Pronunciato all'Associazione Democratica di Bruxelles il 9 gennaio 1848. Tradotto da Filippo Turati e pubblicato in: Discorso sul libero scambio di Carlo Marx con un Proemio di Federico Engels, Uffici della Critica Sociale, Milano, 1894, pp. 23-37. Trascritto da Leonardo M. Battisti, Novembre 2017
[Prefazione di Friedrich Engels]
Signori,
L'abolizione del dazio sui cereali in Inghilterra è il più gran trionfo del libero scambio nel nostro secolo. Dovunque i fabbricanti parlano di libero scambio, essi hanno sopratutto di mira il libero scambio del grano e delle materie prime in generale. «Il dazio sui grani — essi dicono — è cosa odiosa, perché è una speculazione sulla fame.» Pane a buon mercato, alti salari. Cheap food, high wages.
Con questa impresa sulla loro bandiera i libero-scambisti non esitarono a prodigare milioni pel trionfo della santa causa. Il loro entusiasmo, varcata la Manica, si propagò tra i confratelli del continente. Insomma il libero scambio è sopratutto reclamato nell'interesse della classe lavoratrice.
Curioso contrasto! Il popolo — a cui questi generosi si affannano ad offrire il pane a buon mercato — il popolo non si commuove di riconoscenza. Esso è altrettanto scettico pel pane a buon mercato, quanto, in Francia, pel governo a buon mercato. I signori Bowring, Brigth e compagni, questi modelli d'abnegazione, sono considerati dal popolo come i suoi acerrimi nemici, come i più spudorati mistificatori!
È noto che la lotta fra liberali e democratici in Inghilterra è al tempo stesso la lotta fra liberoscambisti e chartisti. I liberoscambisti dicevano ai salariati: Il dazio sul grano è un'imposta sul salario, da voi pagata ai grandi proprietari terrieri, a questi aristocratici del medioevo: la vostra miseria deriva dall'alto prezzo delle derrate di prima necessità.
Dal canto loro i salariati chiedevano agli industriali: Or come avviene che negli ultimi trent'anni, coll'immenso sviluppo raggiunto dall'industria, i nostri salari sono tanto diminuiti? La loro discesa fu in proporzione ben maggiore che non sia stato il rincaro del pane. Mentre l'imposta che noi paghiamo ai proprietari delle terre è, secondo voi dite, di circa tre pence1 alla settimana, le mercedi dei tessitori a mano, dal 1815 al 1824, calarono da 28 a 5 scellini, quelle dei tessitori a macchina, dal 1823 al 1843, da 20 scellini a 8. Ai proprietari di terre, in tutto questo tempo, non si è mai pagato più di tre pence. Vi ricordate quel che ci venivate predicando, nel 1834, quando il grano era a buon prezzo e l'industria fioriva? Allora ci dicevate: voi siete miseri perché generate troppo; i vostri matrimoni sono più fecondi del vostro lavoro. Queste erano le vostre precise parole in quel tempo. E infatti avete creato nuove leggi sui poveri e nuovi workhouses — queste bastiglie dei proletari.
E gli industriali rispondevano: — Si, lavoratori carissimi, a determinare il saggio dei salari non è solo il prezzo del pane; anche la concorrenza delle braccia offerte sul mercato ha la sua influenza. Ma considerate che il nostro suolo è scoglio e sabbia. Voi certo non vi figurate che si possa seminare il grano in vasi da fiori. Se, in cambio di sprecare capitali e lavoro alla cultura di terre sterili, abbandonassimo l'agricoltura e ci buttassimo alla sola industria, che cosa avverrebbe? Tutta l'Europa abbandonerebbe le manifatture e l'Inghil-terra diverrebbe una sola grande città industriale che avrebbe per distretto agricolo il resto dell'Europa.
A questo punto, nella discussione, irrompe il modesto esercente: — Coll'abolizione del dazio sui grani roviniamo la nostra agricoltura, senza la certezza che gli altri paesi acquisteranno i nostri prodotti industriali. E allora? Io perderò i miei avventori della campagna e il commercio interno perderà il suo mercato.
— Tanto meglio — gli risponde l'industriale, che a questo punto volta le spalle al salariato. — Abolito il dazio, importeremo il grano estero più a buon mercato, quindi i nostri salari caleranno, mentre dovranno aumentare nei paesi esportatori di grano. Coi salari più bassi, in aggiunta a tutti gli altri vantaggi di cui già godiamo, obbligheremo tutto il continente a comprare i prodotti delle nostre industrie.
Ma ecco che a prender parte alla disputa si presentano il fittabile ed il contadino. — E di noi — domandano — che cosa avverrà? Dobbiamo noi favorire una legge che è la sentenza di morte per l'agricoltura che ci dà il pane? Staremo tranquilli quando ci si leva il terreno di sotto i piedi?...
***
Di fronte a tutte queste domande, per cavarsi di impaccio, la «Lega per l'abolizione del dazio sui grani» ha bandito un concorso a premi per le tre migliori opere illustranti i benefizi che l'agricoltura inglese doveva attendersi dall'abolizione del dazio. I premi toccarono a Hope, Morse e Greg, i cui scritti furono diffusi gratuitamente, a migliaia e migliaia di esemplari, nelle campagne.
Il primo dei premiati si sforza a dimostrare che dall'importazione dei grani esteri né i fittabili né i contadini nulla hanno a temere. Nessun paese può produrre miglior grano e a più basso prezzo dell'Inghilterra. Se v'è un danneggiato, sarà il proprietario, colla sua rendita, ma né il profitto, né il salario non sentiranno alcuna ripercussione dal calare del prezzo dei cereali.
Viceversa, Morse, il secondo premiato, sostiene che l'abolizione del dazio rincarirà il grano. Con grandissimi sforzi tenta dimostrare che ai dazi non riuscì mai di assicurare ai cereali un prezzo rimuneratore. Guardate infatti — egli osserva —; quanto più s'è importato grano estero, il prezzo ne aumentò; scemò collo scemare dell'importazione. — Questo signore dimentica semplicemente che non è l'importazione che genera il rialzo dei prezzi; è bensì il rialzo dei prezzi che genera l'importazione. Tutto al contrario del suo compagno ugualmente premiato, egli ritiene che ogni aumento dei prezzi del grano profitta al fittabile e al contadino; non al proprietario.
Il terzo autore, Greg, un grande industriale, rivolgendosi nel suo libro ai grandi fittabili, non poteva contentarsi di simili sciocchezze. Il suo linguaggio è un po' più scientifico. Egli riconosce che il dazio aumenta la rendita solo perché rialza il prezzo dei grani, e che questo rialzo è dovuto alla messa a cultura delle terre sterili.
Ciò d'altronde è ben naturale. Quanto più la popolazione cresce — se non soccorre l'importazione — bisogna ricorrere alla coltivazione delle terre meno fertili, la quale esige maggiori spese e dà quindi prodotti più cari. E siccome il paese ha bisogno di tutti i cereali, anche di quelli prodotti in queste condizioni meno favorevoli, è naturale che il prezzo in genere del grano si determini dal prezzo di quello ottenuto sulle terre meno fertili. La differenza fra cotesto prezzo e le spese di cultura sui terreni più fertili costituisce appunto la rendita. L'abolizione del dazio, diminuendo il prezzo del grano, e quindi la rendita, determina l'abbandono delle terre meno fertili; d'onde la rovina di parte dei fittabili.
Queste poche osservazioni erano necessarie per capire il linguaggio del Greg. I piccoli fittabili — egli dice — che non potranno reggersi coll'agricoltura, si rifugeranno nell'industria. Ma i grandi fittabili non avranno che da guadagnarci. I proprietari, o dovranno ceder loro le terre a buon prezzo, o conchiudere locazioni a lontana scadenza. Così i fittabili potranno applicare alla terra i grandi capitali, estendervi le macchine agrarie, economizzare grandemente sul lavoro umano, che a sua volta diverrà meno caro pel calare dei salari, conseguenza immediata dell'abolizione del dazio sui grani.
Il dott. Bowring diede a tutte queste argomentazioni una consacrazione religiosa e in una pubblica riunione sciamò «Gesù Cristo è il libero scambio — il libero scambio è Gesù Cristo!»
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È chiaro che tutta questa commedia non era molto adatta a far gustare all'operaio il pane a buon mercato. E come potevano gli operai aggiustar fede a questo improvviso fervore filantropico di quegli industriali, che continuavano una lotta accanita contro il bill per la riduzione della giornata dell'operaio delle fabbriche, da 12 a 10 ore?
Rammentate soltanto, a proposito dell'umanità degli industriali, i regolamenti adottati in tutte le fabbriche. Ogni industriale ha un vero suo Codice penale che punisce ogni mancanza anche involontaria. L'operaio è multato se si mette a sedere, se bisbiglia, se chiacchiera, se ride, se ritarda di un solo minuto, se si spezza un congegno della macchina, se la qualità del suo prodotto non corrisponde alle esigenze dei soprastanti, ecc. Le multe superano sempre il danno reale recato. Per rendere più facile l'incapparvi, si fanno avanzare le lancette degli orologi, si fornisce una materia prima avariata, colla quale l'operaio deve restituire un lavoro perfetto. Un capofabbrica, che non sappia multare il più possibile, di regola è licenziato.
Come vedete, questo codice penale privato è creato apposta per produrre i reati, e i reati sono creati per aumentare gli introiti. L'industriale tende con ogni mezzo a ribassare il salario nominale, sfruttando all'uopo anche i semplici accidenti. E questi stessi industriali eccoli ad un tratto trasformati in filantropi, eccoli farsi in quattro per dimostrare agli operai, che essi sono pronti a spendere immense somme pel loro bene. Da un lato, non v'è mezzo troppo odioso cui non ricorrano per ridurre i salari sotto il minimum; dall'altro, affrontano ogni sacrifizio per aumentare i salari mercé l'abolizione del dazio sui grani. Essi erigono sontuosi palazzi per alloggiarvi gli uffici della «Lega»; sguinzagliano per tutta l'Inghilterra una muta di apostoli a predicare il verbo del libero scambio; stampano opuscoli eli distribuiscono gratis a migliaia di copie per illuminare gli operai sui loro veri interessi. Spendono somme favolose per guadagnarsi la stampa quotidiana. Organizzano un complicato meccanismo per dirigere il movimento liberoscambista e prodigano nelle pubbliche riunioni tutta la loro eloquenza.
Fu precisamente in uno di questi Comizi che si udì un operaio esclamare: «Se i proprietari fondiari mettessero in vendita le nostre ossa, voi altri industriali vi affrettereste a comperarle per mandarle al mulino e farne farina.»
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Gli operai inglesi hanno compresa benissimo la lotta fra i proprietari delle terre e gli industriali. Essi sapevano bene che il pane a buon mercato servirebbe agli industriali per ribassare i salari, e che il profitto del capitale aumenterebbe a spese della rendita.
Ricardo, l'apostolo dei liberoscambisti inglesi e il più illustre economista del nostro secolo, è in ciò perfettamente d'accordo cogli operai:
«Se invece di produrre il grano a casa nostra — egli dice nel suo celebre libro di Economia politica — si aprisse un nuovo mercato ove potessimo acquistarlo a miglior prezzo, i salari calerebbero e aumenterebbero i profitti. I cereali a buon mercato non abbassano solo i salari dei contadini, ma anche quelli del proletariato industriale e com-merciale.»
Né credete, o signori, che l'operaio non abbia danno dal ricevere 4 franchi invece di 5, se a ciò corrisponde la diminuzione del prezzo del pane. Non é forse, ad ogni modo, calato il suo salario relativamente al profitto? Non è peggiorata dunque la sua posizione sociale di fronte a quella migliorata del capitalista? Ma non è tutto. Finché il prezzo del pane, e il salario con esso, sono alti, l'operaio, con una piccola economia nel consumo del pane riesce a soddisfare altri suoi bisogni. Questa risorsa gli vien meno quando il prezzo del pane e i salari sono molto abbassati.
Gli operai inglesi fecero capire ai libero-scambisti ch'essi non si lascerebbero ingannare dalle loro menzogne ed ipocrisie; che se li seguivano nella lotta contro i proprietari fondiari, non era se non per finirla con gli ultimi avanzi del feudalesimo e ridursi cosi ad avere di fronte un solo nemico invece di due. Questa tattica non fu sbagliata: i proprietari fondiari, per rappresaglia contro gli industriali, favorirono i lavoratori nella lotta per le dieci ore di lavoro, lotta che durava da un trentennio; tosto abolito il dazio sui grani, fu votato il bill delle dieci ore.
Quando il dott. Bowring sciorinò al Congresso degli economisti la lunga lista del bestiame, dei prosciutti, dei lardi, dei pollami, ecc., importati in Inghilterra, pel consumo — secondo egli disse — della classe lavoratrice, dimenticò sgraziatamente di soggiungere che, proprio in quel torno, a Manchester e negli altri centri industriali, la crisi incipiente gettava sul lastrico torme di operai.
In economia politica non é lecito, dalle cifre di un solo anno, indurre leggi generali. Bisogna almeno considerare un periodo di 6 o 7 anni, tale cioè che abbracci le varie fasi — rigoglio, surproduzione, ristagno e crisi — traverso le quali l'industria compie il suo ciclo fatale.
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È chiaro che, calando, per necessario effetto del libero scambio, i prezzi di tutte le merci, io potrò con un franco comperare assai più di prima. Ora, il franco dell'operaio valendo quanto ogni altro franco, ecco un vantaggio per l'operaio. C'è soltanto un piccolo inconveniente.
L'operaio, prima di scambiare il suo franco con altre merci, deve scambiare il suo lavoro col capitale. Se, mentre il prezzo d'ogni altra merce è disceso, egli continuasse a ricevere un franco per la stessa quantità di lavoro, il suo vantaggio sarebbe reale. Il difficile non sta nel provare che, se i prezzi di tutte le merci ribassano, io otterrò per lo stesso denaro maggior quantità di merce.
Gli economisti non guardano che all'istante in cui l'operaio scambia il suo salario cogli oggetti di consumo; dimenticano quello in cui scambia il suo lavoro col capitale. Se scemano le spese necessarie a porre in movimento la macchina che produce le merci, le cose necessarie a mantenere questa macchina, che ha nome l'operaio, costeranno anch'esse meno caro. Se tutte le merci sono meno care, anche il lavoro ribasserà di prezzo, poiché anche il lavoro è una merce; esso anzi è una merce, come vedremo, che scema di prezzo più di tutte le altre. L'operaio dunque, che avrà dato retta agli economisti, finirà per trovare che il suo franco gli si è fuso in saccoccia, s'è ridotto a soli cinque soldi.
— Sia pure — incalzano gli economisti. — La concorrenza fra operai ridurrà i salarii in proporzione al prezzo delle merci. Ma intanto, colle merci a buon prezzo, crescerà il consumo, quindi la produzione, quindi il numero di braccia impiegate, quindi i salari.
Tutto, dunque, si riduce a questo: il libero scambio aumenta le forze produttive. Se l'industria va crescendo, se la ricchezza, il potere produttivo, se insomma il capitale produttivo aumenta, aumentano pure la richiesta di lavoro, il prezzo del lavoro e in conseguenza il salario. Lo sviluppo del capitale è la condizione più favorevole per l'operaio; bisogna convenirne. Se il capitale rimane stazionario, l'industria non resterà soltanto stazionaria, ma decadrà e l'operaio ne sarà la prima vittima. Ma quando il capitale aumenta, quando cioè si é in quello stato di cose che abbiamo detto il più propizio per l'operaio, quale sarà la costui sorte? Esso perirà ugualmente.
Infatti l'aumento del capitale produttivo è connesso alla sua concentrazione, al suo accumularsi in poche mani. Onde una maggior divisione del lavoro e un maggior impiego di macchine. La maggior divisione del lavoro, rendendo questo più facile, annulla, per così dire, l'abilità professionale dell'operaio; questi non ha più bisogno di preparazione; e la concorrenza fra operai quindi aumenta. Di più, un operaio riesce a fare il lavoro di tre; e la concorrenza aumenta di nuovo. Le macchine la intensificano ancor più.
Per lo sviluppo del capitale produttivo gli industriali devono aumentare gli strumenti del lavoro, onde la rovina dei piccoli industriali che non possono reggere alla gara e piombano nel proletariato. Coll'accumularsi dei capitali cala il tasso degli interessi, e anche i piccoli reddituari, cui il reddito non basta più alla vita, devono lanciarsi nell'in-dustria, per poi diventare ancor essi proletari. Infine, più il capitale produttivo aumenta, più esso è costretto a produrre per un mercato di cui non conosce i bisogni, più la produzione precede il consumo, più l'offerta cerca di forzare la domanda, e perciò si fanno più intense e più rapide le crisi; le quali accelerano ancor più l'accentramento dei capitali e aumentano quindi il proletariato. Cosi, come più aumenta il capitale produttivo, la concorrenza fra gli operai cresce in proporzione assai più forte. Il salario diminuisce per tutti, e per alcuni si rende più grave il peso del lavoro2.
I tessitori che, a Manchester, nel 1829, erano 1088 sparsi in 36 stabilimenti, nel 1841 eran ridotti a 448; questi 448 facevano lavorare 53.353 spole di più che i 1088 operai del 1829. Se la domanda della mano d'opera avesse aumentato in ragione dell'aumento delle forze produttive, gli operai avrebbero dovuto salire a 1848; invece il perfezionamento tecnico ne buttò 1100 sul lastrico.
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È nota la risposta degli economisti: questi operai — essi dicono — troveranno altre occupazioni. Il dott. Bowring non mancò di portare questo argomento al Congresso degli economisti; ma egli stesso s'incarica di smentire le proprie parole. In un suo discorso del 1838 alla Camera dei Comuni sui 50.000 tessitori di Londra che morivano di fame perché non trovavano la nuova occupazione promessa loro dai libero scambisti, egli diceva (ci limitiamo a riprodurne i passi più salienti):
La miseria dei tessitori a mano è la sorte inevitabile di tutti quei lavori che, richiedendo poca preparazione, possono ad ogni istante venir sostituiti da mezzi di produzione meno costosi. In questi lavori la concorrenza operaia è enorme e basta una minima diminu-zione della richiesta di mano d'opera per provocare una crisi. Questi tessitori si trovano già al limite estremo della sussistenza; ancora un passo e l'esistenza è fatta impossibile; un minimo urto ed eccoli spinti nell'abisso. Il progresso della tecnica, eliminando sempre più la mano d'opera, conduce inevitabilmente a queste transitorie miserie. La ricchezza nazionale non si ottiene senza qualche rovina individuale. Il progresso della industria esige il sacrificio dei ritardatari; e di tutte le scoperte, il telaio a vapore è quello che pesa più gravemente sul tessitore a mano. Già questi fu battuto per la confezione di molti articoli, e presto lo sarà per più altri.
Il governatore delle Indie orientali scriveva alla Compagnia dello stesso nome, parlando dei tessitori del circondario di Dacca: «Qualche anno fa la Compagnia delle Indie orientali acquistava da 6 a 8 milioni di pezze di cotone tessute coi telai a mano. La compera di questo prodotto è calata ad un milione di pezze ed ora è quasi cessata del tutto. — Nel 1800 l'America del Nord riceveva dalle Indie orientali 800.000 pezze di tela cotone. Nel 1830 l'importazione scese a 4000. — Il Portogallo, che nel 1800 comperava un milione di pezze, nel 1830 si ridusse a comperarne 20 mila.»
La comparsa sul mercato della tela cotone inglese, tessuta a vapore, ha ridotto in condizioni spaventevoli i tessitori delle Indie. Gran parte morirono di fame, altri si volsero ad altri lavori, specialmente all'agricoltura. Ora tutto il circondario di Dacca è invaso dai tessuti inglesi. La mussola di Dacca, così celebre per solidità e bellezza, è scomparsa per la concorrenza delle macchine inglesi. Difficilmente si trovano esempi nella storia che eguaglino l'infinita miseria cui andarono soggette intere classi operaie nelle Indie orientali.
Questo discorso del dott. Bowring è tanto più significante in quanto che tutti i fatti ch'egli allega sono esattissimi e le frasi pietose con cui cerca velarli non sono che la solita ipocrisia dei discorsi liberoscambisti. Egli presenta l'operaio come un mezzo di lavoro che deve essere sostituito da mezzi meno dispendiosi. Egli finge di vedere nel lavoro di cui parla un lavoro affatto eccezionale, e nella macchina che schiacciò i tessitori una macchina eccezionale del pari. E dimentica che non v'è lavoro manuale che non possa quandochessia subire la sorte della tessitura.
«In realtà — così scrive il dott. Ure, uno dei più fervidi liberoscambisti — lo scopo di ogni perfezionamento meccanico è di eliminare la mano d'opera o di ribassare i salari sostituendo il lavoro dell'uomo con quello delle donne e dei fanciulli e il lavoro dell'operaio abile con quello del semplice bracciante. Nella più parte delle tessiture a telaio continuo non si impiegano che ragazze di 16 anni o al disotto. La mule-jenny automatica, sostituita alla ordinaria, scaccia quasi tutti gli adulti per impiegare i fanciulli». Il dott. Bowring ci parla di «qualche rovina individuale», ma deve poi riconoscere che si tratta della condanna a morte di intere classi operaie; egli parla di «miserie transitorie», ma non può nascondere che esse sono per la maggioranza una transizione alla morte, per gli altri a una condizione assai peggiorata. Quando soggiunge che la miseria del proletariato è inseparabile dai progressi dell'industria e necessaria alla ricchezza nazionale, dice in sostanza che essa è la condizione del benessere della borghesia. Il conforto che il dott. Bowring prodiga agli operai che periscono, come del resto tutte le dottrine della compensazione predicata dai liberoscambisti, si può riassumere così:
«Voi, migliaia di operai condannati a morire, non vi scoraggiate! Potete morire tranquilli! La vostra classe non perirà. Essa sarà sempre abbastanza numerosa perché il capitale possa decimarla senza timore di distruggerla tutta. Come volete dunque che il capitale trovi da impiegarsi utilmente se non avesse cura di conservarsi la materia sfruttabile, gli operai?»
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Ma perché ci indugeremo noi a discutere, come se fosse materia suscettiva di discussione, l'influenza del libero scambio sulle condizioni della classe lavoratrice? Tutte le leggi formulate dagli economisti, da Quesnay a Ricardo, presuppongono soppressi gli ostacoli che incepparono finora il libero scambio; è col libero scambio ch'esse acquistano tutta la loro forza. Ora, la prima di coteste leggi è che la concorrenza diminuisce il prezzo di ogni merce sino al minimum del costo di produzione. Perciò il minimum del salario è il prezzo naturale del lavoro. E il minimum del salario non è che quanto occorre a produrre lo stretto necessario all'operaio per campare alla peggio e riprodurre la sua classe quanto è necessario. Non si creda con ciò che il lavoratore non abbia mai altro che questo minimum e neppure che questo minimum lo abbia sempre. No, per cotesta legge, la classe operaia sarà talora più fortunata; essa avrà più che il minimum; ma questo di più non sarà che il compenso del tanto di meno ch'essa ebbe durante la stagnazione industriale. È quanto dire che in un dato ricorso di tempo — questi ricorsi sono periodici — durante il quale l'industria passò per le sue fasi di prosperità, surproduzione, ristagno e crisi, se si fa il conguaglio di cotesti di più e di cotesti di meno del salario necessario, si vedrà che la classe operaia non ebbe che il minimum e che si è conservata come classe traverso un'infinità di sventure e di miserie e avendo seminato di cadaveri il campo industriale. Ma che importa? La classe sussiste sempre, anzi avrà magari aumentato.
Né basta. Il progresso dell'industria produce mezzi d'esistenza sempre meno costosi. La birra è sostituita dall'acquavite, il lino dal cotone, il pane dalle patate. Così il minimum dei salari discende sempre. Prima questo salario costringeva l'operaio a lavorare per vivere, più tardi lo riduce alla vita di una macchina. La sua esistenza non ha che il valore di una forza produttiva e il capitalista lo tratta come tale. Questa legge del lavoro-merce, ossia del minimo salario, non agisce in tutto il suo vigore se non col trionfo del libero scambio. O si negherà tutta l'economia politica o sì dovrà ammettere questo.
Che cos'è dunque il libero scambio nella società presente? È la libertà del capitale. È il capitale che, abbattute le barriere nazionali, assicura al proprio sviluppo un più libero campo d'azione. Finché esistono capitale e salario, ogni scambio di merci, sia pur fatto nelle migliori condizioni, darà sempre lo sfruttamento di una classe ad opera dell'altra. In verità si stenta a comprendere come i liberoscambisti possano imaginare che un impiego più lucroso del capitale possa togliere il conflitto fra capitalisti e lavoratori. Al contrario, il solo effetto del libero scambio sarà la dimostrazione ancor più nitida dell'antagonismo fra le due classi.
Imaginate per un istante che sparissero i dazii sui grani e tutte le dogane comunali e dello Stato, che sparissero insomma tutte le circostanze accessorie, cui l'operaio poteva addebitare la propria miseria; ebbene, ciò non servirebbe che a rendere più evidente ai suoi occhi qual è il suo vero nemico. Allora il lavoratore capirebbe che il capitale libero lo fa altrettanto schiavo quanto il capitale gravato di dazii.
Signori, non v'inganni questa parola astratta, libertà. Libertà per chi? Non si tratta già della libertà di un individuo di fronte a un altro, ma della libertà che serve al capitale per opprimere l'operaio. Come vorrete voi sanzionare la libera concorrenza con quest'idea di libertà, mentre questa libertà non è che il prodotto di uno stato di cose fondato appunto sulla libera concorrenza?
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Già vedemmo che razza di fratellanza nasce dal libero scambio fra le diverse classi d'una stessa nazione. Non diversa è quella che ne nasce nei rapporti internazionali. Solo alla borghesia può venir in mente di qualificare fratellanza lo sfruttamento cosmopolita dei lavoratori. L'azione distruttiva della libera concorrenza di ogni singolo paese aumenta a dismisura sul mercato internazionale.
Inutile dilungarci coi sofismi dei liberoscambisti, che hanno lo stesso valore degli argomenti dei tre autori premiati, Hope, Morse e Greg.
Ci dicono, ad esempio, che il libero scambio conduce a una divisione internazionale del lavoro e quindi a specializzare ogni paese nelle produzioni ad esso più idonee.
Penserete forse, o signori, che il caffè e lo zucchero siano prodotti naturali soltanto delle Indie occidentali. Due secoli fa, la natura, poco sollecita del commercio, non vi produceva né piante da caffè né canne di zucchero. E forse non passerà un altro cinquantennio che non vi troverete più né caffè né zucchero, perché l'India orientale, armata di mezzi di lavoro meno costosi, ha già cominciato una lotta trionfante contro questa pseudo-vocazione naturale dell'India occidentale. La quale, così abbondante di ricchezze naturali, va diventando per gli inglesi un peso non meno grave di quello dei tessitori di Dacca, che sembravan dai tempi preistorici predestinati alla tessitura a mano.
Aggiungete che, dacché tutto diventò monopolio, vi hanno rami prevalenti d'industria che procurano il dominio del mercato mondiale alle nazioni che li coltivano. Il cotone, per esempio, ha nello scambio internazionale una importanza commerciale superiore a tutte insieme le altre materie prime che servono all'indumento. I libero scambisti ci fanno ridere quando, additando due o tre specialità in ogni ramo d'industria, pretendono far contrappeso con esse agli oggetti di uso quotidiano la cui produzione diventa più a buon mercato nei paesi in cui l'industria si è sviluppata di più.
Non è strano del resto che i liberoscambisti non capiscano come un paese possa arricchirsi a spese di un altro, dacché neppure riescirono ancora a capire come una classe arricchisca a spese di un'altra classe.
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Non crediate tuttavia, signori, che, facendo la critica del libero scambio, noi intendiamo con ciò levarci a difensori del protezionismo. Si può attaccare il regime costituzionale senza con ciò essere difensori dell'assolutismo.
Il protezionismo è un mezzo che serve all'impianto della grande industria in un dato paese e gli apre con ciò la necessità del mercato internazionale e quindi di nuovo il bisogno del libero scambio. Il protezionismo sviluppa inoltre la libera concorrenza nei confini nazionali. Perciò nei paesi nei quali la borghesia comincia a farsi valere come classe — esempio la Germania3— essa fa ogni sforzo per ottenere misure protettive. Queste misure le servono come arme contro il feudalismo e l'assolutismo e come mezzo per, concentrare le sue forze e realizzare il libero scambio all'interno.
In generale attualmente il protezionismo è misura conservatrice, mentre il libero scambio agisce come forza distruttiva. Esso distrugge le vecchie nazionalità e spinge agli estremi l'antagonismo fra proletariato e borghesia. Il libero scambio affretta la rivoluzione sociale. È solo in questo senso rivoluzionario, o signori, ch'io voto pel libero scambio.
1. Il penny (plurale pence) è un dodicesimo di scellino. Lo scellino equivale a circa un franco e 45 cent. (Nota della CRITICA).↩
2. Tutte queste considerazioni sono svolte assai più ampiamente in un altro opuscolo dello stesso Marx: Capitale e salario, che fa parte della nostra Biblioteca di propaganda. (Nota della CRITICA).↩
3. L'autore si riferiva alla Germania del 1847, quando la borghesia tedesca aveva appena conquistato la propria indipendenza come classe. Lo stesso concetto sarebbe applicabile all'Italia odierna? (Nota della CRITICA SOCIALE).↩
Ultima modifica 2019.12.11