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Marcos

Il sogno zapatista

 


IL MONDO DI NUOVO INCANTATO.

Il mondo di nuovo incantato
Marcos e i suoi specchi
Il passo avanti degli zapatisti
L'indio, moderno emblema dell'universale
Una ribellione che viene dai confini. I dati
Lo sconvolgimento del mondo maya
La metamorfosi della lotta armata
Democrazia, comunità e nazione
Pericoli e incertezze
Il mondo di nuovo incantato parte da La Realidad.

Marcos e i suoi specchi
Figli della notte e della foresta, gli uomini e le donne zapatisti hanno saputo porre, con forza e immaginazione superiori a qualsiasi altro movimento, una questione fondamentale per il mondo d'oggi: come possono combinarsi democrazia e identità?

Il primo gennaio 1994, il Messico e il resto del nostro pianeta assistevano, stupefatti, all'occupazione di città e villaggi del Chiapas, nel Sud del paese, da parte di questi guerriglieri «usciti dal nulla». I meno sorpresi non erano senz'altro i turisti, i quali di certo non si aspettavano che il programma organizzato dalle agenzie di viaggio - «in mattinata visita allo splendido mercato di San Cristobal, la città dove scendono gli indios dei villaggi nei dintorni» [1] - prendesse una piega simile.

Il «Messico moderno», che proprio quel giorno celebrava il suo ingresso nel «primo mondo» [2], credeva di avere ormai chiuso con gli indios, di averli ormai definitivamente relegati al ruolo di pezzi da museo, di curiosità per i turisti. E i «neoindios» che si esibiscono in danze precolombiane davanti al Templo Mayor a Città del Messico, le folle che si riuniscono nel giorno del solstizio ai piedi della grande piramide del sole a Teotihuac n non fanno che confermare questa trasformazione degli indios in oggetti virtuali.

Per questa ragione l'insurrezione zapatista, quando non è stata ricondotta alla manipolazione di un settore della popolazione indigena a opera di attori esterni, è stata percepita per lo più come il ritorno di un elemento messicano che era stato rimosso, la resurrezione del «profondo Messico». I bianchi e i meticci del Chiapas hanno rivissuto la paura ancestrale della vendetta india. La maggior parte dei messicani e l'opinione pubblica internazionale hanno scoperto un'immagine del paese completamente diversa da quella che il potere aveva cercato di vendere in questi ultimi anni. Le stesse autorità, che pure avevano avuto sentore di quello che stava per accadere, erano incapaci di immaginare - e non erano le sole - che all'alba del ventunesimo secolo alcuni indios potessero conferire all'insurrezione una forza simile, una risonanza e una portata di questo genere.

E' stato il premio Nobel per la letteratura Octavio Paz a esprimere magistralmente l'opinione di quanti si rifiutavano di vedere nell'insurrezione solo la rivolta di alcune comunità tradizionali, primitive, strumentalizzabili e strumentalizzate da guerriglieri anacronistici, da ideologi e da forze interessate a immergere il Messico in un clima di violenza, facendo abortire il suo ingresso nel grande mercato, nella democrazia e nella modernità.

Gli insorti non erano indios arcaici, schiacciati dalla dipendenza, e nemmeno comparse neoindie di uno spettacolo postmoderno. Erano - sono - indios moderni, che hanno preso le distanze dalle vecchie comunità disgregate, e che cercano di costruire la propria storia chiedendo di essere riconosciuti e rispettati.

L'immagine che dà il senso più elevato alla rivolta zapatista è quella di una bambina india di quattro o cinque anni, nata e morta senza che nessuno ne avesse notizia al di fuori della cerchia familiare: «Paticha [versione india di Patricia] non ha mai avuto un certificato di nascita, come dire che per lo stato non è mai esistita, e pertanto la sua morte non è mai avvenuta». «Quando sarò grande sarò una guerrigliera, una ribelle» aveva detto Paticha al subcomandante Marcos, che la teneva fra le sue braccia mentre lei stava morendo di una febbre maligna.

Ma chi è allora questo Marcos, che dà voce agli "olviados", agli esclusi, e che si presenta come il condottiero di una guerra per il diritto al riconoscimento, per la fine del disprezzo, e non invece per quello che tradizionalmente è.

«Marcos non esiste, è nato morto il primo gennaio 1994» afferma l'interessato, servendosi di una formula ambigua che evita il quesito e sottolinea quanto siano inutili le illazioni sulla sua identità.

E queste non sono mancate. Secondo una delle storie raccontate su di lui dagli indios del Chiapas, uno straniero (un "gringo") si sarebbe integrato in una comunità maya, sposando una donna del luogo e avendo da lei due gemelli prima di tornare al suo paese. Poco dopo la madre dei bambini morì; morì anche il padre, ma dispose che i figli frequentassero una scuola svizzera e lasciò loro i fondi necessari. Quando i gemelli ebbero sei anni, un inviato del padre venne a prenderli per portarli in quel lontano paese; anni dopo, uno dei fratelli morì, mentre l'altro rientrò nella comunità, di cui sapeva ancora parlare la lingua, e ne fu riconosciuto come suo membro.

I servizi di informazione e i media hanno attribuito a Marcos identità più conformi ai loro fantasmi: ex guerrigliero dell'America centrale, prete (gesuita o secolare), giornalista, avvocato, antropologo, medico o economista, figlio di un imprenditore, figlio di Rosario Ibarra [3], esponente del partito di opposizione della sinistra, il Partido de la Revolucion Democr tica (P.R.D.), figlio illegittimo di un ministro degli Interni... Così via fino al 9 febbraio 1995, quando la sua «vera identità» fu rivelata in un discorso trasmesso per televisione dal presidente Zedillo, che credeva in tal modo di distruggerne il mito: un certo Rafael Sebasti n Guillén Vicente, nato nel 1957 a Tampico, in una cattolicissima famiglia di commercianti di mobili, una «buona famiglia» ma non appartenente alla «crema» della società residente nella città sulla costa del Messico nordorientale, un porto al centro di un complesso petrolifero. Alle medie Rafael Guillén era stato allievo dei gesuiti - quelli che avevano accettato di parlarne ai giornalisti lo descrivevano come un ottimo scolaro e un ragazzo socievole -, avrebbe recitato in "Aspettando Godot" e girato qualche scena di film [4], tutte cose banalissime per una persona appartenente a quella generazione e a quel ceto sociale. Frequentando la facoltà di filosofia dell'Universidad Nacional Autonoma Metropolitana, nel 1980 scrive una tesi ispirata a un marxismo strutturalista piuttosto stereotipata, nella quale, come in migliaia di tesi presentate all'epoca nelle università latinoamericane, si coglie l'influsso di Althusser e di Poulantzas, con una spolveratina di Foucault. Avrebbe poi insegnato per qualche tempo in un'altra università della capitale, la UAM, Universidad Autonoma Metropolitana.

Ben pochi messicani dubitano di questa versione; quanto a Marcos, ci scherza sopra («Non suona male, il porto è grazioso» dice , parlando di una città di cui MacOrlan ha celebrato i locali equivoci); oppure, come nella conversazione che segue, smentisce di essere Rafael Guillén. Forse nel senso che non lo è più, nel senso che Marcos è nato dal sogno degli zapatisti e appartiene a loro. Sia o non sia Rafael Guillén, non è certo più lo studente postsessantottino che è stato, amante delle discussioni letterarie e filosofiche, un po' giramondo, che trascorreva diversi mesi a Parigi. Ormai ha abbandonato tutto questo, si è lasciato alle spalle «i morti necessari, nel senso che bisognava andare via per tornare sotto un altro aspetto, senza più un volto, senza nome, senza passato, ma ancora una volta in nome di quei morti» . Del passato, i suoi discorsi e i suoi gesti hanno conservato una forza esultante, una sensibilità e un umorismo che non riescono a dissimulare un sottofondo di sorda angoscia.

Mentre da principio era soltanto strumentale, ormai il passamontagna ha acquisito la funzione della maschera: occultare l'identità personale e far nascere un'immagine nella quale possano identificarsi i diseredati, e, ancora, tutti i messicani e chiunque sia innamorato della giustizia, indipendentemente dalle loro diversità. «Qualunque messicano può mettersi il passamontagna e diventare Marcos, diventare quello che sono io.»

Il passamontagna è uno specchio offerto ai messicani («prendete uno specchio e guardatevi») per invitarli a scoprirsi, a uscire dalla menzogna e dalla paura, dall'alienazione. Uno specchio di fronte al quale il paese è chiamato a interrogarsi su se stesso e sul proprio avvenire, a ricostruirsi, a reinventarsi. Ma Marcos esorta anche a strappare lo stagno agli specchi, a infrangere il vetro e a passare dall'altra parte. Qui racconta come lui stesso sia stato condotto ad attraversare lo specchio, a scoprire l'Altro.

Nei primi anni Ottanta si stabilì nel Chiapas, insieme con alcuni compagni; erano carichi di tutti i dogmi e di tutti i luoghi comuni dei rivoluzionari latinoamericani dei decenni precedenti, e come altri si sforzarono di farli entrare in testa agli indios. Questi replicavano: «Le tue parole sono dure», e affermavano di non capire niente di un simile gergo indigesto. Finché Marcos non cominciò ad ascoltare gli indios, quello che dicevano e quello che non dicevano, cominciò ad ascoltare anche i silenzi (il che però non lo ha reso laconico) [5].

Oggi è rimasto l'unico bianco o meticcio fra i capi dell'Esercito zapatista, ma si inserisce in una genealogia di transfughi o di intermediari inaugurata già all'epoca della Conquista da Gonzalo Guerrero, un soldato spagnolo che dopo essere scampato a un naufragio si inserì in una comunità dello Yucat n, si mise alla testa di una guerra di resistenza dei maya e cadde in battaglia contro i conquistatori.

Tuttavia Marcos non ha cercato di diventare indio; il suo carisma, la fiducia che si è conquistata all'interno delle comunità nascono anche dalla distanza che ha saputo conservare. E' il prezzo che ha dovuto pagare per essere una finestra, un ponte fra i due mondi.

IL PASSO AVANTI DEGLI ZAPATISTI
Nella storia americana numerose insurrezioni di indios hanno avuto la guida di un bianco o di un meticcio, ossia di mediatori indispensabili per accedere ai segreti dei vincitori, per impossessarsi delle loro armi e rivolgerle contro di loro; ciò non ha impedito, peraltro, che nella maggioranza dei casi tali insurrezioni venissero soffocate nel sangue. Anche i ribelli zapatisti dal punto di vista delle risorse militari non sono all'altezza, e lo stesso Marcos si presenta come antimilitarista, un "sub"comandante che obbedisce alle comunità di villaggio e ai loro rappresentanti, il capo provvisorio di un esercito guerrigliero che milita per la propria inutilità: «In questo senso l'E.Z.L.N. [Ejército Zapatista de Liberacion Nacional] ha una volontà suicida, non nel senso che vogliamo farci ammazzare, ma perché aspiriamo a scomparire come militari» .

In una guerra come questa, che viene dopo la caduta del muro di Berlino e in cui i simboli contano più delle armi, la comunicazione più del rapporto di forze, Marcos, ancor più che il comandante militare, è l'interprete, il portavoce degli indios in rivolta, l'inventore di un discorso poetico-politico non riducibile alle strategie di dominio, inafferrabile per gli apparati di potere. Qualunque sia l'esito delle laboriose e intermittenti trattative con il governo, qualunque sia l'epilogo delle operazioni militar- poliziesche da cui gli zapatisti sono minacciati, quali che possano essere gli effetti del gesto zapatista all'interno dell'antica sinistra messicana e latinoamericana, il contributo di Marcos sarà quello di essersi lasciato penetrare dall'esperienza e dall'immaginazione degli indios, di aver trovato le parole per raccontarle, e quindi, colpendo al cuore, di aver ridotto in polvere tutte le forme di gergo politichese. Il gergo dei guerriglieri marxisti-leninisti, che un tempo gli apparteneva, e di cui l'Ejército Popular Revolucionario (E.P.R.), comparso in varie regioni messicane nel 1996, costituisce una reviviscenza immiserita. Quello della Rivoluzione messicana istituzionalizzata, con tutti i suoi stereotipi sull'indio, ora arcaico e sottomesso, ora glorificato e divenuto oggetto di folklore e di museo. Ma anche il linguaggio gergale, preso a prestito, convenzionale, che usano gli stessi indios, quando si esprimono nella lingua dominante, fosse pure nelle sue varianti indigeniste, progressiste, rivoluzionarie.

Accresce la sorpresa, lo stupore o l'incredulità il fatto che un tale contributo a restituire al mondo il suo incanto provenga da una società india, distrutta e asservita cinquecento anni or sono, in coincidenza con l'invenzione della modernità. Eppure l'insurrezione zapatista si iscrive nella genealogia dei movimenti di liberazione degli indios che da trent'anni vanno emergendo in tutta l'America latina. Il movimento shuar e la rivolta degli indios della "sierra" in Ecuador nel 1990, il katarismo boliviano, di cui il vicepresidente Victor Hugo C rdenas è un esponente di rilievo, il Consejo Regional Indigena del Cauca (CRIC) in Colombia, la guatemalteca Rigoberta Menchù, premio Nobel per la pace nel 1992. Ecco alcune tra le manifestazioni più note e più forti di questo fenomeno, le quali hanno un punto in comune: sono portatrici di una nuova modernità, che salda nella tensione identità e integrazione, cultura ed economia, utopia e pragmatismo, cuore e ragione, particolare e universale. La rivolta del Chiapas ha avuto un'eco più vasta, fin dalla sua prima comparsa, senza dubbio perché non si è lasciata trattare come un semplice problema locale, regionale o relativo a una minoranza, ma ha posto di punto in bianco, e in modo spettacolare, questioni politiche e intellettuali che oggi in tutte le società hanno un ruolo centrale.

Per uscire dall'oblio, per prendere la parola, gli zapatisti hanno preso le armi, a differenza di quasi tutti gli altri movimenti moderni delle comunità indigene nell'America latina e settentrionale. Ma la guerra vera e propria è durata pochissimi giorni, dal primo al 12 gennaio 1994 ; da quella data gli insorti, evidentemente rinunciando a porsi come obiettivo la conquista del potere attraverso la lotta armata, esplorano le vie che li conducono verso l'invenzione di una democrazia aperta a coloro che agiscono nella società, capace di tener conto delle esigenze etiche e delle affermazioni di identità. Continuando a restare armati, si servono del negoziato, delle alleanze, dei moderni mezzi di comunicazione, con una strategia di non violenza armata al centro della quale Marcos, esatto contrario della figura di «eroico guerrigliero» incarnata dal Che Guevara, appare come un lontano cugino di Gandhi, di Martin Luther King o di Tjibaou: forse è destinato a condividerne la sorte?

Tutte le lotte per il diritto al riconoscimento sono fragili e incerte. Quella degli indios del Chiapas esige riforme economiche, sociali, politiche e culturali che mettono a repentaglio interessi acquisiti, inerzie varie e anche programmi di modernizzazione caratterizzati da forme di esclusione, come il NAFTA. Sebbene gli zapatisti non rivendichino il potere per loro stessi, sfidano apertamente il Partido Revolucionario Institucional (P.R.I.), il partito-Stato che si trova alla testa del paese da circa settant'anni [6]. La loro iniziativa ha provocato una formidabile onda d'urto, che ha rivelato le crepe della piramide e dato il via a una serie di sommovimenti a catena, riecheggiati nelle Borse del mondo intero e perfino sotto le volte della Banque de France. Il P.R.I., ferito a morte dall'insurrezione, ma anche dai rapimenti di uomini d'affari, dai regolamenti di conti, dagli assassinii e dagli scandali al vertice, così come dalla crisi finanziaria ed economica, non mostra peraltro di avere esaurito le risorse repressive, le capacità di manipolazione e cooptazione. Marcos e i suoi non si illudono, sanno che la loro ribellione cozza con la realtà cinica e brutale della politica messicana, da cui rischia di essere riafferrata.

L'INDIO, MODERNO EMBLEMA DELL'UNIVERSALE
Per comprendere il movimento zapatista nella sua originalità e specificità occorre mettere al centro dell'analisi l'attore principale, che è l'indio; sbaglia chi pensa che nel movimento gli indios siano semplici marionette, manipolate da un'organizzazione politico-militare estranea alle comunità, dalla Chiesa o da un settore della Chiesa, da forze politiche occulte che hanno interesse a rallentare l'ammodernamento del Messico, a ritardarne l'ingresso nel grande mercato; oppure, più semplicemente, strumentalizzate da un Marcos abilissimo nel dissimulare il suo gioco sotto un linguaggio poetico-politico e nel maneggiare i simboli, un Marcos che in definitiva sarebbe soltanto la metamorfosi postmoderna del caudillo latinoamericano, personaggio riassumibile nella mera sete di potere.

La natura e il senso dello zapatismo si trovano in un protagonista sociale e culturale (etnico) che si lancia in una sollevazione armata e si proietta sulla scena politica. Un protagonista che, non potendo trovare altri sbocchi alle proprie aspirazioni ed esigenze, dà vita a un movimento armato e cerca di costruire un movimento politico civile che non si propone di conquistare il potere.

Non si può comprendere l'impatto planetario e la portata universale di un tale movimento se lo si riduce alla resistenza di poche comunità del Chiapas o a un soprassalto della storia messicana recente, segnata da forti turbolenze che forse annunciano un precipitare verso il caos. Lo zapatismo non consiste in forme di ripiegamento sulla comunità originaria o in reazioni di chiusura nazionalista; esso articola le esperienze di comunità eterogenee, divise e aperte, la questione della democrazia nazionale e il progetto di una società composta da soggetti individuali e collettivi che "si riconoscono" e si rispettano l'un l'altro nella diversità di ciascuno; esso lotta per un mondo dove molti mondi abbiano il loro posto («un mundo donde quepan muchos mundos»), un mondo uno e variegato.

Il soggetto zapatista è etnico, nazionale e universale: vuole dirsi messicano senza cessare di essere indio, vuole un Messico in cui sia riconosciuto ed ascoltato; è universale non già "nonostante" la propria identità di indio, ma "appunto perché" indio.

Quasi riecheggiando Jean-Marie Tjibaou, che voleva fosse conosciuta e rispettata «la quota di universalità» insita nella cultura della Melanesia , Marcos afferma che proprio grazie alla sua componente india lo zapatismo riesce sia a elaborare uno specifico linguaggio di simboli, sia a proiettarsi sulla scena internazionale. Tale universalità deve essere intesa in due modi. Innanzitutto nel senso dell'etica classica, sulla scia della filosofia dei Lumi e dei diritti dell'uomo: l'indio, discriminato, messo in minoranza, umiliato, si fa portatore della rivendicazione di uguaglianza di ogni essere umano. Ma anche, in modo più positivo e più ricco, l'universalità va vista nella prospettiva dell'affermazione di un soggetto in cui si associano le dimensioni etica ed etnica, un soggetto che ritrova l'universale nel particolare. Nella genesi dello zapatisrno il momento decisivo è quello in cui i guerriglieri scoprono che il loro discorso rivoluzionario, universalista, non parla agli indios, non suscita la minima eco, e di conseguenza che la pretesa di universalismo è usurpata. A quel punto effettuano una conversione, si mettono ad ascoltare l'altro, avviando così la ricomposizione del pensiero e dell'azione collettivi nell'ottica di una politica del riconoscimento. Mentre il soggetto dei diritti dell'uomo e del cittadino è astratto e intercambiabile con qualsiasi altro soggetto, il soggetto che si costruisce nello scontro e nel dialogo fra culture è al tempo stesso singolo, particolare e universale.

Oggi l'immagine più compiuta dell'universale non è quella del cittadino che si difende dalla mondializzazione cercando di richiudere le brecce aperte nell'edificio dello Stato nazionale; è quella del soggetto agente che associa la lotta contro le forze dominanti con l'affermazione di un'identità individuale e collettiva e il riconoscimento dell'Altro. Lo zapatismo è portatore di una triplice istanza: politica, etica e di affermazione del soggetto, riassunta nella sua formula prediletta: democrazia, giustizia, libertà; oppure ancora sotto l'altro suo nome: dignità.

UNA RIBELLIONE CHE VIENE DAI CONFINI. I DATI
- Cronologia.
1821: indipendenza del Messico.
1823: partendo dal principio «meglio essere coda di leone che testa di ratto» («m s vale ser cola de leon que cabeza de raton»), la classe dirigente della regione decide di separare il Chiapas dal Guatemala e di annetterlo al Messico, beninteso senza consultare la maggioranza india della popolazione.
1861-67: intervento francese, che si conclude con la disfatta e l'esecuzione di Massimiliano d'Austria.
1867-72: presidenza di Benito Ju rez.
1876-1911: presidenza di Porfirio Diaz.
1910-20: Rivoluzione messicana.
1917: proclamazione della Costituzione, tuttora in vigore.
1919: uccisione di Emiliano Zapata il 10 aprile.
1929: Plutarco Elias Calles, presidente dal 1924 al 1928, fonda il Partito nazionale rivoluzionario, divenuto poi Partito della rivoluzione messicana e infine, nel 1946, Partito rivoluzionario istituzionale.
1934-40: presidenza di L zaro C rdenas. Nazionalizzazioni (petrolio, ferrovie), intensificazione della riforma agraria. 1968: grandi manifestazioni studentesche a Città del Messico, che a pochi giorni dall'apertura delle Olimpiadi si concludono con il massacro della piazza delle Tre Culture o piazza Tlatelolco.
1970-76: presidenza di Luis Echeverria. Nuova fase di riforme populiste, combinate con un politica repressiva.
1972: creazione della «riserva lacandona».
1974: Congresso indigeno di San Cristobal de Las Casas.
1976-82: presidenza di José Lopez Portillo, che si conclude con la grande crisi finanziaria del 1982: il Messico in stato di insolvenza.
1982-83: arrivano nel Chiapas circa centomila profughi guatemaltechi, in maggioranza indios, per sfuggire ai massacri che si compiono nel loro paese.
1982-88: presidenza di Miguel de la Madrid. Comincia la politica di ammodernamento neoliberista: priorità alle esportazioni, progressivo disimpegno dello Stato dal settore produttivo.
1985: terremoto a Città del Messico nel mese di settembre: trentamila morti, mezzo milione di senzatetto.
1988-94: presidenza di Carlos Salinas de Gortari, eletto con una votazione molto discussa. Accelerazione della politica neoliberista: attenuazione delle barriere doganali, vasto programma di privatizzazione delle imprese pubbliche, riduzione delle sovvenzioni ai prodotti fondamentali, massiccio afflusso di capitali (in parte effimero), crescita vertiginosa della disoccupazione e del numero delle "maquiladoras" (officine di montaggio per l'esportazione, collocate soprattutto lungo il confine con gli Stati Uniti).
1989: crollo del prezzo del caffè dovuto al mancato rinnovo dell'accordo internazionale fra i paesi produttori.
1992: con la revisione dell'articolo 27 della Costituzione messicana si rimette in discussione la riforma agraria. Numerose manifestazioni contro la celebrazione del quinto centenario della scoperta dell'America.
1994.
1 gennaio: entra in vigore l'accordo di libero scambio tra i paesi nordamericani (NAFTA) fra Stati Uniti, Canada e Messico; insurrezione zapatista: l'E.Z.L.N. occupa diverse città del Chiapas: San Cristobal de Las Casas, Las Margaritas, Altamirano, Ocosingo.
10 gennaio: il presidente Salinas nomina commissario per la pace e la riconciliazione nel Chiapas Manuel Camacho Solis, allora ministro degli Esteri, già «reggente» di Città del Messico.
12 gennaio: il governo decreta una tregua unilaterale. Manifestazione di massa per la pace a Città del Messico.
21 febbraio-2 marzo: nella cattedrale di San Cristobal si svolgono i colloqui fra i dirigenti dell'E.Z.L.N. (il subcomandante Marcos e venti membri del Comité Clandestino Revolucionario Indigena, il C.C.R.I.), il commissario per la pace Manuel Camacho e il mediatore monsignor Samuel Ruiz, vescovo di San Cristobal.
23 marzo: Luis Donaldo Colosio, candidato del P.R.I. alla presidenza della Repubblica, muore assassinato a Tijuana, nella Bassa California.
12 giugno: dopo aver consultato la base, l'E.Z.L.N. respinge le proposte formulate dal governo al termine dei colloqui nella cattedrale. Manuel Camacho rinuncia all'incarico.
6-9 agosto: nel quartier generale dell'E.Z.L.N. (Guadalupe Tepeyac) si riunisce una Convenzione nazionale democratica.
21 agosto: il P.R.I. vince le elezioni. Ernesto Zedillo Ponce de Leon viene eletto presidente.
28 settembre: José Francisco Ruiz Massieu, segretario generale del P.R.I., viene assassinato a Città del Messico. 1 dicembre: Ernesto Zedillo si insedia nella carica presidenziale.
19 dicembre: gli zapatisti spezzano l'accerchiamento da parte dell'esercito e in modo pacifico occupano numerosi comuni del Chiapas, situati fuori dalla zona originaria del conflitto.
19-21 dicembre: crisi finanziaria, svalutazione del peso (del 40% circa); ne deriva una recessione economica segnata dalla scomparsa di migliaia di imprese e di un milione di posti di lavoro, con una forte diminuzione nel tenore di vita della maggioranza della popolazione.
Nel 1995 il Fondo monetario internazionale, gli Stati Uniti e altri paesi verranno in aiuto del Messico con prestiti per un totale di 50 miliardi di dollari, in parte garantiti dalle risorse petrolifere. Si tratta del prestito più ingente mai concesso dalla comunità finanziaria internazionale a un singolo paese.
In seguito il Messico ha dato segni di recupero finanziario (rimborso anticipato dei prestiti, rientro dei capitali, bilancio commerciale positivo) ed economico (crescita delle esportazioni, ripresa dell'occupazione, in particolare nel settore delle "maquiladoras"). Si aggravano però l'incertezza politica, la crisi sociale e la disparità fra Nord e Sud del paese: tutti elementi che ostacolano il processo di pace nel Chiapas.
1995.
9 febbraio: l'esercito lancia un'offensiva per occupare il «territorio zapatista». Contemporaneamente il governo svela la «vera identità» di Marcos: Rafael Sebasti n Guillén Vicente, non ancora quarantenne, proveniente da una famiglia di commercianti di Tampico (porto sul golfo del Messico), studente di filosofia all'UNAM, poi insegnante di tecnica della comunicazione in un'altra università della capitale, prima di scomparire nella clandestinità. Aprile: riprende il dialogo fra zapatisti e governo. I negoziati proseguiranno per mesi, e con numerose interruzioni, in un villaggio della regione montuosa (Los Altos) del Chiapas: San Andrés Larr inzar, ribattezzato in seguito dagli zapatisti Sacamch'en de los Pobres.
27 agosto-13 settembre: l'E.Z.L.N. organizza una consultazione nazionale e internazionale per decidere quale seguito dare alla propria lotta (oltre un milione di persone hanno risposto alle domande).
1996.
1 gennaio: l'E.Z.L.N. annuncia la costituzione di un raggruppamento civile, il Frente Zapatista de Liberacion Nacional (F.Z.L.N.). 28 giugno: prima comparsa dell'Esercito popolare rivoluzionario: alcuni guerriglieri fanno irruzione in una manifestazione del P.R.D. nello Stato del Guerrero, dove esattamente un anno prima era accaduto il massacro di Aguas Blancas (17 contadini erano stati trucidati dalla polizia mentre si avviavano a una manifestazione pacifica). Nel corso dell'anno l'E.P.R. ha fatto sentire la propria presenza in diversi Stati del Centro e del Sud del paese, in certi casi compiendo azioni violente.
27 luglio-3 agosto: l'E.Z.L.N. organizza nel Chiapas un incontro internazionale per l'umanità e contro il neoliberismo, detto anche Incontro intergalattico. Ottobre: la comandante Ramona prende parte al Congresso nazionale indigeno a Città del Messico.

- Il Messico e gli indios .
La risonanza, la portata e il significato dell'insurrezione zapatista superano di gran lunga l'ambito delle comunità implicate e i confini dello Stato del Chiapas. La forza e le modalità di questa irruzione, del ritorno della questione india sulla scena nazionale messicana sono state una sorpresa; grazie a una pratica antica ed efficace delle politiche indigeniste lo Stato messicano sembrava essersi messo al riparo dai movimenti etnici del tipo di quelli che hanno toccato altre società latinoamericane negli ultimi decenni.

Nella popolazione messicana gli indios costituiscono una frazione compresa tra il 10 e il 15%, assai meno che in Bolivia, in Ecuador, in Perù e soprattutto in Guatemala, ma sufficiente a fare del Messico il paese con il più alto numero di indios in assoluto: fra gli otto e i dodici milioni di persone, suddivise in cinquantasei gruppi etnici [7].

Nel Nord, nel Centro e nella parte centroccidentale del paese, gli indios sono rappresentati da gruppi ristretti che affermano con forza la loro identità (gli yaqui, i tarahumara, gli huichol, i purepecha o i tarasque...), oppure gruppi talvolta più numerosi ma con un'affermazione di identità meno netta, e meno precisamente distinguibili dal resto della popolazione contadina (i mazahua, gli otomi, i mexica o i nahua...). Nel Sud e nel Sudest gli indios costituiscono una frazione notevole della popolazione, su scala locale o regionale; formano gruppi di dimensioni varie, discontinui, come un patchwork ricavato in un tessuto dalla trama mista. In particolare negli Stati del Guerrero e di Oaxaca (tlapanechi, mixtechi, mixe, triqui, zapotechi...), dello Yucat n e del Quintana Roo (maya dello Yucatan).

Fra questi gruppi, alcuni - per esempio gli zapotechi e i maya dello Yucat n - si sono, in parte, da tempo inurbati, e abitano in città di piccole o medie dimensioni. In quasi tutti i gruppi, una parte sempre più cospicua emigra temporaneamente verso gli Stati Uniti, verso Città del Messico e altre città dell'interno, dove molti finiscono per stabilirsi, fondando colonie urbane indigene.

Nel Messico della Rivoluzione, poi istituzionalizzata, il problema degli indios era considerato nella prospettiva dell'integrazione, attraverso un processo di acculturazione e assimilazione; e si riteneva che dovesse essere risolto dalle politiche agrarie e dall'istruzione. Il cosiddetto «indigenismo di integrazione», formulato in modo sistematico nel primo Congresso indigenista interamericano (P tzcuaro, 1940), ha avuto come strumento di applicazione principale l'Instituto Nacional Indigenista (INI), creato nel 1948.

Negli anni Settanta alcuni membri del governo guidato dal presidente neopopulista Echeverria (1970-76) e di quello del successore Lopez Portillo (1976-82) propugnavano un «nuovo indigenismo» che, per distinguersi dal primo, si definiva «di partecipazione». La sua attuazione portò alla nomina di un «consiglio supremo» per ciascuna etnia e di un Consiglio nazionale dei popoli indigeni (C.N.P.I.), nonché al reclutamento di circa trentamila istitutori bilingui.

Questi programmi contribuivano ad assicurare sovvenzioni statali alle regioni abitate dagli indios, ma per il regime non costituivano una priorità: frutto di una politica della compensazione, nei casi migliori offrivano a certi gruppi ristretti una possibilità di promozione sociale, nei peggiori un simulacro di partecipazione in una situazione in cui le possibilità di integrazione andavano restringendosi. In realtà si trattava di proseguire in modi nuovi una politica di contenimento delle rivendicazioni degli indios.

Numerose organizzazioni indigene nate negli anni Settanta e Ottanta, e fra queste la maggior parte dei «consigli etnici», sono state create di sana pianta dalle autorità e sono rimaste nell'orbita del potere. Tuttavia, nello stesso periodo, fra i contadini indios si sono moltiplicate le organizzazioni «indipendenti» o «di classe», spesso collegate all'opposizione di sinistra: per lo più effimere, ma alcune più durevoli. Talune hanno aderito a gruppi di coordinamento su scala nazionale, ma nella maggioranza le loro radici e il loro raggio d'azione sono rimasti locali o regionali. L'esempio migliore è quello della Coalicion Obrera, Campesina y Estudiantil del Istmo (COCEI), che negli anni Ottanta guidava le lotte degli zapotechi nell'istmo di Tehuantepec.

Nel 1992 le celebrazioni del quinto centenario della scoperta dell'America hanno suscitato proteste e mobilitazioni che tuttavia non hanno mai varcato i limiti di quanto il regime poteva sopportare o riassorbire. Il governo di Salinas de Gortari aveva fatto inserire nella Costituzione il riconoscimento delle «popolazioni indigene» e del carattere multiculturale della nazione, estendendo, con un gesto molto spettacolare, il programma "Solidaridad" [8] alle zone abitate dagli indios, Chiapas compreso.

L'indigenismo ufficiale, fluttuante secondo scadenze di sei in sei anni [9] e secondo varianti regionali, si era fino allora dimostrato capace di assorbire o neutralizzare le rivendicazioni degli indios. Il Messico aveva visto scoppiare aspri conflitti sociali connotati da elementi etnici, e nascere numerose organizzazioni indigene; non si era però mai costituito un movimento degli indios di una certa portata.

Tuttavia la gestione burocratica e clientelare della questione etnica aveva il fiato corto. L'assunzione di un modello neoliberista, che avrebbe comportato la riduzione degli interventi statali, il rallentamento dei programmi di redistribuzione e una concorrenza non equa, contribuiva ad accentuare le spaccature e a moltiplicare gli esclusi. L'esplosione demografica, che in città era tenuta sotto controllo, imperversava nelle campagne e in particolare tra gli indios.

In Messico la riforma agraria, una delle acquisizioni principali della Rivoluzione, era iscritta nella Costituzione (1917). Nel febbraio 1992 la revisione dell'articolo relativo, il famoso articolo 27, mettendo praticamente fine alla ripartizione delle terre e minacciando lo smantellamento degli "ejidos" [10], chiudeva uno dei percorsi privilegiati di clientelizzazione e cooptazione.

L'insurrezione del primo gennaio 1994 ha sorpreso e diviso le élite intellettuali e politiche messicane: si preannunciava un'epoca nuova o bisognava ricondurre l'episodio a un fenomeno marginale e senza futuro, espressione dell'arretratezza degli indios, del sottosviluppo di una regione periferica e abbandonata?

- Il Chiapas.
Fra gli Stati messicani il Chiapas è tra quelli con più forte presenza di indios; circa un milione di indigeni, quasi un terzo della popolazione, si concentra in due regioni dove costituisce una netta maggioranza: la prima è Los Altos, la zona montuosa intorno e a nord del centro coloniale di San Cristobal de Las Casas, l'altra è la Selva Lacandona, terra di confine e area di colonizzazione in cui sono riunite le pianure a oriente dello Stato e le valli che vi confluiscono (Las Canadas).

Per lingue (lo tzotzil, lo tzeltal, il chol e il tojolabal) e per cultura, questi indios appartengono al gruppo dei maya [11], come i maya dello Yucat n con i quali hanno scarsi rapporti, e come gli indios del Guatemala, dai quali sono stati separati soltanto con l'Indipendenza. Nei primi anni Ottanta questi ultimi si sono rifugiati nel Chiapas a decine di migliaia, per scampare ai massacri perpetrati dall'esercito guatemalteco.

Dieci anni dopo, con l'attenuazione dei conflitti nell'America centrale e la prospettiva di entrare nel NAFTA, i messicani avevano distolto lo sguardo dal confine meridionale, spostandolo su quello settentrionale. Ma il Chiapas, dove si trovano circa la metà delle industrie idroelettriche, ingenti risorse petrolifere, forestali e agricole (caffè, granturco, bestiame), rimaneva una regione strategica. Nelle ultime legislature, di sei anni ciascuna, i governi hanno compiuto notevoli investimenti in opere pubbliche (dighe, strade), dalle quali la maggioranza della popolazione, e in particolare gli indios, hanno ottenuto scarso beneficio. Altrettanto si può dire per la moltiplicazione e la polverizzazione dei crediti concessi per programmi socioeconomici o culturali (compresi quelli di "Solidaridad") i quali, in genere, finiscono col disperdersi nelle paludi burocratiche e clientelari o in realizzazioni voluttuarie.

Fra tutti gli Stati del Messico, il Chiapas ha i più alti indici di povertà; si tratta dunque di un esempio estremo delle antiche e nuove disuguaglianze. Particolarmente grave è la questione della terra. Circa duemila "ejidos" e comunità si spartiscono poco più di metà della superficie agricola. Ma i terreni migliori, sotto forma di piantagioni e immensi allevamenti, sono accaparrati da un'oligarchia erede del passato coloniale e del diciannovesimo secolo, la quale non è stata affatto smantellata dalla Rivoluzione messicana, ma anzi, dopo di allora, si è conservata e rafforzata . Questi grandi proprietari terrieri, legati al potere politico, si servono in modo sistematico della corruzione e della violenza, appoggiandosi alle forze dell'ordine e ricorrendo spesso a sicari (le "guardias blancas").

Parecchie decine di migliaia di piccoli coltivatori o di contadini senza terra sopravvivevano tradizionalmente grazie al lavoro stagionale nelle piantagioni di caffè, cacao, banane, canna da zucchero... Negli ultimi decenni la crescita demografica, l'estensione dell'allevamento, il divieto di abbattimento degli alberi, la degradazione ecologica, l'afflusso di manodopera guatemalteca a basso costo, e dal 1989 in poi la caduta dei prezzi del caffè e della carne, hanno reso ancora più precario l'arduo equilibrio della sussistenza. Migliaia di richieste di assegnazioni fondiarie rimangono inevase, e la popolazione «in eccedenza» si riversa nei quartieri della precarietà, alla periferia dei centri abitati della regione, e nelle zone di colonizzazione, a loro volta avviate alla saturazione: Selva Lacandona e Las Canadas.

Fino alla prima metà del ventesimo secolo la Selva Lacandona, detta anche Deserto della Solitudine, era popolata soltanto da qualche centinaio di indios lacandoni, da fuggiaschi di varia origine e da "peones" delle compagnie di sfruttamento forestale (soprattutto cedro e mogano). Il romanziere Bruno Traven ha descritto le condizioni miserevoli in cui vivevano e lavoravano questi dannati della giungla . L'insediamento di coloni provenienti dalle regioni montuose del Chiapas è diventato significativo negli anni Cinquanta, trasformandosi in un fenomeno di massa nei decenni successivi. Nei primi anni Novanta la Selva Lacandona (Canadas comprese) era abitata da circa duecentoventimila persone suddivise in oltre duecento comunità. I nove decimi di questi coloni sono indios: oltre la metà tzeltal, tojolabal, chol e, in minor numero, tzotzil. Una minoranza, costituita da indios e da non indios, è originaria di altri Stati del Messico.

L'ammodernamento economico e la crisi vanno di pari passo con contrasti generazionali, dissidi sociali e culturali, conversioni religiose. C'è un duro conflitto, spesso violento, fra i partigiani del «nuovo corso» da un lato, che respingono l'antico diritto consuetudinario, e dall'altro i tradizionalisti, i cacicchi e gli indios ricchi, che in certe comunità accaparrano le terre, controllano l'assunzione della manodopera, il commercio, i mezzi di trasporto e il potere locale, e fanno lega con l'oligarchia "ladina" [12] e con le autorità regionali e nazionali. La rottura dell'unanimismo e dell'autoritarismo comunitari apre la strada alla competizione fra cattolicesimo rinnovato, Chiese evangeliche e sette varie, intenti a disputarsi le giovani generazioni che cercano una nuova legittimità, una nuova comunità, ed eventualmente nuovi protettori.

In altre regioni del Messico vi sono frazioni minoritarie della Chiesa cattolica, in maggioranza conservatrice, che a loro volta appoggiano i processi di emancipazione degli indios. Ma soprattutto nel Chiapas, grazie all'energia di monsignor Samuel Ruiz vescovo di San Cristobal de Las Casas, la Chiesa cattolica, radicata principalmente fra gli indios, ha preso in considerazione le esigenze socioeconomiche delle popolazioni. Qui la Chiesa si è orientata verso una teologia della liberazione indirizzata alla presa di coscienza e all'azione politica, e che escludeva tuttavia la violenza (quanto meno da parte di figure istituzionali). In seguito a una proposta delle autorità e dei funzionari indigenisti, che la chiesa diocesana aveva fatto propria e attuato, a San Cristobal si tenne un Congresso indigeno nel 1974, nel quarto centenario della nascita di Bartolomé de Las Casas [13]. Di fronte a quella che ben presto si rivelò come la prima manifestazione pubblica di un emergente movimento degli indios il potere reagì in due modi, secondo la consuetudine messicana: con la repressione e tentando di disinnescare il movimento creando motivi di divisione e recuperando alcuni elementi. Negli ultimi dieci anni circa ventimila individui, neocattolici ma anche evangelici [14], sono stati scacciati dalle regioni montuose del Chiapas - in primo luogo dalla comunità di San Juan Chamula - da parte delle autorità tradizionali, legate al potere politico. Gli espulsi sono andati ad accrescere il flusso dell'emigrazione economica verso i quartieri marginali delle città e delle zone di colonizzazione come la Selva Lacandona e Las Canadas.

Analoghe violenze, sempre in relazione a conflitti terrieri e a dissensi all'interno delle comunità, si sono verificate in numerose altre regioni indigene, in particolare negli Stati di Oaxaca e del Guerrero e nella Huasteca. Ma mentre nel Centro e nel Nord del paese i sommovimenti demografici, socioeconomici, culturali e religiosi hanno alimentato consistenti flussi migratori verso Città del Messico o verso gli Stati Uniti, nel Chiapas gli spostamenti si sono verificati soprattutto all'interno dello Stato, originando così nuovi focolai di tensione. Lo sradicamento delle popolazioni, le divisioni intestine, la volontà di sopravvivere e di ricostituire nuove comunità hanno formato un terreno fertile per far nascere nuovi capi e far affiorare le lotte sociali; nel controllo delle popolazioni indigene lo Stato e il partito al potere tendono a essere sostituiti dalle Chiese, in particolare dalla Chiesa cattolica, le quali si sono trovate di fronte, talvolta scontrandosi, organizzazioni dirette da militanti di sinistra anche estrema, spesso di obbedienza maoista. Le une e le altre hanno preparato il terreno allo zapatismo, sebbene quest'ultimo abbia imboccato strade diverse.

In realtà l'insurrezione è nata da due impossibilità: quella della guerriglia e quella del movimento sociale. Alcuni sopravvissuti ed eredi delle organizzazioni di lotta armata represse e smantellate dal potere messicano negli anni Settanta si erano ritirati nel Chiapas, dove cercavano di tener viva la speranza in un domani rivoluzionario. Marcos spiega con molta forza come il loro sogno si sia dileguato non tanto a causa del contesto nazionale e internazionale, quanto a causa dello scontro con le comunità indigene, con la cultura e le aspirazioni degli indios. Marcos spiega anche come il movimento di emancipazione, modernizzazione e sviluppo che negli anni Sessanta e Settanta aveva attraversato queste comunità sia giunto al limite delle sue possibilità nella prima metà degli anni Ottanta, e da allora abbia cominciato a decadere, a decomporsi e a soccombere alle divisioni che le autorità cercavano di introdurvi. Il movimento indiano armato, lungi dall'essere la continuazione della guerriglia e la massima espressione del movimento sociale, nasce da una duplice frattura: da quella che Marcos chiama «la prima disfatta dell'E.Z.L.N.» da un lato, e dall'altro dal rovesciamento di posizioni avvenuto in certi settori delle comunità, costrette a fare i conti con i dilemmi della modernizzazione e dello sviluppo, ed esposte alla repressione e al razzismo.

LO SCONVOLGIMENTO DEL MONDO MAYA
I ribelli zapatisti sono al tempo stesso il prodotto, gli agenti e gli attori, le vittime e i beneficiari di una rivoluzione silenziosa, di una spinta della società indigena del Chiapas verso la modernità, lo sviluppo e la democrazia, una spinta rimasta inavvertita dal resto della società messicana e spesso persino dal resto della società dello stesso Chiapas.

Tale movimento, alimentato da energie che erano state per lungo tempo beffate e represse, si è sviluppato in modo discontinuo, con scontri, cesure e scosse; trae origine dalle divisioni sorte all'interno delle comunità, dalle dissidenze e dalle conversioni, e ha prodotto sia emigrazioni geografiche, sia lotte sociali, miglioramenti economici e mutazioni culturali.

Lo zapatismo non ha affatto mobilitato le comunità tradizionali o i settori tradizionali delle comunità: anzi si è sviluppato all'interno di quelle frange della popolazione indigena che avevano rotto con la tradizione e i tradizionalismi, e che a causa di ciò avevano dovuto separarsi dall'antica comunità di appartenenza, e spesso abbandonarla. Alle origini di tali spostamenti - che per migliaia di persone hanno comportato un'espulsione - si trova un miscuglio inestricabile di motivazioni religiose, economiche e politiche.

Nelle aree di colonizzazione della foresta, nelle cinture di miseria o di precarietà annesse ad alcuni centri abitati, talvolta all'interno o alla periferia della loro comunità, i dissidenti hanno costituito comunità trasformate e acculturate, creando espressioni culturali e nuove forme di identità. E' stato inventato così un nuovo modo di essere indio: aperto, moderno; l'espulsione, la liquidazione della manodopera eccedente il fabbisogno, l'esperienza dell'inutilità economica, sociale, e quindi politica, sono state trasformate in esperienza della libertà.

Le nuove comunità si sono emancipate dagli antichi legami di dipendenza interni: (il sistema delle cariche, i "principales" [15], gli sciamani, le celebrazioni comunitarie e l'alcol); e anche dai legami di dipendenza esterni (le piantagioni, i procacciatori di manodopera, i commercianti e i trasportatori, i cacicchi [16] e il sistema politico). Tali comunità davano un esempio di sviluppo endogeno, sia pure assecondato da un ristretto numero di agenti esterni (personale ecclesiastico, membri di organizzazioni non governative), ma senza inquadramenti né particolari aiuti statali, uno sviluppo dovuto essenzialmente a una dinamica interna: si sono trasformate e sviluppate grazie alla conquista delle terre, all'allevamento e alle coltivazioni commerciali (caffè, sesamo, chile), al ricorso al credito, agli insetticidi [17]. La fine dell'autosufficienza e l'integrazione nel mercato si sono tradotte poi nella moltiplicazione degli scambi in moneta, nello sgretolamento dell'artigianato e nel consumo di manufatti industriali. Le famiglie che negli anni Cinquanta si insediavano nel cuore della foresta si procuravano all'esterno soltanto sale, sapone, stoffa per farsi dei vestiti, qualche attrezzo agricolo... Quaranta o cinquant'anni dopo, all'elenco dei prodotti acquistati si sono aggiunte decine di altre voci: apparecchiature domestiche, abiti, scarpe, prodotti farmaceutici, derrate alimentari, bevande e conserve, materiali da costruzione, insetticidi eccetera (30). Per quanto relegata ai margini, periferica, con scarsi collegamenti con i centri urbani, la «frontiera agricola» costituiva nondimeno una società aperta al mercato.

Nonostante gli sforzi compiuti dalle comunità per intervenire nella commercializzazione di determinati prodotti, del caffè in particolare, in sostanza erano i "ladinos" e gli organismi statali o parastatali a conservare il controllo sugli scambi. In altre società di indios dell'America latina (in Guatemala, Ecuador, Bolivia, Colombia e Panama), ma anche in altri gruppi di indios del Messico (il caso più vistoso è quello degli zapotechi dello Juchit n, nel vicino Stato di Oaxaca), il motore primario del cambiamento sono state le reti di commercianti indigeni modernizzati. Nel Chiapas, i contadini poveri e sradicati hanno avuto un ruolo di primo piano nell'apertura alla modernità, anche se non sono stati i soli; i commercianti indigeni erano per lo più legati ai cacicchi, quando non erano cacicchi loro stessi, e soltanto di recente, grazie alle espulsioni, è sorto un settore indigeno urbanizzato che entra in concorrenza con i commercianti "ladinos" di San Cristobal. Un'altra differenza rispetto a processi analoghi che si sono verificati altrove in America latina (e in particolare rispetto al fenomeno degli zapotechi) è dovuta al fatto che solo in casi eccezionali le donne indie del Chiapas sono state protagoniste del mutamento [18], prima che lo zapatismo assumesse l'emancipazione femminile come uno dei suoi cavalli di battaglia.

Nonostante i suoi limiti, il mutamento globale riguardava tutte le sfere di attività, tutte le forme di relazioni sociali, economiche e politiche; dagli anni Cinquanta agli anni Novanta si è esteso progressivamente e ha finito per coinvolgere, in misura diversa, la totalità delle comunità del Chiapas. Uno dei suoi veicoli principali è stata la scolarizzazione, e in senso più largo l'alfabetizzazione. Ma per cogliere con più chiarezza l'emergenza di attori sociali etnici occorre considerare le conversioni religiose e le lotte sociali: nelle aree di colonizzazione queste ultime si presentano in forme essenziali ed esemplari, benché altrove - nei territori montuosi e settentrionali del Chiapas - i conflitti siano almeno altrettanto aspri e spesso più complessi. In tutti i casi, i cambiamenti di religione e le lotte sociali sono due voci necessarie per comprendere la genesi dello zapatismo.

- L'unanimismo infranto.
Nel Chiapas la questione religiosa affonda le proprie radici in una storia precolombiana e coloniale che comprende anche il vicino Guatemala. Sia pure divisi da un confine statale, e nonostante le differenze linguistiche e l'appartenenza a comunità di villaggio relativamente autonome, i maya hanno a lungo condiviso la stessa visione del mondo, le stesse credenze e gli stessi riti, e fino a tempi recenti erano compartecipi di una stessa tradizione, che consisteva essenzialmente in una forma sincretica maya-cattolica, nata in epoca coloniale. Quando il Chiapas è stato separato dal Guatemala per essere annesso al Messico, poco dopo l'Indipendenza (1821), si è annullata la condivisione di un destino politico senza però che fosse distrutta l'unità culturale. Nelle due regioni, con scadenze e modalità diverse, le politiche liberali della seconda metà dell'Ottocento, che miravano a sottrarre alla Chiesa il potere assoluto sulle comunità e avevano prodotto lo smembramento delle comunità stesse, hanno portato al ritiro del clero e all'avvio degli indios verso l'emancipazione, talvolta con ribellioni con una spiccata connotazione religiosa. Nel Chiapas la più importante di queste ribellioni, che nel 1867-69 scoppiò in numerosi villaggi tzotzil, era guidata da un insegnante di sangue misto, originario di Città del Messico. Per molti anni la Chiesa cattolica fornì un minimo di servizi, mentre il culto rimaneva quasi esclusivamente a carico delle comunità stesse.

In Guatemala, dagli anni Trenta-Quaranta, e in Chiapas con un ritardo di una decina d'anni, all'interno di queste comunità si verificarono mutamenti religiosi decisivi, da un lato in relazione a un processo di riconquista da parte della Chiesa cattolica e, dall'altro, in relazione all'espansione delle Chiese evangeliche e delle sette.

Da parte cattolica i «convertiti» vengono ben presto seguiti e inquadrati dall'istituzione, che tra loro sceglie e forma agenti della pastorale, «catechisti» indigeni. La prima ondata di missionari e la prima generazione di catechisti attuano un progetto di sistematico sradicamento della tradizione, giudicata pagana. Dal loro punto di vista è indispensabile spazzare via la tradizione per ottenere un rinnovamento religioso. Le violenze fra neocattolici e tradizionalisti, i quali talvolta si definiscono loro stessi come «cattolici autentici», non si sono sempre limitate all'ambito simbolico. Ancora oggi in certe comunità avvengono scontri violentissimi fra questi due gruppi e anche con gli evangelici.

Per l'effetto combinato dell'aggiornamento operato all'interno della Chiesa (1962: Concilio Vaticano Secondo, 1968: Conferenza episcopale latinoamericana di Medellin in Colombia) e delle istanze provenienti dalla popolazione, alla fine degli anni Sessanta si prepara una svolta. Alcuni catechisti mettono in discussione l'orientamento fondamentalmente pastorale dell'azione missionaria: «La Chiesa e la Parola di Dio ci dicono come salvare la nostra anima; ma non sappiamo come salvare il nostro corpo. Mentre operiamo per la salvezza nostra e del prossimo, patiamo la fame, la malattia, la povertà e la morte». Altri ne contestano l'etnocentrismo di stampo occidentale: «Se la Chiesa non diventa tzeltal, non è cattolica» .

Il personaggio chiave del cambiamento è monsignor Samuel Ruiz, dal 1960 vescovo di San Cristobal, originario di Irapuato, città del Messico centroccidentale, dove in seguito alla rivoluzione si scatenò una sorta di Vandea messicana [19]. Il prelato, che da principio era molto conservatore, entrando in contatto con la realtà del Chiapas e partecipando attivamente alla Conferenza di Medellin, si convertì alla causa dei poveri («l'opzione preferenziale per i poveri» della teologia della liberazione). Sotto la sua guida la diocesi si adoperò per orientare in maniera diversa il movimento di evangelizzazione, facendo nascere una «Chiesa incarnata, con volto indigeno» . Mentre fino allora i catechisti erano stati simili a maestri di scuola, che facevano riecheggiare nelle comunità la dottrina dettata dalla gerarchia, da questo momento in poi sono chiamati invece a mettersi all'ascolto delle comunità, riconoscendo «la Parola di Dio» nelle pratiche comunitarie dell'assemblea e nella decisione consensuale (l'"acuerdo"): «Nella riflessione che si opera su questo tessuto di esperienze vissute, immensamente dolorose, gli uomini, le donne e i bambini intervengono tutti insieme, ad alta voce, alla maniera degli indios, finché, placate le voci, nasce l'"acuerdo", che esprime la loro visione teologica della realtà» .

La teologia della liberazione, che è nata e si è diffusa in America latina negli anni Settanta e Ottanta, assume forme e contenuti diversi nei vari paesi. In Guatemala, pur essendo sorta soprattutto in ambiente indigeno, ha privilegiato l'azione economica e politica a detrimento del contenuto culturale. Invece nel Chiapas, a parte le varianti sorte a seconda dei momenti e dei luoghi, a seconda della sensibilità e del percorso spirituale dei singoli missionari, appartenenti all'una o all'altra congregazione o settore della Chiesa, la teologia della liberazione si distingue per una decisa volontà di indigenizzazione. L'«inculturazione», termine talvolta usato dagli ecclesiastici, designa le forme più sistematiche assunte da tale progetto, che si propone di versare il cristianesimo nello stampo delle culture autoctone.

L'impresa ha avuto un tale successo, soprattutto nelle comunità di lingua tzeltal, che si è parlato di «Chiesa indigena» e addirittura di «Chiesa tzeltal». Il Congresso indigeno, tenuto nel 1974 sotto l'egida del vescovado, cristallizza il nuovo orientamento del movimento di ricristianizzazione, ma segna anche l'affacciarsi di un nuovo mutamento: consacra il ruolo centrale della diocesi nella metamorfosi che si sta verificando. Ma da questo momento in poi il movimento degli indios acquisisce in varietà e complessità, e finisce per diventare la posta in gioco e il luogo di scontro fra diverse forze sociali e politiche. La Chiesa avrà difficoltà crescenti a tenerlo sotto la sua tutela. Tuttavia don Samuel al quale gli indios danno il nome affettuoso di "j'tatic" (nostro padre), riuscirà a conservare un ruolo centrale, grazie al senso della diplomazia, alle doti politiche e al suo carisma personale e grazie anche al contributo di varie congregazioni religiose - gesuiti, domenicani, maristi, francescani, suore di san Vincenzo di Paola - e all'organizzazione da lui creata nella diocesi, in cui si associano la gerarchia e il lavoro di base, l'accentramento e la delega. Un numero relativamente esiguo di sacerdoti secolari e regolari, assistiti da religiose in numero due o tre volte superiore, e sostenuti da varie migliaia di catechisti - uomini, ma anche, sempre più spesso, donne - forma un reticolo che copre, meglio di quanto facciano le istituzioni ufficiali, un territorio vasto e spesso di arduo accesso. Anche se nell'ottica della «teologia indigena» sono considerati al servizio della comunità e non il contrario, i catechisti diventano capi sociali e politici oltre che religiosi, formando una gerarchia che colma il vuoto lasciato dalla disgregazione o dal rifiuto del vecchio sistema delle autorità religiose e politiche. Il loro inserimento nelle strutture ecclesiastiche e la conoscenza dello spagnolo li rendono gli intermediari obbligati con il mondo esterno.

Quali che siano in proposito le parole o i silenzi di Marcos, che tende a minimizzare questo aspetto, la Chiesa ha avuto un ruolo determinante nel modificare le forme di organizzazione comunitaria e nel costituire organismi intercomunitari (organizzazioni etniche moderne); in particolare ha contribuito a formare una nuova generazione di capi e di militanti, molti dei quali in seguito si uniranno al movimento zapatista [20].

- Comunità, sette ed etnicità.
Il nuovo indirizzo preso dalla Chiesa cattolica si spiega con l'evoluzione degli indios, alla quale essa stessa contribuisce, ma si spiega anche con la concorrenza che le fanno le Chiese evangeliche (il protestantesimo storico, ma soprattutto i pentecostali) e millenariste (avventisti, testimoni di Geova, mormoni).

Il protestantesimo, nella forma «storica» della Chiesa presbiteriana, si affaccia per la prima volta nel Chiapas ai primi del Novecento. Ma nella seconda metà del secolo prendono uno slancio notevole, soprattutto tra gli indios, le nuove correnti religiose come i pentecostali e gli avventisti. Fra questa sfera d'influenza e quella del cattolicesimo rinnovato si hanno analogie sociologiche non meno spiccate delle tensioni e dei contrasti. La conversione implica la frattura con la comunità tradizionale e con il vecchio sistema delle cariche, sia che avvenga in direzione del neocattolicesimo, sia che riguardi una qualsiasi delle nuove Chiese. La rottura è simbolica ma spesso anche fisica: come i preti cattolici e i catechisti, i missionari evangelici hanno accompagnato gli indios a colonizzare la foresta, incoraggiandoli a partire e aiutandoli poi nella fase di emigrazione e di insediamento.

Il ricorso delle comunità cattoliche di base alle assemblee di fedeli che danno testimonianza delle loro esperienze e fanno emergere un consenso assimilato alla volontà divina ("vox populi, vox Dei") ricorda il funzionamento dell'assemblea pentecostale o della setta, almeno quanto le assemblee comunitarie tradizionali. Allo stesso modo, il fatto di reclutare nelle stesse comunità il personale ecclesiastico intermediario (suddiaconi, diaconi...) corrisponde alla nomina di pastori indigeni, e al tempo stesso è un modo di riformare e trasformare il sistema tradizionale delle cariche.

Si tratti di comunità cattoliche omogenee, di gruppi evangelici o di sette, si ha una fortissima tendenza a sostituire il vecchio comunitarismo con il nuovo; nelle une e negli altri, comportamenti di difesa e di ripiegamento su se stessi sono alimentati da una «visione teologica della realtà», così come dalla lotta contro un ambiente naturale ostile e contro le aggressioni perpetrate dai «nemici» della comunità.

La nuova comunità si organizza su base religiosa, allontanandosi dalla tradizione antica; tuttavia la dimensione etnica non viene liquidata, bensì trasformata a fondo. Si assiste alla nascita di un'etnicità che assorbe elementi dell'antico come la lingua, ma che è alimentata da mescolanze, scambi, matrimoni intercomunitari e interetnici, e che cerca di introdurre rapporti più paritetici con la società globale.

La mescolanza e l'apertura fanno da contrappeso alla tentazione comunitarista; dopo aver rotto con la comunità chiusa e ipergerarchica, l'indio scopre la comunità etnica allargata, e attraverso la religione si ricollega a una comunità transnazionale, che può presentarsi sotto la forma dell'istituzione cattolica, oppure delle reti organizzate dalle Chiese evangeliche o di altre confessioni.

Le Chiese pentecostali, la Chiesa avventista e le sette propugnano un'ideologia che è insieme contraria al progresso e al liberismo. Capita però che alcuni membri prendano parte a organismi e a battaglie socioeconomiche, fra cui le mobilitazioni proclamate dai sostenitori della teologia della liberazione, i quali sono per lo più cattolici. Avventisti, presbiteriani, pentecostali e, in numero assai inferiore, cattolici compongono il Consejo de Representantes Indigenas de los Altos de Chiapas (CRIACH): ne fanno parte anche alcuni indios tzotzil espulsi i quali si battono per poter rientrare nelle loro comunità, ma anche per obiettivi relativi alla loro attuale posizione e condizione. Tale organizzazione, ben inserita fra i chamulas di San Cristobal, ha contribuito a farvi eleggere un deputato che è stato per qualche tempo sostenuto dal Partito della rivoluzione democratica (partito di opposizione, sorto da una scissione interna al P.R.I., che su scala nazionale riunisce correnti populiste, socialdemocratiche e marxiste più o meno rinnovati). L'impegno a sinistra, non raro fra gli aderenti alle Chiese protestanti storiche (metodiste, presbiteriane...), è tuttavia molto meno consueto fra i pentecostali. Gli evangelici costituiscono una buona parte di quanti nella Selva Lacandona sono refrattari allo zapatismo.

- Dalla teologia della liberazione alla liberazione senza teologia?
Lasciando da parte le loro espressioni sociologiche, ideologiche o politiche, i parallelismi e gli scontri fra il movimento di riconquista cattolico e la penetrazione delle Chiese evangeliche e delle sette indicano come la posta in gioco sia un problema di significato. La competizione mette in contrasto soggetti religiosi che cercano di occupare il vuoto lasciato dalla frantumazione della comunità tradizionale, frantumazione che essi stessi contribuiscono ad accelerare: la loro ambizione è restituire significato alle esperienze individuali e collettive.

Ciò che rivela con la massima chiarezza tale dimensione è il fatto che l'uscita dalle piantagioni e dalle comunità montane e l'emigrazione nelle aree di colonizzazione siano interpretate alla luce dell'Esodo e della ricerca della Terra Promessa, quasi una versione maya di "Let My People Go": «Dio vuole che usciamo verso la libertà come l'antico popolo ebraico. Gli ebrei vivevano in un paese straniero che si chiamava Egitto. La terra non apparteneva a loro. Lavoravano come schiavi e vivevano nella penuria. Allora Dio parlò al cuore di uno dei "principales" e gli disse: "Ho visto le sofferenze del mio popolo, ho udito i pianti che gli strappano i capisquadra. Io sono sceso per liberarlo dai suoi patimenti e lo condurrò verso una terra migliore''» .

La religiosità profonda, la sete di giustizia, la ricerca di un senso alla propria storia, che caratterizzano il popolo maya, trovano echi nella Bibbia, punto di riferimento prediletto sia dal neocattolicesimo, sia dai nuovi movimenti religiosi. Sono però le comunità neocattoliche della foresta quelle che articolano e incarnano nel modo più completo e più estremo il discorso della teologia della liberazione, dove la costruzione della nuova comunità è vissuta come quella di un «uomo nuovo», di una «vita nuova» su una «terra nuova», del «regno di Dio sulla terra». Per la prima volta questi indios acquistano fiducia in se stessi e sentono di decidere la propria sorte e di esercitare la propria volontà. E la loro volontà è comune: «Tutti formiamo un solo pensiero, un solo lavoro, un solo cuore che custodisce una sola speranza». Come nella colonizzazione dell'Ixc n in Guatemala, qui l'emancipazione acquista la forma di un comunitarismo dagli accenti millenaristici; la forma di un «noi» che si afferma distruggendo gli antichi legami di dipendenza e lottando contro un comune avversario (lo Stato, i grandi proprietari e gli intermediari: ossia il complesso dei "ladinos" ricchi); la forma di un "noialtri" che, nella lotta, (ri)costruisce la propria identità e diversità . E il fenomeno a cui assistiamo è la nascita di un soggetto collettivo. Da questo humus germina lo zapatismo, che pure ne provoca la divisione, ed è portatore di una dimensione religiosa senza dubbio meno esplicita, più discreta rispetto alla teologia della liberazione. Tuttavia gli zapatisti ereditano analoghe esigenze etiche e la stessa ricerca di storicità.

«Noi ci liberiamo, ma senza teologia» ha risposto Marcos a un giornalista che lo interrogava circa i suoi rapporti con la teologia della liberazione . Nella conversazione che segue, Marcos pronuncia più volte giudizi critici sul ruolo avuto dal cattolicesimo nelle comunità, in particolare sottolineandone l'intolleranza religiosa e il conservatorismo su tutto ciò che attiene alla sessualità. Ma gli zapatisti non trattano volentieri il tema della religione; temono che possa diventare un fattore di divisione all'interno del movimento, e di conflitto con le istituzioni ecclesiastiche. In particolare con don Samuel hanno rapporti complicati, che alternano fasi di avvicinamento con periodi in cui si tengono a distanza.

Marcos irride alle interpretazioni della propria figura in termini di influenze religiose: «Se mi chiamo Marcos per via di san Marco evangelista? Dio me ne scampi, no. L'ultima funzione religiosa a cui ho partecipato è stata quella della mia prima comunione. Avevo otto anni. Non ho studiato per diventare sacerdote, né per diventare papa, tanto meno nunzio apostolico. Non sono un catechista, né un parroco, niente del genere...» . Marcos combatte il sentimentalismo religioso con l'umorismo. Nelle frequenti occasioni in cui parla della morte e, in certi periodi, del sacrificio della vita, esclude di proposito ogni forma di martiropatia; non vuole offrire alcun appiglio alla metamorfosi del suo personaggio in una figura di Cristo, sull'esempio del Che Guevara. Ciò non toglie che l'atmosfera delle comunità zapatiste sia impregnata di una volontà etica talvolta al limite del puritanesimo, e di una religiosità diffusa che nei momenti critici potrebbe alimentare comportamenti messianici e millenaristici come durante le insurrezioni degli indios avvenute in passato, o come è accaduto in tempi più vicini a noi, durante la fase pionieristica della colonizzazione della Selva.

- Il movimento degli indios, dall'unione alla disunione.
Nel 1975 una delle principali conseguenze del Congresso indigeno di San Cristobal de Las Casas fu la creazione della Union de Ejidos- Quiptic ta lecubtesel (espressione tzeltal che significa «La nostra forza per la liberazione»). Questa organizzazione, che ha avuto un ruolo centrale nella mobilitazione delle comunità indigene nelle aree di colonizzazione [21], riunisce la maggior parte delle comunità tzeltal delle Canadas, mentre un'altra Union de Ejidos raccoglie le comunità tojolabal della regione. Il processo si estende a comunità delle regioni montuose e settentrionali dello Stato. Nel 1980 nasce una Union de Uniones Ejidales y Grupos Campesinos Solidarios de Chiapas, che si propone di federare le organizzazioni all'epoca indipendenti dalle istituzioni ufficiali.

Modificando la propria azione, la Chiesa accompagna la dinamica intra- intercomunitaria in cui si associano l'affermazione culturale e le lotte socioeconomiche intorno ai problemi di terra, credito, trasporti, diversificazione delle colture, commercializzazione del caffè, sfruttamento del legname, istruzione, sanità, acqua potabile e così via. Aspri motivi di conflitto mettono i coloni indigeni in contrasto con i grandi proprietari terrieri, con i commercianti e i trasportatori, con le società dedite allo sfruttamento del legname e con le istituzioni ufficiali. Una delle lotte che ha suscitato più larga mobilitazione è quella condotta dalle comunità contro l'applicazione di un decreto promulgato nel 1972 dal governatore dello Stato e dal presidente Echeverria, in base al quale si concedeva alle sessantasei famiglie di indios lacandoni uno sterminato territorio forestale (oltre seicentomila ettari) a detrimento di circa duemila famiglie di tzeltal e chol (ventisei comunità) che vi si erano di recente stabilite, e che in alcuni casi avevano ottenuto un attestato di proprietà, dopo aver sbrigato varie pratiche. La decisione era motivata con l'intento di restituire la Selva Lacandona ai suoi «legittimi proprietari, diretti discendenti degli antichi maya» e costituire una riserva ecologica, mentre in realtà gli scopi occulti erano di carattere economico: ottenere il controllo delle risorse forestali e petrolifere e del potenziale idroelettrico della zona. Nel 1977 la creazione di una «riserva della biosfera» che in parte si sovrappone alla «comunità lacandona» e a sua volta minaccia di espellere numerose comunità di coloni indios, suscita lo stesso genere di reazioni. Fino allora, la lotta per l'assegnazione della terra chiamava numerose famiglie a costituire una nuova comunità. Nella seconda metà degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta si aggiunge una dimensione intercomunitaria: le comunità si uniscono per difendere le loro terre e anche per ottenere condizioni migliori di produzione e commercializzazione (trasporti, credito e così via) .

In questa fase la Union de Ejidos-Quiptic ta lecubtesel, «la Quiptic» come la chiamano gli indios, integra le dimensioni economiche, sociali, culturali e religiose tentando di fonderle insieme: perciò Marcos ne sottolinea il carattere fondamentalista. La Quiptic si pone come omogenea dal punto di vista etnico-linguistico (una sola lingua: lo tzeltal), religioso (una sola religione: il cattolicesimo rinnovato) e dell'organizzazione sociale. A coronamento del tutto, commenta ironico il subcomandante, l'E.Z.L.N. finì per aggiungervi una dimensione militare difensiva; vi sono tutti gli ingredienti per costituire un comunitarismo armato.

Tuttavia la società indigena della frontiera di colonizzazione, e "a fortiori" quella delle zone montuose, non era così omogenea né così compatta, così impermeabile a logiche diverse, come avrebbero voluto i seguaci della teologia della liberazione. Prima che si facessero avanti gli zapatisti, il movimento degli indios era stato oggetto di interessamento e di tentativi di occupazione e assoggettamento da parte di numerose organizzazioni politiche, ufficiali, di opposizione o di orientamento ambiguo. La Chiesa vedeva con preoccupazione l'irruzione di simili gruppi in quella che considerava una propria riserva di caccia, e si sentiva sprovveduta politicamente di fronte alla «profusione di partiti politici che tenta[va]no di controllare i processi evolutivi popolari e [a] una improvvisa irruzione di oppositori del governo di ispirazione maoista» . Tuttavia, in mancanza di quadri politici, la Chiesa stessa era ricorsa all'aiuto di militanti, molti dei quali provenienti dal movimento messicano del 1968 e originari delle regioni centrali o settentrionali del paese. Alcuni di questi avevano partecipato all'organizzazione del Congresso indigeno, e poi alla costituzione dei primi organismi intercomunitari. Negli ultimi anni Settanta fra i leader degli indios legati alla diocesi e un gruppo maoista affiliato all'organizzazione, Politica Popular-Linea Proletaria, ebbe inizio una sorta di braccio di ferro la cui posta in gioco era il controllo della Quiptic. Successivamente Samuel Ruiz ha dichiarato di aver introdotto lui stesso nel pollaio quella particolare volpe . La creazione, a opera del gruppo, di una «union de crédito», allo scopo di finanziare lo sviluppo delle comunità, suscitò divisioni e conflitti in seguito ai quali i dirigenti principali di Linea Proletaria furono espulsi. Con le loro successive carriere in varie emanazioni del potere centrale questi ultimi avrebbero convalidato le accuse di avere agito come «talpe» dei settori del P.R.I., allo scopo di introdursi nelle comunità indigene per costituirvi una clientela politica. Qualche anno dopo molti di loro furono artefici del programma "Solidaridad", uno dei pezzi forti della politica di Carlos Salinas.

La crisi della Union de Uniones, culminata nel 1982-83, provocò un riflusso nel movimento degli indios; in tale contesto, pochi mesi dopo l'uscita dei capi maoisti, l'E.Z.L.N., emanazione delle Fuerzas de Liberacion Nacional (F.L.N.), stabilì il primo nucleo in una località periferica, nel folto della Selva Lacandona (novembre 1983). Mentre i maoisti aspiravano a mobilitare le masse, questo gruppo, di ispirazione castrista e guevarista, pur richiamandosi alla storia insurrezionale specifica del Messico, cominciava (o ricominciava) secondo i più rigorosi principi della teoria dei "focos" [22]; e soltanto nella seconda metà degli anni Novanta entra in contatto con le comunità. In quel periodo, mentre il movimento degli indios, nelle sue organizzazioni e nei suoi capi, doveva subire l'impatto di una recrudescenza della repressione [23] e dell'aggravarsi dei conflitti intestini, i guerriglieri organizzavano gruppi di autodifesa delle comunità.

La penetrazione del movimento zapatista nella popolazione indigena va di pari passo con la frammentazione del movimento sociale, che viene sempre più represso, mentre il potere si adopera a cooptarne alcuni membri, in particolare i dirigenti. Lo zapatismo è facilitato dalla mediazione e dal sostegno di una parte del clero e di gruppi di attivisti legati alla diocesi [24]. In un primo tempo il suo canale e supporto principale è la Union de Uniones che nel 1988 diventa ARIC, Asociacion Rural de Interès Colectivo . Ma ben presto la scelta delle armi diventa motivo di discordia, esacerbando le tensioni fra chi vuole radicalizzare la lotta per la terra e chi pensa di poter ottenere con la trattativa condizioni più favorevoli alla produzione e alla commercializzazione. Nell'ARIC si afferma sempre più la linea legalitaria ed «economicista»; alla fine del decennio gli zapatisti, esclusi dalla direzione, formano una organizzazione rivale, che si stabilisce ne Los Altos, nel Nord dello Stato e, contemporaneamente, nella Selva. Nel 1991 gli zapatisti formano la Alianza Nacional Campesina Independiente Emiliano Zapata (ANCIEZ) su base nazionale.

Per un certo periodo l'ARIC e l'ANCIEZ, quest'ultima con maggior decisione, hanno avuto un ruolo nell'«organizzare le masse», così com'è avvenuto in Guatemala a opera del Comité de Unidad Campesina (CUC) rispetto all'Ejército Guerrillero de los Pobres (E.G.P.). «Dell'ANCIEZ facevano parte anche persone dell'E.Z. Era un'organizzazione aperta, come diciamo noi, ma non poteva né trattare né stringere accordi con il governo, come faceva l'ARIC. Era clandestina, anche se aperta. Fu utilizzata per avvicinare un numero più vasto di persone.» Tuttavia, i membri dell'ANCIEZ sarebbero stati informati molto presto che lo scopo era costituire un esercito, e quindi l'organizzazione di copertura fu abbandonata .

Il 1992, quinto centenario della scoperta dell'America, è anche l'anno delle ultime manifestazioni civili dei settori più radicali del movimento contadino indigeno.

- Il 7 marzo, diverse centinaia di indios chol, del Chiapas settentrionale, intraprendono una marcia diretta alla capitale della Repubblica [25]. Dalle autorità ottengono soltanto promesse, ma suscitano una certa risonanza nel paese con la loro protesta contro la repressione, la cattiva volontà e la corruzione dell'amministrazione, contro la riforma dell'articolo 27 della Costituzione e contro il disprezzo. I mille e più chilometri percorsi in otto settimane sono un primo passo sulla via che conduce fuori dall'oblio.

- In diverse occasioni, e in particolare il 10 aprile, anniversario della morte di Emiliano Zapata, migliaia di indios manifestano, in varie località del Chiapas, sui temi già ricordati, e inoltre contro il NAFTA, il trattato con gli Stati Uniti e il Canada, che all'epoca è ancora soltanto in corso di negoziazione.

- il 12 ottobre una decina di migliaia di indios, per metà militanti nell'ANCIEZ, celebrano i «cinquecento anni di resistenza» con un'imponente marcia nelle vie di San Cristobal. Durante la sfilata schiodano la statua di Diego de Mazariegos, fondatore nel sedicesimo secolo della cittadina coloniale e simbolo di cinque secoli di oppressione.

Queste azioni non manifestano tanto l'apogeo del movimento civile, quanto la sua frattura, l'impossibilità di attenersi a una via pacifica; a posteriori appaiono come i tre colpi che annunciano l'entrata in scena della sollevazione armata.

- Le ragioni di una follia.
La società del fronte di colonizzazione, un tempo relativamente compatta, presenta oggi molte divisioni. La spinta verso la modernità ha generato disuguaglianze, costrizioni, dipendenze, e gli effetti della crisi economica accentuano la differenziazione interna e la frammentazione. La comparsa di un soggetto politico e militare insieme ha cristallizzato le divisioni fra settori economici, fra gruppi sociali e fra generazioni. I giovani se ne servono per contrastare l'autorità degli anziani, ossia dei pionieri della prima generazione, sostituendola con la propria autorità, fondata sull'organizzazione armata. Tali evoluzioni, di per sé, non ostacolano la nascita di un movimento rivoluzionario; l'insurrezione germina e matura sulle fratture delle comunità, nelle crepe della società indigena.

Il contesto generale in compenso è poco incoraggiante: crollo del blocco sovietico, in Nicaragua sconfitta elettorale dei sandinisti (febbraio 1990), accordi di pace nel Salvador (gennaio 1992) e prospettive di pace in Guatemala. Con l'eccezione di alcuni gruppi e individui, il personale della diocesi di San Cristobal, che aveva vissuto da vicino i sommovimenti rivoluzionari dell'America centrale, a questo punto sottolinea la propria distanza dagli zapatisti. In ambito nazionale, una buona metà della popolazione si è messa a sognare il primo mondo; molti intellettuali messicani, che un tempo simpatizzavano con gli ideali rivoluzionari, sono ormai arrivati a considerare il neoliberismo un orizzonte insuperabile.

Dall'esterno l'idea di un'insurrezione armata sembra pura follia; quella di un movimento rivoluzionario radicato fra gli indios, poi, appare addirittura inconcepibile (e tale la ritengono tuttora numerosi osservatori, messicani o stranieri, secondo i quali gli indios zapatisti non possono essere altro che manovrati da un agente esterno).

In questa fase, tuttavia, non è la totalità degli indios del Chiapas, e neppure di quelli della Selva Lacandona, ad abbracciare il progetto dell'insurrezione. A parte le innumerevoli scissioni particolari che incidono sulle comunità, i gruppi religiosi e le famiglie, si può riconoscere una tendenza forte: la ribellione zapatista si è sviluppata nello iato che separa le comunità tradizionali e le piantagioni da certi settori deculturati, assimilati alla società globale; essa mobilizza correnti in movimento nello spazio vuoto fra questi due mondi, ma non in transizione dall'uno all'altro. In particolare, questo vale nelle generazioni giovani che non hanno conosciuto l'antico ordinamento e si vedono sbarrare le porte del futuro.

Come in numerose rivolte analoghe, conosciute nella storia, anche questa non riguarda gli strati più poveri e più legati alla tradizione, ma proprio le frange che erano riuscite a strapparsi alla povertà e a comunità semisgretolate che erano riuscite «a tirarsene fuori» e che ora vedono minacciati o annullati i miglioramenti ottenuti a prezzo di immensi sforzi: questa rivolta è frutto della modernizzazione e della crisi stessa della modernità.

Liberandosi dalla morsa della vecchia comunità o della piantagione, questi settori si sono aperti alla società, il che ha significato emanciparsi, ma anche trovarsi in una condizione meno protetta nei confronti dell'esterno a causa della rottura di meccanismi clientelari. La colonizzazione e più in generale i programmi di sviluppo delle comunità erano accompagnati - lo ricordiamo - da un'apertura al mercato, che implica una diversificazione della produzione, l'adozione di nuove tecniche, il ricorso al credito, la commercializzazione; ne risulta un'economia non più del tutto indigente ma fragile, che dipende in larga misura da fattori e agenti esterni.

In realtà gli indios, in numero sempre maggiore, hanno adottato l'idea dell'insurrezione armata perché lo sviluppo si è scontrato in seguito con difficoltà o impossibilità di origine interna e di origine esterna: la «riserva lacandona», il fiasco degli esperimenti condotti dai maoisti, gli insuccessi di molte organizzazioni non governative legate alla diocesi, le divisioni nella Union de Uniones-ARIC... Dal canto suo, il potere oscilla fra vari imperativi contraddittori: evitare che i disboscamenti dei colonizzatori distruggano del tutto la foresta, tenere conto delle pressioni dei grandi allevatori ed eventualmente delle istanze dei piccoli coltivatori, assicurare lo sfruttamento o la conservazione delle materie prime. L'incoerenza delle decisioni politiche assunte dal governo alimenta tensioni e conflitti, che raggiungono l'apice alla fine degli anni Ottanta e al principio del decennio successivo.

Poco dopo essere stato nominato presidente della Repubblica, Carlos Salinas dà finalmente parziale soddisfazione alle comunità penalizzate dalla creazione della «riserva lacandona» e dalla «riserva della biosfera». Il Projecto Nacional de Solidaridad (Pronasol), strumento principe della politica sociale e clientelare del nuovo presidente che cerca di scavalcare il P.R.I., nel Chiapas e in particolare nelle Canadas si traduce in una quantità non trascurabile di investimenti, infrastrutture e attrezzature collettive (magazzini comunitari, dispensari, scuole, rete stradale, camion, elettrificazione, acquedotti, campi di pallacanestro...).

Tali benefici sono però filtrati dalla burocrazia corrotta e dalle reti clientelari, e spesso arrivano alle comunità come gusci vuoti, inutili o inutilizzabili (come l'impressionante ospedale costruito a Guadalupe Tepeyac, in piena giungla, lasciato, dopo l'inaugurazione, quasi privo di attrezzature e di personale), che contribuiscono a esacerbare lo scontento e la frustrazione; e in ogni caso non bastano a compensare gli effetti delle profonde evoluzioni dell'economia nazionale e mondiale e delle scelte del governo che vanno nella stessa direzione. In un contesto in cui il volume della popolazione dedita all'agricoltura non diminuisce, anzi aumenta, i programmi sociali non bastano a compensare la riduzione degli aiuti statali all'economia contadina (soppressione dei crediti ai produttori e degli aiuti alla commercializzazione) e il crollo dei prezzi.

In seguito al mancato rinnovo dell'accordo internazionale (1989), il prezzo del caffè, che assicura il salario ai lavoranti stagionali nelle piantagioni e un reddito a decine di migliaia di piccoli piantatori in aziende familiari, fra il 1989 e il 1992 crolla a meno della metà del valore iniziale. Anche l'allevamento, che per gran parte dei coloni ha un ruolo chiave nel miglioramento dell'economia contadina, entra in una grave crisi a causa delle importazioni, legali o di contrabbando, e per l'indebitamento dei grandi allevatori. Con il pretesto, non privo di fondamento, di lottare contro la deforestazione del territorio, il potere centrale dello Stato e il governo federale adottano vari provvedimenti per scoraggiare gli allevatori. Sebbene il decreto approvato dal governo Salinas venga presentato come una misura di carattere generale per la quale è legittimo invocare una giustificazione ecologica, il divieto di abbattere gli alberi incide in primo luogo su un'economia familiare che si fonda sul disboscamento, sulla coltura dei terreni incendiati e sui fuochi di legna per cucinare.

Ma il colpo più grave inflitto al processo di ammodernamento e di sviluppo, l'espressione più provocatoria della «rivoluzione neoliberista» nelle sue ripercussioni sul Chiapas, è la riforma dell'articolo 27 della Costituzione. Si tratta di una decisione capitale, promulgata nel febbraio 1992, che mettendo fine alla ripartizione dei fondi agricoli e creando le condizioni per smantellare gli "ejidos" annulla le speranze dei contadini senza terra e degli affittuari precari di poter disporre di un podere da coltivare in piena sicurezza. E' questo il principale detonatore dell'insurrezione.

Nel Chiapas la riforma agraria è stata avviata con grande ritardo negli anni Trenta, dal governo di L zaro C rdenas. In seguito i grandi proprietari terrieri avevano ripreso il sopravvento e avevano ricominciato a opporsi con forme ostruzionistiche. La «famiglia chiapaneca» (così si autodefinisce l'oligarchia locale) conservava il controllo di vasti territori, servendosi di prestanome per aggirare le limitazioni imposte dalla legge alla proprietà fondiaria, ottenendo l'appoggio di personaggi governativi, i quali spesso erano a loro volta membri della «famiglia», e ricorrendo alla violenza. Dagli anni Cinquanta in poi l'enorme fame di terre accumulata dai contadini indios trova sfogo nella colonizzazione di Las Canadas e della Selva Lacandona, che servivano quindi da valvola di sicurezza per i grandi latifondisti.

Nonostante i conflitti per il possesso delle terre, o, per essere più esatti, a causa di questi, avvenivano periodiche assegnazioni di titoli di proprietà fondiaria, che riguardavano anche le aree di colonizzazione, soprattutto alla vigilia delle elezioni; comunque mai in numero adeguato a colmare un passivo fondiario [26] ancor più aggravato dal ritmo sostenuto della crescita demografica, e tuttavia sufficiente per mantenere viva la speranza dei diseredati. Nei primi anni Novanta, oltre un quarto delle domande per l'assegnazione di fondi agrari provenienti da tutto lo Stato messicano e rimaste inevase riguardava il solo territorio del Chiapas. Con la revisione dell'articolo 27 la riforma agraria sembrava condannata a rimanere per sempre incompiuta.

Questa volta il sogno era davvero infranto: il sogno di insediare nella Selva comunità autonome, emancipate dai grandi proprietari, dagli intermediari, dai rappresentanti del potere; il sogno di una «società malgrado lo Stato» (il potere, che aveva tergiversato e si era dimostrato poco disponibile, quando addirittura non aveva moltiplicato gli ostacoli, ormai minava alla base una delle condizioni che avevano permesso di sognare la terra promessa); il sogno di disporre di un palmo di terra senza che nessuno potesse interferire, condizione indispensabile alla sopravvivenza e alla libertà, alla possibilità di costruire un futuro per i figli. La terra che era stata conquistata e resa coltivabile con tanta fatica rischiava anch'essa di sfuggire di mano. Che cosa poteva esserci di più intollerabile? Era normale che i politici tradizionali e i burocrati delle amministrazioni agrarie sfruttassero per i propri obiettivi e interessi privati l'aspirazione dei contadini a possedere le terre. I tecnocrati che formulano le nuove strategie politiche considerano l'attaccamento alla terra un semplice sintomo di ritardo culturale e una causa di sottosviluppo; non si rendono conto che nel Chiapas esso è stato motore di sviluppo e di ammodernamento della società india.

Arturo Warman, esperto della riforma agraria messicana, un tempo difensore dei contadini e oggi appartenente agli artefici della svolta neoliberista, non riesce a capire che la rivolta zapatista sia nata per una dinamica interna di quella società india. A suo giudizio, l'investimento pubblico in progetti sociali ed economici nel Chiapas non è mai stato così ingente né ha avuto un orientamento più corretto che sotto il governo Salinas . Questo significa volersi chiudere in una doppia cecità; l'insurrezione deriva da un movimento profondo che si è scontrato con la repressione e la crisi; le risorse distribuite dallo Stato federale con il Pronasol e altri programmi sono rimaste sotto il controllo delle autorità regionali [27] e difficilmente potevano compensare l'aggressiva politica neoliberista. La ribellione contro l'oblio aveva già scavato un solco molto profondo; non poteva essere tenuta a freno da palliativi, ed era destinata a esplodere per effetto di decisioni che chiudevano la porta alla speranza.

Nei primi anni Novanta la crisi e la repressione avevano portato consistenti settori della popolazione india a unirsi al movimento armato. La riforma dell'articolo 27 li fece decidere per l'insurrezione; così come non fu un caso che questa scoppiasse il primo gennaio 1994, nella data in cui entrava in vigore il NAFTA. Oggi sappiamo come si sia alzato il vento della rivolta, e come il potere stesso abbia dato fuoco alle polveri per non aver saputo prevedere una simile reazione. Ma un'insurrezione di questo genere non si sarebbe potuta verificare se il movimento indio non si fosse combinato con un altro fattore, il movimento della guerriglia, e se quest'ultimo non avesse subito una metamorfosi.

LA METAMORFOSI DELLA LOTTA ARMATA
«Che cosa importa dove ci coglierà la morte, purché sia udito il nostro grido di guerra...» L'auspicio (funebre) di Che Guevara sembra ancora una volta esaudito con la comparsa dell'E.Z.L.N., che dichiara guerra al governo messicano.

Ennesima edizione del castro-guevarismo, dopo Cuba, dopo i movimenti dei "focos" di guerriglia degli anni Sessanta, dopo i guerriglieri urbani del Cono meridionale? L'ultima guerra centroamericana?

Marcos dichiara con insistenza che il movimento zapatista non ha avuto il minimo appoggio dai guerriglieri dell'America centrale e neppure dagli altri movimenti latinoamericani; e semmai ne ha infastidito e irritato alcuni, in particolare quello guatemalteco, per il quale il Messico era una base di retroguardia o un sostegno.

Simili affermazioni non esauriscono l'argomento; è compito degli storici chiarire eventuali contatti e rapporti fra i fondatori dell'E.Z.L.N. e Cuba e le organizzazioni rivoluzionarie centroamericane. Ma un problema più significativo, e centrale nella conversazione che segue, è sapere come lo zapatismo si definisca rispetto a quei movimenti di liberazione nazionale che negli ultimi decenni, dalla rivoluzione cubana a quella sandinista, fino all'E.P.R. messicano, hanno segnato la storia dell'America latina.

La risposta di Marcos è duplice: riconosce una affinità e insieme rivendica una forte originalità.

- L'ultima guerra dell'America centrale?
Da principio, e in certa misura fino al gennaio 1994, l'E.Z.L.N. si iscrive nella tradizione guevarista, influenzata dalle esperienze di Nicaragua e Salvador, corrette e arricchite dalla tradizione insurrezionale messicana. In compenso l'E.Z.L.N. non si richiama affatto al maoismo, sebbene alcuni suoi membri ne siano stati segnati, e benché le organizzazioni maoiste non armate, attive nel Chiapas negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, abbiano lasciato tracce nelle forme di mobilitazione socioeconomica e nella politicizzazione di certi settori del ceto contadino indio
[28].

L'influsso dei movimenti rivoluzionari latinoamericani è palese nell'uso di determinati simboli e in certe scelte lessicali: i colori rosso e nero, la denominazione «esercito di liberazione nazionale». Concetti quali il socialismo, la lotta di classe, la dittatura del proletariato sono rimasti a lungo nei testi e nelle dichiarazioni di vari membri o simpatizzanti dell'E.Z.L.N. prima di essere eliminati o annacquati [29]. Le operazioni militari del gennaio 1994, in particolare la battaglia di Ocosingo, non possono non ricordare l'insurrezione sandinista del luglio 1979 e l'estrema offensiva lanciata nel novembre 1989 dal Fronte Farabundo Marti nella capitale salvadoregna, due giorni dopo la caduta del muro di Berlino [30]. Vi sono tuttavia enormi differenze, fra le quali occupa un posto di rilievo il carattere meno «strategico», più disperato, più suicida, della rivolta zapatista. Quest'ultima dal punto di vista politico- militare non regge davvero il paragone con i precedenti citati; la sua forza, anche quella militare, è soprattutto simbolica [31].

L'E.Z.L.N. è nato nella Selva Lacandona, che prosegue in territorio guatemalteco con l'Ixc n, dove dieci anni prima era sorto l'E.G.P. Quando si formò il primo nucleo zapatista (novembre 1983), decine di migliaia di indios maya, che i guerriglieri guatemaltechi consideravano parte della propria «base sociale», si erano da poco rifugiati in Messico per sfuggire a una campagna controinsurrezionale di efferata crudeltà. L'E.G.P. conservava la propria influenza sui campi profughi sorti lungo il confine; nel 1984, però, il governo messicano smantellò i campi, deportando quasi tutti i profughi a molte centinaia di chilometri di distanza, negli Stati del Campeche e del Quintana Roo. Le contiguità spaziotemporali, ma anche certi caratteri comuni nel reclutamento, nell'armamento, nel modo di presentarsi, nei rapporti con le organizzazioni sociali (come si è visto, per qualche tempo l'ARIC, e soprattutto l'ANCIEZ, sono state per l'E.Z.L.N. quello che il CUC era stato per l'E.G.P.), hanno indotto diversi osservatori a ipotizzare l'esistenza di stretti legami fra il movimento di guerriglia del Chiapas e quello guatemalteco; e in particolare con l'E.G.P., in quanto l'ORPA, che associava riferimenti etnici e nazionali così come il movimento zapatista, era per altri versi più lontana. Peraltro, tutto induce a credere a Marcos quando sostiene che i guerriglieri guatemaltechi non vedevano di buon occhio la nascita di un movimento armato in una regione di cui essi si servivano come luogo di rifugio e di transito.

Senza dubbio i punti di similitudine fra i due movimenti si spiegano piuttosto con le analogie nel contesto sociale, culturale e religioso, e non per una diretta influenza fra le due organizzazioni, in ambito ideologico o strategico. Entrambi riconoscevano certo una loro affinità con il guevarismo e il sandinismo, ma il movimento guerrigliero guatemalteco, in trent'anni di vita, e anche nella fase in cui era penetrato in ampi settori della popolazione india delle montagne (1979-82), non l'aveva mai rivelata in operazioni come l'occupazione di città o di grossi centri abitati per le quali l'E.Z.L.N. è diventato celebre. Soprattutto a partire da questo momento, nella fase successiva al primo gennaio 1994, lo zapatismo si colloca agli antipodi del modello negativo guatemalteco, che costituisce una delle due esperienze di lotta armata più fallimentari tra quelle emerse in America latina negli ultimi decenni [32].

L'insurrezione zapatista si verifica nel momento in cui il movimento rivoluzionario sembra aver toccato il fondo, in America latina e su scala mondiale. Tom s Borge, vicino a Fidel Castro e capo dell'ala più leninista del sandinismo, nel 1993 pubblica un libro per esaltare Carlos Salinas, araldo del neoliberismo e artefice dell'ingresso del Messico nel NAFTA . Nel dicembre dello stesso anno il brillante politologo messicano Jorge Castaneda pubblica un'opera in cui constata la fine delle lotte armate rivoluzionarie nell'America latina .

Se guardiamo a certi suoi giudizi sui motivi della decadenza del sistema sovietico, e su Cuba, Marcos non sembra offrire una valutazione adeguata di quello che hanno rappresentato i regimi comunisti. In compenso, però, ha tratto le conseguenze dalla loro scomparsa. Il muro di Berlino ha trascinato nel suo crollo i movimenti rivoluzionari dell'America latina, di cui quello salvadoregno ha fatto brillare gli ultimi fuochi. Nei movimenti che sono sopravvissuti, in Colombia o in Perù, quanto resta di ideologia marxista e di prassi leninista è un tenue paravento che non riesce a coprire l'esercizio violento del potere, le pratiche mafiose e la chiusura in un orizzonte regionale o tutt'al più nazionale.

Gli zapatisti invece possono attingere alle fonti di altri due nuclei dell'immaginario: indio e messicano.

- Viva Vot n-Zapata! Un'insurrezione sociale ed etica.
Come dice Marcos, fin dalle sue origini lo zapatismo rifiuta il ricorso alla giustizia sbrigativa, alle esecuzioni sommarie ("ajusticiamientos"), agli «espropri» e ai rapimenti, spesso praticati su larga scala da altri gruppi guerriglieri dell'America latina, e anche da altri gruppi messicani. Nondimeno i precursori e fondatori dell'E.Z.L.N. condividevano con gli altri movimenti guerriglieri la cultura politica e le prassi leniniste, autoritarie, militariste e antidemocratiche. La componente di estrazione urbana e gli indios politicizzati appartenenti al gruppo originario dell'E.Z.L.N. erano impregnati di concezioni e comportamenti che, pur senza scomparire del tutto, sono passati in secondo piano a mano a mano che diminuiva il loro peso all'interno del movimento. Mentre sfumavano i riferimenti al movimento rivoluzionario internazionale, diventavano più netti i riferimenti messicani, presenti fin da principio; ma soprattutto si è accentuata la dimensione india.

Al discorso e alle pratiche leniniste si è sostituita l'insurrezione armata sociale e morale; si è passati dalla mobilitazione di un agente sociale da parte di un'avanguardia politica e militare alla pratica del segreto e della clandestinità condivisi nell'ambito della comunità. Il movimento di guerriglia costituito da un pugno di professionisti della rivoluzione si è trasformato in un movimento comunitario armato, in cui i combattenti, a parte un ristretto nucleo di quadri militari e politici, sono contadini che prendono le armi (il più delle volte vecchi fucili malandati) per la durata dell'insurrezione, dopo di che tornano alle proprie occupazioni abituali, come facevano i contadini soldati di Emiliano Zapata.

Che Guevara tende progressivamente a ridursi a un punto di riferimento etico, l'immagine del ribelle a oltranza. Viceversa, la figura di Emiliano Zapata è più imponente e ha maggiore risonanza agli occhi dei messicani e degli indios contadini (anche se essi sono di origine maya e quindi periferici rispetto alla società messicana, sia in epoca precolombiana, sia durante la colonizzazione o nel corso della Rivoluzione).

Il modello insurrezionale di stampo messicano e il radicamento nella comunità india hanno avuto la meglio sull'avanguardismo leninista o guevarista. La figura centrale di riferimento diventa quella di Vot n- Zapata, personaggio sincretico in cui si fondono due figure tutelari, di due difensori delle terre delle comunità. Vot n, personaggio leggendario che secondo lo storico Antonio Garcia de Leon presso alcuni indios chiapanechi riveste appunto tale funzione, si incarna in Zapata, l'eroe della Rivoluzione messicana, tornato questa volta con un progetto politico nazionale, sebbene neppure oggi il suo obiettivo sia di impadronirsi del potere. Il risultato è questa nuova - e fragile - lega: lo zapatismo.

Negli anni Novanta il progetto di ridare vita all'esercito di Zapata e il richiamo alla famosa Division del Norte potevano passare come fantasticherie romantiche accarezzate da qualche intellettuale insoddisfatto dal troppo prosaico presente messicano e ben lontano dalle realtà del Chiapas. Marcos racconta per quali intermediari, e partendo da quali fratture, da quali conversioni, il sogno sia stato fatto proprio da una porzione considerevole degli indios che popolano il Chiapas; come tale sogno abbia trovato un principio di realizzazione nella resistenza e nella ribellione degli indios, e come per tale incontro si sia trasformato, prima di mutare una seconda volta dopo lo scontro con la società nazionale.

- Un movimento di antiguerriglia.
Il movimento zapatista non è la continuazione o il rilancio dell'antico movimento guerrigliero: al contrario, nasce dal fallimento di questo, non solo dalla disfatta del movimento rivoluzionario in America latina e altrove, ma anche da una disfatta più intima: quella dello stesso progetto zapatista quale era stato concepito e varato nei primi anni Ottanta dai pionieri dell'E.Z.L.N., un pugno di meticci e di indios. Una disfatta inflitta non dal nemico, ma dovuta all'incontro con le comunità indie: il contatto con queste ultime, anziché convertirle alla logica dell'organizzazione politico-militare, produce uno shock culturale il cui esito è un rovesciamento delle gerarchie; i membri dell'antica avanguardia che sono sopravvissuti e sono rimasti nella Selva si mettono al servizio della dinamica dell'insurrezione india. Il secondo zapatismo, quello che si manifesta il primo gennaio 1994, è nato da quello scacco.

La continuità, se c'è, sarebbe semmai quella del movimento indio; ma anche in quel caso, come si è visto, sono le divisioni e le crisi a provocare il passaggio da un movimento di emancipazione e modernizzazione (il movimento articolato secondo la prospettiva e l'organizzazione del Congresso indigeno del 1974, e in seguito nel prolungamento di questo) a un movimento insurrezionale.

Dopo il suo spettacolare disvelamento, dopo l'impatto formidabile dell'insurrezione, quello zapatismo ha subìto a sua volta una sconfitta, non militare, ma civile, inflitta dalla società civile e anche dal potere (una cosa che gli zapatisti non riconoscono volentieri) attraverso la decisione del governo di nominare un negoziatore, nella persona di Manuel Camacho Solis, e di decretare un armistizio. La strategia zapatista dello scontro armato è vanificata da un lato dal rifiuto degli altri settori della società di seguire gli zapatisti su questo terreno e, dall'altro, dal rifiuto del potere di stare al gioco della polarizzazione: in effetti la decisione di Salinas non si spiega tanto con una pressione esercitata dalla società civile, quanto con il timore di ripercussioni internazionali e con la volontà di salvare il proprio progetto e la propria immagine.

Così lo zapatismo si trova bloccato nel suo slancio; facendo irruzione sulla scena nazionale, il movimento zapatista scopre un paese diversissimo da quello che aveva immaginato, e ciò lo destabilizza. Comincia quindi una conversione che ancora non si è compiuta, la trasformazione del movimento armato in un soggetto politico; compare un «neozapatismo» o, se si vuole, un terzo zapatismo, che era già contenuto, in nuce, nel precedente.

Il progetto politico-militare ha lasciato il posto a un movimento comunitario armato che cerca esso stesso di trasformarsi in movimento civile. In questa fase, cominciata nel 1994 e tuttora in corso, persistono le dimensioni della resistenza e della rivolta armata; ma la violenza è contenuta, dominata e mirata allo scopo di far nascere una forza civile, che non avrebbe tanto il fine di rovesciare la piramide del potere, quanto di inventare un sistema e una cultura politica al servizio della società, della base.

Alcuni mesi dopo l'insurrezione, Jorge Castaneda confermava la sua tesi sull'eclisse delle lotte armate rivoluzionarie e vedeva nello zapatismo un movimento di carattere squisitamente politico: «L'esercito zapatista non è una trasfigurazione messicana dell'eroico guerrigliero; i suoi membri sono eroici, ma non sono guerriglieri» [33]. Non che si voglia dispiacere a Marcos, ma gli stessi zapatisti sembrano sforzarsi di dare ragione a Castaneda. Lo zapatismo non è, non è più, un movimento di guerriglia; neppure una «guerriglia con altri mezzi» . E' un movimento armato (poveramente) che dice no alla guerra, alla teoria dei "focos" dei suoi iniziatori guevaristi, ma anche alla guerra popolare prolungata cara ai maoisti, e persino alla guerra insurrezionale proclamata nella sua prima dichiarazione pubblica. Mettendo da parte le dispute ideologiche e strategiche, ciò che i movimenti di guerriglia rivoluzionaria latinoamericani degli ultimi decenni avevano in comune, tutti, senza eccezione, era l'obiettivo di conquistare il potere statale con le armi.

Gli zapatisti di oggi dichiarano di voler scomparire come organizzazione di lotta armata, e di non volere per sé nessuna posizione di potere; ciò li avvicina agli zapatisti del primo Novecento: ma lo Zapata che popola il loro immaginario non può bastare a definire una proposta adeguata al Messico del ventunesimo secolo.

Alla luce delle passate esperienze, è relativamente facile individuare il progetto politico-militare iniziale dell'E.Z.L.N. attraverso un meccanismo di similitudini e differenze. Allo stesso modo, è possibile analizzare il cocktail zapatista, emerso d'un tratto il primo gennaio del 1994; si può addirittura capire che l'insurrezione, nata dall'incontro fra un'organizzazione rivoluzionaria e un movimento comunitario, abbia avuto mire e portata nazionali; ma qual è il progetto dello zapatismo successivo al 1994?

DEMOCRAZIA, COMUNITA' E NAZIONE
Aver sostituito certe categorie, come socialismo, lotta di classe e dittatura del proletariato, con quelle di democrazia, giustizia e libertà non è stata un'operazione di facciata: si tratta di qualcosa di più di una nuova formulazione, e qualcosa di meno di una frattura rivoluzionaria. E' un passaggio. Anche nell'ambito del pensiero politico Marcos è un traghettatore; ma mentre in ambito culturale assicura il passaggio nei due sensi, all'andata e al ritorno, in politica è colui che, dopo aver lasciato l'antica riva, cerca di scoprire un mondo politico nuovo, di inventare una democrazia dove trovino posto l'istanza etica (la giustizia) e l'aspirazione al riconoscimento (la libertà, la dignità).

Non si può scartare l'ipotesi di una regressione, di un ritorno dell'ideologia e delle antiche pratiche rivoluzionarie, stemperate nell'esperienza dell'alterità: ma questo comporterebbe il fallimento dello zapatismo, il segno che quanti erano partiti alla ricerca di un nuovo continente hanno fatto naufragio, e sono stati recuperati da quello che ancora sussiste dei vecchi apparati, dagli specialisti dei viaggi su percorsi segnalati, organizzati sulle rotte del potere.

Gli zapatisti, infatti, invitano a lanciarsi nell'avventura, a mollare gli antichi ormeggi senza avere nessuna certezza né della meta, né dei mezzi per raggiungerla. «Benvenuta l'indeterminatezza» proclama Marcos, e subito si riprende: non si può pretendere di diventare un movimento sociale e politico, e nello stesso tempo rimanere ancorati a una posizione estetica.

Nonostante una certa vaghezza, lasciando da parte evoluzioni, fluttuazioni, sfumature e contraddizioni, il pensiero e l'azione del neozapatismo si articolano intorno ad alcuni interrogativi forti, riguardanti il potere, la democrazia, il sistema politico, la società civile, la comunità, la nazione, la comparsa di un soggetto nuovo.

- Le questioni sollevate dal potere.
Gli zapatisti mettono al centro la politica, la questione del potere, la questione politica nazionale; e tuttavia affermano di non aspirare al potere in prima persona.

Secondo Marcos, fin dalle origini l'E.Z.L.N. avrebbe preso le distanze dal progetto di impadronirsi del potere; a quanto egli dice, gli zapatisti, anche quando sognavano ancora la rivoluzione socialista, non pensavano di essere destinati a esserne le levatrici, e men che meno gli artefici o i beneficiari; speravano che un giorno altri avrebbero fatto la rivoluzione e di poter dare, per quanto li riguardava, il loro contributo.

La caratterizzazione india, l'«inculturazione» del movimento (in Messico come altrove, è raro che gli indios aspirino a impadronirsi del potere statale), il crollo dei punti di riferimento rivoluzionari esterni e il rifiuto della società civile di intraprendere il cammino dell'insurrezione hanno sconvolto i progetti degli zapatisti. La prospettiva di distruggere il potere attuale con la lotta armata e di edificare il socialismo è scomparsa dall'orizzonte. Come l'hanno sostituita? E l'hanno sostituita?

Proponendosi di creare un ramo civile - il Fronte zapatista di liberazione nazionale - il movimento zapatista nega di voler far nascere un partito politico, e i candidati a far parte di tale organizzazione devono rinunciare a cercare di procurarsi cariche elettive o nomine governative, a qualsiasi livello. «Perché dovremmo essere un partito politico? Non ce ne sono già abbastanza? Non riescono a capire che un movimento politico possa non essere interessato al potere politico?» .

Ma che cosa è un soggetto politico che non cerca il potere? E' forse possibile prenderlo sul serio (soprattutto quando è esso stesso a rifugiarsi nell'umorismo e nell'autoironia)? Agli occhi delle autorità, degli uomini politici «realisti», del sistema politico nel suo complesso, compresa la sinistra di Stato, spesso gli zapatisti appaiono idealisti, teneri sognatori. L'Esercito popolare rivoluzionario li definisce «poeti-guerriglieri». «La politica» afferma questo movimento «serio» di guerriglieri «non è la continuazione della poesia con altri mezzi.» Non è stato lo stesso Marcos a definire un poema la presa di San Cristobal?

Come si fa a cambiare la politica senza prendere il potere? La volontà di conciliare radicalismo e apertura spesso induce gli zapatisti ad assumere, in politica, posizioni esitanti e confuse. Tuttavia da questa tensione nascono la loro originalità e inventiva. Troppo spesso i tentativi di riforma o di rivoluzione sono precipitati nel mimetismo e nella cooptazione, o hanno dato vita a poteri più mostruosi di quelli che pretendevano di sostituire. Octavio Paz, che insieme con altri chiede agli zapatisti di «rientrare nel gioco» («Se Marcos e i suoi partigiani, nel Chiapas e nel resto del paese, vogliono sopravvivere come forza politica, devono trasformarsi in un nuovo partito politico o associarsi a uno di quelli già esistenti») (4), sa meglio di chiunque altro che i progressi della democrazia e del riconoscimento di nuovi soggetti sono sempre preparati dai dissidenti; Paz può anche capire che Marcos esiti a inoltrarsi su un terreno che soprattutto nel Messico è viziato e minato. Ma è altrettanto vero che la tentazione della purezza può condurre all'impotenza e alimentare utopie assassine e suicide.

Da quando si è innestato nelle comunità, lo zapatismo è un movimento che ha per obiettivo l'uscita dal «Deserto della Solitudine» e l'apertura di un varco sulla scena nazionale, pur continuando a coltivare la base india (le radici, la radicalità). Nella difficile ricerca del «passaggio a nordovest» da parte degli insorti del Sudest messicano, si associano l'affermazione di un ideale di democrazia comunitaria, l'istanza di apertura del sistema politico e l'appello alla ricomposizione della nazione.

- Comandare obbedendo alla parola comune.
Tra i fondamenti di tale concezione si trova l'articolazione di due principi: l'"acuerdo" («la parola comune») e il "mandar obedeciendo" («comandare obbedendo»), così formulata nel documento seguente, spesso citato e seducente ma nel quale c'è una definizione ambigua e discutibile della democrazia:

«Quando l'E.Z.L.N. era solo un'ombra che si trascinava tra la nebbia e l'oscurità delle montagne, quando giustizia, libertà e democrazia non erano che parole. Appena un sogno che gli anziani delle nostre comunità, veri guardiani delle parole dei nostri morti, ci avevano affidato nel momento esatto in cui il giorno cede il passo alla notte, quando l'odio e la morte iniziavano a crescere nei nostri petti, quando quasi non era più rimasta speranza. Quando i tempi si ripetevano, senza via d'uscita, senza un domani, quando più niente era giusto, hanno parlato gli uomini leali, i senza volto, quelli che si muovono nella notte, quelli che sono la montagna e hanno detto:
«La ragione e la volontà spingono le donne e gli uomini d'animo buono a cercare e trovare la maniera migliore di governare e governarsi, ciò che è buono per i più è buono per tutti. Ma che le voci dei meno non tacciano, che continuino al loro posto, in attesa che il pensiero e il cuore si accomunino in ciò che è la volontà dei più e opinione dei meno; così gli uomini e le donne leali crescono interiormente e si fanno grandi e non c'è forza esteriore che possa ferirli o portare i loro passi su altre strade.
«Noi ci siamo sempre mossi in maniera che la volontà dei più penetrasse nei cuori degli uomini e delle donne che comandano. Essi avrebbero dovuto muoversi al passo di questa volontà maggioritaria. Se avessero deviato da quella che era la ragione della gente, il cuore che comanda avrebbe dovuto trasformarsi in un altro che obbedisce. Così è nata la nostra forza sulle montagne, chi comanda obbedisca se è leale, colui che obbedisce comandi attraverso il cuore comune degli uomini e delle donne leali. Una parola venne da fuori affinché questo governo potesse denominarsi, e la parola con cui è stato chiamato questo nostro camminare che è in marcia fin da prima che le parole camminassero, è "democrazia"»
[34].

Gli zapatisti offrono molteplici varianti del tema della democrazia comunitaria. Marcos, riecheggiando i compagni indios, afferma: «Si dovrebbe pretendere ... che le strutture giuridiche federali, statali e municipali si sottomettano al nostro governo perché noi siamo più avanti nel campo delle conquiste democratiche di quanto non lo sia la forma di governo che le autorità ci propongono» ; con questa dichiarazione il subcomandante si riferisce essenzialmente alla sfera locale, ma talvolta gli zapatisti danno ad affermazioni analoghe una portata più generale. Nelle conversazioni che seguono, tuttavia, Marcos si mostra più riservato, e talvolta nettamente critico, circa la pratica del consenso ("acuerdo"), mentre il comandante Tacho ne tesse le lodi.

In che cosa consiste una simile «democrazia comunitaria»? Può essere generalizzata al complesso della società messicana? Non è forse una pericolosa utopia? Il movimento zapatista è in sé democratico nel suo funzionamento interno e nei suoi rapporti con le popolazioni delle sue zone di influenza?

Secondo una versione semplificata e idealizzata, nelle comunità indie tradizionali le decisioni sarebbero prese in assemblea, dopo lunghe discussioni. In realtà le forme comunitarie di governo sono tutt'altro che democratiche. Il fatto che dalle assemblee scaturisca una «parola comune» non vieta che le decisioni sulle questioni essenziali siano prese da singoli individui o da piccoli gruppi. Il sistema di governo consueto può definirsi una gerontocrazia maschile: un sistema di autorità (il sistema delle cariche) gerarchico e verticista, dominato dai "principales" e dagli sciamani, e manovrato dai cacicchi che assicurano il collegamento con il sistema politico nazionale. La pratica del consenso comunitario si accompagna a forme di violenza simbolica e spessissimo di violenza fisica; esclude la dissidenza, l'astensione, il conflitto, e inoltre vieta la partecipazione delle donne al dibattito e alle decisioni [35].

Non è da simili comunità che nasce il movimento zapatista, sebbene gli accada di idealizzare la «consuetudine» (la tradizione) o di rimanere piuttosto sul vago a questo proposito. In sostanza le sue basi appartengono a settori indigeni che hanno rotto con la tradizione, oppure sono fuggiti da un altro sistema chiuso, quello delle piantagioni. Abbiamo visto come in tal modo si siano costituite nuove comunità, compattate intorno a una volontà collettiva che spesso è intollerante nei confronti delle opinioni dei singoli o delle minoranze («quello che va bene per il più gran numero va bene per tutti»), ma alla quale è sottesa l'esigenza di estendere la partecipazione al maggior numero di persone, l'esigenza dell'uguaglianza e dell'autonomia. I "principales" e gli sciamani hanno perduto potere; i consigli degli anziani sono stati sostituiti da autorità elette dalla comunità nella generazione dei catechisti, degli uomini dai venti ai quarant'anni.

Per creare una società libera non basta emanciparsi dai legami di dipendenza interni ed esterni, e nelle nuove comunità la pratica del consenso può rivelarsi soffocante quanto il modello autoritario tradizionale. Marcos imputa la mancanza di democrazia nelle comunità pionieristiche della Selva con le esigenze imperative della sopravvivenza, alla necessità, negli anni dell'esodo e dell'insediamento, di porsi come un corpo compatto di fronte alle aggressioni dello Stato, dei grandi proprietari e degli intermediari. Lo zapatismo stesso, rafforzando l'autoritarismo del consenso con quello delle armi, ha manifestato una forte tendenza al comunitarismo, e qualche difficoltà a gestire, anzi ad accettare, punti di vista diversi o contrari ai propri. Per scongiurare tale rischio, Marcos propugna l'estensione del voto, la partecipazione delle donne e la possibilità di tener conto delle opinioni minoritarie, non solo per la costituzione di un pensiero e di un sentimento comuni, come si dice nel testo citato sopra, ma per realizzare una democrazia che riconosca la legittimità dei vari punti di vista e del conflitto. Marcos afferma che per diventare democratiche le comunità devono aprirsi alla società globale e confrontarsi con modalità di consultazione e di formulazione delle decisioni diverse da quelle a loro consuete. Lo zapatismo stesso si democratizza e diventa fattore di democratizzazione nella misura in cui si inserisce in questo movimento e contribuisce ad accelerarlo. Il suo affacciarsi sulla scena nazionale nel 1994 ha rappresentato una svolta decisiva anche sotto questo aspetto; ma la democrazia non è compatibile con la guerra, e Marcos riconosce che lo zapatismo potrà essere democratico soltanto quando sarà convertito in un soggetto politico nell'ambito della società civile [36].

L'ideale zapatista di una democrazia pluralista presume quindi la convergenza di due movimenti: la democratizzazione delle comunità attraverso il confronto con gli altri settori della società civile messicana; e quella della società nazionale, ispirata al principio del "mandar obedeciendo" e condizionata da una profonda riforma del sistema politico, in cui sia compreso il riconoscimento delle forme comunitarie di elezione e rappresentanza.

- Aprire il campo della politica.
La condizione primaria della democratizzazione è lo smantellamento del sistema del partito-Stato impostato nel 1929 dal presidente Calles, e tuttora vigente. La prima Dichiarazione della Selva Lacandona chiedeva la fine della «dittatura» esercitata dal Partito rivoluzionario istituzionale e la deposizione del capo dell'esecutivo, nella fattispecie Carlos Salinas, a opera delle «altre istanze della Nazione».

Tuttavia, far saltare il meccanismo di identificazione fra Stato e P.R.I. è soltanto la condizione minima, necessaria ma non sufficiente, della democratizzazione. Se è vero che nel Messico postrivoluzionario il potere si è sempre appoggiato su un partito praticamente unico, non si è mai appiattito del tutto su di esso. La chiave di volta del sistema è il presidente: Carlos Salinas aveva cominciato l'impresa, se non di frantumare il P.R.I., almeno di ridurne il potere e l'influenza. Si sono pensate altre formule, più o meno autoritarie rispetto a quella del partito-Stato o del presidente onnipotente, e si è cominciato a sperimentarle. Da un lato assistiamo ai progressi di un multipartitismo che per il momento è ancora contenuto e controllato: il P.R.I. tende sempre più a lasciare posti di sindaco, di governatore e, in casi più eccezionali, frazioni del potere federale, nelle mani dell'opposizione di destra, rappresentata dal Partido de Accion Nacional (PAN) o, più raramente, in quelle dell'opposizione di sinistra riunita nel Partito della rivoluzione democratica; d'altro lato i militari, che sotto il governo assoluto del P.R.I. erano relegati in secondo piano, oggi occupano sempre più spesso posizioni di potere.

Gli zapatisti continuano a reclamare un «governo di transizione alla democrazia» e l'apertura dello spazio politico. Non respingono (non respingono più) le istituzioni e i soggetti esistenti, salvo quelli che considerano eletti in modi fraudolenti: a differenza di Salinas, Zedillo non viene denunciato come illegittimo e usurpatore. Chiedono che si accettino altre regole del gioco, che venga lasciato posto a soggetti e prassi diversi, e in primo luogo alla «società civile», ovvero all'insieme delle associazioni e organizzazioni indipendenti dal potere e dai partiti.

Lo zapatismo vuole essere un movimento che agisce dall'esterno sulle componenti del sistema politico, propugnando il dialogo senza altre condizioni che quelle poste dagli interlocutori: «Noi rispettiamo quelli che ci rispettano. Noi non apriamo la porta a coloro che ci disprezzano». Dal 1994 fino alla riforma elettorale del 1996, che precisa le regole di un limitato multipartitismo [37], il dibattito politico è stato in buona parte attraversato dalla questione del Chiapas, e Marcos immagina (sbagliando?) che per le elezioni legislative del luglio 1997 i candidati verranno a chiedere agli zapatisti il sigillo morale che a loro manca.

Lo sforzo di trovare un equilibrio fra radicalismo e apertura, percettibile nei rapporti fra zapatismo e soggetti politici nazionali, si nota anche nelle fluttuazioni, esitazioni e mancanza di tratti definiti che lo zapatismo manifesta sulla scena politica locale e regionale. Tradizionalmente il Chiapas esprimeva un elettorato legato mani e piedi al partito al potere. Miguel de la Madrid e Carlos Salinas, candidati ufficiali alla presidenza della Repubblica rispettivamente nel 1982 e nel 1988, vi hanno ottenuto le percentuali più alte, uno schiacciante 90 per cento. Allo stesso modo il P.R.I., strumentalizzato dall'oligarchia regionale, non aveva avversari degni di questo nome nelle elezioni municipali e quando si trattava di eleggere deputati e senatori o il governatore dello Stato; le rare velleità di emancipazione erano subito soffocate. A differenza di quanto succede in Guatemala o nello Stato messicano di Oaxaca, il movimento di emancipazione e di modernizzazione degli indios del Chiapas aveva prodotto soltanto rari tentativi di occupare cariche municipali. Un anno prima dell'insurrezione, un osservatore in visita in un villaggio destinato a divenire feudo zapatista scriveva: «Gli abitanti non hanno ancora preso la politica nelle proprie mani, sono tutti passivi e non si entusiasmano per le cariche municipali» .

Le lotte vertevano principalmente su rivendicazioni economiche e sociali, e pur contribuendo a sconvolgere i rapporti di potere all'interno delle comunità, salvo eccezioni lasciavano intatte le strutture ufficiali del potere. Così il movimento conservava una relativa «invisibilità» per le istanze politiche regionali e nazionali, agli occhi delle quali l'indio era apolitico e manovrabile in modo essenziale e irrimediabile. Gli «indios politicizzati», di cui Marcos sottolinea il ruolo nel costituire e sviluppare il movimento armato degli anni Ottanta, potevano essere soltanto eccezioni, singoli individui acculturati e manovrati da meticci «cattivi».

Il movimento zapatista ha permesso che un gran numero di indios diventassero coscienti del fatto che per soddisfare le loro richieste occorrevano mutamenti politici nelle strutture municipali, di ciascuno Stato, e della Federazione messicana. Ma l'irruzione in quattro capoluoghi nel gennaio 1994, e in seguito l'occupazione di numerosi altri municipi nel dicembre dello stesso anno, hanno soprattutto conferito visibilità e peso politico a soggetti che fino a quel momento erano rimasti nell'ombra e non avevano esistenza politica. Tali azioni hanno aperto una breccia in cui si sono insinuate diverse espressioni del rifiuto e della dissidenza, anche in ambito elettorale; durante le elezioni generali del 1994 e quelle municipali del 1995 l'E.Z.L.N., secondo i luoghi e secondo i casi, ha esortato all'astensione, a votare scheda bianca oppure un candidato dell'opposizione, in genere il candidato del Partito della rivoluzione democratica. Non è pertanto possibile valutare il suo peso elettorale. Quello che tuttavia si può sostenere è che i risultati - brogli o non brogli - sono stati inferiori alle aspettative anche se nel Chiapas la netta affermazione dell'opposizione e la conseguente apertura di un relativo spazio politico possono considerarsi un effetto dell'insurrezione.

Anche se non è più il «serbatoio di voti» del P.R.I., il Chiapas è ben lontano dall'essersi trasformato in quel «laboratorio della democrazia» promesso da Manuel Camacho quando era delegato a trattare per la riconciliazione e la pace.

- Rivoluzionari democratici.
Quanto agli zapatisti, essi non si accontentano di una correzione del sistema, locale, regionale o nazionale, bensì aspirano a sconvolgere la cultura politica, ossia a invertire la piramide del potere. Il loro concetto di democrazia coincide con una società in cui il potere sia collocato alla base e in cui le istituzioni, i rappresentanti, gli eletti siano al servizio della base, secondo il principio del "mandar obedeciendo".

Più ancora che «riformisti armati» (Jorge Castaneda), gli zapatisti sono «rivoluzionari democratici» (Alain Touraine). Si potrebbero anche definire sognatori realisti, o radicali pragmatici; di fatto propugnano un radicale mutamento operato attraverso vie da inventare a mano a mano che si procede verso l'obiettivo. Una simile posizione, piuttosto scomoda, sconcerta i dogmatici ed elude le classificazioni.

La sinistra europea, che proietta sullo zapatismo i propri schemi, non riesce a vederne - sia la sua cecità consapevole o inconsapevole - ciò che lo rende originale. Le loro posizioni sulla questione del potere allontanano gli zapatisti da ogni variante del leninismo; e se certe correnti libertarie possono riconoscervi alcuni loro temi, e sognare di avere nei loro confronti il ruolo che ai primi del secolo i discepoli di Ricardo Flores Magon [38] ebbero presso Zapata, gli anarchici radicali rimarranno inevitabilmente irritati e delusi dal fatto che gli zapatisti lascino tanto spazio al potere, ai partiti e agli altri soggetti politici istituzionali, in una fase transitoria di cui non si definisce la durata... e forse anche oltre. Per non parlare dei loro ripetuti richiami alla Costituzione e alla patria [39].

- Identità etnica e identità nazionale.
«Saluto in lei il letterato, il diplomatico e lo scienziato, ma soprattutto saluto il messicano» scrive Marcos allo scrittore Carlos Fuentes , il quale da parte sua aveva dichiarato che i fatti del Chiapas hanno «ridestato la coscienza nazionale messicana» .

Si tratti del potere e della democrazia, delle questioni economiche suscitate dall'ingresso nel NAFTA e dall'estensione del neoliberismo, o del carattere indio dello zapatismo, l'identità messicana è sempre all'ordine del giorno.

L'insurrezione scoppiata alla frontiera meridionale può essere vista come l'effetto di un moto pendolare, prodotto dalla prospettiva di aprire la frontiera settentrionale. A un livello più profondo induce a chiedersi: che cosa è oggi il Messico? quale futuro ha la messicanità nel Grande Mercato? come si può reinventare la nazione nell'epoca dell'internazionalizzazione dell'economia e della cultura? In Guatemala gli indios affermano sempre più la loro individualità maya: proclamando la propria appartenenza a una cultura e a una civiltà prestigiose, cercano di rovesciare l'immagine dell'indio, negativa fino a questo momento. Vogliono anche dire che sono in maggioranza, che il Guatemala è una nazione in maggioranza maya; aspirano a integrarsi e a ottenere il riconoscimento della propria centralità nella nazione: soltanto se la loro rivendicazione venisse rifiutata, respinta, potrebbero sorgere tentazioni autonomiste e separatiste che oggi sono in netta minoranza.

E' raro invece che gli indios del Chiapas mettano in risalto la loro qualità di maya. Forse in questo risiede una delle manifestazioni della diversa situazione dei due gruppi di popolazioni indie, di qua e di là dal confine. Nonostante le esperienze estreme che hanno vissuto, o a causa di queste, sotto molti aspetti gli indios guatemaltechi sono più moderni, più avanti dei loro fratelli chiapanechi.

Ma quando si tratta di zapatisti, la mancata rivendicazione di una specificità maya si traduce nell'insistente affermazione della propria messicanità. Per quanto in senso culturale gli «indigeni del Sudest», secondo l'espressione quanto mai neutra usata da Marcos, siano più vicini agli indios guatemaltechi che ai loro fratelli messicani, i responsabili indigeni dell'E.Z.L.N. fanno il possibile per stringere o rinsaldare i legami con questi ultimi, e per proclamare il proprio attaccamento alla comunità nazionale. Gli zapatisti sono decisi a proclamarsi messicani, indios messicani [40]. In nessuna circostanza hanno propugnato il separatismo o l'irredentismo maya, la formazione di una nazione su base etnica.

Nelle prime dichiarazioni si guardavano bene dal mettere in risalto il carattere indio del movimento, per paura di alimentare dubbi circa il loro carattere messicano. Solo in seguito la struttura decisionale del movimento, il Comitato clandestino rivoluzionario indigeno, ha reso note le sue esigenze propriamente indie, di natura etica, culturale, politica: penalizzazione del razzismo, istruzione bilingue, riconoscimento delle forme di democrazia comunitaria e del diritto tradizionale e così via. Il tema dell'identità e i rapporti con le altre organizzazioni indie nell'ambito del Consiglio nazionale indigeno sono diventati sempre più importanti a mano a mano che si allontanava la prospettiva di ottenere una risposta alle altre richieste.

Rimane però molto vaga la rivendicazione di autonomia politica; il suo contenuto varia in funzione delle opinioni dei consiglieri consultati dall'E.Z.L.N. I testi si richiamano talvolta agli statuti delle province basche e catalane, più spesso all'autogoverno delle comunità di base. Gli zapatisti combattono la subordinazione delle comunità al potere statale, ma diffidano di eventuali statuti speciali che releghino gli indios, in particolare quelli del Chiapas, in una posizione isolata. Per loro la questione indigena è una questione nazionale centrale, considerata in una prospettiva di integrazione che non si traduce in assimilazione: essa «non avrà soluzione senza una trasformazione "radicale" del patto nazionale. L'unica forma di incorporare, in maniera giusta e dignitosa, gli indigeni alla Nazione è quella di riconoscere le caratteristiche peculiari delle loro organizzazioni sociali, culturali e politiche. Autonomia non significa secessione, ma integrazione delle minoranze più umiliate e dimenticate del Messico contemporaneo . Durante la discussione degli accordi sui diritti e la cultura degli indios (gennaio-febbraio 1996) l'E.Z.L.N. ha respinto le proposte (sostenute da alcuni suoi consiglieri) di un'autonomia concessa dall'alto, burocratica, come lo statuto di autonomia della Costa atlantica del Nicaragua.

In ogni modo, lo zapatismo cerca di associare, senza confonderli, elemento comunitario ed elemento nazionale, identità etnica e identità nazionale, specificità india e carattere nazionale messicano. Il suo obiettivo è tradurre nei fatti il riconoscimento del multiculturalismo nazionale; ottenere che chi appartiene a una minoranza etnica non sia costretto a rinunciare o a reprimere la propria identità per poter aspirare all'uguaglianza con gli altri messicani; liberare il paese dal razzismo; superare la barriera simbolica che incide su tutti i rapporti sociali e impedisce che si esprima la soggettività degli indios e di numerosi altri gruppi.

Gli zapatisti si rivolgono con insistenza non solo alle autorità ma all'intero paese; tanto più si proclamano messicani in quanto denunciano la propria esclusione: accusano la patria di aver abbandonato i suoi figli, che hanno dovuto ricorrere alla violenza per farsi presenti alla sua memoria. Si richiamano agli eroi dell'Indipendenza, ai padri della patria e alle grandi figure della Rivoluzione messicana, e riprendono ad agitare la bandiera nazionale che, come dicono, era stata abbandonata nei palazzi pubblici e nei musei. La rivolta degli esclusi si pone come leva della rinascita nazionale [41], di un nuovo patriottismo sul quale è lecito chiedersi se riuscirà a evitare gli eccessi nazionalistici.

La figura di Zapata e la sua traduzione maya nell'immagine di Vot n- Zapata esprimono al tempo stesso il carattere messicano e la volontà di sostituire il modello soffocante della «nazione azteca» con una nazione pluralistica, in cui la base, nella sua variegata composizione culturale, comanda il vertice.

L'irruzione del «Messico indio», che si è avuta nei territori maya del paese con l'ingresso nel Grande Mercato, contribuirà forse ad alimentare reazioni di chiusura nazionalista, oppure, come auspica Marcos, inaugurerà una ridefinizione della nazione nell'età della mondializzazione, la costruzione di una società nazionale aperta sul mondo, all'interno della quale la volontà di vivere insieme non annulla le differenze?

- Cittadini con le loro differenze.
Agire in politica per vie diverse da quelle classiche, non sacrificare l'etica alla politica: lo zapatismo ha una sicura parentela con il movimento di Gandhi e più ancora con quello per i diritti civili di Martin Luther King [42].

In Messico l'organizzazione con cui Marcos riconosce maggiori affinità è l'Alianza Civica [43]. Tuttavia lo zapatismo non si limita a rivendicare pieni diritti civili per tutti i messicani e la trasformazione del Messico in una Repubblica di cittadini, libera da brogli elettorali, dalla corruzione e dalla violenza politica; non è soltanto una ribellione in nome dei diritti civili.

Come Gandhi e Luther King, come Tjibaou (e anche come Mandela, ma quest'ultimo ha percorso strade più classiche), gli zapatisti, oltre a chiedere che gli esclusi entrino a far parte del sistema politico (cosa che potrebbe assicurare anche un regime autoritario), chiedono di essere riconosciuti nella propria identità e soggettività; non vogliono essere trattati né da «cittadini come gli altri» (ideale della democrazia formale), né da cittadini diversi dagli altri, bensì da cittadini con le loro differenze.

Le «differenze» sociali, culturali, etniche non devono soltanto essere tollerate come elementi accessori, o colori sovrapposti a cittadini per altri versi intercambiabili o decisamente troppo grigi: l'identità è importante quanto l'uguaglianza, e per diventare cittadini a tutti gli effetti non si dovrebbe mai essere costretti a rinunciarvi, a metterla fra parentesi o a trasformarla in elemento di folklore; essere costretti a rimettersela in tasca nel momento in cui si entra nella cabina elettorale.

Si tratta invece di inventare una democrazia pluralistica, arricchita da concezioni e prassi politiche non riconosciute dal sistema attuale; si richiede quindi, per esempio, di conciliare democrazia e comunità, di associare democrazia diretta ed elezione di rappresentanti, partecipazione e rappresentanza, un problema che ha un'importanza tutt'altro che limitata al Chiapas o al Messico, una questione che nella sua attualità e portata universale affiora in tutto il mondo nelle forti contestazioni al sistema democratico di stampo occidentale.

Ma l'esigenza di riconoscimento non si esaurisce nell'accesso alla cittadinanza, sia pure rispettosa delle differenze. La cittadinanza è una parte della risposta, ma non la totalità. Sotto queste contestazioni, sotto le affermazioni di identità, vi sono di fatto esigenze più profonde, più intime, che non sono pertinenti alla sfera politica né nelle società tradizionali né in quelle moderne, ma che riguardano l'affermazione del soggetto, individuale e collettivo, che non si identifica nel legame con la dimensione politica. Assumendo una posizione laterale, conservando la propria dissidenza rispetto al sistema politico, lo zapatismo realizza la contestazione dell'esclusivamente politico: ciò che chiama «società civile» è in sostanza uno spazio sottratto all'influenza del potere, nel quale i soggetti individuali e collettivi possono affermarsi.

PERICOLI E INCERTEZZE
Sono innumerevoli i pericoli che minacciano il movimento zapatista. Quelli esterni sono i più visibili e quelli segnalati con maggiore frequenza, ma non sono i soli, e soprattutto possono associarsi a evoluzioni interne capaci di ostacolare lo sviluppo o di metterne a repentaglio la sopravvivenza.

- Una buffa pace armata.
Nelle settimane e nei mesi seguiti all'insurrezione, il governo messicano ha dimostrato un'agilità, una flessibilità e un senso dell'iniziativa politica di cui si hanno pochi esempi in analoghe situazioni sia nell'America latina sia nel resto del mondo. Ma il processo di pace si è arenato con le turbolenze politiche ed economiche seguite all'assassinio del candidato alla presidenza, Luis Donaldo Colosio, avvenuto il 23 marzo 1994 . La cattiva disposizione del governo e la diffidenza degli zapatisti hanno più volte indotto questi ultimi a interrompere i negoziati. Il potere alterna docce calde e fredde, si destreggia fra il dialogo e la repressione, e pur essendo fortemente scosso, tenta di conservare il dominio esclusivo sulla definizione dell'identità nazionale e sulla manipolazione delle identità etniche. Da quando nel dicembre 1994 l'E.Z.L.N. ha fatto la sua comparsa in numerose municipalità del Chiapas e da quando nel febbraio 1995 l'esercito ha ripreso possesso del «territorio zapatista», la «buffa pace armata» si è prolungata, come una gara di braccio di ferro, in un fronteggiarsi nel quale il governo sembra contare sullo sfinimento della popolazione e sul fiato corto degli zapatisti. Per rompere l'accerchiamento questi ultimi hanno moltiplicato le iniziative politiche e simboliche. Alla Convenzione nazionale democratica dell'agosto 1994 è seguita, un anno dopo, l'organizzazione di una consultazione nazionale, anzi anche internazionale, circa l'orientamento da dare allo zapatismo, con l'Incontro intercontinentale per l'umanità e contro il neoliberismo tenuto nel luglio-agosto 1996; quindi si è avuta la partecipazione al Congresso nazionale indigeno a Città del Messico, nell'ottobre dello stesso anno, di un personaggio fra i più popolari del movimento: la "comandante" Ramona, un'india tzeltal che soffre di una grave malattia.

Se si escludono le operazioni seguite all'insurrezione del gennaio 1994 e all'offensiva dell'esercito nel febbraio 1995, le autorità non hanno manifestato grande fermezza nel ricorrere alla soluzione militare; ma la spada di Damocle resta sospesa e può cadere in qualsiasi momento: può darsi che si decida di soffocare la rivolta, di compiere operazioni di commando o di far partire proiettili «fuori controllo» diretti contro Marcos o eventuali altri capi del movimento. Dal canto loro gli zapatisti, anche se probabilmente non hanno più la combattività e la capacità di mobilitazione dimostrate al momento dell'insurrezione, potrebbero essere tentati da nuove iniziative disperate. L'azione di logoramento e i tentativi di repressione a cui sono sottoposti possono infrangere il difficile equilibrio della non violenza armata nel quale cercano di restare, provocando da parte loro nuove azioni più simboliche che strategiche.

- L'assenza di intermediari politici e sociali.
Le istituzioni statali non sono l'unica fonte delle minacce incombenti sugli zapatisti in ambito politico: le forze politiche messicane nel loro insieme, compreso il P.R.D., erede del populismo cardenista, rispecchiano un modello statalista e autoritario; tutte obbediscono al principio d'inerzia (perseverare nel proprio stato) che le induce a diffidare degli appelli all'apertura di Marcos e dei suoi. Se è vero che molti capi dell'opposizione, e non di secondo piano, sono venuti nel Chiapas per incontrare gli zapatisti, non sembra che ciò abbia loro giovato nella corsa al potere, ed è soprattutto questo che li preoccupa in primissimo luogo. La scadenza elettorale del 1997 accentua il ripiegamento su se stesso del sistema politico: a lungo termine tale fenomeno potrebbe essergli nefasto, ma nell'immediato rischia di accentuare l'isolamento dell'E.Z.L.N. oppure di costringerlo a sacrificare la propria specificità e radicalità come prezzo per entrare nel gioco politico, per tramite del suo rapporto con la Comision de Concordia y Pacificacion (Cocopa)
[44].

Altrettanto deboli sono i legami intrecciati con certi soggetti sociali. In un primo tempo gli zapatisti hanno goduto del favore di vari settori del popolo e delle classi medie. Tuttavia la loro simpatia è rimasta fluttuante, e le manifestazioni di sostegno al movimento richiamano sempre meno partecipanti. Le organizzazioni di contadini indios, le più combattive all'interno di un movimento contadino molto diviso e in cui numerosi dirigenti, e soprattutto molti militanti di base, si riconoscevano nello zapatismo, hanno a poco a poco adottato una posizione di prudente distanza. Un'altra organizzazione, El Barzon, che riunisce operatori economici indebitati (agricoltori, commercianti, artigiani, piccoli industriali, esponenti delle professioni liberali...), ha con l'E.Z.L.N. rapporti regolari ma segnati da una relativa incomprensione reciproca [45]. I rapporti con gli ambienti intellettuali e artistici sono oscillanti e frammentari; ma, come osserva Marcos, l'incomprensione più grave è quella con il mondo operaio.

La Convenzione nazionale democratica, che intendeva costituire il primo atto di una grande riunificazione della società civile, si è conclusa nella disunione; in seguito gli zapatisti hanno tentato di avvicinare numerosi esponenti della società e della politica, ma con esito scarso.

Nei loro tentativi di aprirsi, e soprattutto in quello di costituire un fronte civile di portata nazionale, gli zapatisti si scontrano con una barriera difficile da superare, tanto più efficace in quanto inespressa: il razzismo. Nella sua lettera di «benvenuto nell'incubo», inviata al presidente Zedillo in occasione del suo insediamento, l'E.Z.L.N. afferma che «Con una voce indigena parlano, da quel giorno [primo gennaio 1994], uomini, donne, bambini, anziani della città e della campagna, di diversi colori, di diverse razze, di diverse lingue, ma di una medesima sofferenza» . In realtà sono rari i bianchi e i meticci disposti ad andare oltre una simpatia e una solidarietà venate di paternalismo, decisi a seguire l'esempio di Marcos mettendosi ad ascoltare la parola e i silenzi degli indios. La frontiera simbolica che divide la società messicana - e gli stessi individui - segna il limite della trasformazione della cultura politica.

- L'ultrasinistra.
Il pericolo più inatteso e che a fine agosto 1996, all'epoca di queste conversazioni, era motivo di forte preoccupazione per gli zapatisti, è quello che sta sorgendo alla loro sinistra: il ritorno, con l'E.P.R., di quello che si presenta come un movimento guerrigliero rivoluzionario ortodosso. Questi «amici che [gli] vogliono bene» costituiscono una minaccia per lo zapatismo: in via indiretta perché accentuano le tendenze dello Stato e del sistema politico verso l'irrigidimento, e perché instillano nel complesso della società un clima di paura poco favorevole all'emergere dei soggetti sociali; in via diretta perché i guerriglieri dell'E.P.R. hanno dei conti in sospeso con lo zapatismo e alcuni di loro sognano di riuscire a seppellirlo, di farlo saltare in aria e di raccoglierne i pezzi.

Fin dalla sua comparsa l'E.P.R. ha imposto una notevole limitazione allo spazio politico e mediatico che gli zapatisti si erano costruiti; e questi ultimi prendono molto sul serio le sue minacce di intervento anche nel Chiapas. La «sindrome di Chinameca» [46], che fa temere a Marcos di dover pagare il prezzo della ribellione e sottostare alla sorte di Emiliano Zapata, non deve far dimenticare che alcuni personaggi come Gandhi o Tjibaou, con i quali Marcos ha in comune il tentativo di sottrarre il proprio movimento allo scatenarsi delle violenze, sono periti vittime di elementi estremisti appartenenti alla loro stessa parte; e anche che il movimento dei diritti civili di Martin Luther King è stato scavalcato dai partigiani della violenza e della lotta per il potere, il Black Power, che in seguito si è disintegrato.

- Il pericolo del ripiegamento sul comunitarismo.
I fattori esterni possono concatenarsi con logiche interne per dividere e isolare il movimento; così, la tendenza degli esponenti politici a disinteressarsi dello zapatismo si riflette nella diffidenza di questo nei loro confronti. «Ho paura di mettere i piedi in un campo politico melmoso, dove rischio di impantanarmi» dice Marcos. La sua posizione è comprensibile e fondata su esperienze deludenti, ma rischia di portarlo a sacrificare la politica in nome dell'etica.

Le comunità, sottoposte a violenta pressione, possono tendere a riprendere certe posizioni comunitariste, di difesa dell'ultimo quadrato zapatista nella giungla, sull'esempio delle «comunità di popoli in resistenza» (C.P.R.) del Guatemala, dove nel corso di una quindicina d'anni, quindicimila persone circa sono sopravvissute nella foresta e sui monti, tagliate fuori dal resto della società, vivendo di un'agricoltura di sopravvivenza e di aiuti internazionali, tenute nella convinzione che i massacri ai quali erano scampate proseguissero e che si potesse ancora vincere la guerra. L'E.Z.L.N., ripetiamolo, ha imboccato un cammino opposto a quello dei guerriglieri guatemaltechi: bisogna sperare che non ricada in certe bizzarrie che sono costate care alla popolazione civile di là dal confine messicano. Respinti nelle frontiere dalle quali erano emersi, gli zapatisti - che Marcos ama paragonare ai cavalieri erranti - potrebbero essere condannati a errare in quel perimetro, come gli spettri di Juan Rulfo [47].

Come si è visto, lo zapatismo è nato da una serie di fratture e scissioni, e una parte considerevole degli indios che popolano il Chiapas ha conservato o ha preso le sue distanze dal movimento. L'insurrezione e i suoi strascichi hanno ancor più accentuato le divisioni all'interno delle comunità indie, e in molti casi certi settori che simpatizzavano con lo zapatismo se ne sono poi allontanati. E' una china che può rivelarsi mortale. L'E.Z.L.N. sarà giudicato in base alla capacità di gestire in modo democratico i conflitti che emergono nella sua zona d'influenza o se non altro in base alla capacità di realizzare forme democratiche, di elaborare le decisioni all'interno del movimento, e al suo comportamento nei confronti di organizzazioni e settori che non condividono la posizione zapatista. Da questi punti di vista, finora lo zapatismo non ha mostrato grande rispetto per le esigenze democratiche.

Contro la logica economica predominante, gli zapatisti fanno appello a protagonisti della scena sociale e politica, trascurando quanti operano nell'economia, come testimoniano i loro difficili rapporti con El Barzon. L'economia è il loro principale tallone d'Achille [48]. Sono cresciuti con gli errori e i fallimenti degli operatori, interni ed esterni, dello sviluppo avvenuto nel Chiapas negli anni Settanta- Ottanta, ma dal canto loro non vi hanno posto rimedio: hanno tratto vantaggio da una crisi provocata da processi che erano incapaci di dominare. Sarebbe eccessivo accusarli di avere infranto la dinamica economica; è comprensibile che nella prospettiva dell'insurrezione abbiano instaurato un'economia di guerra, ma la tendenza a eternizzarla rischia di essere loro fatale. L'inclinazione ad accomunare nella riprovazione economia di mercato e neoliberismo può condannare le comunità a sopravvivere in un'economia di sussistenza ridotta al minimo e, in realtà, in larga misura assistita. Già oggi è così. Per lo zapatismo è altrettanto vitale ricreare le condizioni di un'economia contadina di mercato, imprenditoriale e diversificata, come quella creata dalle prime ondate di coloni, quanto lo è conservare l'iniziativa politica. Lo zapatismo non è in grado di produrre un soggetto sociale e politico senza una base economica capace di entrare in concorrenza o di accordarsi con altri soggetti economici, così come hanno saputo fare per esempio la Coalicion Obrera, Campesina y Estudiantil del Ismo nello Stato messicano di Oaxaca, il Comité Regional Indigena del Cauca in Colombia, le comunità cakchiquel e quiche in Guatemala.

- I pericoli della solidarietà.
E' più frequente morire soffocati dai nemici che dagli amici, ma una dipendenza eccessiva dalla solidarietà nazionale e internazionale può condurre a uno status di assistito permanente. Il «significato» in cambio di cibo e di uno scudo vivente: in cambio dei mezzi di sussistenza e della protezione, lo zapatismo dà il «supplemento di anima» che manca alle altre organizzazioni politiche e sociali del Messico, e che soprattutto fa tragicamente difetto a chi è organizzato o non organizzato nelle società del primo mondo.

La solidarietà mobilita una serie di circoli e imbocca numerosi canali; in Messico quelli legati al vescovado di San Cristobal sono stati bersaglio di denunce e di aspre polemiche. In realtà la complessa storia dei rapporti fra l'E.Z.L.N. e la diocesi si traduce da entrambe le parti in atteggiamenti prudenti e nella volontà di tenersi a distanza. In compenso nel Chiapas, nel resto del Messico e all'estero, alcuni personaggi e determinati gruppi legati alla Chiesa cattolica o a Chiese protestanti manifestano agli zapatisti una simpatia senza riserve. Sono questi gli ambienti in cui si trovano i simpatizzanti meno critici delle tendenze comunitariste insite nel movimento.

Altri circoli, che talvolta si incrociano con i precedenti tramite la teologia della liberazione, appartengono alla sinistra o provengono da ambienti di sinistra. In Messico, negli Stati Uniti e in Europa, trotzkisti, anarchici, femministe, autonomisti in nome di cause disparate riflettono sullo zapatismo le categorie e le speranze deluse di rivoluzioni fallite o di movimenti in cerca di significato. E' tuttavia più significativa l'attrattiva esercitata dagli zapatisti su giovani che non hanno un passato militante, oltre che su ambienti della cultura refrattari alle prassi e alle teorie di apparato.

La novità dello zapatismo è anche quella di sapersi sottrarre alla compassione e al vittimismo, rifiutandosi di sfruttare il senso di colpa dell'uomo bianco (sarà forse per questo che i paesi protestanti dell'Europa settentrionale sono meno sensibili alla causa zapatista rispetto ad altre situazioni di miseria e di oppressione del terzo mondo?). Appunto perché non fa leva sulla compassione, ma al contrario mira ad attribuire un significato all'azione collettiva, lo zapatismo ha suscitato la risonanza e l'interesse che sappiamo.

Gli zapatisti si attorniano di circoli concentrici costituiti da «zapatizzanti», sia pure tenendoli a distanza e proteggendo il cuore del movimento, in modo che esso non ne sia fagocitato né soffocato. Finora ci sono riusciti. Se il nucleo dovesse esplodere, alcuni suoi elementi e un certo numero di membri della rete di solidarietà verrebbero riassorbiti dalle organizzazioni politiche di stampo classico. Lo zapatismo esiste perché riesce a sciogliere le vecchie categorie e i vecchi schemi, e perché è in grado di trasformare coloro che lo avvicinano in misura pari o superiore rispetto a quanto questi ultimi riescano a trasformarlo.

Per riuscire nel suo intento deve anche ricostruire il pensiero e l'azione politici, il che comporta sfuggire ai due principali rischi, nei quali tutti gli altri sono compendiati, entrambi derivanti dalla tentazione della purezza.

1. Il rischio dell'isolamento, del ripiegamento su se stessi, dell'asfissia comunitarista. L'insurrezione del Chiapas non è una «guerra della fine del mondo» . Ma a La Realidad e in altre località zapatiste si respira una certa atmosfera da comunità assediata [49], da comunità dei «puri», che per esempio comporta la messa al bando di tutte le bevande alcoliche [50] e l'imposizione di altre norme spartane, che impedisce i rapporti fra la popolazione locale e i visitatori stranieri e che impone la preminenza del discorso etico. Sono comportamenti ed espressioni che, a parte le giustificazioni di ordine pratico, potrebbero alimentare deviazioni verso il millenarismo e il messianismo nel caso un giorno venissero distrutti i ponti con l'esterno. Il ponte principale è lo stesso Marcos; è sempre lui che tiene collegate le diverse componenti del movimento, e se dovesse scomparire o farsi da parte, non sarebbe impossibile che il movimento esplodesse in gruppuscoli rivali, secondo linee di scissione su base etnica e intorno a figure locali di capi. Oppure potrebbe scivolare nelle lacerazioni intracomunitarie di cui abbiamo già un esempio nel Chiapas settentrionale.

2. Il rischio dello scollamento, di una frattura dei nessi rispetto alle realtà del Chiapas, di un ingresso nell'orbita «intergalattica». Sono molti i personaggi rappresentativi di movimenti di base che sono stati risucchiati dalle sfere eteree e sono divenuti incapaci di toccare di nuovo terra. Marcos è consapevole di questo rischio e finora si è rifiutato di allontanarsi dalle comunità nelle quali vive da una decina d'anni, alle quali ha legato la propria sorte e da cui non immagina di potersi dividere in futuro. Gli zapatisti sono persuasi che sia necessario conservare un'articolazione fra le dimensioni locali, nazionali e internazionali: ci riusciranno? La loro insurrezione è nata dalla convinzione che le loro istanze (di democrazia, di giustizia, di libertà, di dignità) non potessero ricevere risposte su un semplice piano locale; il loro obiettivo, in un primo tempo raggiunto in larga misura, era quello di trasferirle sul piano nazionale. Nei momenti in cui la scena nazionale si ritira o si richiude, per spezzare l'accerchiamento e l'isolamento gli zapatisti fanno appello all'opinione pubblica internazionale: e qui gli effetti sono più attenuati. Occorre che riescano a consolidare ed estendere il loro radicamento nel Chiapas e la presenza nello spazio pubblico del Messico se non vogliono che un «movimento di guerriglia postmoderno» (così lo ha definito Gabriel Za‹d) diventi un movimento virtuale.

La trasformazione del movimento comunitario armato in soggetto sociale e politico sarà compiuta soltanto se lo zapatismo riuscirà a eludere la strategia dell'avversario, il quale cerca, con un certo successo nonostante quanto dicono Marcos e i suoi, di respingerlo nella foresta, di troncarne le radici nel Chiapas e di separarlo da quei settori della società messicana che è riuscito o che aspira a mobilitare. Al potere messicano, e senza dubbio anche all'E.P.R., non dispiacerebbe certo di vedere realizzata una certa logica mediatica transnazionale che riduca gli zapatisti a essere soltanto dei «branchés della giungla» .

- La tentazione estetica.
Il talento di comunicatore e il gusto per il gioco degli specchi hanno fatto nascere il personaggio di Marcos, assicurando in larga misura il suo successo e quello dello zapatismo. Peraltro queste doti presentano qualche rischio.

«Noi siamo voi.» E se di fronte non ci fosse nessuno? Se la scena fosse vuota, se la «società civile» tanto invocata fosse pregnante ma anche imprendibile, altrettanto difficilmente «rappresentabile» quanto le nebbie che si addensano sui monti del Chiapas? Deluso dagli interlocutori politici e messo di fronte all'assenza di attori sociali, o all'eliminazione dei rari movimenti che abbiano persistito nel Messico degli ultimi anni, nel futuro Marcos non riesce a vedersi su una scena politica da cui il sogno sia stato bandito; non nasconde le sue personali preferenze per altri scenari e altre forme di espressione e di rappresentazione, letterarie, teatrali o cinematografiche.

Partito per i monti con il "Don Chisciotte" di Cervantes (fra una quindicina di altri libri), Marcos non si è più diviso da questo personaggio, e moltiplica i riferimenti alla tradizione cavalleresca: nelle favole in cui fa parlare lo scarabeo Durito; quando si presenta a Danielle Mitterrand come «cavaliere di carta»; nei richiami espliciti o impliciti alla leggenda del Graal.

Avendo preso le armi così come il cavaliere dalla triste figura aveva preso la lancia per «estirpare l'ingiustizia, correre in aiuto agli infelici e instaurare il regno della giustizia sulla terra», Marcos non pensa affatto di rinunciare: «Da qualche parte alla fine del "Don Chisciotte", Alonso Quijana dice: "ero pazzo, sono rinsavito". Ho sempre voluto evitare di arrivare a quel punto. Noi dobbiamo conservarci in questa follia fino all'ultimo momento, non dire queste parole, non entrare nella sfera dello Stato e del conformismo» .

Certo si tratta di una figura meno cupa di quella di certi monaci guerrieri ai quali faceva pensare Che Guevara e, per restare in campo letterario, meno inquietante dei cavalieri erranti che attraversano la "Leggenda dei Secoli" . Ma la tentazione della purezza non rischia di rinchiudere Marcos, anziché nel «gigantesco labirinto di specchi» di cui ai suoi occhi è costituita la storia contemporanea del Messico , nel labirinto del Deserto della Solitudine? Durante l'Incontro intergalattico, di fronte alle centinaia di persone venute da tutti i continenti, il subcomandante conclude la conferenza sul contributo politico dell'E.Z.L.N. dichiarandosi «sconcertato, perché ha dimenticato come era entrato e come se ne possa uscire».

Altrove si diverte a riprendere i versi di una canzone di Joan Manuel Serrat: «Non è che non ritorni / perché ho dimenticato / ma perché ho perso / la strada per tornare» .

IL MONDO DI NUOVO INCANTATO PARTE DA LA REALIDAD
- La caduta del muro di Berlino e la breccia zapatista.
La guerra fredda aveva precipitato il pianeta in un'era glaciale; il blocco comunista era nel congelatore; nel terzo mondo i movimenti di decolonizzazione avevano prodotto scosse formidabili, ma la banchisa comunista aveva finito col raggiungere anche i tropici, e si videro nascere due, tre, tanti Vietnam... tutti sovietizzati.

Con la caduta del muro di Berlino il mondo bipolare è scomparso; in quella che era soltanto la fine della preistoria, certuni hanno visto la fine della Storia: per alcuni trionfo, per altri cupa disfatta. I primi celebrarono l'avvento di un mondo consegnato a un definitivo disincanto, omogeneizzato sotto lo stendardo della democrazia liberale e nel segno del mercato; gli altri si rassegnarono e adottarono comportamenti da «si salvi chi può».

I meno cinici e i meno opportunisti videro nella fine del confronto tra i blocchi un contesto favorevole all'affacciarsi di nuovi movimenti sociali, di nuovi soggetti storici; molti si aspettavano che emergessero nell'Est, dove il gelo era stato più terribile.

Come capita spesso, il movimento più promettente, il più ricco di significato, sarebbe sorto dove meno lo si aspettava: in una piega del globo, nei confini dimenticati di un paese che sembrava compiere un'esemplare transizione dal terzo al primo mondo. In certo modo l'insurrezione zapatista è stata davvero il «primo movimento guerrigliero postcomunista» di cui ha parlato Carlos Fuentes. Ma, ancor più esattamente, si è trasformata in un'antiguerriglia.

- Dal movimento sociale alla lotta armata.
Spesso si sentiva dire (oggi lo si sente più di rado) che la lotta armata è il punto d'arrivo delle lotte sociali, il loro compimento, la loro espressione più perfetta. E' vero l'esatto contrario. Si ricade nella violenza quando il movimento sociale è impallidito, si trova in un vicolo cieco o si decompone; e questo moto di rimbalzo precipita la distruzione del movimento e dei soggetti sociali che vi agiscono.

L'insurrezione zapatista è un'illustrazione di quanto si è detto. Nella Selva Lacandona e nell'insieme del Chiapas gli indios conducevano lotte che si erano intensificate dagli anni Cinquanta in poi; nel loro agire erano fattori di modernità (anche se le vie di ammodernamento che hanno imboccato si sono rivelate senza uscita) e di democrazia (sia pure attraverso itinerari che non erano sempre democratici).

Il loro movimento, invisibile al Messico e al resto del mondo, era nato dalla dissidenza, dalla divisione, dallo strappo; l'emancipazione, la nascita del soggetto erano il frutto del movimento nei due sensi del termine: dell'emigrazione e della mobilitazione.

Quando è stato impedito lo sviluppo del movimento, una parte della dissidenza india ha scelto la lotta armata; ovvero, tale scelta le è stata imposta dalle circostanze. La logica delle armi, di cui era portatore un nucleo di guerriglieri, è stata adottata da un settore considerevole degli abitanti delle Canadas. Un settore, appunto: l'insurrezione è stata motivo di nuove divisioni all'interno della popolazione india del Chiapas.

Le prime azioni, l'insurrezione del primo gennaio e la prima Dichiarazione zapatista potevano a giusto titolo far temere una nuova spirale di violenza, quali se ne sono viste diverse negli ultimi decenni in America latina; in particolare presentavano numerosi elementi analoghi a quelli che avevano condotto alla tragedia guatemalteca.

- Dall'insurrezione armata alla ricerca del movimento sociale.
Invece, dopo essere stati bloccati nel loro slancio da reazioni che non si aspettavano, da parte della società civile e di determinati settori governativi, gli zapatisti si sono svincolati dall'ingranaggio bellico e hanno tentato di trovare una via d'uscita politica.

L'energia prodotta dalle precedenti fratture si è mobilitata nell'insurrezione; avrebbe potuto alimentare una spirale di provocazioni e repressioni, una logica del suicidio che suscita la logica del massacro: invece è stata frenata sull'orlo della voragine e riorientata, tramutata in tentativo di dare vita a un nuovo soggetto, di articolare la società civile, di ridefinire e ricomporre la sfera politica.

La forza degli zapatisti è la non violenza, la loro originalità sta nell'aver inventato un nuovo rapporto fra violenza e non violenza, consistente nel tenere viva la tensione senza rimbalzare nella violenza. La crescita di potenza di una violenza contenuta e repressa per decenni, o meglio per secoli, si traduce in una strategia di non violenza armata messa al servizio della produzione di significato, dell'invenzione simbolica e politica.

«Hanno combattuto per dodici giorni, occupando per poche ore una manciata di remote borgate messicane. Noi ci battiamo da oltre trent'anni, controlliamo vaste regioni del territorio nazionale e colpiamo dove vogliamo. Eppure nessuno si interessa alla nostra attività, mentre la loro azione ha suscitato un'ondata di simpatia in tutto il mondo.» Le amare considerazioni di un guerrigliero colombiano illustrano una profonda differenza; come altri movimenti guerriglieri vecchi di trent'anni, anche quello colombiano, nelle sue varianti - comunista ortodossa, castrista e maoista - erede dell'epoca della guerra fredda e oggi associato alla generale diffusione della delinquenza e del crimine organizzato in Colombia, non ci dice niente. Invece l'interesse suscitato dallo zapatismo è in diretta proporzione alla capacità di questo movimento di creare significato.

La tensione nella quale il movimento si mantiene ne assicura l'esemplarità e l'espressività; se dovesse allentarsi, lo zapatismo potrebbe disintegrarsi nella violenza o nel ripiegamento comunitario.

Come dice giustamente Régis Debray, lo zapatismo è «un ritorno all'essenziale: la resistenza» . Resistenza al neoliberismo. In nome di che? Della comunità? Della nazione? Ma la difesa delle comunità scivola facilmente nel comunitarismo, e quella della nazione nel nazionalismo. Sono stati soprattutto i detrattori e gli avversari a identificare lo zapatismo con certi comportamenti di ripiegamento, con la reazione difensiva di alcune comunità del Chiapas, oppure con quella, organizzata o diffusa, di settori nazionalisti messicani, che nel grande mercato temono di perdere la propria anima.

Se lo zapatismo si riducesse a una denuncia del neoliberismo in nome dell'umanità, seguendo d'altro canto un'interpretazione letterale dell'intestazione data all'Incontro intergalattico, ben presto si esaurirebbe in un umanesimo consensuale senza presa sulla realtà; nel peggiore dei casi sarebbe una traduzione di un anacronistico rigurgito delle antiche illusioni, nel migliore, un confuso rilancio dell'utopia.

Lo zapatismo non è un supplemento di anima, e neppure soltanto una resistenza. Gli indios della Selva Lacandona, ma anche quelli delle altre regioni del Chiapas e del resto del Messico che vi si riconoscono, non appartengono tanto a un «Messico profondo» quanto al «Messico spezzato» che è l'essenza del Messico di questa fine secolo . Si tratta di un movimento di ricomposizione che nasce da un'irrimediabile lacerazione, e non di una difesa o ripresa della tradizione. Ma si distingue anche dai movimenti nazionalisti, etnici o religiosi che cercano di ricostruire l'identità nella modernità e attraverso percorsi autoritari, partendo da una posizione islamica, induista, asiaticista, pentecostalista e così via. In un'epoca in cui l'opposizione alla mondializzazione neoliberista si esprime soprattutto con il ripiegamento sull'identità, lo zapatismo appare come un tentativo fra i più significativi e forti di associare identità, modernità e democrazia, e solo così si spiega come mai abbia trovato un'eco tanto vasta oltre i limiti delle comunità indie e di là dai confini del Messico. Ha distrutto l'illusione che non fosse più possibile altra forma dl politica democratica se non quella iscritta nei flussi e riflussi della finanza; ha fatto esplodere la nube grigia che aveva finito col ricoprire l'intero pianeta e che oscurava l'orizzonte di tutti noi; ha aperto una breccia. Non se ne dispiacciano i «realisti» che vivono nella loro bolla, ma gli zapatisti ci hanno riportati a La Realidad.

Il futuro dell'insurrezione zapatista dipende da quanto il movimento sarà capace di tradursi in azione politica e sociale. L'insurrezione è nata da una serie di vicoli ciechi, di divisioni e fratture, e adesso si trova di fronte a una sfida: ricomporre «un mondo in cui vi sia posto per molti mondi», senza eliminare differenze e conflitti, facendo anzi leva su di essi. Il vecchio ordine regionale della tradizione, della piantagione e della dominazione dei "ladinos" è stato frantumato dal movimento di emancipazione india e dall'insurrezione, senza possibilità di un ritorno. Intanto prosegue la decomposizione del sistema politico nazionale; il compito che attende gli zapatisti non è demolire l'antica società e il vecchio potere, ma inventare una democrazia che incorpori gli esclusi.

Il loro apporto principale è stato quello di aver dato un volto ai senza volto, di aver fatto udire il discorso indio - la voce dei senza voce -, di aver permesso ad alcuni bambini non meno che agli adulti di «alzarsi ogni mattina senza dover tacere parole, senza maschere da dover indossare per affrontare il mondo» . E' stata una giovane india del mercato di San Cristobal de Las Casas a formulare l'omaggio più bello che si possa fare agli zapatisti, dicendo: «Ci hanno restituito la nostra dignità».

NOTE
1. In questi termini una prestigiosa rivista francese di sinistra presentava alla vigilia dell'insurrezione la tappa in Chiapas all'interno di un «circuito eccezionale in Messico e Guatemala». La città coloniale di San Cristobal de Las Casas venne occupata dagli zapatisti.

2. Il primo gennaio 1994 è entrato in vigore l'Accordo di libero scambio nordamericano che comprende gli Stati Uniti, il Canada e il Messico. In spagnolo si chiama Tratado de Libre Comercio (T.L.C.), e in inglese North American Free Trade Agreement (NAFTA).

3. Rosario Ibarra è la madre di un militante «scomparso» negli anni Settanta. Ha fondato un gruppo in difesa dei prigionieri politici, e attualmente è vicina alle posizioni zapatiste.

4. Marcos ha preferenze molto decise in materia di teatro e di cinema. Durante il colloquio con lui sono emersi accenni alla sua passione per vecchie dive come Brigitte Bardot in "E Dio creò la donna" o "Il disprezzo", oppure Jane Fonda in "Barbarella". A La Realidad si allestiscono periodicamente proiezioni pubbliche, senza la minima preoccupazione che siano "politically correct": gli abitanti dei villaggi si sono divertiti molto a vedere "Rambo".

5. Marcos racconta questo suo itinerario con parole precise nel film-documentario di Tessa Brisac e Carmen Castillo, "La vera leggenda del subcomandante Marcos" (Arte, Anabase e INA, 1995). II testo di questa intervista è stato pubblicato in Adolfo Gilly - subcomandante Marcos, "Discusione sobre la historia", Ciudad de México, Taurus, 1995.

6. Il Partido Revolucionario Institucional costituito nel 1929 dal presidente Calles, e che da allora tiene le redini del potere, si è chiamato successivamente Partido Nacional Revolucionario, Partido de la Revolucion Mexicana e poi, a partire dal 1946, Partido Revolucionario Institucional.

7. L'ultimo censimento (1990), secondo il quale la popolazione india rappresenta il 7,5 per cento della popolazione totale, si basa su un criterio linguistico restrittivo: è considerato indio chi dichiara di parlare una lingua india. Poiché la grande maggioranza degli indios parla anche lo spagnolo, più o meno bene, è probabile che molti di loro siano stati contati invece come ispanofoni. Secondo l'Istituto nazionale indigenista, che valuta la popolazione india in oltre 8 milioni di persone, i dati del censimento devono essere rettificati al rialzo.

8. Il Projecto Nacional de Solidaridad (Pronasol) è noto sotto il nome di "Solidaridad" (Solidarietà).

9. In Messico il presidente della Repubblica resta in carica sei anni, un "sexenio".

10. L'"ejido" è la comunità agraria nata dopo la Rivoluzione messicana. Le terre, che appartengono allo Stato, sono assegnate in usufrutto a una collettività (fino al 1992 erano inalienabili); tuttavia i vari appezzamenti sono in sostanza coltivati per il sostentamento del singolo. Talvolta le comunità indie hanno statuto di "ejidos".

11. Nella Selva Lacandona si trovano inoltre alcune centinaia di lacandoni, discendenti dei maya che trovarono rifugio nella foresta all'epoca della colonizzazione spagnola; nel Chiapas settentrionale si trova poi un gruppo indio non appartenente al ceppo maya, gli zoque.

12. "Ladino" è un termine utilizzato in Chiapas e in Guatemala per indicare chi non è indio, cioè i bianchi o i meticci.

13. Bartolomé de Las Casas, domenicano, difensore degli indios contro i misfatti dei colonizzatori spagnoli, fu per un breve periodo (1544-46) vescovo della città che porta il suo nome: San Cristobal de Las Casas. Come monsignor Samuel Ruiz, suo attuale successore, incontrò una violenta opposizione da parte dell'oligarchia locale.

14. Negli ultimi decenni, le svariate correnti religiose che spesso in America latina sono accomunate nella definizione di «evangeliche» (protestanti, pentecostali, avventisti eccetera) hanno avuto una notevole diffusione nel Chiapas, dove oggi sono praticate da un quinto della popolazione, la percentuale più elevata del Messico.

15. Sistema delle cariche: organizzazione politico-religiosa tradizionale delle comunità indie diffusa in tutta l'America centrale (soprattutto nel Centro e nel Sud del Messico e in Guatemala). Le massime autorità sono i "principales", gli anziani, che raggiungono il vertice dopo aver percorso tutte le tappe.

16. I cacicchi sono i capi indigeni nelle Antille e nell'America centromeridionale all'epoca della dominazione spagnola.

17. Lo sviluppo di queste comunità, tuttavia, non è nemmeno paragonabile alla rivoluzione agricola che si verificò fra gli anni Sessanta e i primi anni Settanta presso gli indios residenti nelle regioni montuose del Guatemala, grazie all'introduzione dei concimi chimici.

18. Fra le eccezioni si possono citare le tessitrici delle cooperative create negli anni Settanta in collegamento con la diocesi. Sull'oppressione della donna nel Chiapas, confronta France-Jules Falquet, "Les femmes indiennes et la reproduction culturelle: réalités, mythes, enjeux", in «Cahiers des Amériques Latines», 13 [Paris, IHEAL], 1992.

19. La "cristiada" fu una rivolta dei contadini (1916-29) contro il governo anticlericale che si svolse principalmente nella parte centroccidentale del paese.

20. Nello zapatismo si ritrovano espressioni o prassi («todo para todos», decisione all'unanimità e non a maggioranza, votazione distinta di uomini, donne e bambini) di cui era stata fatta esperienza nelle comunità neocattoliche (Diocesis, op. cit., p.p. 3, 9). Il comandante David ammette, cosa piuttosto rara fra i dirigenti zapatisti, che l'aver preso coscienza, da parte degli indios, è in larga misura dovuto allo «studio della Parola di Dio» («La Jornada», 21 novembre 1996).

21. Nel periodo 1975-1993 nel Chiapas sono sorte molte altre organizzazioni contadine, indipendenti o no. Alcune, come la Organizacion Campesina Emiliano Zapata (OCEZ) e la Central Independiente de Obreros Agricolas y Campesinos (CIOAC), sono ramificazioni regionali di organizzazioni nazionali e hanno avuto un ruolo importante nelle lotte economiche e sociali. A noi interessa soprattutto la rete costituita da Quiptic-Union de Uniones-ARIC- ANCIEZ, per tre ragioni. In primo luogo sono le organizzazioni che nel Chiapas hanno dato vita al movimento contadino più complesso e più ampio, quello che ha suscitato una più larga mobilitazione in quegli anni, e uno dei più significativi nel paese in generale, benché non se ne riconosca ancora l'importanza. Secondo Xochitl Leyva e Gabriel Ascensio, alla fine degli anni Ottanta la ARIC-Union de Uniones riuniva circa seimila famiglie, appartenenti a circa centotrenta comunità e villaggi (op. cit., p.p. 150-51). In secondo luogo, tale raggruppamento aveva la caratteristica di essere fondamentalmente indio, benché vi partecipassero anche alcuni piccoli coltivatori "ladinos"; e in terzo luogo, lo zapatismo è nato appunto dall'incontro di questo movimento con quello dei guerriglieri.

22. Alla fine degli anni Sessanta a Monterrey, nel Nordest del Messico, erano state create le Fuerzas de Liberacion Nacional. I militanti appartenevano essenzialmente alla classe media ed erano per lo più universitari, professori o studenti. Nel 1974 le forze dell'ordine hanno distrutto le cellule dell'organizzazione a Monterrey, oltre a un nucleo dirigente che si era insediato nel Chiapas. La costituzione dell'E.Z.L.N., una decina di anni dopo, sembra un rilancio di quel movimento, anche se nell'Esercito zapatista confluirono alcuni ex membri di altri gruppuscoli politico-militari.

23. Il generale Absalon Castellanos, governatore del Chiapas dal 1982 al 1988, ha lasciato un pessimo ricordo fra gli agricoltori indigeni. Durante l'insurrezione del gennaio 1994 è stato fatto prigioniero dagli zapatisti. Il governo ha ottenuto la sua liberazione come condizione per aprire un dialogo con gli zapatisti, il che è avvenuto nel febbraio dello stesso anno.

24. Va notato però che mentre in Guatemala un manipolo di gesuiti ha avuto parte attiva nella mobilitazione a favore della lotta armata, nel Chiapas i principali esponenti della Compagnia di Gesù hanno avuto, nei confronti dello zapatismo, un atteggiamento riservato, o meglio critico.

25. La marcia è denominata "Xi'Nich" (in chol: «formica»). Secondo i manifestanti è la risposta ai colpi sferrati dalle autorità contro il formicaio.

26. Nel contenzioso agrario entrano in buona misura anche i conflitti fra comunità, dovute a un'imprecisa delimitazione dei confini fondiari o all'assegnazione contemporanea di uno stesso terreno a diverse comunità.

27. Patrocinio Gonz lez Garrido, governatore del Chiapas dal 1988 al gennaio del 1993 e ministro degli Interni del governo federale quando è scoppiata l'insurrezione del primo gennaio 1994, è stato destituito dalla carica nei giorni successivi, accusato di aver fatto ostruzionismo alla politica di modernizzazione salinista nel Chiapas.

28. La componente trotzkista alla quale pure Marcos accenna è meno evidente in quel cocktail zapatista che si è potuto vedere nell'esplosiva azione del 1994; in compenso, nei vari circoli di "zapatizzanti" si contano numerosi trotzkisti o ex trotzkisti.

29. In un testo dell'ottobre 1994 Marcos vanta ancora i meriti del materialismo storico e di Lenin come teorico (E.Z.L.N., "Documenti e comunicati dal Chiapas insorto", vol. 2, cit., p.p. 104-10).

30. Tale somiglianza, peraltro tenue, forse ha contribuito a far nascere negli abitanti di Ocosingo la convinzione che alla conquista della loro città compiuta dagli zapatisti abbiano messo mano anche i salvadoregni (Efrain Bartolomé, "Diario de guerra y algunas voces", Ciudad de México, Joaquin Mortiz, 1995).

31. René Solis, uno dei primi giornalisti arrivati a Ocosingo, scrive: «Almeno venticinque cadaveri di guerriglieri, con le divise più diverse, giacevano sulla strada, alcuni fin dalla domenica, il giorno dopo l'insurrezione, quando l'esercito aveva circondato la città. Nel mercato parzialmente coperto in cui si erano asserragliati gli "zapatisti", si contavano quattordici corpi, sparsi nei passaggi fra le bancarelle rovesciate. Erano tutti giovanissimi, di tipo indio. Molti di loro, distesi bocconi con le mani legate dietro la schiena, evidentemente erano stati abbattuti dai soldati. Le loro "armi" erano sparse a terra: pezzi di legno tagliati grossolanamente, sui quali in certi casi era fissata una lama di machete o una baionetta» («Libération», 6 gennaio 1994).

32. L'altra esperienza è quella di Sendero Luminoso in Perù, ma si tratta di un movimento di guerriglia d'altra natura e che, a differenza di quello guatemalteco, è responsabile di numerosi massacri fra la popolazione civile.

33. Jorge Castaneda, "Sorpresas te da la vida", Ciudad de México, Aguilar, 1994, p. 46. La tesi avanzata dall'autore risulta invalidata dall'E.P.R., l'altro movimento guerrigliero che è comparso nel giugno 1996? E' lecito dubitarne. In effetti non è impossibile che questa organizzazione, in cui l'apparato ideologico è ridotto all'osso, si sviluppi in forme analoghe a quelle degli attuali movimenti di guerriglia colombiani o peruviani, con i quali condivide già l'autoritarismo, la pratica dei sequestri a scopo di riscatto, i sanguinosi regolamenti di conti al suo interno.

34. E.Z.L.N., "Documenti e comunicati dal Chiapas insorto", trad. it., vol. 1, Pisa, B.F.S., 1996, p.p. 162-63. In un altro testo, Marcos dà una definizione meno poetica, più banale ma più soddisfacente: «Democrazia è quando i pensieri arrivano a un accordo. Non quando tutti la pensano allo stesso modo, ma quando tutti i pensieri, o la maggior parte di essi, cercano e trovano un accordo comune che sia buono per la maggioranza, senza eliminare quelli che sono meno numerosi. La parola del comando deve obbedire alla parola della maggioranza, il bastone di comando deve avere una parola collettiva e non obbedire alla volontà di uno solo» ("­Ya Basta!", vol. 2, Paris, Dagorno, 1996, p. 138).

35. Carlos Lenkersdorf, pur descrivendo come ideale la «comunità di consenso», evidenzia bene queste caratteristiche: principio di unanimità e non di maggioranza, coercizione esercitata sull'individuo, partecipazione di tutti i capifamiglia, esclusione delle donne.

36. Il carattere democratico delle consultazioni effettuate dall'E.Z.L.N. fra i suoi sostenitori è limitato per alcune ragioni: il voto, per quanto individuale, non è segreto; la decisione non è il risultato di un vero e proprio contraddittorio; la consultazione è limitata agli zapatisti. L'introduzione della pratica di far partecipare i bambini alle consultazioni fin dall'età della ragione ha più senso nella logica di un voto comunitario che in quella di un voto individuale. In una situazione simile le consultazioni hanno esiti plebiscitari e poco convincenti (per esempio, il 98% delle persone consultate avrebbe votato a favore dell'insurrezione del 19 gennaio 1994, e nell'aprile-maggio del 1994 sempre il 98% avrebbe respinto le proposte governative).

37. Dopo lunghe trattative fra i tre grandi partiti (P.R.I., PAN, P.R.D.) e il piccolo Partito del lavoro (Partido del Trabajo, P.T.), il P.R.I., che ha la maggioranza nel Congresso, ha fatto votare un testo cui gli altri partiti si sono opposti, considerandolo troppo restrittivo.

38. Ricardo Flores Magon, riformista poi diventato anarchico, ha animato alcune delle mobilitazioni che nel 1910 sono sfociate nella Rivoluzione messicana.

39. Régis Debray dà una definizione di Marcos abbastanza corretta: «un libertario che pensa da patriota» («Le Monde», 14 maggio 1996). Gli zapatisti si richiamano alla Costituzione del 1917, prodotta dalla Rivoluzione e ancora in vigore, continuando a denunciare le distorsioni di cui è stata oggetto e chiedendo che si formuli una nuova Costituzione.

40. Marcos, messicano fino alla cima dei capelli, fa riferimenti continui alla storia del suo paese, una storia che afferma di avere appreso anche da alcuni guerriglieri suoi predecessori e che ha insegnato egli stesso a qualche capo indio zapatista. Con una certa fierezza ricorda l'indio tzeltal che ha letto per intero il libro di John Womack su Emiliano Zapata (E.Z.L.N., "Documenti e comunicati dal Chiapas insorto", vol. 1, cit., p. 102. Il libro cui si fa riferimento è "Morire per gli indios. Storia di Emiliano Zapata", trad. it., Milano, Mondadori, 1977).

41. Nella sua intenzione di ridare vita a un progetto nazionale, l'E.Z.L.N. ricorda l'M19 colombiano, che come prima iniziativa pubblica rubò la spada di Bolivar dal museo dove essa era conservata. Si potrebbero segnalare altre analogie fra le due organizzazioni, per esempio il senso e il gusto per le operazioni spettacolari; c'è invece una forte diversità per quanto riguarda la loro base sociale e il rapporto con il potere. L'M19 era una organizzazione politico-militare di carattere soprattutto urbano, e quando ha avuto accesso alla politica si è disintegrata fra le manovre e gli intrighi.

42. Nessun testo, nessuna dichiarazione zapatista propone l'accostamento - che prendo a prestito da Alain Touraine - con Martin Luther King, e nemmeno con Gandhi, ma durante una riunione che si è svolta nella Selva Lacandona per reazione contro il divieto di abbattere gli alberi promulgato dal governo Salinas, un partecipante indio (uno zapatista?) ha fatto un esplicito richiamo a Gandhi e alla possibilità di una forma di disobbedienza civile: «Loro vogliono affamarci. E se noi li affamassimo a nostra volta, incrociando le braccia e rifiutando di consegnare i nostri prodotti?» (comunicazione personale di F. J. Falquet).

43. Alianza Civica è un'associazione non governativa che si è assunta il compito specifico di sorvegliare l'andamento delle elezioni e organizzare consultazioni su temi di interesse generale.

44. La Cocopa è stata creata nel 1995; i suoi membri sono rappresentanti dei principali partiti, e il suo compito è assicurare la continuazione del dialogo per la pace e l'applicazione degli accordi sottoscritti.

45. Il termine "el barzon" designa un pezzo dell'attacco dei buoi. Il riferimento è a una canzone popolare della Rivoluzione messicana che evocava il triste destino dei peones vincolati all'"hacienda" attraverso un sistema di debiti. Gli agricoltori messicani del Nord e del Centrovest, che nel 1993 hanno creato El Barzon, identificavano la loro situazione debitoria e la loro dipendenza dalle banche con quella degli antichi servi. L'organizzazione si è estesa a numerosi settori: dalla campagna si è propagata nelle città e mette in discussione la politica economica del governo.

46. Emiliano Zapata fu assassinato il 10 aprile 1919 a Chinameca, in una imboscata che gli era stata tesa dall'esercito federale.

47. In "Pedro P ramo" (Torino, Einaudi, 1989), il grande scrittore messicano Juan Rulfo (1918-86) presenta dei personaggi morti che hanno un'identità indefinita, condannati a sopravvivere in un tempo circolare, ai margini della storia, in un villaggio di ombre, di voci e di mormorii che ruota su se stesso in un'atmosfera soffocante e inaridita.

48. La riunione dedicata all'economia nell'ambito dell'Incontro intergalattico si intitolava «Ultime notizie dell'orrore», un'espressione ripresa nel titolo del libro di Viviane Forrester, "L'horreur économique", comparso in seguito (Paris, Fayard, 1996). Soprattutto in questo campo, però, la denuncia non può prendere il posto della progettazione.

49. Marcos conclude una lettera del 29 agosto 1996 con la formula: «Dalle montagne di Numancia» (invece del consueto «Sudest messicano»). 50. Gli zapatisti giustificano il provvedimento con la necessità di combattere il flagello dell'alcolismo; nel suo radicalismo una simile decisione li avvicina alle comunità evangeliche, mentre in generale i «nuovi cattolici» sono più moderati sull'argomento. Del resto si deve osservare che anche Pancho Villa vietava ai suoi soldati il consumo di bevande alcoliche.

 


Ultima modifica 12.12.2003