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Il mattino seguente — sabato 11 novembre — i cosacchi entrarono a Zarskoie-Selo. Kerenski montava un cavallo bianco e tutte le campane suonavano. Dall'alto di una piccola collina, fuori della città, egli poteva vedere le guglie dorate, le cupole multicolori e l'immensità grigia della capitale, giacente sulla pianura triste, che si immergeva, lontano, nel golfo di Finlandia, color d'acciaio.
Non vi fu battaglia. Ma Kerenski commise un fatale errore. Alle sette del mattino mandò al 2° fucilieri di Zarskoie-Selo l'ordine di deporre le armi. I soldati risposero che acconsentivano a restare neutrali, ma che non avrebbero deposto le armi. Kerenski diede loro dieci minuti per obbedire. Tutto ciò irritò i soldati; da otto mesi avevano preso l'abitudine all'autonomia (che si manifestava nei Comitati) e quell'ordine puzzava un po' troppo di vecchio regime... Alcuni minuti dopo l'artiglieria cosacca apriva il fuoco sulle caserme uccidendo otto uomini... Da quel momento non vi furono più «neutrali» a Zarskoie-Selo...
Pietrogrado fu svegliata dalla fucileria e dal rumore sordo delle truppe in marcia. Sotto il cielo alto e scuro, un vento ghiacciato portava l'odore della neve. All'alba l'Hotel militare e la Agenzia telegrafica erano state prese da importanti forze di junker, e poi riconquistate con una lotta sanguinosa. La centrale telefonica era assediata dai marinai, che si tenevano trincerati in mezzo alla Morscaia, dietro a barricate di barili, di casse e di pezzi di lamiera, o che si riparavano all'angolo della Gorokovaia e della piazza S. Isacco, sparando su tutto quello che si muoveva. Ogni tanto si presentava un'automobile con la bandiera della Croce Rossa; i marinai la lasciavano passare...
Alberto Rhys Williams, un nostro collega, che si trovava alla centrale telegrafica, ne uscì in un'automobile della Croce Rossa, che pareva carica di feriti. Dopo aver fatto qualche giro per la città, la vettura andò alla Scuola militare Michele, quartier generale della controrivoluzione. Un ufficiale francese, che si trovava nel cortile, sembrava dirigere le operazioni... Così la centrale telefonica era rifornita di munizioni e di viveri. Parecchie di quelle pretese ambulanze servivano solamente per il collegamento e per il rifornimento degli junker.
Cinque o sei automobili blindate, che provenivano dalla vecchia Divisione britannica di autoblindate, erano nelle loro mani. Luisa Bryant — passando per la piazza S. Isacco — ne vide arrivare una dall'ammiragliato, diretta verso la centrale. All'angolo della via Gogol, la macchina si fermò precisamente di fronte a lei. Alcuni marinai, riparati da mucchi di legna, cominciarono a sparare. La mitragliatrice della torretta scaricò una grandine di piombo a caso, nei mucchi di legna e nella folla. Sette persone, tra cui due ragazzi, furono uccisi sotto l'arcata dove stava la Bryant. Allora i marinai, gettando un grande grido, scattarono dalla loro trincea e si precipitarono avanti sotto i proiettili; circondando il mostro, immersero più volte le loro baionette nelle feritoie, con orribili urla... Il conduttore si disse ferito ed essi lo lasciarono in libertà; corse subito a portare alla Duma quella nuova prova della atrocità bolscevica... Tra i morti si rinvenne un ufficiale inglese.
Più tardi i giornali parlarono di un ufficiale francese, che sarebbe stato fatto prigioniero sull'automobile blindata e mandato a Pietro e Paolo... L'Ambasciata di Francia si affrettò a pubblicare la smentita, ma uno dei consiglieri municipali mi raccontò di esser intervenuto lui stesso per far rimettere in libertà l'ufficiale in questione.
Qualunque sia stato l'atteggiamento ufficiale delle ambasciate alleate, è certo che parecchi ufficiali francesi ed inglesi hanno individualmente partecipato alle operazioni, assistendo anche alle riunioni del Comitato di Salute, e dandovi i propri consigli.
Durante tutta la giornata vi furono nei vari quartieri molti scontri tra junker e guardie rosse e tra automobili blindate. Ovunque, da vicino o da lontano, si sentivano scoppiettare salve di fucileria o spari isolati o crepitare le mitragliatrici. Le saracinesche dei negozi erano abbassate, ma gli affari continuavano. Le sale cinematografiche, non rischiarate all'esterno, erano ricolme. I tranvai correvano. Il telefono funzionava e quando si chiamava la centrale si udiva distintamente la fucileria... Smolni era tagliato dalla rete, ma la Duma ed il Comitato di Salute rimasero continuamente in comunicazione con tutte le scuole degli junker e con Kerenski a Zarskoie.
Alle sette del mattino, la scuola Vladimiro ricevette la visita di una pattuglia di soldati, di marinai e di guardie rosse che diede venti minuti agli junker per consegnare le armi. L'ultimatum fu respinto. Un'ora dopo gli junker tentarono una sortita, ma furono respinti da un fuoco violento che partiva dall'angolo della Grebetscaia e del Corso Grande. Le truppe sovietiche circondarono l'edificio ed aprirono il fuoco, mentre due automobili blindate andavano e venivano, crivellandolo continuamente con le mitragliatrici. Gli junker domandarono aiuti telefonicamente. I cosacchi risposero che non osavano uscire perché forze imponenti di marinai con due cannoni sorvegliavano la loro caserma. La Scuola Imperatore Paolo era circondata. La maggior parte degli junker della Scuola Michele, combatteva già nelle strade...
Alle undici e mezza giunsero tre pezzi da campagna. Gli junker risposero ad un nuovo ultimatum uccidendo due parlamentari sovietici che avanzavano con la bandiera bianca. Cominciò allora un vero bombardamento. Grandi brecce furono aperte nei muri della scuola. Gli junker si difesero disperatamente; le ondate urlanti delle guardie rosse, che andavano all'assalto, erano decimate dalla mitraglia... Kerenski aveva telefonato da Zarskoie per proibire qualsiasi trattativa con il Comitato militare rivoluzionario.
Esasperate per lo scacco e per le loro perdite le truppe sovietiche scatenarono una vera tempesta di fiamme e di acciaio contro l'edificio. I loro stessi ufficiali furono impotenti a fermare quel terribile bombardamento. Un commissario di Smolni, certo Kirillov, tentò di farlo cessare. Si minacciò di linciarlo. Il sangue delle guardie rosse ribolliva.
Alle due e mezza gli junker alzarono bandiera bianca; acconsentivano ad arrendersi se si garantiva loro salva la vita. Fu accordato. Migliaia di soldati e di guardie rosse si precipitarono attraverso le finestre, le porte e le brecce. Prima che fosse possibile intervenire, cinque junker furono uccisi a colpi di baionette. Gli altri, circa duecento, furono condotti, con buone scorte, a Pietro e Paolo, in piccoli gruppi, per evitare di attirare l'attenzione. Per la strada, la folla ne attaccò un gruppo ed uccise altri otto prigionieri...
Più di cento guardie rosse e soldati erano caduti...
Due ore dopo la Duma ricevette un messaggio telefonico col quale si annunciava che i vincitori marciavano sull’Ingenierni Zamok, la Scuola degli ingegneri. Una dozzina di deputati andarono subito ad incontrarli, carichi di pacchetti dell'ultimo proclama del Comitato di Salute. Alcuni non tornarono più... Tutte le altre scuole si erano arrese senza resistenza ed i loro occupanti furono inviati sani e salvi a Pietro e Paolo e a Kronstadt.
La centrale telefonica resistette ancora parte del pomeriggio. Ma i marinai finirono per conquistarla, sotto la protezione di un'autoblindata bolscevica. Le telefoniste, spaventate, correvano in ogni direzione strillando. Gli junker, per non essere riconosciuti, si strappavano i distintivi ed uno di essi offrì a Williams tutto quello che voleva in cambio del suo mantello per nascondersi. «Ci massacreranno, ci massacreranno!» gridavano, perché molti di essi, al Palazzo d'Inverno, avevano dato la parola d'onore di non riprendere le armi contro il popolo. Williams offerse la sua mediazione a patto che Antonov fosse liberato. Lo accontentarono subito. Antonov e Williams arringarono i marinai vittoriosi, esasperati per le perdite subite, e, ancora una volta, gli junker poterono andarsene liberi... Alcuni tuttavia, scoperti mentre, terrorizzati tentavano di fuggire per i tetti o di nascondersi nelle soffitte, furono precipitati nella strada.
Spossati, coperti di sangue, ma vittoriosi, i marinai ed i soldati entrarono nel salone degli apparecchi. Vedendo tutte quelle belle ragazze riunite, si fermarono confusi, imbarazzati, quasi coi piedi inchiodati al suolo. Nessuna fu molestata, né oltraggiata. Spaventate, si rifugiarono dapprima negli angoli; poi visto che non capitava loro niente di male, si sfogarono liberamente. «Oh! che razza di gente! che bruti!...». I marinai e le guardie rosse erano molto imbarazzati. «Bruti! Porci!» squittivano le telefoniste, mettendosi, indignate, le giacchette ed i cappelli. Come era più romantico portare le cartucce o fasciare le ferite dei giovani e brillanti junker, di cui molti erano nobili e che combattevano per restituire il trono al loro zar amatissimo! Chi erano, invece quelli? Volgari operai, contadini, plebe incolta...
Il commissario del Comitato militare rivoluzionario, il piccolo Viscniak, tentò di persuadere le telefoniste a rimanere. Usò tutte le risorse della cortesia.
— Fino ad ora, — disse, — vi si trattava male. Il servizio dei telefoni dipende dalla Duma municipale. Per sessanta rubli al mese, voi lavorate dieci ore e più... Ormai tutto cambierà. Il governo ha l'intenzione di passare i telefoni al ministero delle Poste e Telegrafi. Il vostro stipendio sarà subito portato a 120 rubli e le ore dì lavoro saranno ridotte. Voi appartenete alla classe lavoratrice e avete il diritto di essere trattate bene...
La classe lavoratrice! Per l'appunto! Crederebbe dunque costui che vi sia qualcosa di comune tra quei... selvaggi e noi? Rimanere? Neppure per mille rubli!... E fiere, piene di disprezzo, le telefoniste lasciarono gli uffici.
Gli impiegati, i guardalinee ed i manovali rimasero. Ma bisognava occuparsi delle comunicazioni; il telefono è una questione vitale. Non erano rimaste che sei-sette telefoniste. Si dovette rivolgersi ai volontari; se ne presentarono un centinaio, soldati, marinai, operai... Le sei telefoniste correvano a destra e a sinistra, dando delle indicazioni, aiutando, rimproverando... A poco a poco il lavoro riprese ed i fili ricominciarono a mormorare. Bisognava prima di tutto rimettere Smolni in comunicazione con le caserme e con le officine; in secondo luogo bisognava tagliare la Duma e le scuole degli junker... Verso la fine del pomeriggio si diffuse nella città la notizia che questo lavoro era stato fatto... Allora centinaia di borghesi cominciarono a manifestare il loro cattivo umore: «Imbecilli! Canaglie! Quanto tempo credete di resistere? Aspettate che arrivino i cosacchi!».
Cadeva il crepuscolo. Un vento sferzante spazzava la Nevski quasi deserta; davanti alla Cattedrale di Kazan si era riunita una folla che proseguiva un'eterna discussione: alcuni operai, dei soldati e soprattutto dei commercianti e degli impiegati.
— Ma Lenin non otterrà che la Germania faccia la pace — gridò qualcuno.
Un giovane soldato replicò, violento:
— Di chi è la colpa? Del vostro maledetto Kerenski,
quello sporco borghese! Al diavolo Kerenski! Non lo vogliamo più! È Lenin che
ci occorre!
Dinanzi alla Duma un ufficiale — bracciale bianco — strappava dal muro alcuni manifesti, bestemmiando ad alta voce. Uno di quei manifesti diceva:
In quest'ora minacciosa, mentre la Duma municipale dovrebbe
rivolgere tutti i suoi sforzi ad aiutare la popolazione, ad assicurarle il pane
e l'indispensabile, i S.R. di destra e i cadetti, dimentichi del loro dovere,
hanno trasformato la Duma in un'assemblea controrivoluzionaria e tentano di
sollevare una parte della popolazione contro l'altra, per facilitare la
vittoria di Kornilov-Kerenski. Invece
di adempiere i loro più elementari doveri ì S.R. di destra e i cadetti hanno
fatto della Duina un'arena di lotta politica contro i soviet dei D.O.S.C.,
contro il governo rivoluzionario della pace, del pane, e della libertà.
Cittadini di Pietrogrado, noi consiglieri municipali
bolscevichi, vostri eletti, vogliamo che sappiate che i S.R. di destra ed i
cadetti si sono gettati nell'azione controrivoluzionaria, hanno mancato ai
loro obblighi e conducono la popolazione alla fame e alla guerra civile. Noi, gli
eletti di 183.000 voti, consideriamo sia nostro dovere richiamare l'attenzione
dei nostri elettori su quanto avviene alla Duma e dichiariamo di respingere
ogni responsabilità per le inevitabili e deplorevoli conseguenze del suo atteggiamento.
In lontananza echeggiava ancora qualche colpo di fucile isolato, ma la città era nuovamente calma, fredda, come spossata dagli spasimi violenti che l'avevano scossa.
Nella sala Nicola, la seduta della Duma stava finendo. Anche quella Duma turbolenta sembrava un poco stordita. Continuamente i commissari portavano le notizie: la presa della centrale telefonica, ì combattimenti nelle strade, la presa della Scuola Vladimiro...
— La Duma, — dichiarò Trup, — sostiene la democrazia nella sua
lotta contro la tirannide e la violenza; ma chiunque sia il vincitore, essa non
accetterà mai la giustizia sommaria e la tortura…
Al che Kovovski, un cadetto, un vecchio alto, dall'espressione
crudele, rispose:
— Quando le truppe del governo legale entreranno a
Pietrogrado, esse fucileranno gli insorti e questo non sarà affatto giustizia
sommaria.
Tutta l'assemblea, compreso il suo partito, protestò.
II dubbio e la depressione regnavano. La controrivoluzione retrocedeva. Il Comitato centrale del partito S.R. aveva emesso un voto di sfiducia nei suoi rappresentanti e l'ala sinistra cominciava ad avere il sopravvento; Avxentiev aveva rassegnato le dimissioni. Un messaggero annunciò che la delegazione mandata alla stazione per ricevere Kerenski era stata arrestata. Nelle strade si sentiva il sordo brontolio di cannonate lontane, all'ovest e al sud-ovest. Kerenski non arrivava.
Tre giornali soli erano comparsi, la Pravda, il Dielo Narodae la Novaia Gizn. Tutti e tre dedicavano molto spazio al nuovo governo di coalizione. L'organo socialista rivoluzionario voleva un ministero senza cadetti e senza bolscevichi. Gorki era ottimista: Smolni aveva fatto qualche concessione e ciò significava un governo puramente socialista che avrebbe compreso tutte le forze socialiste, tutti gli elementi, escludendo la borghesia. La Pravda invece, era aspra:
Un manifesto pretenzioso del Vikiel minacciava lo sciopero se un compromesso non fosse stato concluso:
Smolni era tutto fremente di vita, di inesauribile energia umana.
Alla sede dei sindacati, Losovski ci presentò un delegato dei
ferrovieri della linea Nicola, il quale ci disse che i loro uomini, in
grandiosi comizi, condannavano l'atteggiamento dei capi.
— Tutto il potere ai Soviet! — gridò picchiando il
pugno sul tavolo. — I guerrafondai del Comitato centrale fanno il giuoco di
Kornilov. Hanno cercato di mandare una commissione allo Stato Maggiore Generale
dell'Esercito, ma noi l'abbiamo fermata a Minsk... La nostra sezione ha
reclamato una Conferenza panrussa ma hanno rifiutato di convocarla...
La situazione era la stessa nei Soviet e nei Comitati dell'Esercito. L'una dopo l'altra, in tutta la Russia, le organizzazioni democratiche scricchiolavano e si trasformavano. Le cooperative erano lacerate da lotte intestine. Le sedute del Comitato esecutivo dei deputati contadini dovettero essere sospese senza concludere, in mezzo a dibattiti tempestosi. Anche tra i cosacchi l'agitazione guadagnava terreno...
All'ultimo piano di Smolni, il Comitato militare rivoluzionario lavorava con il massimo delle sue forze, senza un momento di sosta. Vi si arrivava freschi e vigorosi; poi notte e giorno, giorno e notte, la terribile macchina assorbiva le energie e se ne usciva flosci, ciechi, e sfiniti, la voce arrochita, sporchi, per crollare sul pavimento e addormentarsi... Il Comitato di Salute era stato messo fuori legge. Sul pavimento si ammassavano mucchi di nuovi proclami:
Da Mosca arrivò la notizia che gli junker ed i cosacchi avevano circondato il Kremlino ed invitato le truppe sovietiche a capitolare. Le forze sovietiche avevano accettato, ma, mentre lasciavano il Kremlino, erano state assalite ed annientate. Altre forze bolsceviche meno importanti erano state espulse dalle centrali telefoniche e telegrafiche; gli junker occupavano il centro della città, ma attorno ad essi le truppe sovietiche si riorganizzavano. I combattimenti si sviluppavano nelle strade; tutti i tentativi di compromesso erano falliti... I Soviet disponevano di diecimila soldati della guarnigione e di alcune migliaia di guardie rosse; il governo di seimila junker, duemilacinquecento cosacchi e duemila guardie bianche.
Il Soviet di Pietrogrado era riunito, e nella stanza vicina stava il nuovo Zik che esaminava i decreti e gli ordini che gli mandava, senza sosta, dal piano superiore, il Consiglio dei commissari del popolo. Tra questi decreti si trovavano quelli per la ratifica e la promulgazione delle leggi sulla giornata di otto ore ed il «progetto di un sistema di educazione popolare» di Lunaciarski. Alcune centinaia di delegati assistevano a quelle due assemblee, la maggioranza armati. Smolni era quasi deserto; solo le guardie erano occupate ad installare nei vani delle finestre le mitragliatrici per proteggere i fianchi dell'edificio.
Allo Zik parlava un delegato del Vikiel:
— Noi rifiutiamo di trasportare le truppe di un
partito, qualunque esso sia... Abbiamo mandato una delegazione a Kerenski per
dirgli che se continua la marcia su Pietrogrado, gli taglieremo le
comunicazioni. — Concluse con l'abituale difesa di una Conferenza di tutti i
partiti socialisti per costituire un nuovo governo.
Kamenev rispose prudentemente. I bolscevichi sarebbero felici di assistere ad una tale Conferenza. Però il centro del problema non era la formazione di un governo di quella specie, ma la accettazione del programma del Congresso dei Soviet... Lo Zik aveva deliberato sulla dichiarazione dei S.R. di sinistra e dei socialdemocratici internazionalisti ed aveva accettato una proposta di rappresentanza proporzionale alla Conferenza, anche con i delegati dei Comitati dell'esercito e dei Soviet contadini...
Nella grande sala, Trotsky
passava in rassegna gli avvenimenti della giornata:
— Noi abbiamo proposto la resa agli junker di
Vladimiro — disse. — Volevamo evitare ogni spargimento di sangue. Ma adesso che
il sangue è stato versato, vi è una sola strada, la lotta a fondo. Sarebbe
puerile pensare che noi possiamo vincere in altro modo... Il momento decisivo
è arrivato. Tutti devono lavorare con il Comitato militare rivoluzionario,
denunciare i depositi di filo spinato, di benzina, di armi... Noi abbiamo
preso il potere e dobbiamo conservarlo.
Il menscevico Joffe volle leggere una dichiarazione del suo partito, ma Trotsky rifiutò di lasciare aprire «un dibattito sui princìpi».
— Le nostre discussioni si concludono adesso nella strada, — gridò. — II passo decisivo è stato fatto. Tutti noi, ed io in particolare, assumiamo la responsabilità di quello che accade...
Alcuni soldati, venuti dal fronte e da Gacina, espressero i loro
sentimenti. Uno di essi, delle truppe d'assalto della 481° divisione
d'artiglieria, disse:
— Quando le trincee sapranno questo, vi sarà una sola
voce: «Ecco il nostro governo!».
Uno junker dichiarò che lui e due dei suoi compagni avevano rifiutato di marciare contro i Soviet; quando i suoi compagni erano ritornati dalla difesa del Palazzo d'Inverno, l'avevano nominato loro commissario e mandato a Smolni ad offrire il loro aiuto alla «vera» rivoluzione...
Poi Trotsky si alzò di nuovo, ardente, infaticabile, dando degli
ordini, rispondendo alle domande.
— La piccola borghesia, per schiacciare gli operai, i
soldati ed i contadini, si alleerebbe col diavolo! — disse. Durante gli ultimi
due giorni si erano constatati numerosi casi di ubriachezza. — Non bevete,
compagni! Nessuno deve trovarsi nelle strade dopo le otto di sera, all'infuori
delle pattuglie. Si perquisiranno tutti i luoghi sospetti e l'alcool che si
troverà sarà distrutto. Nessuna pietà per i trafficanti di alcool…
In quel momento il Comitato militare rivoluzionario fece chiamare la delegazione della sezione di Viborg, poi quella degli operai di Putilov. Risposero subito all'appello.
— Per ogni rivoluzionario ucciso — disse ancora Trotsky — noi uccideremo cinque controrivoluzionari!
Tornammo in città. La Duma era tutta illuminata: una folla immensa vi si precipitava. Al pianterreno, nell'entrata, si udivano gemiti e grida di dolore: la folla sì accalcava davanti al grande quadro dei comunicati, sul quale era affissa la lista degli junker uccisi nella giornata — o, almeno, dei pretesi uccisi, perché moltissimi di quei morti, quasi tutti, riapparvero in ottima salute. In alto, nella sala Alessandro, il Comitato dì Salute continuava le sue riunioni. Vi si notavano ufficiali con le spalline rosso e oro, visi conosciuti di intellettuali menscevichi e S.R., diplomatici e banchieri dallo sguardo duro e dalle pance imponenti, funzionari dell'antico regime, signore eleganti...
Le telefoniste vennero a testimoniare. L'una dopo l'altra salivano la tribuna, povere ragazze, vestite con una ricercatezza che scimmiottava l'eleganza, i lineamenti tirati e le scarpe bucate... L'una dopo l'altra, arrossendo di piacere per gli applausi dell'aristocrazia di Pietrogrado, degli ufficiali, dei ricchi, dei politicanti celebri, esse descrivevano le sofferenze che il proletariato aveva loro inflitto e proclamavano la loro fedeltà a tutto quanto rappresentava il vecchio regime, l'ordine stabilito, la potenza...
La Duma era nuovamente riunita nella sala Nicola. Il sindaco, ottimista, vi dichiarò che i reggimenti di Pietrogrado si vergognavano già della loro condotta; la propaganda faceva progressi... Emissari andavano e venivano riferendo gli atti orribili commessi dai bolscevichi, si interponevano a favore degli junker o lavoravano attivamente a fare delle inchieste.
— È la forza morale che avrà ragione dei bolscevichi, — disse Trup, — e non le baionette...
Tuttavia la situazione non era brillante sul fronte rivoluzionario. Il nemico aveva con sé alcuni treni blindati, muniti di cannoni. Le forze sovietiche, composte soprattutto dì guardie rosse inesperte, erano senza ufficiali e senza un piano determinato. Solamente cinquemila soldati regolari si erano potuti unire ad esse; il resto della guarnigione era occupato sia a reprimere la rivolta degli junker, sia a custodire la città, oppure non si decideva a prendere posizione. Alle dieci di sera Lenin parlò in una grande riunione di delegati dei reggimenti della città, che si pronunciarono in favore della lotta con una maggioranza schiacciante. Si elesse un comitato di cinque soldati, che doveva costituire lo Stato Maggiore, e all'alba i reggimenti uscirono dalle caserme sul piede di guerra... Rincasando, li vidi sfilare con il passo regolare dei veterani, le baionette perfettamente allineate, attraverso le strade deserte della capitale conquistata. Nello stesso tempo al quartiere generale del Vikiel, nella Sadovaia, la Conferenza di tutti i partiti socialisti lavorava a formare un nuovo governo. Abramovic vi dichiarò, a nome del centro menscevico, che non dovevano esservi né vincitori né vinti e che era necessario passare la spugna sul passato. Tutti i gruppi di sinistra acconsentirono. Dan, a nome della destra menscevica, propose ai bolscevichi una tregua alle condizioni seguenti: disarmo della guardia rossa, passaggio della guarnigione di Pietrogrado agli ordini della Duma, proibizione alle truppe di Kerenski di sparare un solo colpo di fucile o di procedere ad un solo arresto, formazione di un ministero comprendente tutti i partiti socialisti, eccetto i bolscevichi. Riazanov e Kamenev risposero, a nome di Smolni, che un governo di coalizione di tutti i partiti era accettabile, ma protestarono contro le proposte di Dan. I socialisti-rivoluzionari erano divisi, ma il Comitato esecutivo dei Soviet contadini ed i socialisti popolari si rifiutarono assolutamente di accettare la partecipazione dei bolscevichi al governo... Dopo una discussione accanita, una commissione fu incaricata di preparare un piano.
Tutta la notte discusse la commissione, tutto il giorno seguente ed ancora la notte dopo. Già una volta, il 9 novembre, un simile sforzo conciliatore era stato tentato da Martov e da Gorki; ma poiché Kerenski si avvicinava ed il Comitato di Salute era attivissimo, l'ala destra menscevica, i S.R. ed i socialisti popolari vi si erano rifiutati. Questa volta la sconfitta della rivolta degli junker li spaventava...
Il lunedì 12 fu un giorno di attesa. Tutta la Russia guardava alla grigia pianura che si estende alle porte di Pietrogrado, dove tutte le forze disponibili del vecchio regime affrontavano la potenza inorganizzata del nuovo: l'incognito. A Mosca era stata conclusa una tregua; i due avversari parlamentavano, attendendo style='la conclusione della lotta ingaggiata nella capitale. I delegati del Congresso dei Soviet si gettavano nei treni diretti che lì portavano fino ai confini dell'Asia, per ritornare alle loro province portatori della croce di fuoco della rivoluzione. La notizia del miracolo si spargeva a ondate sempre più larghe su tutta la superficie del paese; le città, i villaggi, i lontani casolari cominciarono ad agitarsi ed a sollevarsi; ovunque Soviet e Comitati rivoluzionari si levavano contro le Dume, gli zemstvo ed i commissari governativi, le guardie rosse contro le guardie bianche; ci si batteva nelle strade, si discuteva appassionatamente... La conclusione dipendeva da Pietrogrado.
Smolni era quasi vuoto, ma la Duma era superaffollata e rumorosa. Il vecchio sindaco, sempre con lo stesso aspetto dignitoso, protestava contro il manifesto dei consiglieri municipali bolscevichi.
— La Duma non è un centro controrivoluzionario, — diceva
accalorato. — La Duma non prende parte a queste lotte tra partiti. Nel momento
in cui il paese è privo di un potere legale, la sola sede dell'ordine è il
governo municipale autonomo. La popolazione tranquilla lo riconosce; le
ambasciate straniere riconoscono solo i documenti firmati dal sindaco della città.
La mentalità europea non ammette altra soluzione poiché il governo municipale
autonomo è il solo organo capace di proteggere i cittadini. La città ha il
dovere di essere ospitale verso tutte le organizzazioni che desiderano
usufruire della sua ospitalità. La Duma non può perciò proibire la
distribuzione di nessun giornale nell'interno del palazzo della Duma. Il campo
della nostra attività si allarga e noi abbiamo bisogno di una completa libertà
dì azione; i nostri diritti devono essere rispettati da ambo le parti...
Noi siamo rigorosamente neutrali! Quando la centrale
telefonica fu occupata dagli junker, il colonnello Polkovnikov ordinò
di tagliare le comunicazioni con Smolni, ma, in seguito alle mie proteste, il
telefono continuò a funzionare...
Risate ironiche scoppiettarono sui banchi bolscevichi ed imprecazioni si levarono dalla destra.
— Malgrado tutto questo, — continuò Schreider, — i bolscevichi ci considerano come controrivoluzionari e ci denunciano come tali alla popolazione. Ci tolgono i nostri mezzi di trasporto requisendo le nostre ultime automobili. Non sarà colpa nostra se la città cadrà in preda alla carestia. Le nostre proteste sono vane...
Kobozev, consigliere comunale bolscevico, mise in dubbio le
requisizione delle automobili municipali da parte del Comitato militare
rivoluzionario; in ogni modo non poteva trattarsi che di un atto individuale e
di un caso d'urgenza.
— Il sindaco, — continuò, — ci dice che noi non
dobbiamo trasformare le sedute della Duma in comizi politici. Ma i menscevichi
e i S.R. fanno qui esclusivamente dell'agitazione di partito e distribuiscono
alla porta i loro giornali illegali, l'Iskra (La scintilla), il Soldatski
Golos e la Rabociaia Gazeta che incitano alla sollevazione.
Che cosa accadrebbe se noi, bolscevichi, ci mettessimo a distribuire qui anche
i nostri giornali? Ma noi non lo faremo, perché noi rispettiamo la Duma. Noi
non abbiamo attaccato un governo municipale autonomo e non l'attaccheremo.
Solo, poiché voi avete rivolto un appello alla popolazione, noi abbiamo il
diritto di fare altrettanto...
Il cadetto Scingariov parlò dopo di lui, dichiarando che nessuna discussione era possibile con gente che bisognava mettere in istato di accusa e giudicare per tradimento... Propose che tutti i membri bolscevichi fossero espulsi dalla Duma. Ma la proposta fu rinviata, perché nessuna accusa personale poteva essere formulata contro i consiglieri bolscevichi, i quali avevano inoltre varie funzioni nell'amministrazione comunale.
Allora due menscevichi internazionalisti dichiararono che il
manifesto dei consiglieri bolscevichi era una provocazione diretta al massacro.
— Se si qualifica come controrivoluzione ogni atto
diretto contro i bolscevichi, — disse Pinkievic, — non vedo più differenza fra
rivoluzione ed anarchia... I bolscevichi calcolano sullo scatenamento delle
passioni delle masse; noi contiamo solo sulla nostra forza morale. Noi
protesteremo contro ogni violenza, da qualunque parte essa venga, perché la
nostra funzione è di trovare una soluzione pacifica.
— Il manifesto affisso sulle mura sotto il titolo di
«Alla gogna», che incita il popolo a sterminare il menscevichi e i
S.R., — disse Nazariev, — è un delitto che voi, bolscevichi, non riuscirete mai
a cancellare. Gli errori di ieri non sono che un preludio di quelli che voi
preparate con un tale proclama... Ho sempre tentato di riconciliarvi con gli
altri partiti, ma in questo momento io non provo per voi che disprezzo!
I consiglieri bolscevichi si levarono sotto l'insulto, rispondendo con violenza all'assalto delle voci rauche e piene di odio ed ai gestì di minaccia...
Uscendo dalla sala incontrai il menscevico Gomberg, ingegnere capo della città, e tre o quattro giornalisti. Erano tutti alticci.
— Vedete! — mi dissero. — Quei vigliacchi hanno paura di noi. Essi non osano arrestare la Duma! Il loro Comitato militare rivoluzionario non osa mandare qui un commissario. Oggi, all'angolo della Sadovaia, ho visto una guardia rossa mentre tentava di impedire ad un ragazzo di vendere il Soldatski Golos. Il ragazzo si accontentò di ridergli sulla faccia e la folla voleva linciare il bandito. Non è ormai più che questione dì ore. Anche se Kerenski non arrivasse, non saranno capaci di fare il governo. Gente assurda! Si dice che si battano fra di loro a Smolni!
Un mio amico, socialista rivoluzionario, mi prese da parte.
— So dove si nasconde il Comitato di Salute, — mi
disse. — Volete vederli?
Era calato il crepuscolo. La città aveva ripreso un aspetto normale; le vetrine dei magazzini erano illuminate, le lampade splendevano e nelle strade una grande folla passeggiava discutendo.
Al numero 86 della Nevskì passammo sotto un arco che ci condusse nel cortile di una immensa casa d'affitto. All'appartamento numero 229, il mio amico bussò in un modo speciale. Si senti un rumore di passi; una porta sbatté, poi la porta d'entrata fu socchiusa ed un viso di donna apparve. Era una signora dall'aspetto placido, di mezz'età. Gridò: «Cirillo, potete restare!». Nella sala da pranzo, un samovar fumava sulla tavola accanto a piatti con fette di pane e pesce affumicato. Un uomo in uniforme, nascosto dietro le tende della finestra, uscì; un altro, vestito da operaio, uscì da un piccolo gabinetto. Erano felici di vedere un giornalista americano. Dichiararono, con qualche fierezza, che i bolscevichi li avrebbero certamente fucilati se lì avessero trovati. Non vollero dirmi i loro nomi, ma mi dichiararono che erano ambedue socialisti rivoluzionari.
— Perché, — domandai, — pubblicate tante menzogne sui vostri
giornali?
Senza offendersi affatto, l'ufficiale rispose:
— Certamente, senza dubbio, ma cosa possiamo fare? —
Ed alzò le spalle. — Voi ammetterete certamente che noi siamo obbligati a
creare un certo stato d'animo nel popolo...
L'altro interruppe:
— È una pura e semplice avventura da parte dei
bolscevichi. Non hanno intellettuali. I ministeri non li aiuteranno... Eppoi la
Russia non è una città, è una nazione... Poiché sappiamo che potranno
resistere solo qualche giorno, abbiamo deciso di dare il nostro appoggio al più
forte dei loro avversari, a Kerenski, e dì collaborare al ristabilimento
dell'ordine.
— Sia, — dissi, — ma allora, perché vi alleate ai
cadetti?
Lo pseudo operaio sorrise francamente.
— A dire la verità, in questo momento le masse sono
per i bolscevichi. Noi non abbiamo attualmente partigiani. Ci sarebbe
impossibile riunire anche solo un pugno di soldati. Noi non abbiamo armi... I
bolscevichi hanno ragione in una certa misura. Vi sono attualmente in Russia
solo due partiti forti: i bolscevichi ed i reazionari, che si nascondono tutti
dietro le falde dei cadetti. I cadetti pensano di servirsi di noi. In realtà
siamo noi che ci serviamo di loro. Quando avremo rovesciato i bolscevichi, ci
rivolgeremo contro i cadetti.
— I bolscevichi saranno ammessi nel nuovo governo?
Si grattò la testa.
— La questione è importante, — disse. —
Evidentemente, se non li si ammette, è probabile che ricominceranno. Ad ogni modo
essi potrebbero, alla Costituente, diventare gli arbitri della situazione, a
condizione, naturalmente, che vi sia una Costituente.
— Questa questione, d'altra parte, — disse
l'ufficiale, — pone quella dell'ammissione dei cadetti nel nuovo governo, per
le stesse ragioni. Voi sapete che i cadetti non tengono all'Assemblea
Costituente, soprattutto se è possibile schiacciare adesso i bolscevichi.
Scosse la testa.
— La politica non è una cosa facile per noi russi.
Voi americani, voi siete nati politici; durante tutta la vostra vita avete
conosciuto la politica. Noi, non è che un anno che sappiamo che cosa è.
— Che pensate di Kerenski? — domandai.
— Oh! Kerenski è responsabile degli errori del
governo provvisorio, — rispose l'altro. — Fu proprio Kerenski che ci obbligò
ad accettare la coalizione con la borghesia. Se egli avesse dato le dimissioni,
come minacciava, vi sarebbe stata una nuova crisi ministeriale sedici
settimane prima dell'Assemblea Costituente. E noi non volevamo.
— Ma non è accaduto lo stesso, alla fine?
— È vero, ma come potevamo saperlo? I Kerenski e gli
Avxentiev ci hanno giocati. Gotz è un po' più a sinistra. Io sono partigiano di
Cernov, che è un vero rivoluzionario.
Oggi, Lenin stesso ha fatto sapere che non farebbe obiezioni all'entrata di Cernov
nel governo.
Volevamo anche noi sbarazzarci del governo di
Kerenski, ma abbiamo pensato che era meglio attendere la Costituente... All'inizio,
io ero coi bolscevichi, ma il Comitato centrale del mio partito ha preso
posizione contro di essi all'unanimità. Che cosa potevo fare? Era una questione
di disciplina dì partito...
In una settimana il governo bolscevico affonderà;
quindi se i S.R. potessero tenersi da parte ed attendere, il governo cadrebbe
nelle loro mani senza sforzi. Ma se noi aspettiamo una settimana, il paese sarà
così disorganizzato che gli imperialisti tedeschi trionferanno. Ed è per
questo che abbiamo dovuto cominciare il nostro movimento avendo promesse di
appoggio solo da parte di due reggimenti, che poi si sono messi contro di
noi... Non ci restavano allora che gli junker.
— Ma i cosacchi?
L'ufficiale sospirò.
— Non si sono mossi. Cominciarono a dire che
avrebbero marciato se fossero stati sostenuti dalla fanteria. Aggiungevano però
che una parte di essi era con Kerenski e che quindi avrebbero fatto il loro
dovere... Dissero anche che li si accusava sempre di essere i nemici
tradizionali della democrazia... Poi, alla fine, ci dichiararono: «I
bolscevichi hanno promesso che non ci prenderanno le nostre terre. Non abbiamo
nulla da temere, e quindi resteremo neutrali».
Mentre parlavamo parecchie persone entravano ed uscivano continuamente, per la maggiore parte ufficiali che si erano tolti i distintivi. Li potevamo vedere nell'anticamera e li sentivamo discutere a voce bassa, molto animatamente. A tratti, una tenda tirata a metà lasciava entrare i nostri sguardi nella sala da bagno, dove, seduto sulla toilette, un ufficiale corpulento, con l'uniforme di colonnello, scriveva sulle sue ginocchia. Riconobbi il colonnello Polkovnikov, l'ex comandante della piazza di Pietrogrado, per l'arresto del quale il Comitato militare rivoluzionario avrebbe data una fortuna...
— Il nostro programma? — disse l'ufficiale. — Eccolo! La terra
rimessa ai Comitati agrari, gli operai pienamente rappresentati nella direzione
delle industrie, un energico programma di pace, ma non un ultimatum a tutto il
mondo, come quello dei bolscevichi. I bolscevichi non potranno mantenere le
promesse che fanno alle masse. Noi non li lasceremo fare... Ci hanno rubato il
nostro programma agrario per ottenere l'appoggio dei contadini. È disonesto. Se
avessero atteso l'Assemblea Costituente...
— Non si tratta dell'Assemblea Costituente, —
interruppe l'altro. — Se i bolscevichi vogliono fondare qui uno Stato
socialista, noi non possiamo, in alcun caso, collaborare con loro. Kerenski ha
commesso un grave errore. Ha fatto capire ai bolscevichi quali erano le sue
intenzioni, annunciando al Consiglio della Repubblica che aveva ordinato il
loro arresto...
— Ma voi, che cosa contate di fare adesso? —
domandai.
I due uomini si guardarono.
— Lo vedrete tra qualche giorno. Se avremo a nostro
favore sufficienti truppe del fronte, non transigeremo coi bolscevichi. In caso
contrario vi saremo forse costretti.
Ritornati sulla Nevski, saltammo sul predellino di un tranvai affollatissimo, la cui piattaforma, cedendo sotto il peso, radeva il suolo, e che, con una lentezza mortale, ci trascinò fino a Srnolni.
Miesckovski, un piccolo uomo accurato, di aspetto debole, attraversava l'entrata, con aria preoccupata. Gli scioperi dei ministeri, ci disse, cominciavano a produrre i loro effetti. Il Consiglio dei Commissari del popolo aveva promesso di pubblicare i trattati segreti; ma Neratov, il funzionario che li custodiva, era scomparso coi documenti. Si supponeva che li avesse nascosti all'ambasciata inglese.
Particolarmente grave era lo sciopero delle banche.
— Senza denaro, — disse Menjinski,
— noi siamo impotenti. Bisogna pagare i salari ai ferrovieri, agli impiegati
delle Poste e Telegrafi. Le banche sono chiuse, compresa la Banca di Stato che
è la chiave della situazione. Tutti gli impiegati di banca sono stati
comprati...
Lenin ha dato l'ordine dì forzare con la dinamite la
porta dei sotterranei della Banca di Stato e un decreto promulgato adesso
ingiunge alle banche private di aprire gli sportelli domattina. Altrimenti li
apriremo noi stessi!
II Soviet di Pietrogrado era in piena attività; nella sala ricolma
quasi tutti erano armati. Trotsky parlava.
— I cosacchi abbandonano Zarskoie-Selo. (La sala
trepidante, applaudì). — Ma la battaglia non è che all'inizio. A Pulkovo si
combatte aspramente. Bisogna mandarvi tutte le forze possibili...
Da Mosca, le notizie sono cattive. Il Kremlino è
nelle mani degli junker e gli operai hanno poche armi. La soluzione dipende
da Pietrogrado. Al fronte, i Decreti sulla pace e sulla terra provocano un
grande entusiasmo. Kerenski inonda le trincee di telegrammi che dicono che
Pietrogrado è messa a ferro e a fuoco e che i bolscevichi massacrano donne e
fanciulli. Ma nessuno ci crede... Gli incrociatori Oieg, Aurora e Repubblica
hanno gettato le ancore nella Neva ed hanno puntato i cannoni sulle strade
che conducono alla città...
— Perché voi non siete al fronte con le guardie
rosse? — gridò una voce rude.
— Ci vado in questo momento, — replicò Trotsky ed
abbandonò la tribuna. Con il viso un po' più pallido del solito, costeggiò un
lato della sala, circondato da amici affaccendati e si recò rapidamente
all'automobile che lo aspettava.
Kamenev prese poi la parola per riferire sui lavori della Conferenza
di conciliazione dei partiti.
— Le condizioni proposte dai menscevichi erano state, — disse, — respinte sdegnosamente.
Anche le sezioni del sindacato dei ferrovieri avevano votato contro...
Mentre noi abbiamo
conquistato il potere e la nostra azione si estende a tutta la Russia ci
pongono tre sole piccole condizioni: 1°) restituire il potere; 2°) persuadere
i soldati a continuare la guerra; 3°) fare in modo che i contadini non parlino
più della terra...
Lenin comparve un istante per rispondere alle accuse dei S.R.
— Ci accusano di aver rubato loro il programma
agrario... Se è così, i nostri complimenti. Questo programma ci serve veramente
bene...
La seduta continuò nella stessa atmosfera. Gli uni dopo gli altri, i capi venivano a dare spiegazioni, ad esortare, a confutare. Soldati ed operai si succedevano alla tribuna e ciascuno esprimeva fino in fondo il suo pensiero e rivelava tutti i suoi sentimenti...
L'uditorio cambiava e si rinnovava continuamente. Ogni tanto si chiamavano i membri dell'uno o dell'altro distaccamento che doveva raggiungere il fronte; altri, che erano stati sostituiti, o evacuati per ferite o che erano venuti a Smolni per cercare delle armi, li sostituivano. Erano quasi le tre del mattino, quando, dopo aver abbandonato la sala, incontrammo Holtzman, del Comitato militare rivoluzionario, che arrivava correndo, col viso trasfigurato.
—- Tutto va bene, — gridò afferrandomi le mani. — Un telegramma dal fronte! Kerenski è schiacciato! Guardate!
Ci passò, un pezzo di carta, affrettatamente scarabocchiato con la matita, e, vedendo che non potevamo decifrarlo, ci lesse ad alta voce:
Pulkovo, Stato Maggiore ore 2,20 del mattino
La notte dal 30 al 31 ottobre è ormai storica. Il tentativo fatto
da Kerenski per lanciare le truppe controrivoluzionarie contro la capitale
della rivoluzione è stato definitivamente respinto. Kerenski si ritira. Noi
avanziamo. Soldati, marinai ed operai di Pietrogrado hanno provato che essi
possono e vogliono consolidare, con le armi, l'autorità della democrazia. La
borghesia ha tentato di isolare l'esercito rivoluzionario. Kerenski ha tentato
di spezzarlo servendosi dei cosacchi. Questi due piani sono lamentevolmente
falliti.
La grande idea del dominio della democrazia operaia e
contadina ha fatto serrare le file dell'esercito e ne ha rafforzato la volontà.
Ormai tutto il paese sarà convinto che il potere sovietico non è un'apparizione
effimera; il potere degli operai, dei soldati e dei contadini è un fatto
indistruttibile. La sconfitta dì Kerenski è la sconfitta dei grandi
proprietari, della borghesia e dei kornilovisti. La disfatta di Kerenski è la
conferma del diritto del popolo ad una vita di pace e di libertà, alla terra,
al pane ed al potere. Il distaccamento di Pulkovo ha, con il suo valore,
rafforzato la causa della rivoluzione operaia e contadina. Un ritorno al
passato non è più possibile. Altre lotte, altri ostacoli ed altri sacrifici ci
attendono. Ma la strada è aperta e la vittoria assicurata. La Russia
rivoluzionaria ed il potere sovietico possono essere fieri del loro
distaccamento di Pulkovo, comandato dal colonnello Walden. Gloria eterna a quelli
che sono caduti! Gloria ai combattenti della rivoluzione, ai soldati e agli
ufficiali che furono fedeli al popolo!
Viva la Russia rivoluzionaria, popolare e socialista!
A nome del Consiglio
II Commissario del popolo:
style='L. Trotsky.
Attraversando la piazza Snamenskaia, vedemmo una folla insolita davanti alla stazione Nicola. Parecchie migliaia di marinai, armati, si accalcavano davanti all'edificio.
In piedi, sui gradini, un membro del Vikiel parlamentava:
— Compagni, noi non possiamo trasportarvi a Mosca.
Noi siamo neutrali, noi non trasportiamo le truppe di nessun partito. Noi non
possiamo condurvi a Mosca dove infierisce già una terribile guerra civile...
Un ruggito immenso gli rispose; i marinai cominciarono ad
avanzare. Di colpo una porta si spalancò: due o tre frenatori, un macchinista
ed alcuni altri ferrovieri comparvero.
— Di qua, compagni! — gridò uno di essi. — Vi
condurremo noi a Mosca! A Vladivostok, se lo volete! Viva la rivoluzione!
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Ultima modifica 1.2.2004