L'economia politica nel senso più lato è la scienza delle leggi che regolano la produzione e lo scambio dei mezzi materiali di sussistenza nella società umana. Produzione e scambio sono due funzioni diverse. Può esserci la produzione senza lo scambio, non lo scambio -che proprio per sua essenza è solo scambio di prodotti- senza la produzione. Ognuna di queste due funzioni sociali sta sotto l'influenza di azioni esterne, per lo più particolari, e perciò ha, per lo più, le sue particolari leggi. Ma d'altra parte esse in ogni momento si condizionano l'un l'altra ed agiscono l'una sull'altra in tale misura da potersi caratterizzare come l'ascissa e l'ordinata della curva economica.
Le condizioni, in base alle quali gli uomini producono e scambiano, mutano di paese in paese, e in ogni paese, a loro volta, di generazione in generazione. L'economia politica non può quindi essere la stessa per tutti i paesi e per tutte le epoche storiche. Dall'arco e dalla freccia, dal coltello di pietra e dall'atto di scambio, puramente occasionale, del selvaggio, fino alla macchina a vapore dalla forza di mille cavalli, al telaio meccanico, alle strade ferrate e alla Banca d'Inghilterra, c'è una distanza enorme. Gli abitanti della Terra del Fuoco, come non sono arrivati alla produzione standardizzata e al commercio su scala mondiale, così non sono arrivati ai maneggi cambiari e ad un crac di Borsa. Chi volesse trattare l'economia della Terra del Fuoco secondo le stesse leggi vigenti nella moderna Inghilterra, evidentemente non potrebbe arrivare che al luogo comune più banale. L'economia politica è perciò essenzialmente una scienza storica. Essa si occupa di una materia che appartiene alla storia, vale a dire di una materia in continuo cambiamento; indaga anzitutto le leggi particolari di ogni singola fase di sviluppo della produzione e dello scambio; e solo alla fine di questa indagine potrà stabilire le poche leggi assolutamente generali, valide per la produzione e lo scambio in genere. Con tutto ciò è evidente per se stesso che le leggi valide per determinati modi di produzione e per determinate forme di scambio hanno validità anche per tutti i periodi storici cui sono comuni quei modi di produzione e quelle forme di scambio. Così, per es., con l'introduzione della moneta metallica, entrano in vigore una serie di leggi che continuano ad essere valide per tutti i paesi e i periodi storici nei quali la moneta metallica serve da mezzo di scambio.
Con la maniera e la specie di produzione e di scambio di una società storicamente determinata e con le condizioni storiche preliminari di questa società, sono dati contemporaneamente anche la maniera e la specie della distribuzione dei prodotti. Nella comunità tribale o di villaggio, con la proprietà comune del suolo con la quale, o con le cui sopravvivenze molto ben riconoscibili, tutti i popoli civili hanno fatto il loro ingresso nella storia, è naturale che si abbia una distribuzione dei prodotti pressoché eguale; allorché si presenta una considerevole disuguaglianza distributiva tra i membri, questa è già un sintomo dell'incipiente dissoluzione della comunità. Sia la grande che la piccola agricoltura ammettono, a seconda delle condizioni storiche preliminari da cui si sono sviluppate, forme molto diverse di distribuzione. Ma è evidente che la grande agricoltura determina una distribuzione assolutamente diversa da quella determinata dalla piccola agricoltura; che la grande agricoltura presuppone o produce un antagonismo di classe, tra padroni di schiavi e schiavi, fra signori della terra e servi della gleba, tra capitalisti e salariati, mentre la piccola agricoltura non implica affatto una differenza di classi tra gli individui impiegati nella produzione agricola, anzi, al contrario, la semplice esistenza di questa differenza di classi indica l'incipiente decadenza dell'economia parcellare. L'introduzione e la diffusione della moneta metallica in un paese dove sinora è stata in vigore esclusivamente o prevalentemente l'economia naturale, sono sempre legate ad un sovvertimento più o meno rapido della distribuzione che sino a quel momento è stata in vigore, e precisamente in guisa che la disuguaglianza distributiva tra i singoli, e quindi il contrasto tra ricchi e poveri, si viene sempre più accentuando. L'industria artigiana locale, corporativa, del medioevo, rendeva impossibile l'esistenza di grandi capitalisti e di salariati a vita, così come necessariamente li generano la grande industria moderna, l'odierno sistema creditizio, e la forma di scambio adeguata allo sviluppo che l'una o l'altro hanno raggiunto: la libera concorrenza.
Con le differenze nella distribuzione, appaiono invece le differenze di classe. La società si divide in classi privilegiate e diseredate, sfruttatrici e sfruttate, dominanti e dominate; e lo Stato, al quale raggruppamenti naturali di comunità dello stesso ceppo erano giunti nel loro progressivo sviluppo in un primo tempo solo al fine di tutelare i loro interessi comuni (in Oriente, per esempio, l'irrigazione) e per proteggersi all'esterno, da ora in poi assume, nella stessa misura, il fine di mantenere con la forza le condizioni di vita e di dominio della classe dominante contro la classe dominata.
La distribuzione, però, non è un semplice risultato passivo della produzione e dello scambio: essa reagisce nella stessa misura su entrambi. Ogni nuovo modo di produzione o ogni nuova forma di scambio, in principio vengono inceppati non solo dalle vecchie forme e dalle istituzioni politiche ad esse corrispondenti, ma anche dal vecchio modo di distribuzione. Solo con una lunga lotta essi potranno conquistarsi la forma di distribuzione loro adeguata. Ma quanto più un dato modo di produzione e di scambio è mobile, quanto più è capace di perfezionamento e di sviluppo, tanto più rapidamente anche la distribuzione raggiunge un grado in cui supera le condizioni che l'hanno generata, e in cui viene a conflitto con la forma di produzione e di scambio esistente fino allora. Le vecchie comunità naturali di cui si è già parlato, possono esistere per secoli, come oggi ancora presso gli indù e gli slavi, prima che il traffico col mondo esterno produca al loro interno quelle differenze di fortune, in conseguenza delle quali subentra la loro dissoluzione. Per contro, la moderna produzione capitalistica, che ha appena trecento anni e che solo dall'introduzione della grande industria, quindi da cento anni, è diventata dominante, in questo breve corso di tempo ha dato origine a contrasti nella distribuzione -da una parte, concentrazione dei capitali nelle mani di pochi e, dall'altra, concentrazione nelle grandi città delle masse pauperizzate- contrasti che necessariamente la conducono alla rovina.
In ogni periodo, il nesso tra la distribuzione e le condizioni materiali di esistenza di una società è così insito nella natura delle cose da rispecchiarsi regolarmente nell'istinto popolare. Sino a quando un modo di produzione si trova nella fase ascendente della parabola del suo sviluppo, è salutato con gioia perfino da coloro che nel modo di distribuzione ad esso corrispondente hanno tutto da perdere. Caso questo che si è verificato per gli operai inglesi al sorgere della grande industria. Sino a quando questo modo di produzione resta socialmente normale si è anche completamente soddisfatti della distribuzione, e se una protesta si eleva, essa parte dal seno delle stesse classi dominanti (Saint-Simon, Fourier, Owen) e da principio non trova nessun favore tra le masse sfruttate. Solo allorché il modo di produzione in oggetto ha percorso un buon tratto della sua parabola discendente, allorché esso per metà è sopravvissuto a se stesso, allorché le condizioni della sua esistenza sono in gran parte scomparse e il suo successore già batte alla porta, solo allora la distribuzione, che va diventando sempre più diseguale, appare ingiusta, solo allora le sopravvivenze si appellano alla cosiddetta giustizia eterna. Questo appello alla morale e alla giustizia non ci aiuta ad andare avanti di un passo nella scienza, la scienza economica non può vedere nell'indignazione morale, per giustificata che essa possa anche essere, un argomento, ma solo un sintomo. Il suo compito è invece quello di dimostrare che gli inconvenienti sociali di recente emersi sono conseguenze necessarie del modo di produzione vigente, ma che ad un tempo sono anche sintomi del suo imminente dissolvimento, e di scoprire nella forma del processo economico in dissolvimento gli elementi della futura nuova organizzazione della produzione e dello scambio, che eliminerà quegli inconvenienti. L'indignazione, che fa i poeti [73], è completamente al suo posto quando descrive questi inconvenienti o quando attacca gli apologeti dell'armonia che nell'interesse della classe dominante negano o velano questi inconvenienti; ma quanto poco essa provi nel caso particolare, risulta già dal fatto che in ogni epoca della storia che si è svolta sinora si trova abbastanza materia per essa.
L'economia politica, come scienza delle condizioni e delle forme nelle quali le diverse società umane hanno prodotto e scambiato e nelle quali hanno volta per volta distribuito i loro prodotti in modo conforme a questa produzione e a questo scambio, l'economia politica in questa estensione così lata, deve tuttora esser creata. La scienza economica che sinora possediamo si limita quasi esclusivamente alla genesi e allo sviluppo del modo di produzione capitalistico: comincia con la critica delle sopravvivenze delle forme feudali di produzione e di scambio, dimostra la necessità della loro sostituzione con forme capitalistiche, sviluppa quindi le leggi del modo di produzione capitalistico e delle forme di scambio ad esso corrispondenti, sotto l'aspetto positivo, cioè secondo l'aspetto per cui esse assecondano i fini generali della società, e conclude con la critica socialista del modo di produzione capitalistico, cioè con l'esposizione delle sue leggi sotto l'aspetto negativo, con la dimostrazione che, mediante il suo peculiare sviluppo, questo modo di produzione porta al punto in cui esso stesso si rende impossibile. Questa critica dimostra che le forme capitalistiche di produzione e di scambio diventano sempre più un vincolo insopportabile per la stessa produzione, che il modo di distribuzione, che quelle forme necessariamente determinano, ha prodotto una situazione delle classi che di giorno in giorno diventa più intollerabile, quell'antagonismo che diventa ogni giorno più acuto tra capitalisti, sempre in minor numero ma sempre più ricchi, e tra salariati pauperizzati sempre in maggior numero e le cui condizioni nel complesso diventano sempre peggiori; e infine che quelle abbondanti forze produttive che si sono prodotte in seno al modo di produzione capitalistico, che da questo non possono più essere dominate, aspettano solo di essere prese in possesso da una società organizzata per la cooperazione secondo un piano, al fine di assicurare a tutti i membri della società i mezzi di sussistenza e alle loro capacità il libero sviluppo: e ciò in una misura che precisamente andrà sempre crescendo.
Per effettuare compiutamente questa critica dell'economia borghese, non era sufficiente la conoscenza della forma capitalistica della produzione, dello scambio e della distribuzione. Si dovevano del pari indagare e raffrontare, almeno nelle loro grandi linee, le forme che l'hanno preceduta o che è accaduto ad essa sussistono ancora in paesi meno sviluppati. Un'indagine e un raffronto siffatti sono stati sinora compiuti nel loro complesso solo da Marx e perciò dobbiamo anche quasi esclusivamente alle sue ricerche ciò che sinora è stato stabilito sulla teoria dell'economia politica preborghese.
Malgrado sia sorta in alcune menti geniali del secolo XVII, l'economia politica in senso stretto, nella formulazione fatta dai fisiocratici e da Adam Smith, è essenzialmente figlia del secolo XVIII e si allinea alle conquiste dei grandi illuministi francesi contemporanei, con tutti i pregi e i difetti di quell'epoca. Ciò che abbiamo detto per gli illuministi vale anche per gli economisti del tempo. La nuova scienza non era per loro l'espressione dei rapporti e dei bisogni della loro epoca, ma l'espressione della ragione eterna; le leggi della produzione e dello scambio da essa scoperte non erano leggi di una forma storicamente determinata di quelle attività, ma leggi naturali eterne; esse venivano dedotte dalla natura dell'uomo. Ma quest'uomo, esaminato più da vicino, era il borghese medio del tempo, nella sua fase di transizione al borghese moderno, e la sua natura consisteva nel produrre e nel commerciare nei rapporti storicamente determinati di quel tempo.
Dopo avere sufficientemente appreso dalla Filosofia chi sia il nostro "fondatore critico", Dühring, e che cosa sia il suo metodo, potremo predire senza difficoltà anche il modo con cui costui concepirà l'economia politica. Nella Filosofia, tranne laddove vaneggiava semplicemente (come nella filosofia della natura), la sua maniera di vedere le cose era una caricatura di quella del XVIII secolo. Non si trattava di leggi dello sviluppo storico, ma di leggi di natura, di verità eterne. Relazioni sociali, quali la morale e il diritto, erano determinate non in base alle condizioni storicamente presenti in ogni periodo, ma dai due famosi uomini dei quali l'uno o sottometteva l'altro o non lo sottometteva, caso, quest'ultimo, che disgraziatamente sinora non si è mai dato. Ci inganneremo dunque solo di poco se trarremo la conclusione che Dühring ridurrà parimenti l'economia a verità definitive di ultima istanza, a leggi naturali eterne, ad assiomi tautologici di una desolante mancanza di contenuto, ma che accanto a tutto questo reintrodurrà di contrabbando, facendolo passare per la porticina di servizio, tutto il contenuto positivo dell'economia, sin dove gli è noto; e che non farà sorgere la distribuzione, come fatto sociale, dalla produzione e dallo scambio, ma la rinvierà ai suoi famosi due uomini perché la sbrighino definitivamente. E poiché tutti questi artifici sono per noi vecchie conoscenze, tanto più qui potremo essere brevi.
In effetti Dühring ci dichiara già a pagina 2 [74] che la sua Economia si riferisce a ciò "che è stato stabilito" nella sua Filosofia e che si "appoggia in certi punti essenziali a verità di ordine superiore ormai fissate in un campo più elevato di indagine". Dappertutto lo stesso importuno autoincensamento. Dappertutto il trionfo di Dühring su ciò che Dühring ha stabilito e fissato. Fissato in effetti, l'abbiamo visto in lungo e in largo... ma come si fissa il coperchio di una bara [75].
Subito dopo abbiamo "le più generali leggi di natura di tutta l'economia"... avevamo dunque proprio indovinato. Ma queste leggi di natura non permettono una giusta intelligenza della storia passata se non allorché
"le si indaghino in quella determinazione più prossima che i loro risultati hanno subito per opera delle forme politiche dell'assoggettamento e del raggruppamento. Istituzioni politiche quali la schiavitù e la servitù salariale, alla quale si associa, come loro gemella, la proprietà fondata sulla violenza, devono considerarsi come forme istituzionali economico-sociali di natura puramente politica: esse formano, nel mondo quale è sinora, la cornice entro la quale soltanto si son potuti manifestare gli effetti di leggi economiche naturali".
Questa frase è la fanfara che come un Leitmotiv [76] wagneriano ci annuncia l'avvicinarsi dei famosi due uomini. Ma è ancora di più: il tema fondamentale di tutto il libro di Dühring. Nel diritto Dühring non ci ha saputo offrire altro che una cattiva traduzione socialista della teoria egualitaria di Rousseau, tale che da anni se ne possono sentire di molto migliori in ogni ritrovo operaio parigino. Qui egli ci dà una non migliore traduzione socialista delle querimonie degli economisti sulla falsificazione delle leggi economiche naturali eterne e dei loro effetti, dovuta all'ingerenza dello Stato, della violenza. E con ciò egli sta meritatamente del tutto solo tra i socialisti. Ogni operaio socialista, senza differenza, qualunque sia la sua nazionalità, sa benissimo che la violenza non fa che proteggere lo sfruttamento ma non lo causa; che la base del suo sfruttamento è il rapporto tra capitale e lavoro salariato e che questo è sorto per via puramente economica e niente affatto per via di violenza.
Ora ci si dice in tutte lettere che in ogni questione economica "si potranno distinguere due processi, quello della produzione e quello della distribuzione"; inoltre che il noto e superficiale J. B. Say ha aggiunto ancora un terzo processo, quello dell'uso, del consumo, ma non ha saputo dire niente di sensato, come niente di sensato ne hanno saputo dire i suoi successori. Ma lo scambio, o circolazione, sarebbe solo una sottodivisione della produzione, alla quale appartiene tutto ciò che deve avere luogo perché i prodotti arrivino agli ultimi ed effettivi consumatori. Se Dühring confonde i due processi della produzione e della circolazione, essenzialmente distinti anche se interdipendenti, e afferma senza scomporsi che evitando quella confusione può solo "sorger confusione", con ciò dimostra semplicemente di non conoscere o di non intendere l'enorme sviluppo che proprio la circolazione ha percorso negli ultimi cinquanta anni, ciò che del resto è anche confermato nel seguito del suo libro. Ma non basta. Dopo aver semplicemente fuso in un tutto unico, come produzione, la produzione e lo scambio, pone accanto alla produzione la distribuzione, come un secondo processo completamente esteriore, che col primo non ha assolutamente niente a che fare. Noi abbiamo visto che la distribuzione, nelle sue linee decisive, è di volta in volta il risultato necessario dei rapporti di produzione e di scambio di una società determinata, nonché delle condizioni storiche preliminari di questa società, e precisamente abbiamo esposto il concetto che se conosciamo questi rapporti e queste condizioni, possiamo con precisione trarre le conclusioni sul modo di distribuzione vigente in questa società. Ma vediamo del pari che Dühring, se non vuole diventare infedele ai principi "stabiliti" nella sua concezione della morale, del diritto e della storia, deve negare questi fatti economici elementari, e specialmente deve negarli se gli tocca di introdurre di contrabbando nell'economia i suoi indispensabili due uomini. E una volta che la distribuzione si è felicemente sbarazzata di ogni nesso con la produzione e lo scambio, può aver luogo il grande evento.
Richiamiamoci per intanto alla memoria come la cosa si è svolta per la morale e per il diritto. Qui Dühring cominciava originariamente con un uomo solamente e diceva:
"Un uomo in quanto sia pensato come singolo o, ciò che fa lo stesso, come fuori di ogni nesso con gli altri, non può avere doveri. Per lui non c'è un dovere, ma solo un volere".
Ma che cos'altro è quest'uomo che viene pensato come privo di doveri, come singolo, se non un fastidioso "ebreo primigenio Adamo" nel paradiso terrestre, dove è senza peccati perché non può commetterne? Ma anche su questo Adamo della filosofia della realtà incombe la caduta nel peccato. Accanto a questo Adamo compare improvvisamente, non certo un'Eva dall'ondeggiante chioma ricciuta. Ma un secondo Adamo ancora. E subito Adamo ha dei doveri e... li respinge. Invece di considerare suo fratello come pari a lui nei diritti e stringerselo al seno, lo sottomette al suo dominio, lo asservisce... e delle conseguenze di questo primo peccato, del peccato originale dell'asservimento, soffre tutta la storia universale sino al giorno d'oggi, e per questo per Dühring essa non vale neanche un quattrino.
Se dunque Dühring, diciamolo incidentalmente, ha creduto di aver sufficientemente abbandonato al disprezzo la "negazione della negazione", caratterizzandola come brutta copia della vecchia storia del peccato originale e della redenzione, che cosa dobbiamo dire allora della sua recentissima edizione della stessa teoria? (Infatti col tempo "ci approssimeremo", per servirci di un'espressione da rettili [77], anche alla redenzione.) In ogni caso è pur certo che noi preferiamo la vecchia leggenda tribale semitica nella quale per il maschio e per la femmina valeva pur la pena di uscire dallo stato di innocenza, e che a Dühring resterà incontestata la gloria di aver costruito il suo peccato originale con due maschi.
Sentiamo dunque la traduzione del peccato originale in termini economici:
"All'idea della produzione può in ogni caso dare uno schema ideale appropriato il rappresentare un Robinson che con le sue forze sta di fronte alla natura, isolato e non ha niente da spartire con nessuno (...) Parimente opportuno per rendere evidente ciò che vi è di più essenziale nell'idea della distribuzione è lo schema ideale di due individui le cui forze economiche si combinano e che devono evidentemente in qualche forma intendersi l'un l'altro per quel che si riferisce alle loro quote. Non occorre in effetti più di questo semplice dualismo per rappresentare con ogni rigore alcuni dei più importanti rapporti distributivi e per studiare embrionalmente le leggi nella loro necessità logica (...) Qui si può pensare egualmente tanto alla cooperazione su un piede di eguaglianza quanto alla combinazione delle forze mediante l'oppressione completa di una delle parti, che poi viene costretta a servigi di natura economica come schiava o semplice strumento, e proprio solo come strumento viene anche mantenuta (...) Tra lo stato di eguaglianza e di nullità da una parte e quello di onnipotenza e di partecipazione unilaterale attiva dall'altra, si trova una serie di casi ad occupare le quali hanno provveduto con ricca varietà gli eventi della storia universale. Una visione universale delle diverse istituzioni storiche della giustizia e dell'ingiustizia è qui il presupposto essenziale (...)"
e, per concludere, tutta la distribuzione si trasforma in una "sistemazione giuridica dei rapporti economici della distribuzione".
Ora finalmente Dühring poggia di nuovo i piedi sulla terra ferma. A braccetto coi suoi due uomini può sfidare il suo secolo. Ma dietro a questa trinità c'è ancora un Innamorato.
"Il capitale non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento tempo di lavoro eccedente per produrre il sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione, sia questo proprietario caloVcagaouV [bello e buono, cioè nobile] ateniese, teocrate etrusco, civis romanus" (cittadino romano), "barone normanno, negriero americano, boiardo valacco, proprietario agrario moderno o capitalista" (Marx, "Capitale", I, seconda edizione, pag. 227.) [78].
Dopo avere appreso in questo modo che cosa sia la forma fondamentale dello sfruttamento comune a tutte le forme di produzione esistite fino ad oggi, nella misura in cui si muovono sul piano degli antagonismi di classe, a Dühring restava solo da applicarvi i suoi due uomini e la base dell'economia della realtà, che si profonda sino alle radici, sarebbe stata pronta. Ed egli non ha esitato neppure un momento a dare esecuzione a questa "idea che crea un sistema". Lavoro senza contropartita, oltre il tempo di lavoro necessario al mantenimento dell'operaio: è questo il punto. L'Adamo che qui si chiama Robinson fa sgobbare senza tregua il suo secondo Adamo, Venerdì. Ma perché dunque Venerdì sgobba più di quanto è necessario per il suo mantenimento? Anche questa questione trova parzialmente la sua risposta in Marx. Ma questa risposta è troppo lunga per i due uomini. La cosa viene liquidata in breve: Robinson "opprime" Venerdì, lo costringe "come schiavo o strumento a servigi economici" e lo mantiene "anche, solo come strumento". Con questa novissima "svolta creatrice", Dühring, per così dire, prende due piccioni con una fava. Anzitutto si risparmia la fatica di spiegare le diverse forme sinora assunte dalla distribuzione, le loro differenze e le loro cause: tutte queste insieme non valgono assolutamente niente, poggiano tutte sull'oppressione, sulla violenza. Avremo da parlarne tra breve. E in secondo luogo trasferisce così tutta la teoria della distribuzione dal campo economico a quello della morale e del diritto, cioè dal campo dei fatti materiali che sono ben saldi, a quello delle opinioni e dei sentimenti che più o meno oscillano. Quindi non ha più bisogno di indagare o di dimostrare, ma solo di continuare allegramente a declamare senza tregua e può esigere che la distribuzione dei prodotti del lavoro non si regoli secondo le sue cause reali, ma secondo ciò che a lui, Dühring, appare morale e giusto. Ma ciò che a Dühring appare giusto non è affatto immutabile e quindi è molto lontano dall'essere una verità autentica. Infatti queste verità sono proprio, secondo lo stesso Dühring, "in generale immutabili". Nell'anno 1868 Dühring affermava ("I destini del mio memoriale sociale ecc.") che è
"nella tendenza di ogni civiltà superiore il dare un carattere sempre più netto alla proprietà e che qui e non in una confusione dei diritti e delle sfere della sovranità risiedono l'essenza e l'avvenire dello sviluppo moderno". E affermava inoltre che non poteva assolutamente concepire "come una trasformazione del lavoro salariato in un'altra forma di guadagno avesse mai a conciliarsi con le leggi della natura umana e dell'organizzazione per sua natura necessaria del corpo sociale".
Quindi nel 1868 proprietà privata e lavoro salariato sono necessari per natura e perciò giusti; nel 1876 [79] sono entrambi conseguenza della violenza e della "rapina" e quindi ingiusti. E non possiamo assolutamente sapere che cosa, a distanza di qualche anno, potrà sembrare morale e giusto ad un genio così possentemente impetuoso nel suo dire e perciò, in ogni caso, faremo meglio, nella nostra trattazione della distribuzione delle ricchezze, ad attenerci alle leggi economiche reali ed obiettive e non all'idea, momentanea, mutevole, soggettiva di Dühring, di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto.
Se dell'imminente rovesciamento dell'odierna distribuzione dei prodotti del lavoro con i suoi stridenti contrasti di miseria e di fasto, di fame e di gozzoviglia, non avessimo certezza migliore della coscienza che questo modo di produzione è ingiusto e che finalmente il diritto deve pur trionfare un giorno, le nostre cose andrebbero male e noi potremmo aspettare un pezzo. I mistici medievali che sognavano del regno millenario che si avvicinava, avevano già la coscienza dell'ingiustizia degli antagonismi delle classi. Alle soglie della storia moderna, trecentocinquanta anni fa, Thomas Münzer lo proclamò alto nel mondo. Nella rivoluzione borghese inglese come in quella francese risuona lo stesso grido e... si spegne. E se oggi lo stesso grido che invoca l'abolizione degli antagonismi e delle differenze delle classi e che fino al 1830 lasciava fredde le classi lavoratrici e sofferenti, se oggi questo grido trova un'eco in milioni di voci, se conquista un paese dopo l'altro e precisamente nello stesso ordine e con la stessa intensità con cui nei singoli paesi si sviluppa la grande industria, se nel tempo di una generazione umana ha conquistato una potenza tale da potere affrontare tutte le potenze riunite contro di esso ed essere certo della vittoria in un prossimo futuro: da dove proviene tutto ciò? Dal fatto che la grande industria moderna ha creato da una parte un proletariato, una classe che per la prima volta nella storia può porre l'esigenza dell'abolizione non di questa o di quella particolare organizzazione di classe, o di questo o di quel privilegio particolare di classe, ma delle classi in generale, e che è messa nella condizione di dovere fare trionfare tale esigenza sotto pena di sprofondare nella condizione del coolie [facchino] cinese. E dal fatto che la stessa grande industria, dall'altra parte, ha creato nella borghesia una classe che possiede il monopolio di tutti i mezzi di produzione e i mezzi di sussistenza, ma che, in ogni periodo di ascesa vertiginosa e in ogni crisi che lo segue, dimostra di essere incapace di dominare ancora in avvenire le forze produttive che, crescendo, sono sfuggite al suo potere; una classe sotto la cui guida la società corre verso la rovina, come una locomotiva il cui macchinista è troppo debole per aprire le valvole di sicurezza che si sono bloccate. In altri termini proviene dal fatto che sia le forze produttive create dal moderno modo di produzione capitalistico, sia anche il sistema di distribuzione dei beni da esso creato, sono caduti in flagrante contraddizione con quello stesso modo di produzione e precisamente in tal modo che, a meno che tutta la società moderna debba andare in rovina, deve aver luogo un rivoluzionamento del modo di produzione e di distribuzione che elimini tutte le differenze di classe. Su questo fatto materiale, tangibile, che, in una forma più o meno chiara, ma con necessità irresistibile, si oppone alla mente dei proletari sfruttati, su questo fatto e non sulle idee che questo o quel filosofo in pantofole hanno del giusto e dell'ingiusto, si fonda la certezza di vittoria del socialismo moderno.
"Il rapporto tra la politica generale e le formazioni giuridiche dell'economia è determinato nel mio sistema in una maniera così precisa e ad un tempo così originale, che non sarebbe superfluo, per facilitarne lo studio, un richiamo particolare a questo punto. La formazione delle relazioni politiche è il fatto storico fondamentale ed i fatti economici che ne dipendono sono soltanto un effetto o un caso speciale e perciò sono sempre fatti di second'ordine. Alcuni moderni sistemi socialisti prendono come loro principio direttivo l'idea, in apparenza evidentissima, di un rapporto assolutamente inverso, facendo nascere e svilupparsi dalle condizioni economiche le derivazioni politiche. Ora, questi effetti di second'ordine sono, certo, esistenti in quanto tali e al presente sono massimamente sensibili; ma il fatto primitivo è da ricercarsi nella violenza politica immediata e non solamente in un'indiretta potenza economica."
Parimente in un altro passo in cui Dühring
"parte dal principio che le condizioni politiche siano la causa decisiva dell'ordine economico e che il rapporto inverso rappresenti solo una reazione di second'ordine (...) sino a quando il raggruppamento politico non sia preso per se stesso come punto di partenza, ma lo si consideri esclusivamente come un mezzo che ha per fine il procacciarsi da mangiare, per socialisti radicali e rivoluzionari che si appaia, si sarà sempre in larga misura dei reazionari travestiti".
Questa è la teoria di Dühring. Essa viene qui e in molti altri paesi semplicemente enunciata e, per così dire, decretata. Di un benché minimo tentativo di dimostrazione o di confutazione del punto di vista opposto, non si fa parola in nessun luogo di questi tre grossi volumi. Dühring non ci darebbe un argomento neanche se gli argomenti fossero a buon mercato come le more [80]. La cosa è già stata ormai dimostrata dal famoso peccato originale, allorché Robinson asservì Venerdì. Fu quello un atto di violenza, quindi un atto politico. E poiché questo asservimento costituisce il punto di partenza e il fatto fondamentale di tutta la storia svoltasi sinora e le inocula la colpa ereditaria dell'ingiustizia, di guisa che questo asservimento nei periodi seguenti è stato solo attenuato e "trasformato in forme più indirette di dipendenza economica"; e poiché su questo asservimento primitivo poggia del pari tutta la "proprietà privata sulla violenza" rimasta vigente sinora, è chiaro che tutti i fenomeni economici si devono spiegare partendo da cause politiche, cioè dalla violenza. E colui al quale ciò non basta è un reazionario travestito.
Notiamo anzitutto che bisogna essere innamorati di se stessi non meno di quanto lo sia Dühring, per ritenere "originale" questa opinione che originale non è affatto. L'idea che i drammoni politici siano l'elemento decisivo della storia è antica quanto la stessa storiografia ed è la causa principale del fatto che tanto poco ci sia stato conservato di ciò che riguarda lo sviluppo realmente progressivo dei popoli, che si compie silenziosamente nello sfondo di questa scena rumorosa. Questa idea ha dominato tutta la passata concezione della storia e ha ricevuto un primo colpo dagli storici borghesi della Francia del tempo della Restaurazione [81]; "originale" qui è soltanto il fatto che, di tutto questo, Dühring ancora una volta non sappia niente.
Inoltre, se per un istante ammettiamo che Dühring abbia ragione nel dire che tutta la storia che sinora si è svolta si possa ridurre all'asservimento dell'uomo da parte dell'uomo, con ciò siamo ancora molto lontani dall'aver toccato il fondo della cosa. Ciò che anzitutto ci si chiede è invece come Robinson sia arrivato ad asservire Venerdì. Per il semplice piacere di asservirlo? Assolutamente no! Vediamo invece che Venerdì "come schiavo o semplice strumento viene costretto a servigi economici e precisamente come strumento viene anche mantenuto". Robinson ha asservito Venerdì solo perché Venerdì lavori a profitto di Robinson. E come può Robinson trarre un profitto per sé dal lavoro di Venerdì? Solo per il fatto che Venerdì produce col suo lavoro più mezzi di sussistenza di quanto gliene debba dare Robinson perché resti atto al lavoro. Robinson quindi, contrariamente all'esplicita prescrizione di Dühring, "non ha preso per se stesso come punto di partenza" il "raggruppamento politico" sorto con l'asservimento di Venerdì, "ma lo ha considerato esclusivamente come un mezzo che ha per fine il procacciarsi da mangiare", ed ora veda egli stesso il modo di sbrigarsela col suo signore e padrone Dühring.
L'esempio puerile che Dühring ha inventato espressamente per dimostrare che la violenza è il "fatto fondamentale della storia", dimostra solo che la violenza è solo il mezzo e che il fine invece è il vantaggio economico. Quanto il fine è "più fondamentale" del mezzo che si impiega per raggiungerlo, tanto più fondamentale è nella storia il fatto economico del rapporto, di fronte al lato politico. L'esempio prova dunque precisamente il contrario di ciò che doveva provare. E come per Robinson e Venerdì, così è per tutti i casi di dominio e servitù che si sono avuti sinora. Il soggiogamento è stato sempre, per usare l'elegante modo di esprimersi di Dühring, un "mezzo che ha per fine il procacciarsi da mangiare" (preso questo procacciarsi da mangiare nel senso più lato), ma mai e in nessun luogo un raggruppamento politico instaurato "per amore del raggruppamento politico stesso". Bisogna essere Dühring per poter pensare che nello stato le imposte siano solo "effetti di second'ordine" o che il raggruppamento politico odierno di borghesia dominante e proletariato dominato esiste "per amore del raggruppamento politico stesso" e non in vista del "fine di procurarsi da mangiare" della borghesia dominante, cioè in vista del profitto e dell'accumulazione del capitale.
Ritorniamo pertanto ancora una volta ai nostri due uomini. Robinson, "la spada in pugno", ha fatto di Venerdì il suo schiavo. Ma per riuscire a questo, Robinson ha bisogno di qualche altra cosa oltre una spada. Non è da tutti possedere uno schiavo. Per potersene servire bisogna avere a disposizione due cose: in primo luogo gli strumenti e gli oggetti per il lavoro dello schiavo ed in secondo luogo i mezzi necessari per il suo mantenimento. Quindi, prima che la schiavitù diventi possibile bisogna che sia raggiunto un certo livello nella produzione e che sia comparso un certo grado di disuguaglianza nella distribuzione. E perché il lavoro degli schiavi diventi il modo di produzione dominante di tutta la società, occorre un incremento ancora maggiore della produzione, del commercio e dell'accumulazione della ricchezza. Nelle antiche comunità naturali con proprietà comune del suolo, la schiavitù o non compare affatto o ha solo una parte di second'ordine. Così era nella Roma primitiva, città contadina; quando invece Roma divenne "città universale", e la proprietà fondiaria degli italici cadde sempre maggiormente nelle mani di una classe poco numerosa di proprietari enormemente ricchi, allora la popolazione contadina fu soppiantata da una popolazione di schiavi. Se al tempo delle guerre persiane il numero degli schiavi salì a Corinto a 460.000, a Egina a 470.000 e su ogni membro della popolazione libera c'erano dieci schiavi [82], ciò implicava qualche cosa di più ancora della "violenza"; implicava un'industria artistica e artigiana altamente sviluppata e un commercio estero. La schiavitù negli Stati Uniti d'America era fondata molto meno sulla violenza che sull'industria cotoniera inglese; in quei distretti in cui non cresceva il cotone o che non esercitavano, come gli Stati confinanti, l'allevamento di schiavi per gli Stati cotonieri, la schiavitù si estinse da se stessa senza uso di violenza, semplicemente perché non era remunerativa.
Se dunque Dühring chiama la proprietà moderna proprietà fondata sulla violenza e la caratterizza come
"quella forma di dominio che ha a suo fondamento non già semplicemente un'esclusione del prossimo dall'uso dei mezzi naturali di sussistenza, ma anche, ciò che è molto più significativo, il soggiogamento dell'uomo in servitù",
così facendo rovescia tutto quanto il rapporto. Il soggiogamento dell'uomo in servitù in tutte le sue forme presuppone che colui che soggioga disponga dei mezzi di lavoro mediante i quali soltanto egli può impiegare l'asservito e, nel caso della schiavitù, che disponga inoltre anche dei mezzi di sussistenza con i quali solamente può mantenere in vita lo schiavo. In ogni caso, quindi, presuppone già il possesso di un certo patrimonio superiore alla media. Come è sorto questo patrimonio? È certo chiaro in ogni caso che è possibile che esso sia frutto di rapina e che quindi poggi sulla violenza, ma ciò non è affatto necessario. Può essere stato ottenuto col lavoro, col furto, col commercio, con la frode. Anzi, prima che possa essere rubato, in generale è necessario che esso sia stato ottenuto col lavoro.
In generale la proprietà privata non appare affatto nella storia come risultato della rapina e della violenza. Al contrario. Essa sussiste già, anche se limitatamente a certi soggetti, nella comunità primitiva naturale di tutti i popoli civili. Già entro questa comunità essa si sviluppa, dapprima nello scambio con stranieri, assumendo la forma di merce. Quanto più i prodotti della comunità assumono forma di merci, cioè quanto meno vengono prodotti da essa per l'uso personale del produttore e quanto più vengono prodotti per il fine dello scambio, quanto più lo scambio soppianta, anche all'interno della comunità, la primitiva divisione naturale del lavoro, tanto più diseguali divengono le fortune dei singoli membri della comunità, tanto più profondamente viene minato l'antico possesso comune del suolo, tanto più rapidamente la comunità si spinge verso la sua dissoluzione e la sua trasformazione in un villaggio di contadini parcellari. Per secoli il dispotismo orientale e il domino mutevole di popoli nomadi conquistatori non poterono intaccare queste antiche comunità; le porta sempre più a dissoluzione la distruzione graduale della loro industria domestica naturale operata dalla concorrenza dei prodotti della grande industria. Così poco si può parlare qui di violenza, come se ne può parlare per la sparizione che avviene anche oggi dei campi posseduti in comune dalle "Gehöferschaften" [comunità di villaggio] sulla Mosella o nello Hochwald; i contadini trovano che è precisamente nel loro interesse che la proprietà privata del campo subentri alla proprietà comune. Anche la formazione di un'aristocrazia naturale, quale si ha nei celti, nei germani e nel Punjab basata sulla proprietà comune del suolo, in un primo tempo non poggiò affatto sulla violenza, ma sul consenso e sulla consuetudine. Dovunque si costituisce la proprietà privata, questo accade in conseguenza di mutati rapporti di produzione e di scambio, nell'interesse dell'aumento della produzione e dell'incremento del traffico: quindi per cause economiche. La violenza qui non ha assolutamente nessuna parte. È pur chiaro che l'istituto della proprietà privata deve già sussistere prima che il predone possa appropriarsi l'altrui bene; che quindi la violenza può certo modificare lo stato di possesso, ma non produrre la proprietà privata come tale.
Ma anche per spiegare "il soggiogamento dell'uomo allo stato servile" nella sua forma più moderna, cioè nel lavoro salariato, non possiamo servirci né della violenza, né della proprietà fondata sulla violenza. Abbiamo già fatto menzione della parte che, nella dissoluzione delle antiche comunità, e quindi nella generalizzazione diretta o indiretta della proprietà privata, rappresenta la trasformazione dei prodotti del lavoro in merci, la loro produzione non per il consumo proprio, ma per lo scambio. Ma ora Marx ha provato con evidenza solare nel "Capitale", e Dühring si guarda bene dal riferirvisi sia pure con una sola sillaba, che ad un certo grado di sviluppo la produzione di merci si trasforma in produzione capitalistica, e che in questa fase
"la legge dell'appropriazione poggiante sulla produzione e sulla circolazione delle merci ossia legge della proprietà privata si converte direttamente nel proprio diretto opposto, per la sua propria, intima, inevitabile dialettica. Lo scambio di equivalenti che pareva essere l'operazione originaria si è rigirato in modo che ora si fanno scambi solo per l'apparenza in quanto, in primo luogo, la quota di capitale scambiata con forza-lavoro è essa stessa solo una parte del prodotto lavorativo altrui appropriato senza equivalente, e, in secondo luogo, essa non solo deve essere reintegrata dal suo produttore, l'operaio, ma deve essere reintegrata come un nuovo sovrappiù (...) Originariamente il diritto di proprietà ci si è presentato come fondato sul rapporto di lavoro (...) Adesso" (alla fine del suo sviluppo dato da Marx) "la proprietà si presenta, dalla parte del capitalista come diritto di appropriarsi lavoro altrui non retribuito ossia il prodotto di esso, e dalla parte dell'operaio come impossibilità di appropriarsi il proprio prodotto. La separazione tra proprietà e lavoro diventa conseguenza necessaria di una legge che in apparenza partiva dalla loro identità" [83].
In altri termini: anche se escludiamo la possibilità di ogni rapina, di ogni atto di violenza, di ogni imbroglio, se ammettiamo che tutta la proprietà privata originariamente poggia sul lavoro proprio del possessore, e che in tutto il processo ulteriore vengano scambiati solo valori eguali con valori eguali, tuttavia, con lo sviluppo progressivo della produzione e dello scambio, arriviamo necessariamente all'attuale modo di produzione capitalistico, alla monopolizzazione dei mezzi di produzione e di sussistenza nelle mani di una sola classe poco numerosa, alla degradazione dell'altra classe, che costituisce l'enorme maggioranza, a classe di proletari pauperizzati, arriviamo al periodico affermarsi di produzione vertiginosa e di crisi commerciale e a tutta l'odierna anarchia della produzione. Tutto il processo viene spiegato da cause puramente economiche senza che neppure una sola volta ci sia stato bisogno della rapina, della violenza, dello Stato, o di qualsiasi interferenza politica. La "proprietà fondata sulla violenza" si dimostra qui semplicemente come una frase da spaccone destinata a coprire la mancanza di intelligenza dello svolgimento reale delle cose.
Questo svolgimento, espresso storicamente, è la storia dello sviluppo della borghesia. Se le "condizioni politiche sono la causa decisiva dell'ordine economico", è d'uopo che la borghesia moderna non si sia sviluppata in lotta col feudalesimo, ma sia la sua diletta creatura, da esso volontariamente generata. Ognuno sa che è accaduto il contrario. Originariamente ceto oppresso, tributario della nobiltà feudale, reclutato tra i villani e i servi della gleba di ogni genere, la borghesia, con una lotta incessante contro la nobiltà, le ha strappato un posto di comando dopo l'altro, e finalmente, nei paesi più sviluppati, ha preso possesso del potere soppiantandola; in Francia rovesciandola direttamente, in Inghilterra imborghesendola sempre più e incorporandosela come suo proprio fastigio ornamentale. E come è riuscita a far questo? Unicamente attraverso un cambiamento dell'"ordine economico", cui seguì, presto o tardi, spontaneamente o mediante la lotta, un cambiamento delle condizioni politiche. La lotta della borghesia contro la nobiltà feudale è la lotta della città contro la campagna, dell'industria contro la proprietà terriera, dell'economia monetaria contro l'economia naturale, e in questa lotta l'arma decisiva dei borghesi fu la loro potenza economica costantemente crescente mediante lo sviluppo dell'industria, prima artigiana, poi, progressivamente, manifatturiera, e mediante l'estensione del commercio. Durante tutta questa lotta la violenza politica stette dalla parte della nobiltà, ad eccezione di un periodo in cui il potere regio si servì della borghesia contro la nobiltà per tenere in scacco un ceto mediante l'altro; ma dal momento in cui la borghesia, politicamente ancora sempre impotente, grazie alla sua crescente potenza economica, cominciò a diventare pericolosa, la monarchia si legò di nuovo con la nobiltà e così, prima in Inghilterra e poi in Francia, provocò la rivoluzione della borghesia. Le "condizioni politiche" in Francia erano rimaste immutate, mentre l'"ordine economico" nel suo sviluppo le aveva sorpassate. Quanto alla condizione politica il nobile era tutto e il borghese nulla; quanto alla condizione sociale, il borghese rappresentava ora la classe più importante dello Stato, mentre il nobile aveva perduto tutte le sue funzioni sociali, e solo nelle sue rendite continuava ad incassare la retribuzione di queste funzioni scomparse. Ma questo non basta: la borghesia, in tutta la sua produzione, era rimasta stretta nella morsa delle forme politiche feudali del medioevo superate da lungo tempo dallo sviluppo di questa produzione, non solo dalla manifattura, ma anche dall'artigianato: tutti i mille privilegi corporativi e le barriere doganali locali e provinciali, diventati, gli uni e le altre, semplici angherie e ceppi per la produzione. La rivoluzione della borghesia mise fine a tutto questo. Ma solo perché essa, secondo il principio di Dühring, adattasse la situazione dell'economia alle condizioni politiche, cosa che, invero, nobiltà e monarchia avevano invano tentato per anni, ma invece perché gettò da una parte il vecchio e ammuffito ciarpame politico e creò condizioni politiche nelle quali il nuovo "ordine economico" poteva esistere e svilupparsi. Ed in questa atmosfera politica e giuridica ad essa confacente, la borghesia si è sviluppata splendidamente, tanto splendidamente che ormai non è molto lontana da quella posizione che la nobiltà occupava nel 1789: essa diventa sempre più non solo socialmente superflua, ma un ostacolo sociale; si allontana sempre più dall'attività produttiva e diventa sempre più, come ai suoi tempi la nobiltà, una classe che semplicemente intasca rendite; e questo rovesciamento della sua propria posizione e la reazione di una nuova classe, il proletariato, essa lo ha compiuto per via puramente economica, senza nessun intervento cabalistico della violenza. E c'è di più. Essa non ha affatto voluto questo risultato del suo operare che, al contrario, si è affermato con forza irresistibile contro la volontà e contro l'intenzione della borghesia, le cui forze produttive si sono sottratte al suo controllo, e spingono, come se fossero mosse da necessità naturale, tutta la società borghese alla rovina o al rovesciamento. E se la borghesia fa ora appello alla violenza per preservare dal crollo l'"ordine economico" che va in rovina, con ciò prova solo che essa è schiava della stessa illusione di Dühring, di potere, con l'"elemento primitivo", con la "violenza politica immediata", trasformare quelle "cose di second'ordine", quali l'ordine economico e il suo sviluppo ineluttabile, e quindi a sua volta cacciar via dal mondo, con i cannoni di Krupp ed i fucili di Maser, le conseguenze economiche della macchina a vapore e del meccanismo che essa mette in moto, del commercio mondiale e dell'odierno sviluppo bancario e creditizio.
Consideriamo però un po' più da vicino questa onnipotente "violenza" di Dühring. "La spada in pugno", Robinson asservisce Venerdì. Dove ha preso la spada? Neanche nelle isole fantastiche delle imprese robinsoniane le spade sinora crescono sugli alberi, e Dühring resta debitore di una risposta qualsiasi a questa domanda. A Robinson era tanto possibile procurarsi una spada quanto è possibile a noi il supporre che un bel giorno Venerdì gli possa apparire con un revolver carico in mano, nel qual caso tutto il rapporto di "violenza" si rovescia: Venerdì comanda e Robinson deve sgobbare. Chiediamo scusa al lettore se ritorniamo con tutta questa insistenza alla storia di Robinson e Venerdì, che propriamente è più al suo posto in un giardino di infanzia anziché nella scienza, ma che possiamo farci? Siamo costretti ad applicare coscienziosamente il metodo assiomatico di Dühring e non è colpa nostra se così ci muoviamo nell'ambito della puerilità pura e semplice. Dunque il revolver ha la meglio sulla spada e questo fatto farà comprendere, malgrado tutto, anche al più puerile assertore di assiomi che la violenza non è un semplice atto di volontà, ma che esige per manifestarsi condizioni preliminari molto reali, soprattutto strumenti, di cui il più perfetto ha la meglio sul meno perfetto; che questi strumenti devono inoltre essere prodotti, il che dice ad un tempo che il produttore di più perfetti strumenti di violenza, vulgo armi, vince il produttore di strumenti meno perfetti e che, in una parola, la vittoria della violenza poggia sulla produzione di armi, e questa poggia a sua volta sulla produzione in generale, quindi sulla "potenza economica", sull'"ordine economico", sui mezzi materiali che stanno a disposizione della violenza.
La violenza, al giorno d'oggi, è rappresentata dall'esercito e dalla marina da guerra, e l'uno e l'altra costano, come tutti sappiamo a nostre spese, "una tremenda quantità di denaro". Ma la violenza non può far denaro, può, tutt'al più, portar via quello che è già stato fatto, e anche questo non giova gran che, come abbiamo sperimentato, anche questa volta a nostre spese, con i miliardi francesi [84]. In ultima analisi, quindi, il denaro deve pur essere fornito dalla produzione economica; la violenza dunque è a sua volta una condizione dell'ordine economico che le procura i mezzi per allestire e mantenere i suoi strumenti. Ma non basta ancora. Nulla dipende dalle condizioni economiche preesistenti quanto precisamente l'esercito e la marina. Armamento, composizione, organizzazione, tattica, e strategia dipendono innanzi tutto in ogni epoca dal livello raggiunto dalla produzione e dalle comunicazioni. Qui hanno agito rivoluzionarmente non le "libere creazioni dell'intelletto" di comandanti geniali, ma le invenzioni di armi migliori e la modificazione del materiale umano; nel migliore dei casi l'azione esercitata dai comandanti geniali si limita ad adeguare la maniera di combattere alle nuove armi e ai nuovi combattimenti [85].
All'inizio del secolo XIV venne dagli arabi agli europei dell'occidente la polvere da sparo e, come ogni scolaretto sa, rivoluzionò tutta l'arte della guerra. L'introduzione della polvere da sparo e delle armi da fuoco non fu però in nessun modo un atto di violenza, ma un progresso industriale e quindi economico. L'industria rimane sempre industria, o che si indirizzi alla produzione o che si indirizzi alla distribuzione di oggetti. E l'introduzione delle armi da fuoco agì rivoluzionariamente non solo sulla stessa arte della guerra, ma anche sui rapporti politici di dominio e di servitù. Per ottenere polvere e armi da fuoco occorrevano industria e denaro e l'una e l'altro erano in possesso dei borghesi della città. Da principio le armi da fuoco furono perciò armi delle città e della monarchia che appoggiandosi alla città si levava contro la nobiltà feudale. Le mura di pietra dei castelli nobiliari, sino allora inespugnabili, soggiacquero ai cannoni dei borghesi, le palle degli archibugi dei borghesi attraversarono le corazze dei cavalieri. Assieme alle corazze dei cavalieri della nobiltà cadde anche il dominio della nobiltà; con lo sviluppo della borghesia, fanteria e cannone divennero sempre più le armi decisive; costretta dal cannone, l'arte militare dovette arricchirsi di una nuova specialità completamente industriale: il genio.
Il perfezionamento delle armi da fuoco avvenne molto lentamente. Il pezzo d'artiglieria rimase pesante e il moschetto, malgrado molte invenzioni particolari, rimase rozzo. Passarono più di trecento anni prima che si creasse un'arma adatta all'equipaggiamento di tutta la fanteria. Solo sul principio del XVIII secolo il fucile a pietra con baionetta eliminò definitivamente la picca dall'equipaggiamento della fanteria. La fanteria di allora era composta dai mercenari del principe, marzialmente istruiti, ma assolutamente malfidi e tenuti insieme dalla disciplina del bastone. Essi venivano reclutati tra gli elementi più corrotti della società, e spesso tra i prigionieri di guerra nemici arruolati a forza. La sola forma di combattimento in cui questi soldati potevano utilizzare la nuova arma era la tattica di linea che raggiunse il suo più alto grado di perfezione sotto Federico II. Tutta la fanteria di un esercito veniva disposta in modo da formare tre lati di un lungo quadrilatero vuoto al centro e che si muoveva come formazione di combattimento solo come un tutto: tutt'al più era concesso ad una delle due ali di portarsi un po' più avanti o un po' più indietro. Questa massa impacciata poteva muoversi in formazione solo su un terreno assolutamente piano ed anche qui solo con un andatura lenta (settantacinque passi al minuto); una modificazione della formazione di combattimento, mentre l'azione era in corso, era impossibile e la vittoria o la sconfitta veniva decisa in breve tempo, in una sola battaglia, non appena la fanteria veniva impegnata sulla linea del fuoco.
A queste linee impacciate si opposero, nella guerra di indipendenza americana, le schiere di ribelli che, pur non sapendo fare gli eserciti, sapevano però tirare meglio con le loro carabine a canna rigida, che combattevano per i loro più personali interessi, che quindi non disertavano come le truppe mercenarie e che non facevano agli inglesi la gentilezza di muover contro di loro alla stessa maniera, in linea e su un piano aperto, ma procedevano in gruppi sciolti e rapidamente mobili di franchi tiratori e al riparo dei boschi. La formazione in linea era qui inefficiente e soggiaceva agli avversari, invisibili e inafferrabili. Fu riscoperta la guerriglia, nuovo modo di combattere dovuto ad un mutamento nel materiale umano.
Ciò che la rivoluzione americana aveva cominciato, fu completato dalla Rivoluzione francese, anche nel campo militare. La Rivoluzione francese, al pari dell'americana, non poteva opporre agli sperimentati eserciti mercenari della coalizione che masse poco sperimentate ma numerose, la leva di tutta la nazione. Ma con queste masse si trattava di proteggere Parigi, quindi di coprire un territorio determinato, e questo non poteva farsi senza una vittoria in una battaglia campale delle masse. La semplice guerriglia non era sufficiente, doveva essere trovata un'altra forma che permettesse l'impiego di masse e questa forma fu trovata con la colonna. La formazione in colonna permetteva, anche a truppe poco sperimentate, di muoversi con discreto ordine ed anche con una maggiore celerità di marcia (cento passi e più al minuto), permetteva di infrangere le rigide forme della vecchia formazione in linea, di combattere su ogni terreno e quindi anche su quello più sfavorevole alla linea, di raggruppare le truppe in qualsiasi modo fosse opportuno e, in collegamento col combattimento di tiratori sparpagliati, arrestare, impegnare, indebolire le linee nemiche sino a quando sopraggiungeva il momento di sbaragliarle nel punto decisivo dello schieramento, con le masse tenute in riserva. Questo modo nuovo di combattere, poggiante sul collegamento di tiratori e di colonne e sull'inquadramento dell'esercito in divisioni o corpi d'armata indipendenti, composti di tutte le armi, portati da Napoleone alla loro più compiuta perfezione sia dal punto di vista tattico che da quello strategico, era dunque diventato necessario grazie anzitutto al mutato materiale umano fornito dalla Rivoluzione francese. Ma esso aveva anche altre due condizioni tecniche preliminari molto importanti: in primo luogo gli affusti più leggeri costruiti da Gribeauval per i cannoni da campagna, che così poterono avere quella maggiore capacità di movimento che ad essi oggi si richiede, e, in secondo luogo, l'innovazione del fucile mediante la curvatura del calcio, il quale sino allora era stato una continuazione della canna, che così veniva prolungata in linea perfettamente retta; innovazione che fu introdotta in Francia nel 1777, sul modello del fucile da caccia, e rese possibile prender di mira un uomo singolo, senza mandar necessariamente il colpo a vuoto. Ma senza questo progresso, con la vecchia arma non si sarebbe potuto condurre la guerriglia.
Il sistema rivoluzionario di armare tutto il popolo fu ridotto ben presto ad una coscrizione obbligatoria (con la sostituzione, per gli abbienti, del pagamento in denaro), e adottato in questa forma dalla maggior parte degli Stati del continente. Solo la Prussia tentò col suo sistema della Landwehr [86] di sfruttare in maggior misura l'efficienza bellica del popolo. La Prussia fu inoltre il primo Stato che, dopo la funzione di breve durata del fucile militare a bocchetta e a canna rigida perfezionato tra il 1830 e il 1860, dotò tutta la sua fanteria dell'arma più moderna: il fucile a retrocarica a canna rigata. A queste due innovazioni essa dovette i suoi successi del 1866 [87].
Nella guerra franco-prussiana si affrontarono per la prima volta due eserciti che portavano, entrambi, fucili a retrocarica a canna rigata ed entrambi con formazioni tattiche in sostanza eguali a quelle del tempo del vecchio fucile a pietra a canna liscia. La sola differenza era che la Prussia, con l'introduzione della compagnia incolonnata, aveva fatto il tentativo di trovare una formazione di combattimento più adeguata al nuovo armamento. Ma quando, il 18 agosto a Saint-Privat [88], la guardia prussiana tentò di impiegare seriamente la compagnia incolonnata, i cinque reggimenti più impegnati perdettero, in due ore al massimo, i due terzi dei loro effettivi (176 ufficiali e 5.114 uomini di truppa), e da allora la compagnia incolonnata fu condannata come formazione di combattimento, non meno che il battaglione incolonnato e la linea; fu abbandonato il tentativo di esporre ulteriormente una qualsiasi formazione chiusa di truppe al fuoco dei fucili nemici e, da parte tedesca, il combattimento fu condotto solo con quei grossi pattuglioni di tiratori nei quali solo allora si era di regola scomposta spontaneamente la colonna sotto il grandinare incalzante delle palle, cosa che però dall'alto era stata condannata come antiregolamentare; e parimenti il passo di corsa divenne l'unica forma di movimento sul terreno battuto dal fuoco dei fucili nemici. Il soldato ancora una volta era stato più intelligente dell'ufficiale; egli aveva trovato istintivamente l'unica formazione di combattimento che sinora ha fatto buona prova sotto il fuoco dei fucili a retrocarica e, malgrado la resistenza opposta dal comando, la fece adottare con successo.
La guerra franco-prussiana ha segnato una svolta di ben maggior importanza di tutte le precedenti. In primo luogo le armi hanno raggiunto un tal punto di perfezione che non è più possibile un nuovo progresso che abbia un qualche influsso rivoluzionario. Se si fanno cannoni con i quali si può colpire un battaglione ad una distanza che permette appena all'occhio di distinguerlo e fucili che hanno la stessa efficienza avendo come bersaglio un singolo uomo e nei quali il caricare prende meno tempo del mirare, ogni progresso ulteriore è più o meno irrilevante per le operazioni belliche campali. L'era dello sviluppo è quindi essenzialmente chiusa in questa direzione. In secondo luogo questa guerra ha però costretto tutti i grandi Stati del continente ad introdurre il sistema prussiano del Landwehr intensificato e, conseguentemente, di caricarsi di gravami militari che necessariamente li condurranno alla rovina nel corso di pochi anni. L'esercito è diventato fine precipuo dello Stato e fine a se stesso; i popoli non esistono più se non nel fornire e nutrire i soldati. Il militarismo domina e divora l'Europa. Ma questo militarismo reca in sé anche il germe della sua propria rovina. La concorrenza reciproca dei singoli Stati li costringe da una parte ad impiegare ogni anno più denaro per esercito, marina, cannoni, ecc., e quindi ad affrettare sempre di più la rovina finanziaria; dall'altra a prendere sempre più sul serio il servizio militare obbligatorio per tutti e con ciò, in definitiva, a familiarizzare tutto il popolo con l'uso delle armi e a renderlo quindi capace di far valere ad un certo momento la sua volontà di fronte ai signori della casta militare che esercitano il comando. E questo momento si presenta non appena la massa del popolo, operai delle campagne e delle città e contadini, ha una volontà. A questo punto l'esercito dei principi si muta in un esercito del popolo; la macchina si rifiuta di servire, il militarismo soggiace alla dialettica del suo proprio sviluppo. Ciò che non poté compiere la democrazia borghese del 1848, precisamente perché era borghese e non proletaria, cioè dare alle masse lavoratrici una volontà il cui contenuto corrisponda alla loro condizione di classe: questo sarà infallibilmente realizzato dal socialismo. E ciò significa far saltare in aria dall'interno il militarismo e, con esso, tutti gli eserciti permanenti.
Questa è la prima morale della nostra storia della fanteria moderna. La seconda morale, che ancora una volta ci riporta a Dühring, è che tutta l'organizzazione e il modo di combattere degli eserciti e, conseguentemente, vittoria e sconfitta, si dimostrano dipendenti da condizioni materiali, vale a dire economiche, dal materiale-uomo e dal materiale-armi, quindi dalla qualità e dalla quantità della popolazione e della tecnica. Solo un popolo di cacciatori, quali gli americani, poteva riscoprire la guerriglia, ed essi erano cacciatori per cause puramente economiche, come oggi precisamente per cause puramente economiche questi stessi yankees dei vecchi Stati si sono trasformati in agricoltori, in industriali, in navigatori e in mercanti che non fanno più la guerriglia nelle foreste vergini, ma per ciò tanto meglio la fanno nel campo della speculazione, dove sono andati anche molto lontano nell'utilizzazione delle masse. Solo una rivoluzione quale la francese, che emancipò economicamente il borghese e specialmente il contadino, poté ritrovare quegli eserciti di massa e ad un tempo quelle libere forme di movimento, contro cui si infransero le vecchie linee impacciate, riflessi militari di quell'assolutismo per il quale combattevano. E abbiamo visto caso per caso come i progressi della tecnica, appena divennero militarmente utilizzabili, e furono anche effettivamente utilizzati, imposero subito quasi violentemente modificazioni, anzi rivoluzioni, nel modo di combattere, e per giunta spesso contro la volontà dei comandi militari. E oggigiorno anche uno zelante sottufficiale potrebbe spiegare a Dühring a che punto la condotta della guerra dipenda tra l'altro dalle forze produttive e dai mezzi di comunicazione, sia del retroterra che della zona di operazioni di un singolo paese. In breve, dovunque e sempre sono le condizioni e i mezzi economici che portano la "forza" alla vittoria, senza la quale questa cessa di essere forza e chi, seguendo i principi di Dühring, volesse riformare la guerra da un punto di vista opposto, non raccoglierebbe altro che bastonate [*4].
Se dalla terraferma passiamo al mare, ci si presenta, a considerare solo gli ultimi vent'anni, una rivoluzione incomparabilmente più radicale. La nave da battaglia della guerra di Crimea [90] era il bastimento di legno a due o tre ponti, munito di cannoni, il cui numero andava da 60 a 100, mosso di preferenza ancora da vele e dotato solo sussidiariamente di una debole macchina a vapore. Portava principalmente pezzi da 32 libbre, con canna del peso di circa 50 quintali e in aggiunta solo pochi pezzi da 68 libbre, con canna dal peso di 95 quintali. Verso la fine della guerra comparvero batterie galleggianti con corazze di ferro, mostri pesanti, che era quasi impossibile spostare, ma che erano invincibili ai colpi del pezzo di artiglieria del tempo. Presto la corazzatura di ferro fu applicata anche alle navi da battaglia; da principio le piastre erano ancora molto sottili: si riteneva già straordinariamente pesante una corazza di quattro pollici di spessore. Ma il progresso dell'artiglieria si lasciò presto indietro la corazzatura; per ogni spessore di corazzata che successivamente veniva impiegato si trovava un nuovo pezzo d'artiglieria, più pesante, che lo spezzava con facilità. Così oggi, da una parte, siamo già arrivati a corazze di dieci, dodici, quattordici, ventun pollici di spessore (l'Italia vuol far costruire una nave con una corazzata di tre piedi di spessore) e, dall'altra, a cannoni rigati con canna del peso di 25, 35, 80 e anche 100 tonnellate (tonnellate da 20 quintali) che tirano a distanze inaudite nel passato proiettili del peso di 300, 400, 1.700 e perfino 2.000 libbre. L'odierna nave da battaglia è un gigantesco vapore ad elica corazzato, che stazza da 8.000 a 9.000 tonnellate e sviluppa una potenza da 6.000 a 8.000 cavalli-vapore, con torri girevoli, e quattro, e al massimo sei, cannoni pesanti, munito di una prua che sotto la linea di immersione si protende in uno sperone capace di colare a picco le navi nemiche. È un'unica macchina colossale nella quale il vapore non solo effettua un veloce spostamento, ma anche aziona il timone, solleva le ancore, fa girare le torri, effettua il puntamento e il caricamento dei cannoni, pompa l'acqua, issa e cala le scialuppe, in parte azionate anche esse a vapore, ecc. E tanto poco la concorrenza tra corazza e cannone è giunta alla sua conclusone, che al giorno d'oggi una nave quasi regolarmente non risponde più alle esigenze, è già invecchiata, prima di essere uscita dal cantiere. La moderna nave da battaglia non solo è un prodotto, ma nello stesso tempo è un campione della grande industria moderna, un'officina galleggiante specializzata invero nella produzione di... sperpero di denaro. Il paese nel quale la grande industria ha raggiunto il più alto sviluppo ha quasi il monopolio della costruzione di queste navi. Tutte le corazzate turche, quasi tutte le russe e la maggior parte delle tedesche sono costruite in Inghilterra; piastre di corazze per qualsiasi uso vengono fabbricate quasi esclusivamente a Sheffield; delle tre aziende metallurgiche d'Europa che sole sono in condizione di fornire i cannoni più pesanti, due appartengono all'Inghilterra (Woolwich e Elswick) e la terza (Krupp) alla Germania. Si vede qui con la più palmare evidenza come la "violenza politica immediata", che, secondo Dühring, è "la causa decisiva dell'ordine economico", sia al contrario completamente soggiogata all'ordine economico; come non soltanto la costruzione, ma anche la manovra degli strumenti della violenza sul mare, le navi da battaglia, siano diventate anch'esse un ramo della grande industria moderna. E non vi è nessuno che sia disturbato da questo stato di cose quanto la violenza stessa, lo Stato, al quale oggi una nave costa tanto quanto costava prima un'intera piccola flotta; il quale deve rassegnarsi al fatto che queste navi, così care, siano invecchiate e abbiano quindi perduto il loro valore prima ancora di scendere in mare; e deve sentire lo stesso disgusto di Dühring di fronte al fatto che l'uomo dell'"ordine economico", l'ingegnere, a bordo sia oggi più importante dell'uomo della "violenza immediata", il capitano. Noi invece non abbiamo nessuna ragione di arrabbiarci se vediamo come in questa gara tra corazza e cannone la nave da battaglia raggiunga quel vertice di perfezione che la rende tanto esorbitantemente costosa quanto inutilizzabile militarmente [*5] e come questa lotta riveli conseguentemente, anche nel campo della guerra navale, le leggi di quell'interno moto dialettico per cui il militarismo, come ogni altro fenomeno storico, sarà condotto alla rovina dalle conseguenze del suo proprio sviluppo.
Anche qui vediamo quindi con chiarezza perfetta che non è assolutamente vero che "l'elemento primitivo" debba "essere cercato nella violenza politica immediata e non solamente in una potenza economica indiretta". Al contrario! Che cosa appare precisamente come "l'elemento primitivo" della stessa violenza? La potenza economica; la disponibilità dei mezzi della grande industria. La forza politica sul mare, fondata sulle moderne navi da battaglia, si appalesa non già "immediata", ma precisamente mediata dalla potenza economica, dall'alto sviluppo raggiunto dalla metallurgia, dall'avere ai propri ordini tecnici esperti e ricche miniere di carbone.
Ma frattanto, a che serve tutto questo? Nella prossima guerra navale si dia a Dühring l'alto comando ed egli semplicemente mediante la sua "violenza immediata", senza torpedini o altri artifici, annienterà tutte le flotte corazzate asservite all'ordine economico.
73. Questa espressione proverbiale arriva da Giovenale, Satira I, v. 79, "si natura negat, facit indignatio versum" (se la natura non può, l'indignazione fa i versi).
74. Nella seconda sezione dell'"Anti-Dühring", tranne il capitolo X, tutti questi riferimenti senza ulteriore indicazione concernono la seconda edizione (1876) del "Cursus der National - und Socialökonomie..." di Dühring.
75. Qui Engels fa un gioco di parole intraducibile in italiano.
76. Motivo conduttore, tema ricorrente di un'opera musicale, collegato per esempio all'apparire di un personaggio.
77. Erano detti "rettili" i giornalisti e gli organi di stampa che stavano al soldo del governo Bismarck. Questi, in un discorso alla Camera dei deputati prussiana del 30 gennaio 1869 aveva definito "rettili" gli avversari del governo. Il termine si diffuse, ma nella voce popolare cambiò significato, passando a designare i giornalisti venali sostenitori del governo Bismarck e pagati dal fondo destinato ad appoggiare la stampa filogovernativa. Lo stesso Bismarck, parlando al Reichstag il 9 febbraio 1876, fu costretto ad ammettere che il nuovo significato del termine "rettili" aveva avuto in Germania la più ampia diffusione.
78. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. Cit., p. 269.
79. Nel 1876 uscì la seconda edizione del "Cursus der National- und Socialökonomie..." di Dühring.
80. Cfr. Shakespeare, "Enrico VIII", parte I, atto II, scena 4, dove questa battuta è pronunciata da Falstaff.
81. Riferimento ad Augustin Thierry, Franois Pierre-Guillame Guizot, Franois-Auguste-Marie Mignet e Louis-Adolphe Thiers.
82. Engels prese probabilmente queste cifre dall'opera dello storico dell'antichità Wilhelm Wachsmuth ("Antichità elleniche dal punto di vista dello Stato"), parte II, sezione I, Halle 1829, p.44 (dell'edizione originale tedesca). Le cifre riguardanti il numero degli schiavi a Corinto ed Egina al tempo delle guerre persiane (498-448 a.C.) derivano dallo scrittore greco del II-III secolo Ateneo di Naucrati, "Deipnosofisti", libro VI, e sono certamente troppo elevate.
83. K. Marx, "Il capitale", I, trad. it. cit. pp. 639-640
84. In base alle condizioni del trattato di pace, dopo la guerra del 1870-71, negli anni 1871-73 la Francia dovette versare alla Germania come spese di guerra cinque miliardi di franchi.
85. Al posto dei sei capoversi che seguono, nel testo originario si trovava una trattazione più estesa che Engels estrasse dal manoscritto e conservò a parte, come saggio a sé stante, sotto il titolo "Tattica della fanteria derivata dalle cause materiali". (Marx-Engels, Opere, vol. XXV, cit., pp. 619-625)
86. Era il sistema introdotto in base a un progetto di Scharnhorst del 17 marzo 1813: esso disponeva il richiamo delle leve più anziane dei congedati. Nella guerra franco-prussiana del 1870-71 il primo scaglione del Landwehr fu impiegato in combattimento affianco dell'esercito permanente.
87. Nella guerra austro-prussiana del 1866.
88. Nella battaglia di St. Privat, il 18 agosto 1870, le truppe tedesche sconfissero, riportando però gravi perdite, l'esercito francese del Reno. Essa è ricordata come la battaglia di Gravelotte.
*4. La cosa è già perfettamente nota allo stato maggiore prussiano "La base della guerra è in primo luogo la forma economica generale della vita dei popoli"; così dice in una sua conferenza scientifica Max Jähns, capitano di stato maggiore ("Kölnische Zeitung", 20 aprile 1876, terza pagina) [89].
89. La conferenza di Max Jähns "Machiavelli [sic] und der Gedanke der allgemeinen Wehrpflicht" fu pubblicata nel "Kölnische Zeitung" , nei numeri 108, 110, 112 e 115, del 18, 20, 22 e 25 aprile 1876.
La "Kölnische Zeitung", quotidiano, uscì a Colonia dal 1802 al 1945; rispettava la politica della borghesia liberale prussiana.
90. La guerra di Crimea (1853-1856), condotta dalla Russia contro la Turchia alleata all'Inghilterra, alla Francia e alla Sardegna, fu provocata dal contrasto d'interessi economici e politici tra questi paesi nel Vicino Oriente.
*5. Il perfezionamento dell'ultimo prodotto della grande industria per la guerra navale, la torpedine ad autopropulsione, sembra che dovrà realizzare quanto diciamo: in effetti la più piccola torpediniera sarebbe superiore alla più potente corazzata. (Si ricordi che quanto sopra fu scritto nel 1878) [91].
91. L'ultima frase tra parentesi fu aggiunta da Engels alla terza edizione (1885) dell'"Anti-Dühring".
Economia: IV. Teoria della violenza (conclusione)
Ultima modifica 16.10.2002