» la provincia di Tambov. L'ordine prescriveva in
particolare:
"1. Fucilare sul posto senza processo qualsiasi cittadino che rifiuti
di declinare le proprie generalità.
2. Le Commissioni politiche di distretto o le Commissioni politiche di
circoscrizione hanno il potere di emettere l'ordine di prendere
ostaggi nei villaggi ove siano nascoste delle armi, e di fucilarli
qualora le armi non vengano consegnate.
3. Nel caso in cui si trovino armi nascoste, fucilare sul posto senza
processo il primogenito della famiglia.
4. Se una famiglia nasconde un bandito nella sua casa è passibile di
arresto e di deportazione fuori della provincia; i suoi beni sono
confiscati e il primogenito della famiglia viene fucilato senza
processo.
5. Le famiglie che nascondono membri della famiglia di un bandito o
suoi averi devono essere trattate alla stregua dei banditi stessi, e
il primogenito della famiglia va fucilato sul posto senza processo.
6. In caso di fuga della famiglia di un bandito, spartirne i beni fra
i contadini fedeli al potere sovietico, e bruciare o demolire le case
abbandonate.
7. Applicare con rigore e senza pietà il presente Ordine del giorno".
Il giorno successivo alla promulgazione dell'Ordine n. 171, il
generale Tuhacevskij ordinò di gassare i ribelli. «I resti delle bande
disciolte e alcuni banditi isolati continuano a raccogliersi nelle
foreste.... Le foreste in cui si nascondono i banditi devono essere
ripulite per mezzo dei gas asfissianti. Si deve calcolare ogni cosa in
modo che la nube di gas penetri nella foresta e stermini tutto quello
che vi si nasconde. L'ispettore dell'artiglieria deve fornire
immediatamente le quantità richieste di gas asfissianti, oltre a
specialisti competenti per questo genere di operazioni». Il 19 luglio,
di fronte all'opposizione di molti dirigenti bolscevichi a questa
forma estrema di «sradicamento», l'Ordine n. 171 fu annullato.
Nel mese di luglio del 1921 le autorità militari e la Ceka avevano già
creato 7 campi di concentramento dove, secondo i dati ancora parziali,
erano rinchiuse almeno 50 mila persone, per la maggioranza donne,
vecchi e bambini, «ostaggi» e familiari dei contadini-disertori. In
tali campi la situazione era spaventosa: il tifo e il colera erano
endemici e i detenuti, seminudi, mancavano di tutto. Durante l'estate
del 1921 arrivò la carestia. In autunno la mortalità raggiunse il 15-
20 per cento al mese. Il primo settembre 1921 si contavano ormai solo
alcune bande, che complessivamente comprendevano poco più di un
migliaio di uomini armati, rispetto ai 40 mila del febbraio del 1921,
quando il movimento contadino era all'apogeo. A partire dal novembre
del 1921, quando ormai le campagne erano già da tempo «pacificate»,
molte migliaia dei detenuti più validi furono deportati nei campi di
concentramento della Russia settentrionale, ad Arcangelo e a Holmogory.
Come attestano i rapporti settimanali della Ceka ai dirigenti
bolscevichi, in diverse regioni (Ucraina, Siberia occidentale,
province del Volga, Caucaso) la «pacificazione» delle campagne
continuò almeno fino alla seconda metà del 1922. Le abitudini prese
negli anni precedenti erano dure a morire e, anche se ufficialmente le
requisizioni erano state abolite nel marzo del 1921, il prelievo
dell'imposta in natura che sostituiva le requisizioni spesso veniva
eseguito con estrema brutalità. Le quote, molto elevate rispetto alla
situazione catastrofica dell'agricoltura nel 1921, mantenevano una
tensione costante nelle campagne, dove un buon numero di contadini
aveva conservato le armi.
Secondo quanto riferiva il vicecommissario del popolo per
l'Agricoltura Nikolaj Osinskij descrivendo le impressioni di un
viaggio nelle province di Tula, Orel e Voronez compiuto nel maggio
1921, i funzionari locali erano convinti che le requisizioni sarebbero
state ripristinate in autunno. Le autorità locali «non potevano
considerare i contadini altrimenti che come sabotatori nati».
____________________________________________________________
[Box:
RAPPORTO del presidente della Commissione plenipotenziaria di 5 membri
sulle misure repressive contro i banditi della provincia di Tambov.
10 luglio 1921.
Le operazioni di ripulitura della volost' (circoscrizione)
Kudrjukovskaja sono incominciate il 27 giugno con il villaggio
Osinovki, che in passato ha dato asilo a gruppi di banditi.
L'atteggiamento dei contadini nei confronti dei nostri distaccamenti
repressivi era caratterizzato da una certa diffidenza. I contadini non
denunciavano i banditi delle foreste, e se interrogati rispondevano di
non sapere niente.
Abbiamo preso quaranta ostaggi, dichiarato il villaggio in stato
d'assedio e dato due ore agli abitanti per consegnare i banditi e le
armi nascoste. Gli abitanti del villaggio, riuniti in assemblea,
esitavano sulla condotta da tenere, ma non si decidevano a collaborare
attivamente alla caccia ai banditi. Certo non prendevano sul serio le
nostre minacce di giustiziare gli ostaggi. Alla scadenza del termine,
ne abbiamo fatti giustiziare 21 davanti all'assemblea del villaggio.
L'esecuzione pubblica, per fucilazione individuale, con tutte le
formalità d'uso, in presenza di tutti i membri della Commissione
plenipotenziaria, dei comunisti eccetera, ha provocato un notevole
effetto fra i contadini...
Quanto al villaggio Karaevka, che per la sua collocazione geografica
era una postazione privilegiata dei gruppi di banditi ... la
Commissione ha deciso di cancellarlo dalla carta geografica. Tutta la
popolazione è stata deportata, i beni confiscati, a eccezione delle
famiglie dei soldati in servizio nell'Armata rossa, che sono state
trasferite nel borgo Kurdjuki e alloggiate nelle case confiscate alle
famiglie dei banditi. Dopo aver recuperato alcuni oggetti di valore,
intelaiature delle finestre, oggetti di vetro, di legno eccetera, le
case del villaggio sono state messe a fuoco...
Il 3 luglio abbiamo incominciato le operazioni nel borgo Bogoslovka.
Di rado avevamo incontrato contadini così indocili e organizzati.
Quando si discuteva con loro, rispondevano tutti all'unanimità, dal
più giovane al più vecchio, con un'aria stupita: «Banditi da noi?
Neanche per idea! Forse ne abbiamo visti passare una volta nei
paraggi, ma non sappiamo nemmeno se fossero banditi. Noi viviamo
tranquilli, non facciamo male a nessuno, non sappiamo nulla».
Abbiamo adottato gli stessi provvedimenti di Osinovki, prendendo 58
ostaggi. Il 4 luglio abbiamo fucilato pubblicamente un primo gruppo di
21 persone, l'indomani 15, abbiamo messo in condizione di non nuocere
60 famiglie di banditi, cioè 200 persone circa. Insomma, alla fine
abbiamo raggiunto lo scopo, e i contadini sono stati costretti a
partire a caccia dei banditi e delle armi nascoste...
La ripulitura dei villaggi e dei borghi suddetti si è conclusa il 6
luglio. L'operazione è stata coronata dal successo, e ha conseguenze
che vanno addirittura al di là delle due volost' limitrofe. Prosegue
la resa dei banditi.
Il presidente della Commissione plenipotenziaria di 5 membri, Uskonin.
("Krestjanskoe vosstanie v Tambovskoj gubernii v 1919-1921", cit., p.
218).]
____________________________________________________________
Per accelerare la raccolta dell'imposta in Siberia, la regione che
doveva fornire il grosso dei prodotti agricoli in un momento in cui la
carestia devastava tutte le province del Volga, nel dicembre del 1921
vi fu inviato come plenipotenziario straordinario Feliks Dzerzinskij.
Istituì dei «tribunali rivoluzionari volanti» incaricati di
rastrellare i villaggi e di condannare sul posto a pene detentive in
prigione o nei campi i contadini che non pagavano il tributo.
Questi tribunali, affiancati da «distaccamenti fiscali», si
comportarono come le squadre di requisizione: commisero un tale numero
di abusi che lo stesso presidente del Tribunale supremo, Nikolaj
Krylenko, dovette ordinare un'inchiesta sull'operato di questi organi
nominati dal capo della Ceka. Il 14 febbraio 1922 un ispettore
scriveva da Omsk: «Gli abusi delle squadre di requisizione hanno
raggiunto un livello inimmaginabile. I contadini arrestati vengono
sistematicamente rinchiusi in magazzini non riscaldati, frustati e
minacciati di morte. Quelli che non hanno completato la quota di
consegna vengono legati, costretti a correre nudi lungo la strada
principale del villaggio, poi sono rinchiusi in un magazzino non
riscaldato. Moltissime donne sono state picchiate fino a perdere
conoscenza, infilate nude in buche scavate nella neve...». In tutte le
province la tensione rimaneva molto alta.
Lo attestano questi brani di un rapporto della polizia politica
dell'ottobre 1922, un anno e mezzo dopo l'inizio della NEP:
"Nella provincia di Pskov le quote fissate per l'imposta in natura
rappresentano i 2 terzi del raccolto. Quattro distretti hanno
impugnato le armi ... Nella provincia di Novgorod le quote non saranno
raggiunte, nonostante la riduzione del 25 per cento accordata di
recente in considerazione della scarsità del raccolto. Nelle province
di Rjazan' e di Tver', la realizzazione delle quote al 100 per cento
condannerebbe i contadini a morire di fame ... Nella provincia di
Novo-Nikolaevsk, la carestia incombe e i contadini fanno provvista di
erbe e di radici per il proprio consumo.... Ma tutti questi fatti
appaiono insignificanti rispetto alle informazioni che ci pervengono
dalla provincia di Kiev, dove si assiste a un'ondata di suicidi senza
precedenti: i contadini si uccidono in massa perché non possono né
pagare le imposte né riprendere le armi che sono state confiscate. La
carestia che si è abbattuta da un anno su tutta una serie di regioni
rende i contadini molto pessimisti riguardo all'avvenire".
Comunque, nell'autunno del 1922 il peggio era passato. Dopo due anni
di carestia, i sopravvissuti avevano accantonato un raccolto che
avrebbe consentito loro di passare l'inverno, a condizione però che le
imposte non venissero riscosse al cento per cento. «Quest'anno il
raccolto dei cereali sarà inferiore alla media degli ultimi dieci
anni»: così il 2 luglio 1921 la «Pravda» aveva citato per la prima
volta il «problema alimentare» sul «fronte agricolo» in un breve
trafiletto in ultima pagina. Dieci giorni dopo Mihail Kalinin,
presidente del Comitato esecutivo centrale dei soviet, in un "Appello
a tutti i cittadini della R.S.F.S.R." pubblicato sulla «Pravda» il 12
luglio 1921, ammetteva: «In molti distretti la siccità di quest'anno
ha distrutto il raccolto».
«Questa calamità non dipende soltanto dalla siccità» spiegava una
risoluzione del Comitato centrale del 21 luglio. «Deriva e dipende da
tutta la storia passata, dal ritardo della nostra agricoltura, dalla
mancanza di organizzazione, dalla scarsità delle cognizioni
agronomiche, dalla povertà tecnica, dalle forme superate di rotazione
delle colture. E' aggravata dalle conseguenze della guerra e del
blocco, dalla guerra che i latifondisti, i capitalisti e i loro lacchè
continuano a farci, dalle azioni incessanti dei banditi che eseguono
gli ordini di organizzazioni ostili alla Russia sovietica e a tutta la
sua popolazione di lavoratori».
Nella lunga enumerazione delle cause di questa «calamità» di cui non
si osava ancora dire il nome, mancava il fattore principale: la
politica delle requisizioni che da anni spremeva un'agricoltura già
molto fragile. I dirigenti delle province colpite dalla carestia,
convocati a Mosca nel giugno del 1921, furono concordi nel ribadire le
responsabilità del governo, e in particolare dell'onnipotente
commissariato del popolo per il Vettovagliamento, riguardo alla
diffusione e all'aggravarsi della carestia. Il rappresentante della
provincia di Samara, un certo Vavilin, spiegò che da quando erano
incominciate le requisizioni il Comitato provinciale per il
vettovagliamento continuava a gonfiare le valutazioni relative al
raccolto.
Nonostante il cattivo raccolto del 1920, quell'anno erano stati
requisiti 10 milioni di pud di cereali. Erano state confiscate tutte
le riserve, comprese le sementi per l'anno successivo. Già a gennaio
del 1921 molti contadini non avevano più niente da mangiare. La
mortalità era cominciata ad aumentare in febbraio. Nel giro di due o
tre mesi, nella provincia di Samara sommosse e ribellioni contro il
regime in pratica cessarono. Vavilin spiegava: «Ora non ci sono più
rivolte. Si vedono fenomeni nuovi: folle di migliaia di affamati
assediano pacificamente il Comitato esecutivo dei soviet o del
Partito, e aspettano per giorni chissà quale miracoloso arrivo di
cibo. Non si riesce a cacciare la folla, ogni giorno le persone
muoiono come mosche.... Ritengo che nella provincia ci siano almeno
900 mila affamati».
Leggendo i rapporti della Ceka e del Servizio informazioni militare si
constata che fin dal 1919 molte regioni erano afflitte dalla penuria
di cibo. Nel corso del 1920 la situazione non aveva cessato di
peggiorare. A partire dall'estate del 1920 la Ceka, il commissariato
del popolo per l'Agricoltura e il commissariato del popolo per
l'Approvvigionamento, perfettamente consapevoli della situazione,
elencavano nei loro rapporti province e distretti «affamati» o «in
preda alla carestia». Nel gennaio del 1921, fra le cause della
carestia diffusasi nella provincia di Tambov un rapporto indicava
l'«orgia» di requisizioni del 1920. Come attestano i discorsi riferiti
dalla polizia politica, per il popolo minuto era evidente che il
potere sovietico voleva «far crepare di fame tutti i contadini così
temerari da resistergli». Il governo, pur perfettamente informato
sulle inevitabili conseguenze della politica delle requisizioni, non
adottò alcun provvedimento. Il 30 luglio 1921, proprio mentre la
carestia si stava diffondendo in un numero crescente di regioni, Lenin
e Molotov inviarono un telegramma a tutti i dirigenti dei comitati
regionali e provinciali del partito, chiedendo loro di «rinforzare gli
apparati di raccolta ... di sviluppare un'intensa propaganda presso la
popolazione rurale, spiegandole la necessità economica e politica di
pagare le imposte puntualmente e totalmente ... di mettere a
disposizione delle agenzie di raccolta dell'imposta in natura tutta
l'autorità del Partito e il totale potere di repressione dell'apparato
statale»!.
Di fronte all'atteggiamento delle autorità, che perseguivano a ogni
costo la loro politica di sfruttamento della popolazione rurale, gli
ambienti informati e illuminati dell'intellighenzia si mobilitarono.
Nel giugno del 1921 agronomi, economisti e universitari costituirono
in seno alla Società moscovita dell'agricoltura un Comitato sociale di
lotta contro la carestia. Fra i primi a aderire al comitato furono gli
eminenti economisti Kondrat'ev e Prokopovic, ex ministro
dell'Approvvigionamento del governo provvisorio, Ekaterina Kuskova,
giornalista vicina a Ma'ksim Gor'kij, scrittori, medici, agronomi.
Grazie alla mediazione di Gor'kij, ben introdotto negli ambienti
dirigenziali bolscevichi, una delegazione del Comitato, che Lenin
aveva rifiutato di ricevere, a metà luglio del 1921 ottenne un'udienza
con Lev Kamenev. Dopo il colloquio Lenin, sempre diffidente riguardo
alla «sensibilità morbosa» di certi dirigenti bolscevichi, mandò un
biglietto ai colleghi dell'Ufficio politico: «Mettere assolutamente la
Kuskova in condizione di non nuocere.... Della Kuskova accettiamo il
nome, la firma, un vagone o due [di viveri] da parte di coloro che
provano simpatia per lei (e per quelli della sua specie). Nient'altro».
Alla fine i membri del Comitato riuscirono a convincere un certo
numero di dirigenti della propria utilità. Erano i rappresentanti più
famosi della scienza, della letteratura e della cultura russe, noti in
Occidente, e la maggior parte di loro aveva già partecipato
attivamente all'organizzazione degli aiuti alle vittime della carestia
del 1891. Avevano inoltre numerosi contatti fra gli intellettuali di
tutto il mondo e avrebbero potuto farsi garanti di un'equa
distribuzione di eventuali aiuti internazionali. Erano pronti a dare
il proprio avallo, ma esigevano che il Comitato avesse un
riconoscimento ufficiale.
Il 21 luglio 1921 il governo bolscevico decise, non senza riluttanza,
di legalizzare il Comitato, che prese il nome di Comitato panrusso di
aiuto agli affamati, e al quale fu conferito l'emblema della Croce
rossa. Era autorizzato a procurarsi in Russia e all'estero viveri,
foraggio, medicinali, e a ripartire i soccorsi fra la popolazione
bisognosa, a ricorrere a trasporti eccezionali per eseguire le
consegne, a organizzare mense popolari, a creare sezioni e comitati
locali, a «comunicare liberamente con gli organismi e i procuratori
che intenderà designare all'estero» e anche a «discutere i
provvedimenti adottati dalle autorità centrali e locali, che a suo
parere riguardino la questione della lotta contro la carestia».
In nessun altro momento della storia sovietica furono concessi
altrettanti diritti a un'organizzazione sociale. Le concessioni del
governo erano proporzionate alla crisi che travagliava il paese,
quattro mesi dopo l'instaurazione ufficiale, e molto timida, della
NEP.
Il Comitato si mise in contatto con il capo della Chiesa ortodossa, il
patriarca Tihon, che creò subito un Comitato ecclesiastico panrusso di
aiuto agli affamati. Il 7 luglio 1921 il patriarca fece leggere in
tutte le chiese una lettera pastorale: «Per la popolazione affamata la
carne dei cadaveri è diventata un piatto prelibato, difficile da
trovare. Ovunque risuonano pianti e gemiti. Si arriva già al
cannibalismo... Tendete una mano caritatevole ai vostri fratelli e
alle vostre sorelle! Con l'accordo dei fedeli, per soccorrere gli
affamati potete utilizzare i tesori della chiesa che non hanno valore
sacramentale, come anelli, catene e braccialetti, le decorazioni che
ornano le sante icone eccetera».
Dopo aver ottenuto l'aiuto della Chiesa, il Comitato panrusso di aiuto
agli affamati contattò svariate istituzioni internazionali, fra cui la
Croce rossa, i quaccheri e l'American Relief Association (ARA), che
risposero tutte positivamente. Ciò nonostante, la collaborazione fra
il regime e il Comitato doveva durare soltanto cinque settimane. Il
Comitato fu sciolto il 27 agosto 1921, sei giorni dopo che il governo
ebbe firmato un accordo con i rappresentanti dell'American Relief
Association, presieduta da Herbert Hoover. Per Lenin, ora che gli
americani inviavano i primi cargo di provviste, il Comitato aveva
esaurito le sue funzioni: «il nome e la firma della Kuskova» erano
serviti da garanzia ai bolscevichi. E tanto bastava.
"Propongo di sciogliere il Comitato oggi stesso, venerdì 26 agosto ...
Arrestare Prokopovic per intenzioni sediziose ... e tenerlo tre mesi
in prigione ... Espellere immediatamente da Mosca, oggi stesso, gli
altri membri del Comitato, mandarli separati gli uni dagli altri nei
capoluoghi di distretto, se possibile lontano dalla rete ferroviaria,
in domicilio coatto ... Domani pubblicheremo un comunicato governativo
breve e secco, di cinque righe: Comitato sciolto per rifiuto di
lavorare. Dare la direttiva ai giornali di iniziare da domani a
coprire di ingiurie i membri del Comitato. Figli di papà, Guardie
bianche, più disposti a farsi un giro all'estero che a recarsi in
provincia, metterli in ridicolo con ogni mezzo e maltrattarli almeno
una volta alla settimana per due mesi".
La stampa seguì alla lettera le istruzioni di Lenin e si scatenò
contro i sessanta intellettuali di fama che erano entrati nel
Comitato. I titoli degli articoli pubblicati dimostrano chiaramente il
carattere diffamatorio di questa campagna: "Non si scherza con la
fame!" («Pravda», 30 agosto 1921); "Speculavano sulla fame"
(«Kommunisticeskij trud», 31 agosto 1921); "Il Comitato di aiuto...
alla controrivoluzione" («Izvestija», 30 agosto 1921). A una persona
andata a intercedere in favore dei membri del Comitato arrestati e
deportati Unshliht uno dei vice di Dzerzinskij alla Ceka, dichiarò:
«Lei dice che il Comitato non ha commesso alcun atto di slealtà. E'
vero. Ma è diventato un polo di attrazione per la società. E questo
non possiamo ammetterlo. Sa, quando si mette in un bicchiere d'acqua
un ramoscello che non ha ancora getti, inizia a germogliare in fretta.
Il Comitato ha incominciato altrettanto in fretta a estendere le sue
ramificazioni nella collettività sociale.... Abbiamo dovuto togliere
il rametto dall'acqua e spezzarlo».
Al posto del Comitato, il governo creò una Commissione centrale di
soccorso agli affamati, un pesante organismo burocratico composto di
funzionari di vari commissariati del popolo, molto inefficiente e
corrotto. Nel pieno della carestia, che nell'estate del 1922 era al
culmine e affliggeva quasi 30 milioni di persone, la Commissione
centrale assicurò un soccorso alimentare irregolare a meno di 3
milioni di persone. L'ARA, la Croce rossa e i quaccheri, dal canto
loro, nutrivano circa 11 milioni di persone al giorno. Nonostante la
mobilitazione internazionale, fra il 1921 e il 1922 almeno 5 dei 29
milioni di persone colpite dalla carestia morirono di fame.
L'ultima grande carestia che aveva colpito la Russia nel 1891, più o
meno nelle stesse regioni (Medio e Basso Volga, e una parte del
Kazakistan), aveva fatto da 400 mila a 500 mila vittime. In
quell'occasione Stato e società avevano fatto a gara per soccorrere i
contadini afflitti dalla siccità. All'inizio del decennio 1890-1900 il
giovane avvocato Vladimir Ul'janov Lenin viveva a Samara, capoluogo di
una delle province più colpite dalla carestia del 1891. Fu l'unico
rappresentante dell'intellighenzia locale che, oltre a non partecipare
al soccorso sociale agli affamati, si pronunciò categoricamente contro
gli aiuti. Come ricordava un suo amico, «Vladimir Il'ic Ul'janov ebbe
il coraggio di dichiarare apertamente che la carestia aveva molte
conseguenze positive, e cioè la nascita di un proletariato
industriale, affossatore dell'ordine borghese». «Distruggendo
l'economia contadina arretrata» spiegava «la carestia ci avvicina
oggettivamente all'obiettivo finale, il socialismo, tappa
immediatamente successiva al capitalismo. Inoltre la carestia
distrugge la fede, non solo nello zar, ma anche in Dio».
Trent'anni dopo il giovane avvocato, divenuto capo del governo
bolscevico, riprendeva l'idea: la carestia poteva e doveva servire a
«colpire mortalmente il nemico alla testa». Il nemico era la Chiesa
ortodossa. «L'elettricità prenderà il posto di Dio. Lasciate che il
contadino preghi l'elettricità, avvertirà il potere delle autorità più
di quello del cielo» disse Lenin nel 1918, discutendo con Leonid
Krasin riguardo all'elettrificazione della Russia. I rapporti fra il
nuovo regime e la Chiesa ortodossa si erano già deteriorati subito
dopo l'ascesa al potere dei bolscevichi. Il 5 febbraio 1918 il governo
bolscevico aveva decretato la separazione della Chiesa dallo Stato, e
della scuola dalla Chiesa, proclamato la libertà di coscienza e di
culto, annunciato la nazionalizzazione dei beni della Chiesa. Contro
questo attentato al ruolo tradizionale della confessione ortodossa,
che sotto lo zarismo era religione di Stato, il patriarca Tihon aveva
protestato con vigore in quattro lettere pastorali ai credenti. I
bolscevichi moltiplicarono le provocazioni, «sottoponendo a perizia»
le reliquie dei santi, cioè profanandole, organizzando «carnevali
antireligiosi» durante le grandi feste religiose, imponendo che il
grande monastero della Trinità, nei dintorni di Mosca, dove erano
conservate le reliquie di San Sergio da Radonez, fosse trasformato in
museo dell'ateismo. In questo clima già teso, mentre molti preti e
vescovi erano stati arrestati per essersi opposti alle provocazioni,
con il pretesto della carestia i dirigenti bolscevichi, su iniziativa
di Lenin, lanciarono una vasta operazione politica contro la Chiesa.
Il 26 febbraio 1922 la stampa pubblicò un decreto del governo che
ordinava «la confisca immediata nelle chiese di tutti gli oggetti
preziosi d'oro e d'argento, e di tutte le pietre preziose che non
servono direttamente al culto»: «Questi oggetti saranno inviati agli
organi del commissariato del popolo per le Finanze, che li trasferirà
ai fondi della Commissione centrale di soccorso agli affamati». Le
operazioni di confisca incominciarono ai primi di marzo e furono
accompagnate da numerosi scontri fra le squadre incaricate di
prelevare i tesori delle chiese e i fedeli. I più gravi si
verificarono il 15 marzo 1922 a Sciuja, una cittadina industriale
della provincia di Ivanovo, dove i soldati spararono sulla folla dei
fedeli, uccidendo una decina di persone. Lenin prese a pretesto questa
strage per intensificare la campagna antireligiosa.
In una lettera del 19 marzo 1922 indirizzata ai membri dell'Ufficio
politico, spiegava con il suo tipico cinismo come si poteva sfruttare
la carestia per «colpire mortalmente il nemico alla testa»:
"Riguardo agli avvenimenti di Sciuja, che saranno discussi all'Ufficio
politico, secondo me va presa una ferma decisione fin da ora, nel
quadro del piano generale di lotta su questo fronte.... Se si pensa a
quanto riferiscono i giornali sull'atteggiamento del clero rispetto
alla campagna di confisca dei beni della Chiesa, e sulla presa di
posizione sovversiva del patriarca Tihon, risulta evidente che il
clero delle Centurie nere sta mettendo in atto un piano studiato per
infliggerci proprio in questo momento una sconfitta decisiva....
Ritengo che il nemico stia commettendo un errore strategico madornale.
Infatti il momento attuale è straordinariamente favorevole a noi, e
non a loro. Abbiamo novantanove possibilità su cento di sferrare al
nemico un colpo mortale alla testa ottenendo il successo, e di
assicurarci per i prossimi decenni le posizioni che vogliamo. Con
tutta questa gente affamata che si nutre di carne umana, con le vie
disseminate di centinaia, migliaia di cadaveri, ora e solo ora
possiamo (e di conseguenza dobbiamo) confiscare i beni della Chiesa
con un'energia brutale, spietata. E' proprio adesso e soltanto adesso
che l'immensa maggioranza delle masse contadine può sostenerci, o più
esattamente, che non può essere in grado di sostenere il pugno di
preti delle Centurie nere e di piccoli borghesi reazionari... Possiamo
così procurarci un tesoro di molte centinaia di milioni di rubli oro
(pensate alle ricchezze di certi monasteri!). Senza questo tesoro, non
è immaginabile eseguire i compiti dello Stato in generale,
ristrutturare l'economia in particolare, e difendere le nostre
posizioni. Dobbiamo impadronirci a tutti i costi di questo tesoro di
molte centinaia di milioni di rubli (forse anche di molti miliardi!).
Si può fare con successo soltanto adesso. Tutto fa pensare che in un
altro momento non raggiungeremmo i nostri scopi, perché soltanto la
disperazione generata dalla fame può indurre un atteggiamento
benevolo, o almeno neutrale, delle masse nei nostri confronti...
Perciò sono giunto alla conclusione categorica che è il momento di
annientare il clero delle Centurie nere con la massima decisione e
spietatezza, con una brutalità tale da fargliela ricordare per
decenni. Prevedo di mettere in atto il nostro piano in questo modo:
ufficialmente i provvedimenti saranno adottati soltanto dal compagno
Kalinin. Il compagno Trotsky non dovrà comparire sulla stampa o in
pubblico... Uno dei membri più energici e più intelligenti del
Comitato esecutivo centrale dovrà essere inviato ... a Sciuja, con
istruzioni verbali di un membro dell'Ufficio politico. Tali istruzioni
stabiliranno che la sua missione a Sciuja è di arrestare il maggior
numero possibile di membri del clero, piccoli borghesi e borghesi,
almeno qualche dozzina, con l'accusa di partecipazione diretta o
indiretta alla resistenza violenta contro il decreto sulla confisca
dei beni della Chiesa. Al ritorno dalla missione, tale responsabile
renderà conto all'Ufficio politico in assemblea plenaria, oppure a due
dei suoi membri. Sulla base del rapporto, l'Ufficio politico darà
dettagliati ordini verbali alle autorità giudiziarie, affinché il
processo dei ribelli di Sciuja venga eseguito il più in fretta
possibile, e si risolva soltanto con l'esecuzione per fucilazione di
un ingente numero di membri delle Centurie nere di Sciuja, ma anche di
Mosca e di altri centri religiosi... Più sarà ingente il numero dei
rappresentanti del clero passati per le armi, meglio sarà per noi.
Dobbiamo dare immediatamente una lezione a tutte le persone di questo
genere, in modo tale che per decenni non tentino nemmeno più di
opporre resistenza...".
Come attestano i rapporti settimanali della polizia politica, la
campagna di confisca dei beni della Chiesa raggiunse l'apogeo in
marzo, aprile e maggio del 1922, provocando 1414 incidenti registrati,
e l'arresto di parecchie migliaia di sacerdoti, monaci e monache.
Secondo fonti ecclesiastiche, nel 1922 furono uccisi 2691 preti, 1962
monaci e 3447 monache. Il governo organizzò molti grandi processi
pubblici ai membri del clero a Mosca, Ivanovo, Sciuja, Smolensk e
Pietrogrado. In ottemperanza agli ordini di Lenin, il 22 marzo, una
settimana dopo gli incidenti di Sciuja, l'Ufficio politico propose una
serie di provvedimenti: «Arrestare il sinodo e il patriarca, non
subito ma fra 15-25 giorni. Rendere pubbliche le circostanze del caso
di Sciuja. Entro una settimana far processare i preti e i laici di
Sciuja. Fucilare i sobillatori della ribellione». In una nota
all'Ufficio politico, Dzerzinskij segnalava: «Il patriarca e la sua
banda ... si oppongono apertamente alla confisca dei beni della
Chiesa. ... Già ora ci sono motivi più che sufficienti per arrestare
Tihon e i membri più reazionari del sinodo. La G.P.U. ritiene che: 1)
sia opportuno arrestare il sinodo e il patriarca; 2) non si debba
autorizzare la designazione di un nuovo sinodo; 3) qualsiasi prete che
si opponga alla confisca dei beni della Chiesa dovrebbe essere
condannato come nemico del popolo al domicilio coatto nelle regioni
del Volga più colpite dalla carestia». A Pietrogrado furono
condannati ai lavori forzati 76 ecclesiastici e 4 vennero giustiziati,
fra cui il metropolita Benjamin, eletto nel 1917, il quale, pur
essendo molto vicino al popolo, aveva perorato calorosamente l'idea
della separazione fra Stato e Chiesa. A Mosca, 148 fra ecclesiastici e
laici furono condannati ai lavori forzati e 6 alla pena capitale,
eseguita immediatamente. Il patriarca Tihon fu posto in domicilio
coatto al monastero Donskoj di Mosca.
Qualche settimana dopo queste parodie giudiziarie, il 6 giugno 1922 si
aprì a Mosca un grande processo politico, annunciato sulla stampa il
26 febbraio: 34 socialisti rivoluzionari erano accusati di «attività
controrivoluzionarie e terroristiche contro il governo sovietico», fra
le quali figuravano in particolare l'attentato del 31 agosto 1918
contro Lenin e la «direzione politica» della rivolta contadina di
Tambov. La prassi seguita fu la stessa che sarebbe stata ampiamente
usata negli anni Trenta: gli imputati erano un insieme eterogeneo di
autentici dirigenti politici, fra cui 12 membri del Comitato centrale
del Partito socialista rivoluzionario, diretto da Avram Goc e Dmitrij
Donskoj, e di agenti provocatori incaricati di testimoniare contro i
coimputati e di «confessare i propri crimini». Questo processo permise
anche, come scrive Hélène Carrère d'Encausse, di «sperimentare il
metodo delle accuse inscatolate una dentro l'altra come bambole russe,
che partendo da un fatto preciso - dal 1918 i socialisti rivoluzionari
si opponevano davvero all'assolutismo della gestione bolscevica -
afferma il principio ... che in ultima analisi qualsiasi opposizione
equivale alla collaborazione con la borghesia internazionale».
Il 7 agosto 1922, come risultato di questo processo farsa, durante il
quale le autorità inscenarono manifestazioni popolari reclamando la
pena di morte per i «terroristi», 11 degli accusati, e precisamente i
dirigenti del Partito socialista rivoluzionario, furono condannati
alla pena capitale. Di fronte alle proteste della comunità
internazionale mobilitata dai socialisti russi in esilio, e più ancora
di fronte alla minaccia concreta di una ripresa delle insurrezioni
nelle campagne dove rimaneva vivace lo «spirito socialista
rivoluzionario», l'esecuzione delle sentenze fu sospesa «a patto che
il Partito socialista rivoluzionario cessasse qualsiasi attività
sovversiva, terrorista e insurrezionale». Nel gennaio del 1924 le
condanne a morte furono commutate in cinque anni di internamento in
campo di concentramento. Tuttavia i condannati non vennero mai
liberati, e furono giustiziati negli anni Trenta, in un momento in cui
la dirigenza bolscevica non teneva più in alcun conto né l'opinione
pubblica internazionale né il pericolo di insurrezioni contadine.
In occasione del processo ai socialisti rivoluzionari era stato
applicato il nuovo Codice penale, entrato in vigore il primo giugno
1922. Lenin aveva seguito con molta attenzione l'elaborazione del
codice, che doveva legalizzare la violenza esercitata contro i nemici
politici, dato che ufficialmente la fase delle eliminazioni
sbrigative, giustificate dalla guerra civile, si era conclusa. Dopo
aver esaminato i primi abbozzi, Lenin fece delle osservazioni, e il 15
maggio 1922 le inviò a Kurskij, il commissario del popolo per la
Giustizia: «Secondo me bisogna estendere la condanna alla fucilazione
(con la commutazione in esilio) a tutte le forme di attività dei
menscevichi, "dei socialisti rivoluzionari eccetera". Trovare una
formulazione che ponga queste attività "in relazione" con la
"borghesia internazionale"». Due giorni più tardi, Lenin scriveva
nuovamente:
"Compagno Kurskij, voglio aggiungere al nostro colloquio questa bozza
per un paragrafo supplementare del Codice penale ... L'essenziale è
chiaro, credo. Bisogna affermare apertamente, intendo in senso
politico, e non in termini strettamente giuridici, il principio che
motiva l'essenza e la giustezza del terrore, la sua necessità, i suoi
limiti. Il tribunale non deve sopprimere il terrore, dirlo
equivarrebbe a mentirsi o a mentire, ma dargli un fondamento,
legalizzarlo in base a dei principi, con chiarezza, senza barare o
nascondere la verità. La formulazione deve essere il più aperta
possibile, perché solo la coscienza legale rivoluzionaria e la
coscienza rivoluzionaria creano le condizioni per applicarlo nei
fatti".
Seguendo le istruzioni di Lenin, il Codice penale identificava il
reato controrivoluzionario con qualsiasi atto «inteso ad abbattere o a
indebolire il potere dei soviet operai e contadini stabilito dalla
rivoluzione proletaria», ma anche con qualsiasi atto che contribuisse
«ad aiutare il partito della borghesia internazionale, il quale non
riconosce l'eguaglianza dei diritti del sistema comunista di proprietà
succeduto al sistema capitalista, e cerca di rovesciarlo con la forza,
l'intervento militare, il blocco, lo spionaggio, il finanziamento alla
stampa e altri mezzi simili».
Erano punibili con la morte non solo tutte le attività (rivolta,
sommossa, sabotaggio, spionaggio eccetera) che potevano essere
qualificate come «atti controrivoluzionari», ma anche la
partecipazione e il supporto prestato a un'organizzazione «nel senso
di aiuto a un partito della borghesia internazionale». Era considerata
un crimine controrivoluzionario punibile con la privazione della
libertà «che non potrebbe essere inferiore a tre anni» o la messa al
bando definitiva anche la «propaganda in favore di un partito della
borghesia internazionale».
Nel quadro della legalizzazione della violenza intrapresa all'inizio
del 1922, va citato il fatto che la polizia politica cambiò nome. Il 6
febbraio 1922 un decreto aboliva la Ceka e la sostituiva subito con la
G.P.U. ("Gosudarstzlennoe politiceskoe upravlenie", Amministrazione
politica statale), che dipendeva dal commissariato del popolo per gli
Interni. Pur cambiando il nome, i responsabili e le strutture
rimanevano identici, e questo attesta con chiarezza la continuità
dell'istituzione. Che cosa poteva significare allora il cambiamento di
etichetta? Nominalmente la Ceka era una commissione straordinaria, e
questo suggeriva il carattere transitorio della sua esistenza e di
quanto la giustificava. G.P.U. (pronunciato "ghepeù") suggeriva invece
che lo Stato doveva disporre di istituzioni normali e permanenti di
controllo e di repressione politica. Dietro al cambiamento del nome si
delineavano la perpetuazione e la legalizzazione del terrore come
sistema per risolvere i rapporti conflittuali fra il nuovo Stato e la
società.
Una delle disposizioni inedite del nuovo Codice penale era la messa al
bando definitiva, con divieto di rientrare in URSS, sotto pena di
messa a morte immediata. Fu attuata a partire dall'autunno del 1922,
in seguito a una grande operazione di espulsione che colpì quasi
duecento intellettuali di fama sospettati di opporsi al bolscevismo.
Fra questi spiccavano tutti coloro che avevano fatto parte del
Comitato di lotta contro la carestia, sciolto il 27 luglio 1921.
Il 20 maggio 1922, in una lunga lettera a Dzerzinskij, Lenin espose un
vasto piano di «esilio degli scrittori e dei professori che hanno
aiutato la controrivoluzione». «Bisogna preparare la cosa più
accuratamente» scriveva Lenin. «Convocare a Mosca una riunione con
Messing, Mantsev e ancora qualche altro. Impegnare i membri
dell'Ufficio politico e dedicare due o tre ore alla settimana
all'esame di una serie di pubblicazioni e di libri.... Raccogliere
sistematicamente informazioni sull'anzianità politica, il lavoro e
l'attività letteraria dei professori e degli scrittori.»
E Lenin faceva un esempio:
"Tutt'altra cosa è la rivista di Pietrogrado, l'«Ekonomist», edita
dall'undicesima sezione della Società tecnica russa. Quello, secondo
me, è un vero centro di Guardie bianche. Nel n. 3 ( soltanto nel
terzo!!! Nota bene!) è pubblicato sulla copertina l'elenco dei
collaboratori. Questi, penso, sono quasi tutti legittimi candidati
all'esilio. Sono tutti controrivoluzionari dichiarati, complici
dell'Intesa, appartengono a un'organizzazione di servi e spie
dell'Intesa, di corruttori della gioventù studiosa. Bisogna fare in
modo da acciuffare continuamente e sistematicamente queste «spie
militari» e esiliarle".
Il 22 maggio l'Ufficio politico istituì una commissione speciale di
cui facevano parte Kamenev, Kurskij, Unshliht, Mancev (due assistenti
diretti di Dzerzinskij), incaricata di schedare un certo numero di
intellettuali per arrestarli e poi espellerli. I primi a essere
espulsi, nel giugno del 1922, furono i due principali dirigenti
dell'ex Comitato sociale di lotta contro la carestia, Sergej
Prokopovic ed Ekaterina Kuskova. Un primo gruppo di 160 famosi
intellettuali, filosofi, scrittori, storici, professori universitari,
arrestati fra il 16 e il 17 agosto, fu espulso via mare in settembre.
Tra gli altri vi erano alcuni nomi che avevano già acquisito o
dovevano acquisire fama internazionale: Nikolaj Berdjaev, Sergej
Bulgakov, Sem‰n Frank, Nikolaj Loskij, Lev Karsavin, Fedor Stepun,
Sergej Trubeckoj, Aleksandr Izgoev, Ivan Lapscin, Mihail Osorgin,
Aleksandr Kisvetter. Dovettero tutti firmare un documento in cui si
affermava che in caso di ritorno in Russia sarebbero stati
immediatamente fucilati. Gli espulsi erano autorizzati a portare con
sé un cappotto e un soprabito, un abito, la biancheria di ricambio,
due camicie e due camicie da notte, due paia di mutande, due di calze!
Oltre a questi effetti personali, ogni espulso poteva tenere con sé 20
dollari in valuta.
Contemporaneamente alle espulsioni, la polizia politica continuava la
schedatura di tutti gli intellettuali di secondo piano sospetti,
destinati alla deportazione amministrativa in zone remote del paese,
legalizzata da un decreto del 10 agosto 1922, oppure all'internamento
nei campi di concentramento. Il 5 settembre 1922 Dzerzinskij scrisse
al suo vice Unshliht:
"Compagno Unshliht! Nell'ambito della schedatura dell'intellighenzia,
le cose sono ancora assai artigianali! Da quando Agranov è andato via,
non abbiamo più un responsabile competente in questo settore.
Zarajskij è un po' troppo giovane. Mi sembra che per andare avanti la
faccenda dovrebbe essere presa in mano dal compagno Menzinskij ... E'
indispensabile preparare un buon piano di lavoro, che correggeremo e
completeremo regolarmente. Bisogna classificare tutta l'intellighenzia
in gruppi e sottogruppi: 1) scrittori; 2) giornalisti e politici; 3)
economisti (indispensabile fare dei sottogruppi: a) finanziari; b)
specialisti dell'energia; c) specialisti dei trasporti; d)
commerciali; e) specialisti della cooperazione eccetera); 4) tecnici
specialisti (anche in questo caso si impongono dei sottogruppi: a)
ingegneri; b) agronomi; c) medici eccetera); 5) professori
universitari, loro assistenti eccetera. Le informazioni su tutti
questi signori devono pervenire alle nostre sezioni ed essere
sintetizzate dalla divisione «Intellighenzia». Ogni intellettuale deve
avere il suo fascicolo presso di noi.... Bisogna tenere sempre
presente che il nostro dipartimento non ha soltanto il compito di
espellere o di arrestare degli individui, ma anche di contribuire
all'elaborazione della linea politica generale rispetto agli
specialisti: tenerli sotto stretta sorveglianza, dividerli, ma anche
promuovere quelli che sono pronti, non solo a parole ma concretamente,
a sostenere il potere sovietico".
Alcuni giorni dopo, Lenin inviò un lungo memorandum a Stalin, in cui
con il suo senso maniacale per i particolari si dilungava sulla
«ripulitura definitiva» della Russia da tutti i socialisti, gli
intellettuali, i liberali e altri «signori»:
"Riguardo alla questione dell'espulsione dei menscevichi, dei
socialisti popolari, dei cadetti eccetera mi piacerebbe fare alcune
domande sul perché questo provvedimento, che si era avviato prima
della mia partenza, non si è ancora concluso. E' stato deciso di
estirpare tutti i socialisti popolari? Pecehonov, Mjakotin, Gornfel'd,
Petriscev e gli altri? Penso che dovrebbero essere tutti espulsi. Sono
più pericolosi degli S.R. perché sono più astuti. E anche Potresov,
Izgoev e tutti quelli della rivista «Ekonomist» (Ozerov e molti
altri). I menscevichi Rozanov (medico, furbo), Vigdorcik (Migulo o
qualcosa del genere), Ljubov' Nikolaevna Radcenko e la sua giovane
figlia (a quanto si sostiene, le più perfide nemiche del bolscevismo),
N. A. Rozkov (deve essere espulso, è incorreggibile) ... La
Commissione Mancev-Messing dovrà stilare delle liste e molte centinaia
di questi signori dovranno essere espulsi senza pietà. Ripuliremo la
Russia una volta per tutte.... Tutti gli autori della Casa degli
scrittori, e anche del Pensiero (a Pietrogrado). Har'kov deve essere
ispezionata da cima a fondo, non abbiamo la minima idea di che cosa vi
accada, per noi è un paese straniero. La città deve essere ripulita in
modo radicale e rapido, non oltre la fine del processo agli S.R.
Occupatevi degli autori e degli scrittori di Pietrogrado (i loro
indirizzi compaiono su «Novaja Russkaja Misl'», n. 4, 1922, p. 37) e
anche della lista degli editori privati (p. 29). E' arcimportante!"
6.
DALLA TREGUA ALLA «GRANDE SVOLTA»
Per un po' meno di cinque anni, dall'inizio del 1923 alla fine del
1927, vi fu una pausa nello scontro fra il regime e la società. Gran
parte dell'attività politica dei dirigenti bolscevichi era
monopolizzata dalle lotte per la successione di Lenin, che era morto
il 24 gennaio 1924 ma che dal marzo del 1923 viveva ormai totalmente
isolato da qualsiasi attività politica in seguito al terzo attacco
cerebrale. Durante quei pochi anni la società lenì le sue ferite.
Durante la tregua i contadini, che rappresentavano oltre l'85 per
cento della popolazione, tentarono di ricostituire la rete degli
scambi, di ottenere di più dai frutti del loro lavoro e di vivere
«come se l'utopia contadina funzionasse», per usare la bella
espressione di Michael Confino, il grande storico del ceto rurale
russo. L'«utopia contadina», che i bolscevichi chiamavano volentieri
"eserovscina" - la traduzione più fedele sarebbe «mentalità socialista
rivoluzionaria» - si basava su principi che da decenni costituivano il
fondamento di tutti i programmi contadini: eliminazione dei
proprietari terrieri, ripartizione della terra in funzione delle
bocche da sfamare, libertà di disporre liberamente dei frutti del
proprio lavoro e libertà di commercio, autogoverno contadino
rappresentato dalla comunità di villaggio tradizionale, e presenza
esterna dello Stato bolscevico ridotta alla sua espressione più
semplice: un soviet rurale per un certo numero di villaggi e una
cellula del Partito comunista in un villaggio su cento!
Ripresero a funzionare i meccanismi di mercato, che erano stati
cancellati dal 1914 al 1922, e che ora venivano riconosciuti almeno in
parte dal potere, tollerati temporaneamente come segno di
«arretratezza» in un paese a maggioranza contadina. Subito ripresero
le migrazioni stagionali verso le città, frequentissime sotto il
vecchio regime; poiché l'industria di Stato trascurava il settore dei
beni di consumo, l'artigianato rurale ebbe un notevole sviluppo,
penuria e carestia si attenuarono e i contadini ricominciarono a
mangiare a sazietà.
Ma la calma apparente di quei pochi anni non poteva mascherare le
tensioni profonde sempre vive fra il regime e una società che non
aveva dimenticato la violenza di cui era stata vittima. Per i
contadini esistevano ancora molti motivi di malcontento. I prezzi
dei prodotti agricoli erano troppo bassi, i manufatti troppo cari e
troppo rari, le tasse troppo pesanti. Avevano la sensazione di essere
dei cittadini di seconda categoria rispetto agli abitanti dei centri
urbani e soprattutto agli operai, che spesso erano considerati dei
privilegiati. I contadini si lamentavano anche degli innumerevoli
abusi di potere compiuti dai rappresentanti di base del regime
sovietico, che si erano formati alla scuola del «comunismo di guerra».
Continuavano a subire l'arbitrio assoluto di un potere locale erede al
tempo stesso di una certa tradizione russa e delle pratiche
terroristiche degli anni precedenti. «Nell'apparato giudiziario, in
quello amministrativo e in quello poliziesco sono diffusissimi
l'alcolismo generalizzato, la pratica corrente delle bustarelle ... il
burocratismo e un atteggiamento di grossolanità generale rispetto alle
masse contadine» ammetteva un lungo rapporto della polizia politica
della fine del 1925 sulla «situazione della legalità socialista nelle
campagne».
Pur condannando gli abusi più evidenti dei rappresentanti del potere
sovietico, i dirigenti bolscevichi in genere continuavano a
considerare le campagne una "terra incognita" pericolosa, «un ambiente
formicolante di kulak, di socialisti rivoluzionari, di popi, di ex
proprietari terrieri non ancora eliminati», secondo l'espressione
immaginifica di un rapporto del capo della polizia politica della
provincia di Tula.
Come attestano i documenti del dipartimento Informazione della G.P.U.,
anche la classe operaia continuava a essere tenuta sotto stretta
sorveglianza. Dopo anni di guerra, di rivoluzione, di guerra civile,
la classe operaia era un gruppo sociale in via di ricostruzione, e
veniva ancora sospettato di mantenere dei legami con il mondo ostile
delle campagne. Gli informatori, presenti in tutte le industrie,
davano la caccia a intenzioni e atti devianti, a quegli «umori
contadini» che si presumeva gli operai riportassero in città quando
tornavano dal periodo di vacanza, durante il quale lavoravano nei
campi. I rapporti di polizia dividevano il mondo operaio in «elementi
ostili», senz'altro influenzati da gruppuscoli controrivoluzionari,
«elementi politicamente arretrati», di solito provenienti dalle
campagne, ed elementi degni di essere considerati «politicamente
coscienti». Interruzioni del lavoro e scioperi, abbastanza rari in
quegli anni in cui la disoccupazione era forte e chi aveva un lavoro
poteva contare su un tenore di vita relativamente migliore, venivano
studiati con cura; i sobillatori erano arrestati.
I documenti interni della polizia politica, oggi parzialmente
accessibili, mostrano che dopo anni di formidabile espansione questa
istituzione incontrava alcune difficoltà, dovute in particolare
all'interruzione dell'operazione intrapresa dai bolscevichi per
trasformare la società. Nel periodo 1924-1926 Dzerzinskij fu persino
costretto a battagliare duramente contro certi dirigenti secondo i
quali bisognava ridurre in modo drastico gli effettivi della polizia
politica, le cui attività erano in declino. Per la prima e unica
volta, fino al 1953, gli effettivi della polizia politica diminuirono
notevolmente. Nel 1921 la Ceka dava lavoro a 105 mila civili circa e a
quasi 180 mila militari di diversi corpi speciali, comprese le guardie
di confine, le Ceka adibite alle ferrovie e le guardie dei campi di
concentramento. Nel 1925 tali effettivi si erano ridotti a 26 mila
civili circa e a 63 mila militari. A queste cifre si aggiungevano
circa 30 mila informatori: allo stato attuale delle conoscenze
documentarie non si sa quanti fossero invece nel 1921. Nel
dicembre del 1924 Nikolaj Buharin scrisse a Feliks Dzerzinskij:
«Ritengo che dobbiamo passare con maggiore celerità a una forma più
"liberale" di potere sovietico: meno repressione, più legalità, più
discussioni, più potere locale (sotto la direzione del Partito,
ovviamente) eccetera».
Alcuni mesi dopo, il primo maggio 1925, il presidente del Tribunale
rivoluzionario Nikolaj Krylenko, che aveva presieduto la farsa
giudiziaria del processo ai socialisti rivoluzionari, inviò
all'Ufficio politico una lunga dichiarazione in cui criticava gli
abusi della G.P.U., che secondo lui eccedeva i diritti conferitile per
legge. In effetti, molti decreti emanati fra il 1922 e il 1923 avevano
limitato le competenze della G.P.U. ai casi di spionaggio, banditismo,
falsa moneta e «controrivoluzione». Per questi crimini la G.P.U. era
l'unico giudice e il suo Collegio speciale poteva comminare pene di
deportazione e di invio al confino (fino a tre anni), di internamento
in campo di concentramento o addirittura la pena di morte. Nel 1924,
su 62 mila incartamenti aperti dalla G.P.U., 52 mila e più erano stati
trasmessi ai tribunali ordinari. Gli organi giudiziari speciali della
G.P.U. avevano conservato oltre 9000 casi, una cifra considerevole
vista la congiuntura politica stabile; lo ricordava anche Nikolaj
Krylenko, che concludeva: «Le persone deportate e mandate al confino
in buchi sperduti della Siberia e senza un soldo vivono in condizioni
spaventose. Vi sono sia ragazzi di diciotto-diciannove anni degli
ambienti studenteschi, sia vecchi di settant'anni, soprattutto membri
del clero, e vecchie "appartenenti alle classi socialmente
pericolose"».
Perciò Krylenko proponeva di limitare la qualificazione di
«controrivoluzionario» solo ai membri riconosciuti dei «partiti
politici che rappresentano gli interessi della borghesia», onde
evitare «una interpretazione abusiva del termine da parte dei servizi
della G.P.U.».
Di fronte a queste critiche, Dzerzinskij e i suoi assistenti non
mancarono di tempestare i massimi dirigenti del Partito, e soprattutto
Stalin, di rapporti allarmistici sulla permanenza di gravi problemi
interni, di minacce separatiste orchestrate dalla Polonia, i paesi
baltici, la Gran Bretagna, la Francia e il Giappone. Secondo il
rapporto delle attività della G.P.U. per il 1924, la polizia politica
aveva:
"- arrestato 11453 «banditi», 1858 dei quali giustiziati sul posto;
- fermato 926 stranieri (espellendone 357) e 1542 «spie»;
- evitato una «insurrezione di Guardie bianche» in Crimea (132 persone
giustiziate nell'ambito di questo caso);
- effettuato 81 «operazioni» contro gruppi anarchici, conclusesi con
266 arresti;
- «liquidato» 14 organizzazioni mensceviche (540 arresti), 6
organizzazioni di socialisti rivoluzionari di destra (152 arresti), 7
organizzazioni di socialisti rivoluzionari di sinistra (52 arresti),
117 organizzazioni «varie di intellettuali» (1360 arresti), 24
organizzazioni «monarchiche» (1245 arresti), 85 organizzazioni
«clericali» o «settarie» (1765 arresti), 675 «gruppi di kulak» (1148
arresti);
- espulso, in due grandi operazioni, nel febbraio e nel luglio del
1924, circa 4500 «ladri», «recidivi» e «nepmen» (commercianti e
piccole imprese private) di Mosca e Leningrado;
- posto «sotto sorveglianza individuale» 18200 persone «socialmente
pericolose»;
- sorvegliato 15501 imprese e amministrazioni varie;
- letto 5.078.174 lettere e corrispondenze varie".
Fino a che punto sono affidabili questi dati, così burocraticamente
scrupolosi e precisi da sfiorare il ridicolo? Erano inseriti nel
progetto di bilancio della G.P.U. per il 1925, e avevano la funzione
di dimostrare che la polizia politica non abbassava la guardia davanti
alle minacce esterne e meritava quindi i fondi stanziati in suo
favore. Nonostante tutto sono preziosi per lo storico, perché al di là
delle cifre e delle categorie arbitrarie dimostrano che i metodi e i
nemici potenziali restavano immutati, così come la struttura,
momentaneamente meno attiva ma pur sempre operativa.
Malgrado i tagli di bilancio e alcune critiche di dirigenti
bolscevichi incoerenti, l'inasprimento della legislazione penale non
poteva non incoraggiare l'attivismo della G.P.U. Infatti i "Principi
fondamentali della legislazione penale dell'URSS", adottati il 31
ottobre 1924, proprio come il nuovo Codice penale del 1926,
allargavano sensibilmente la definizione di reato
controrivoluzionario, e codificavano il concetto di «persona
socialmente pericolosa». La legge includeva fra i reati
controrivoluzionari tutte le attività che, senza mirare direttamente a
rovesciare o indebolire il potere sovietico, erano di per se stesse
«in modo manifesto al delinquente» un «attentato alle conquiste
politiche o economiche della rivoluzione proletaria». Insomma, la
legge puniva non solo le intenzioni dirette, ma anche le intenzioni
eventuali o indirette.
Del resto era definita «socialmente pericolosa ... qualsiasi persona
responsabile di un atto pericoloso per la società, o i cui rapporti
con un ambiente criminale o l'attività passata comportano un
pericolo». Le persone accusate in base a questi criteri così
flessibili potevano essere condannate anche senza aver commesso alcuna
colpa. Lo si precisava chiaramente: «Il Tribunale può applicare misure
di protezione sociale alle persone riconosciute socialmente
pericolose, sia per aver commesso un reato specifico, sia nel caso in
cui, perseguite con l'accusa di aver compiuto un reato specifico,
vengano dichiarate innocenti dal Tribunale ma riconosciute socialmente
pericolose». Tutte queste disposizioni codificate nel 1926, fra le
quali compariva il famoso articolo 58 del Codice penale con i suoi 14
commi che definivano i reati controrivoluzionari, consolidavano la
base legale del terrore. Il 4 maggio 1926 Dzerzinskij inviò una
lettera al suo assistente Jagoda in cui esponeva un vasto programma di
«lotta contro la speculazione» che ben rivelava i limiti della NEP e
una certa persistenza fra i massimi dirigenti bolscevichi dello
«spirito da guerra civile»:
"La lotta contro la «speculazione» riveste oggi un'importanza
estrema.... E' indispensabile ripulire Mosca da parassiti e
speculatori. Ho chiesto a Pauker di raccogliermi tutta la
documentazione disponibile sulla schedatura degli abitanti di Mosca
riguardo a questo problema. Per il momento non ho ricevuto niente da
lui. Non pensa che alla G.P.U. dovrebbe essere costituito un
dipartimento speciale di colonizzazione, finanziato da un fondo
speciale alimentato con le confische...? Bisogna popolare le zone
inospitali del paese con i parassiti (e famiglia) delle nostre città,
seguendo un piano prestabilito approvato dal governo. Dobbiamo
ripulire le città a ogni costo dalle centinaia di migliaia di
speculatori e di parassiti che vi prosperano... Questi parassiti ci
divorano. Per colpa loro non ci sono merci per i contadini, per colpa
loro i prezzi salgono e il nostro rublo cala. La G.P.U. deve
affrontare il problema di petto e con la massima energia".
Una delle specificità del sistema penale sovietico era il fatto che
esistevano due tipi distinti di procedimento contro i reati penali,
uno giudiziario e l'altro amministrativo, e due strutture di
detenzione, una gestita dal commissariato del popolo per gli Interni,
l'altra dalla G.P.U. Accanto alle prigioni tradizionali, dove erano
rinchiusi i prigionieri condannati in base a un procedimento
giudiziario «ordinario», esisteva un complesso di campi gestiti dalla
G.P.U., dove venivano rinchiuse le persone condannate dagli organi
giudiziari speciali della polizia politica per crimini di sua
competenza: tutte le forme di reati controrivoluzionari, grande
banditismo, falsificazione monetaria, reati commessi da membri della
polizia politica.
Nel 1922 il governo propose alla G.P.U. di installare un vasto campo
nell'arcipelago delle Soloveckie, cinque isole del Mar Bianco al largo
di Arcangelo, la maggiore delle quali ospitava un grande monastero
della Chiesa ortodossa russa. Dopo aver cacciato i monaci, la G.P.U.
organizzò sull'arcipelago un complesso di campi raggruppati sotto la
sigla SLON ("Soloveckie lageri osobennogo naznacenija", Campi speciali
delle Soloveckie). I primi ospiti, provenienti dai campi di Holmogory
e Pertominsk, arrivarono alle Soloveckie all'inizio di luglio del
1923. Alla fine dell'anno vi erano già 4000 detenuti, 15 mila nel 1927
e quasi 38 mila alla fine del 1928.
Una peculiarità del complesso penitenziario delle Soloveckie era di
essere autogestito. A parte il direttore e alcuni responsabili, nel
campo erano i detenuti a svolgere tutte le mansioni. Nella stragrande
maggioranza si trattava di ex collaboratori della polizia politica
condannati per abusi particolarmente gravi. L'autogestione, praticata
da individui del genere, era sinonimo di arbitrio totale, e in breve
peggiorò il destino quasi privilegiato, in buona parte ereditato dal
vecchio regime, di cui beneficiavano i detenuti con lo status di
prigionieri politici. Sotto la NEP, l'amministrazione della G.P.U.
distingueva infatti tre categorie di detenuti.
Nella prima rientravano i politici, cioè soltanto i membri del Partito
menscevico, di quello socialista rivoluzionario e di quello anarchico;
nel 1921 questi detenuti avevano ottenuto un regime relativamente
clemente da Dzerzinskij, che sotto lo zarismo era stato a lungo
prigioniero politico e aveva trascorso quasi dieci anni in prigione o
in esilio: ricevevano un'alimentazione migliore, chiamata «razione
politica», conservavano alcuni effetti personali, potevano farsi
mandare giornali e riviste. Vivevano in comunità, e soprattutto erano
esentati da lavori forzati di qualsiasi genere. Questa condizione di
privilegio fu soppressa alla fine degli anni Venti.
La seconda categoria, la più numerosa, comprendeva i
«controrivoluzionari»: membri di partiti politici non socialisti,
membri del clero, ex ufficiali dell'esercito zarista, ex funzionari,
cosacchi, partecipanti alle insurrezioni di Kronstadt e di Tambov, e
qualsiasi altra persona condannata ai sensi dell'articolo 58 del
Codice penale.
Della terza categoria facevano parte i detenuti comuni condannati
dalla G.P.U. (banditi, falsari) e gli ex cekisti condannati dalla loro
istituzione per crimini e reati vari. I controrivoluzionari, costretti
a coabitare con i detenuti comuni che dettavano legge all'interno del
campo, erano sottoposti al più totale arbitrio, alla fame, al freddo
estremo in inverno, alle zanzare in estate (una delle torture più
frequenti consisteva nell'appendere le persone nude nei boschi, e
lasciarle in pasto alle zanzare, particolarmente numerose e temibili
in quelle isole settentrionali costellate di laghi). Per passare da un
settore all'altro, ricorda uno dei più celebri prigionieri delle
Soloveckie, lo scrittore Varlam Scialamov, i detenuti esigevano che
venissero loro legate le mani dietro la schiena e che questo fosse
espressamente previsto nel regolamento: «Era l'unico mezzo di
autodifesa dei detenuti contro la laconica formula "ucciso durante un
tentativo di evasione"».
Fu proprio nei campi delle Soloveckie che fu organizzato davvero, dopo
gli anni di improvvisazione della guerra civile, il sistema di lavoro
forzato che avrebbe conosciuto uno sviluppo folgorante a partire dal
1929. Fino al 1925 i detenuti furono impiegati, in modo non molto
produttivo, in vari lavori all'interno dei campi. A partire dal 1926
l'amministrazione decise di stipulare dei contratti di produzione con
un certo numero di organismi statali e di sfruttare più
«razionalmente» il lavoro forzato, diventato fonte di profitto e non
più - conformemente all'ideologia dei primi campi di «lavoro
correttivo» degli anni 1919-1920 - fonte di «rieducazione». I campi
delle Soloveckie, riorganizzati sotto la sigla USLON ("Upravlenie
severnyh Ingerej osobennogo naznacenija", Direzione dei campi speciali
del nord), si diffusero sul continente, incominciando dalle coste del
Mar Bianco. Nel 1926-1927 furono creati nuovi campi nei pressi della
foce della Pecora, a Kem', e in altri punti di quella costa inospitale
ma con un entroterra ricco di foreste. I detenuti erano incaricati di
eseguire un programma preciso di produzione, soprattutto il taglio dei
boschi e del legname. L'aumento esponenziale dei programmi di
produzione richiese ben presto un numero crescente di detenuti. Nel
giugno del 1929 essa indusse a riformare radicalmente il sistema
detentivo, trasferendo dalle prigioni ai campi di lavoro tutti i
prigionieri condannati a pene superiori ai tre anni. Questo
provvedimento diede un impulso formidabile ai campi di lavoro. I
«campi speciali» dell'arcipelago delle Soloveckie, laboratorio
sperimentale del lavoro forzato, furono senza dubbio la matrice di un
altro arcipelago in gestazione, un arcipelago immenso, adeguato
all'intero paese-continente: l'«Arcipelago Gulag».
***
Le attività ordinarie della G.P.U., con il loro lotto annuale di
alcune migliaia di condanne ai lavori forzati o al domicilio coatto,
non escludevano un certo numero di operazioni repressive speciali di
grande portata. In realtà negli anni calmi della NEP, dal 1923 al
1927, gli episodi di repressione più massicci e cruenti ebbero luogo
nelle repubbliche periferiche della Russia, in Transcaucasia e in Asia
centrale. Tali regioni in generale avevano resistito accanitamente
all'invasione russa nel diciannovesimo secolo ed erano state
riconquistate tardi dai bolscevichi: l'Azerbaigian nell'aprile del
1920, l'Armenia nel dicembre del 1920, la Georgia nel febbraio del
1921, il Daghestan alla fine del 1921, e il Turkestan, con Bukhara,
nell'autunno del 1920. Continuavano inoltre a opporre forte resistenza
alla sovietizzazione. «Controlliamo soltanto le città principali, anzi
il centro delle città principali» scriveva nel gennaio del 1923
Peters, l'inviato plenipotenziario della Ceka nel Turkestan. Dal 1918
alla fine del 1920, e in certe regioni fino al 1935-1936, la maggior
parte dell'Asia centrale, a eccezione delle città, era tenuta dai
"basmac". Il termine "basmac" (in usbeco, «brigante») era applicato
dai russi ai diversi tipi di partigiani, stanziali ma anche nomadi,
usbechi, kirghisi, turkmeni, che agivano in molte regioni
autonomamente gli uni dagli altri.
Il focolaio principale della rivolta era situato nella valle della
Fergana. Dopo la conquista di Bukhara da parte dell'Armata rossa nel
settembre del 1920, l'insurrezione si diffuse alla regione orientale e
a quella meridionale dell'ex emirato di Bukhara, e nella regione
settentrionale delle steppe turkmene. All'inizio del 1921 lo Stato
maggiore dell'Armata rossa calcolava che i "basmac" armati fossero 30
mila. La direzione del movimento era eterogenea, formata da capi
locali discendenti dai notabili di villaggio o di clan, da capi
religiosi tradizionali ma anche da nazionalisti musulmani estranei
alla regione, come Enver Pascià, l'ex ministro della Difesa della
Turchia, ucciso nel 1922 durante uno scontro con squadre della Ceka.
Il movimento dei "basmac" era un'insurrezione spontanea, istintiva,
contro «l'infedele», «l'oppressore russo», l'antico nemico ricomparso
sotto nuove spoglie, che non si proponeva soltanto di impadronirsi di
terre e bestiame, ma anche di profanare il mondo spirituale musulmano.
La lotta contro i "basmac", guerra di «pacificazione» a carattere
coloniale, mobilitò per oltre dieci anni una parte importante delle
forze armate e delle truppe speciali della polizia politica, che fra i
suoi principali dipartimenti aveva proprio il Dipartimento orientale.
Allo stato attuale è impossibile valutare, anche in maniera
approssimativa, il numero delle vittime di questa guerra.
Il secondo grande settore del Dipartimento orientale della G.P.U. era
la Transcaucasia. Nella prima metà degli anni Venti furono
particolarmente colpiti dalla repressione il Daghestan, la Georgia e
la Cecenia. Il Daghestan resistette alla penetrazione sovietica fino
alla fine del 1921. La confraternita musulmana della Naqshbandiyya,
sotto la direzione dello sceicco Uzun Hadzi, prese la guida di una
grande rivolta di montanari, e la lotta assunse il carattere di guerra
santa contro l'invasore russo. Durò più di un anno, ma certe regioni
furono «pacificate» soltanto nel 1923-1924, a costo di massicci
bombardamenti e di massacri di civili.
Dopo tre anni di indipendenza sotto un governo menscevico, la Georgia
fu occupata dall'Armata rossa nel febbraio del 1921, ma per esplicita
ammissione di Aleksandr Mjasnikov, segretario del Comitato del Partito
bolscevico della Transcaucasia, continuò a configurarsi come «un
problema abbastanza arduo». Al minuscolo Partito bolscevico locale,
che in tre anni di potere era riuscito a reclutare appena 10 mila
persone, si opponevano una fascia intellettuale e nobiliare nettamente
ostile ai bolscevichi, costituita da quasi 100 mila persone, e una
struttura menscevica ancora abbastanza forte: infatti nel 1920 il
partito menscevico contava oltre 60 mila aderenti. Nonostante il
terrore esercitato dall'onnipotente Ceka della Georgia, che godeva di
ampia autonomia da Mosca ed era capeggiata da un giovane dirigente di
polizia venticinquenne con un grande futuro davanti a sé, Lavrentij
Berija, alla fine del 1922 i dirigenti menscevichi in esilio
riuscirono a organizzare, insieme ad altri partiti antibolscevichi, un
Comitato segreto per l'indipendenza della Georgia, che preparò
un'insurrezione. Tale insurrezione incominciò il 28 agosto 1924 nella
cittadina di Ciatura, e vi parteciparono per la maggior parte
contadini della regione di Gori: nel giro di pochi giorni furono
conquistati 5 dei 25 distretti georgiani. Gli insorti dovettero
affrontare forze superiori dotate di artiglieria e di aviazione, e
furono sconfitti in una settimana. Lavrentij Berija e Sergo
Ordzonikidze, primo segretario del Comitato del Partito bolscevico
della Transcaucasia, approfittarono della scusa dell'insurrezione per
«farla finita una volta per tutte con il menscevismo e l'aristocrazia
georgiana». Secondo dati resi pubblici di recente, fra il 29 agosto e
il 5 settembre del 1924 furono fucilate 12578 persone. La repressione
assunse una tale portata da turbare persino l'Ufficio politico. La
direzione del Partito mandò un richiamo all'ordine a Ordzonikidze,
chiedendogli di non procedere a esecuzioni in massa sproporzionate e a
esecuzioni politiche senza l'esplicita autorizzazione del Comitato
centrale. Ciò nonostante le esecuzioni sommarie continuarono per mesi.
Davanti al plenum del Comitato centrale, riunitosi nell'ottobre del
1924 a Mosca, Sergo Ordzonikidze ammise: «Forse abbiamo esagerato un
po', ma non ci si può più far niente!».
Un anno dopo la repressione dell'insurrezione georgiana dell'agosto
del 1924, il regime lanciò una vasta operazione di «pacificazione»
della Cecenia, dove tutti concordavano sul fatto che il potere
sovietico non esisteva. Dal 27 agosto al 15 settembre 1925, oltre 10
mila uomini delle truppe regolari dell'Armata rossa, dirette dal
generale Uborevic e fiancheggiate da unità speciali della G.P.U.,
tentarono di disarmare i partigiani ceceni che controllavano l'interno
del paese. Furono prese decine di migliaia di armi, e quasi mille
«banditi» vennero arrestati. Di fronte alla resistenza della
popolazione, il dirigente della G.P.U. Unshliht ammise: «Le truppe
sono state costrette a ricorrere all'artiglieria pesante e al
bombardamento dei covi dei banditi più ostinati». Alla fine di questa
nuova operazione di «pacificazione», eseguita durante quello che si
suole chiamare «l'apogeo della NEP», Unshliht concludeva così il suo
rapporto: «Come ha dimostrato l'esperienza della lotta contro i
"basmac" in Turkestan, contro il banditismo in Ucraina, nella
provincia di Tambov e altrove, la repressione militare è efficace solo
nel caso in cui sia seguita da una profonda sovietizzazione del paese».
A partire dalla fine del 1926, dopo la morte di Dzerzinskij, la
G.P.U., diretta ormai da Vjaceslav Rudol'fovic Menzinskij, braccio
destro di Dzerzinskij e anch'egli di origine polacca, a quanto pare
incominciò di nuovo a essere molto sollecitata da Stalin, che
preparava contemporaneamente l'offensiva politica contro Trotsky e
Buharin. Nel gennaio del 1927 la G.P.U. ricevette l'ordine di
accelerare la schedatura degli «elementi pericolosi per la società e
antisovietici» nelle campagne. Nel giro di un anno il numero delle
persone schedate passò da 30 mila a 72 mila circa. Nel settembre del
1927 la G.P.U. lanciò in molte province campagne di arresti di kulak e
altri «elementi pericolosi per la società». A posteriori, queste
operazioni sembrano esercizi preparatori per le grandi retate della
«dekulakizzazione», effettuate nell'inverno 1929-1930.
Fra il 1926 e il 1927 la G.P.U. Si dimostrò molto attiva anche nella
caccia agli oppositori comunisti, catalogati come «zinovievisti» o
«trotzkisti». La pratica di schedare e seguire gli oppositori
comunisti era nata molto presto, nel periodo 1921-1922. Nel settembre
del 1923, per «rinsaldare l'unità ideologica del Partito», Dzerzinskij
aveva proposto che i comunisti si impegnassero a trasmettere alla
polizia politica qualsiasi informazione in loro possesso
sull'esistenza di frazioni o deviazioni in seno al Partito. La
proposta aveva suscitato una levata di scudi da parte di un certo
numero di responsabili, fra cui Trotsky. Ciò nonostante, negli anni
successivi l'abitudine di far sorvegliare gli oppositori si
generalizzò. Fra gennaio e febbraio del 1926 l'epurazione
dell'organizzazione comunista di Leningrado, diretta da Zinov'ev,
coinvolse ampiamente i servizi della G.P.U. Gli oppositori non furono
solo esclusi dal Partito, ma molte centinaia di essi vennero esiliati
in città remote del paese e continuarono a vivere in modo assai
precario, perché nessuno osava offrire loro lavoro. Nel 1927 la caccia
agli oppositori trotzkisti - alcune migliaia in tutto il paese -
mobilitò per mesi una parte dei servizi della G.P.U. Furono tutti
schedati e centinaia di attivisti vennero arrestati e poi esiliati con
un semplice provvedimento amministrativo. Nel novembre del 1927 furono
espulsi dal Partito e arrestati tutti i principali dirigenti
dell'opposizione: Trotsky, Zinov'ev, Kamenev, Radek, Rakovskij. Tutti
quelli che rifiutarono di fare pubblicamente autocritica furono
esiliati. Il 19 gennaio 1930 la «Pravda» annunciò la partenza da Mosca
di Trotsky e di un gruppo di trenta oppositori, esiliati ad Alma Ata.
Un anno dopo Trotsky fu bandito dall'URSS. La trasformazione di uno
dei principali artefici del terrore bolscevico in
«controrivoluzionario» apriva una nuova fase, sotto la guida del nuovo
uomo forte del Partito: Stalin.
All'inizio del 1928, subito dopo aver eliminato l'opposizione
trotzkista, la maggioranza staliniana dell'Ufficio politico decise di
rompere la tregua con la società, che le sembrava deviasse sempre più
dalla via su cui volevano condurla i bolscevichi. Come dieci anni
prima, il nemico principale restava l'immensa maggioranza contadina,
guardata come una massa ostile, incontrollata e incontrollabile.
Incominciò così il secondo atto della guerra contro la classe rurale
che, come osserva giustamente lo storico Andrea Graziosi, «fu comunque
abbastanza diverso dal primo. L'iniziativa era ormai interamente nelle
mani dello Stato, e l'attore sociale non poteva far altro che reagire,
sempre più debolmente, agli attacchi sferrati contro di lui».
Anche se nel complesso l'agricoltura si era risollevata dalla
catastrofe degli anni 1918-1922, alla fine degli anni Venti il «nemico
contadino» era più debole - e lo Stato più forte - che all'inizio del
decennio. Lo dimostrano, per esempio, la migliore informazione di cui
disponevano le autorità su quanto accadeva nei villaggi, la schedatura
degli «elementi estranei alla società», che permise alla G.P.U. di
portare a buon fine le prime retate durante la «dekulakizzazione», lo
sradicamento graduale ma effettivo del «banditismo», il disarmo dei
contadini, la crescita costante della percentuale di riservisti
presenti ai richiami periodici, lo sviluppo di una rete scolastica più
fitta. La corrispondenza fra i dirigenti bolscevichi e gli stenogrammi
delle discussioni al vertice del Partito rivelano che nel 1928 la
direzione staliniana - proprio come del resto i suoi oppositori
Buharin, Rykov e Kamenev - era pienamente consapevole dei rischi di un
nuovo attacco contro la classe contadina. «Avrete una guerra contadina
come nel 1918-1919» avvertì Buharin. Stalin era pronto, a qualunque
costo. Sapeva che questa volta il regime ne sarebbe uscito vincitore.
Alla fine del 1927 la «crisi dell'ammasso» fornì a Stalin il pretesto
cercato. Il mese di novembre del 1927 fu caratterizzato da un calo
spettacolare dei prodotti agricoli conferiti agli organismi statali
preposti, calo che in dicembre assunse proporzioni catastrofiche. Nel
gennaio del 1928 fu necessario arrendersi all'evidenza: nonostante il
raccolto fosse stato buono, i contadini avevano conferito solo 4
milioni 800 mila tonnellate, invece dei 6 milioni 800 mila dell'anno
precedente. Questa crisi, che Stalin definì subito «sciopero dei
kulak», si poteva spiegare con il calo dei prezzi offerti dallo Stato,
la penuria dei manufatti e il loro alto costo, la disorganizzazione
delle agenzie preposte all'ammasso e le voci di guerra; era causata
insomma dal malcontento generale dei contadini verso il regime.
Il gruppo staliniano ne approfittò per ricorrere di nuovo alle
requisizioni e a tutta una serie di misure repressive già sperimentate
ai tempi del comunismo di guerra. Stalin si recò personalmente in
Siberia. Altri dirigenti, come Andreev, Mikojan, Postyscev o Kosior
partirono per le grandi zone cerealicole: la regione delle Terre nere,
l'Ucraina e il Caucaso settentrionale. Il 14 gennaio 1928 l'Ufficio
politico inviò una circolare alle autorità locali, chiedendo loro di
«arrestare gli speculatori, i kulak e altri disorganizatori del
mercato e della politica dei prezzi». Nelle campagne furono inviati
«plenipotenziari» - già il termine ricordava le requisizioni degli
anni 1918-1921 - e distaccamenti di militanti comunisti, per epurare
le autorità locali giudicate compiacenti verso i kulak e per scovare
le eccedenze nascoste, se necessario con l'aiuto dei contadini poveri,
cui veniva promesso un quarto dei cereali trovati presso i «ricchi».
Uno dei provvedimenti destinati a penalizzare i contadini che non
volevano consegnare i prodotti agricoli nei termini prescritti e a
prezzi irrisori, equivalenti a un terzo o a un quarto di quelli di
mercato, consisteva nel raddoppiare, triplicare o quintuplicare le
quantità stabilite all'inizio. Si fece anche ampio ricorso
all'articolo 107 del Codice penale, che prevedeva una pena di tre anni
di prigione per qualsiasi azione che contribuisse a far salire i
prezzi. Per finire, in due anni le imposte sui kulak furono
decuplicate. Si procedette inoltre alla chiusura dei mercati, misura
che ovviamente non colpiva solo i contadini agiati. In poche settimane
tutti questi provvedimenti interruppero bruscamente la tregua fra il
regime e la classe contadina, che durava bene o male dal 1922-1923. Le
requisizioni e le misure repressive ebbero soltanto l'effetto di
aggravare la crisi: nell'immediato le autorità riuscirono a
raccogliere con la forza una quantità di prodotti appena inferiore a
quella del 1927, ma per l'anno successivo, come ai tempi del comunismo
di guerra, i contadini reagirono diminuendo il seminato.
La «crisi dell'ammasso» dell'inverno 1927-1928 ebbe un'influenza
determinante per la svolta che presero gli avvenimenti in seguito:
infatti Stalin ne trasse tutta una serie di conclusioni sulla
necessità di creare nelle campagne delle «fortezze del socialismo»
(immensi kolhoz e sovhoz), di collettivizzare l'agricoltura per poter
avere il controllo diretto sulla produzione agricola e i produttori
senza essere costretti a tener conto delle leggi di mercato, e di
sbarazzarsi una volta per tutte dei kulak, «liquidandoli come classe».
Nel 1928 il regime ruppe anche la tregua che aveva concluso con
un'altra categoria sociale, gli "spec", cioè gli «specialisti
borghesi» provenienti dall'intellighenzia del vecchio regime, che alla
fine degli anni Venti occupavano ancora la stragrande maggioranza dei
quadri intermedi sia nelle industrie sia nelle amministrazioni. In
occasione del plenum del Comitato centrale dell'aprile del 1928 fu
annunciato che nella regione di Sciahty, un bacino carbonifero del
Donbass, era stata scoperta un'impresa di «sabotaggio industriale»
all'interno del cartello Donugol'; l'impresa dava lavoro a
«specialisti borghesi» e intratteneva rapporti con gli ambienti
finanziari occidentali. Qualche settimana dopo, 53 imputati, in
maggioranza ingegneri e funzionari, comparvero in giudizio nel primo
processo politico dopo quello intentato ai socialisti rivoluzionari
del 1922. Undici imputati furono condannati a morte e cinque
giustiziati. Il processo esemplare, di cui la stampa si occupò
diffusamente, illustrava uno dei miti principali del regime, quello
del «sabotatore al soldo dello straniero» che sarebbe servito a
mobilitare militanti e informatori della G.P.U., e a «spiegare» tutti
gli insuccessi economici, ma che avrebbe anche permesso di
«sequestrare» quadri per i nuovi «uffici speciali di costruzione della
G.P.U.», diventati famosi con il nome di "sciarashkin". Migliaia di
ingegneri e di tecnici condannati per sabotaggio scontarono la pena
nei cantieri e nelle imprese del primo piano quinquennale. Nei mesi
successivi al processo di Sciahty, il dipartimento economico della
G.P.U. fabbricò diverse decine di casi analoghi, soprattutto in
Ucraina. Solo nel complesso metallurgico Jugostal' di Dnepropetrovsk,
nel corso del mese di maggio del 1928 furono arrestati 112 quadri.
I quadri industriali non furono l'unico bersaglio della vasta
operazione contro gli specialisti lanciata nel 1928. Parecchi
professori e studenti di origine «estranea alla società» furono
esclusi dagli istituti di istruzione superiore in occasione di una
delle molte campagne di epurazione delle università e di promozione di
una nuova «intellighenzia rossa e proletaria».
L'inasprimento della repressione e le difficoltà economiche degli
ultimi anni della NEP, caratterizzati da una crescente disoccupazione
e dall'incremento della criminalità, ebbero come risultato un aumento
spettacolare del numero delle condanne penali: 578 mila nel 1926, 709
mila nel 1927, 909 mila nel 1928, un milione 178 mila nel 1929.
Per tentare di arginare questo flusso che ingorgava le prigioni, dove
nel 1928 potevano essere ospitate solo 150 mila persone, il governo
adottò due importanti decisioni. La prima, promulgata con il Decreto
del 26 marzo 1928, prevedeva che per i reati minori la reclusione di
breve durata fosse sostituita da lavori correttivi svolti senza
remunerazione «nelle industrie, nei cantieri, nello sfruttamento
boschivo». Il secondo provvedimento, emanato con il Decreto del 27
giugno 1929, doveva avere conseguenze enormi. Prevedeva infatti che
tutti i detenuti nelle prigioni condannati a pene superiori a tre anni
fossero trasferiti in campi di lavoro il cui obiettivo era di
«valorizzare le ricchezze naturali delle regioni orientali e
settentrionali del paese». L'idea era nell'aria da diversi anni. La
G.P.U. si era impegnata in un vasto programma di produzione di legname
per l'esportazione e aveva già chiesto a svariate riprese altra
manodopera alla Direzione principale dei luoghi di detenzione del
commissariato del popolo per gli Interni, che gestiva le prigioni
comuni; i «suoi» prigionieri dei campi speciali delle Soloveckie, 38
mila nel 1928, non erano infatti sufficienti per realizzare la
produzione prevista.
La preparazione del primo piano quinquennale pose all'ordine del
giorno i problemi di ripartizione della manodopera e di sfruttamento
delle regioni inospitali ma ricche di risorse naturali. In
quest'ottica, la manodopera penitenziaria fino ad allora inutilizzata,
se sfruttata adeguatamente poteva diventare una vera ricchezza:
controllarla e gestirla avrebbe fruttato soldi, influenza e potere. I
dirigenti della G.P.U., soprattutto Menzinskij e il suo vice Jagoda,
erano pienamente consapevoli della posta in gioco e godevano
dell'appoggio di Stalin. Nell'estate del 1929 misero a punto un
ambizioso piano di «colonizzazione» della regione di Narym, nella
Siberia occidentale, che si estendeva su 350 mila chilometri quadrati
di taiga, e non cessarono di reclamare l'applicazione immediata del
Decreto del 27 giugno 1929. In questo contesto nacque l'idea della
«dekulakizzazione», vale a dire la deportazione in massa di tutti
coloro che venivano considerati contadini agiati. Negli ambienti
ufficiali si pensava infatti che i kulak si sarebbero senz'altro
opposti con forza alla collettivizzazione.
Tuttavia, Stalin e i suoi sostenitori impiegarono un anno intero per
vincere le resistenze opposte anche in seno alla direzione del Partito
alla politica di collettivizzazione forzata, di dekulakizzazione e di
industrializzazione accelerata, tre elementi inscindibili di un
programma coerente di trasformazione brutale dell'economia e della
società. Questo programma era basato sul blocco dei meccanismi di
mercato, l'espropriazione delle terre dei contadini e la
valorizzazione delle ricchezze naturali delle regioni inospitali del
paese per mezzo del lavoro forzato di milioni di proscritti,
«dekulakizzati» e altre vittime di questa «seconda rivoluzione».
L'opposizione detta «di destra», guidata in particolare da Rykov e
Buharin, riteneva che la collettivizzazione avrebbe avuto come
conseguenze inevitabili lo «sfruttamento militar-feudale» della classe
contadina, la guerra civile, l'imperversare del terrore, il caos e la
carestia: fu battuta nell'aprile del 1929. Nell'estate di quell'anno
la stampa attaccò quotidianamente i «destrorsi» con una campagna di
rara violenza, accusandoli di «collaborazione con gli elementi
capitalisti» e di «collusione con i trotzkisti». Alla fine, totalmente
screditati, gli oppositori fecero pubblica autocritica al plenum del
Comitato centrale del novembre del 1929.
Mentre al vertice si svolgevano i diversi episodi della lotta fra chi
sosteneva e chi negava la necessità di abbandonare la NEP, il paese
piombava in una crisi economica sempre più profonda. Nel 1928-1929 la
produzione agricola diede risultati catastrofici. Nonostante il
ricorso sistematico a tutto un arsenale di misure coercitive che
colpivano i contadini nel loro complesso - forti multe, pene detentive
per chi rifiutava di vendere i suoi prodotti agli organismi statali -,
la campagna di ammasso produsse assai meno cereali della precedente,
creando allo stesso tempo un clima di estrema tensione nelle campagne.
Dal gennaio del 1928 al dicembre del 1929, cioè prima della
collettivizzazione forzata, la G.P.U. registrò oltre 1300 sommosse e
«manifestazioni di massa» nelle campagne, durante le quali furono
arrestate decine di migliaia di contadini. Un'altra cifra attesta il
clima che regnava allora nel paese: nel 1929 oltre 3200 funzionari
sovietici furono vittime di «atti terroristici». Nel febbraio del 1929
le tessere annonarie, che erano scomparse dall'inizio della NEP,
ricomparvero nelle città, dove c'era carenza di tutto da quando le
autorità avevano chiuso la maggior parte delle attività di piccolo
commercio e delle botteghe artigiane, definite imprese
«capitalistiche».
Per Stalin la situazione critica dell'agricoltura era dovuta
all'azione dei kulak e di altre forze ostili che si accingevano a
«minare il potere sovietico». La posta in gioco era chiara: i
«capitalisti rurali» o i kolhoz! Nel giugno del 1929 il governo
annunciò l'inizio di una nuova fase, quella della «collettivizzazione
di massa». Gli obiettivi del primo piano quinquennale, ratificato in
aprile dal Sedicesimo Congresso del Partito, furono rivisti e
accresciuti. Inizialmente il piano prevedeva entro la fine del
quinquennio la collettivizzazione di 5 milioni di focolari, cioè il 20
per cento circa delle colture. In giugno fu annunciato un obiettivo di
8 milioni di focolari per il solo 1930: in settembre di 13 milioni!
Durante l'estate del 1929 le autorità mobilitarono decine di migliaia
di comunisti, sindacalisti, membri delle organizzazioni comuniste
giovanili (i komsomol), operai e studenti, mandandoli a lavorare nei
villaggi sotto la direzione dei responsabili locali del Partito e
degli agenti della G.P.U. Le pressioni sui contadini continuarono a
intensificarsi, mentre le organizzazioni locali del Partito
rivaleggiavano in zelo per battere i primati di collettivizzazione. Il
31 ottobre 1929 la «Pravda» chiedeva la «collettivizzazione totale»,
senza alcun limite all'operazione. Una settimana dopo, in occasione
del dodicesimo anniversario della Rivoluzione, Stalin pubblicò il suo
famoso articolo "La grande svolta", basato su una valutazione
sostanzialmente errata secondo cui «il contadino medio si era
orientato verso i kolhoz». La NEP aveva fatto il suo tempo.
Ultima modifica 05.12.2003