La «Religione entro i limiti della semplice ragione» non è veramente una trattazione sistematica di filosofìa religiosa, come è per esempio la «Critica della ragion pura» per il problema della conoscenza. Gran parte delle premesse della filosofìa della religione si trova in altre opere, nella Critica della ragion pratica e nella Critica del giudizio: ancora essa è tra le opere di Kant come una trattazione episodica, destinata ad apparire su di una rivista, quindi di carattere popolare; di più essa risente del suo tempo, è (come il Trattato teologico-politico di Spinoza) una risposta ed una difesa contro la reazione religiosa del tempo.
Tuttavia io non saprei considerarlo (come il Troeltsch) come una semplice presa di posizione di fronte al Cristianesimo ecclesiastico del suo tempo. Certo le questioni non sono trattate nè completamente, nè in ordine sistematico; ma l’ordine sistematico delle Critiche non è forse un ordine apparente?
In fondo, collegata con le opere antecedenti, essa ci offre un quadro completo della filosofia religiosa di Kant; e sebbene Kant avesse quasi settant’anni alla pubblicazione (1793), il pensiero suo è ancora così limpido e vigoroso come nelle opere giovanili. L’operetta è anche interessante per noi perchè il suo punto di vista può ancora perfettamente essere il nostro.
Certo in più di un particolare la maggior conoscenza che noi abbiamo della storia religiosa, la maggiore libertà in cui ci troviamo di fronte al cristianesimo ufficiale, ci possono condurre al di là del pensiero kantiano: ma in fondo l’atteggiamento suo può essere anche il nostro. Anzi la reazione religiosa di questi ultimi anni e l’analogia del tempo nostro, sotto questo rispetto, col suo, ci fanno apprezzare ancora di più la sincerità e la modernità del suo atteggiamento religioso.
La genesi e la storia dell’operetta sono strettamente connesse con la storia della reazione religiosa degli ultimi anni del secolo XVIII in Prussia. Questa reazione si era fatta viva negli spiriti prima ancora che nelle leggi e nelle persecuzioni: «il fanatismo s’avvicina a grandi passi» scrive già nel 1783 il giovane Plessing a Kant. Sintomo di questo regresso era anche, come sempre, il fiorire delle scienze occulte, dello spiritismo e di tutte le superstizioni analoghe, contro il quale Kant scrive; preso da questo spirito era anche il principe ereditario (il futuro Federico Guglielmo II) che si era fatto membro dell’ordine secreto dei Rosacroce. Tuttavia, morto Federico il Grande, nel 1786 le cose parvero per un poco di tempo andare come prima. Anzi in occasione della visita del re a Koenigsberg, Kant venne ricevuto molto benignamente dal re, che in questa occasione lo nominò membro dell’Accademia di Berlino; nel 1788 il giovane Kiesewetter viene mandato dal governo a Koenigsberg per studiare la filosofia critica e poterla poi insegnare a Berlino.
Le cose cominciano a mutare quando al ministro von Zedlitz, amico di Kant, succedette nel 1788 Giov. Feder. Woellner — che una nota marginale di Federico il Grande aveva qualificato come «prete imbroglione ed intrigante». Sei giorni dopo la sua nomina, veniva pubblicato il famoso «Editto sulla religione» che mirava ad impedire l’insegnamento e la predicazione di dottrine contrarie all’ortodossia. Ad esso tenne appresso dopo pochi anni l'Editto sulla censura. Tuttavia non sembra che lo stesso Woellner avesse da principio di mira Kant e la sua dottrina. Lo scetticismo kantiano era parso a molti ortodossi una premessa molto comoda; egli stesso aveva detto che «aveva tolto via il sapere per far posto alla fede». Kant parlava della fede morale; gli ortodossi intendevano della fede storica. Tanto è vero che Kiesewetter potè continuare a Berlino le sue lezioni; le sue lettere a Kant sulle arie che spiravano negli ambienti ufficiali sono per noi una rivelazione curiosa. Ma nel 1790 era imposto a tutti i pastori luterani un catechismo ufficiale; nello stesso anno era imposta a tutti i candidati all'ufficio di pastore una professione di fede che ebbe come primo effetto, come scrive Kant, di allontanare a schiere i candidati coscienziosi dal ministerio ecclesiastico.
Nel 1791 era nominata una commissione incaricata di sorvegliare la censura dei libri pubblicati in Prussia: commissione composta di uomini ignoti e di nessun conto, ma obbedienti esecutori degli ordini superiori. Da uno dei membri di questa commissione, il predicatore Woltersdorf, partì già nello stesso anno l’iniziativa di rivolgersi al re perchè venisse vietato a Kant ogni ulteriore pubblicazione. Intanto veniva resa più rigorosa la censura; paure e provvedimenti suggeriti dal corso degli avvenimenti politici dell’epoca; la rivoluzione era considerata come una conseguenza della diffusione di idee anticristiane per opera dei suoi scrittori. Per conseguenza di ciò varie riviste che si pubblicavano a Berlino tra cui l'All. d. Bibliothek di Nicolai e la «Berlinische Monatschrift» dovettero trasportare la loro sede fuori degli stati prussiani.
Kant intanto sebbene preoccupato del nuovo indirizzo e attento a non provocare inutilmente conflitti, persuaso che si trattava d’un fenomeno passeggero, continuava le sue pubblicazioni con la stessa libertà, non astenendosi anche da considerazioni ironiche sul nuovo corso di idee. Nel settembre 1791 pubblica il suo notevole saggio «Sulla vanità di tutti i tentativi di teodicea» nel quale esprime apertamente il diritto che ha ogni uomo di non sottomettersi a nessun credo se non per decreto della propria ragione, ed ha degli accenni ironici sui risultati dei nuovi provvedimenti inquisitoriali, i quali non hanno altro effetto che di aumentare l’ipocrisia generale.
Nella primavera del 1792 pubblica — sempre nella Rivista berlinese — la prima parte della sua «Religione» «Sul male radicale della natura umana» sottoponendola però prima alla censura berlinese — a cui poteva pure sottrarsi perchè la Rivista non si pubblicava più in Prussia. I censori permisero la pubblicazione motivando la loro decisione col fatto che Kant scriveva soltanto per i filosofi e non era compreso dalla maggior parte. Tre mesi dopo Kant presentava alla censura il secondo saggio «Della lotta del principio buono col cattivo»: ma i due censori, Hiller ed Hennes rifiutano questa volta il permesso; e sebbene il direttore della Rivista, il bibliotecario Biestes, rivolgesse arditamente un reclamo al re, il divieto non fu tolto.
Kant che aveva allora condotto a termine gli ultimi due saggi, pensò di pubblicarli tutti e quattro sotto forma di libro valendosi del suo privilegio di professore universitario d’essere sottoposto alla censura di una facoltà universitaria. Egli presentò il suo manoscritto alla stessa facoltà teologica di Koenigsberg pregandola di decidere anzitutto il caso se dovesse intervenire la facoltà teologica o la facoltà filosofica.
La facoltà teologica decise in quest’ultimo senso ed allora Kant presentò il manoscritto alla facoltà di filosofia di Jena dove il decano G. C. Hennings (un vecchio wolfiano — 1731-1815 — che si occupò sopratutto di psicologia, anzi di pratiche occulte restando completamente straniero al movimento kantiano) diede il suo imprimatur.
Nella primavera del 1793 l'opera era pubblicata a Koenigsberg, sollevando come è naturale un grande rumore fra amici e nemici. Il pensiero kantiano era penetrato largamente anche fra la nuova generazione di teologi dando origine ad una nuova specie di razionalismo morale: da questa parte, come da parte dei più stretti discepoli, il libro ebbe naturalmente accoglienza entusiastica.
I razionalisti del vecchio stampo videro invece in esso soltanto un tentativo di riabilitazione del cristianesimo su basi morali. Ma i più ostili furono naturalmente gli ortodossi che videro nell’opera di Kant un opera diretta a scalzare diabolicamente il cristianesimo.
Ci restano ancora nell’Epistolario kantiano tre lettere dirette a lui da un fervente pietista, il Dr. Samuele Collenburch — alle quali naturalmente Kant non rispose — di cui la prima così suona: «Mio caro signor Professore! La fede razionale del signor Kant è una fede nuda di ogni speranza. La morale del signor Kant è una morale nuda di ogni carità. Ora si chiede; in che cosa differisce la fede del signor Kant dalla fede del diavolo? In che cosa differisce la morale del signor Kant dalla morale del diavolo?».
Il libro aveva nel 1791 una seconda edizione. Questo successo non dispose naturalmente le sfere ufficiali Kant in senso favorevole a Kant. Il re scrisse a Woellner:
«Bisogna finirla con gli scritti di Kant».
Il rigore della censura si estende anche all’insegnamento; ogni interpretazione non ortodossa delle scritture è vietata anche nelle università con minaccia di rigorosi provvedimenti.
Kant era ormai preparato a cose peggiori, senza perdere tuttavia la tranquillità. In una lettera del maggio 1794 scrive: «convinto di aver sempre agito secondo la coscienza e conforme alle leggi, attendo tranquillamente la fine di questi strani eventi... la vita è breve, sopratutto a 70 anni: si troverà bene un angolo della terra per passarvi tranquillamente il poco tempo che mi resta». E nello stesso tempo pubblica nella Rivista di Berlino il breve scritto: «La fine del mondo» in cui ironicamente mostra (nell’ultima parte) come la vera fine del mondo e il regno dell’anticristo si abbiano quando si vuol imporre la religione fondandola sull’egoismo e sulla paura.
Cominciano intanto i provvedimenti contro le Università.
Hennes ed Hiller si recano personalmente ad Halle per provvedimenti: ma in seguito a dimostrazioni ostili degli studenti ne ripartono subito. Piovono allora provvedimenti, che naufragano contro la fermezza e il coraggio della Facoltà teologica. La loro attenzione si volge allora a Koenigsberg: prima contro un collega di Kant, il professor Hasse, che aveva espresso sentimenti un poco liberi; il prof. Hasse si sottomette umilmente, si dichiara pentito ed accetta l’ordine di conformarsi nelle lezioni e negli scritti all’editto sulla religione.
Intanto si era sparsa la voce di provvedimenti contro Kant: un pedagogista, Enrico Campe, già beneficato da Kant, gli offre un rifugio in casa sua a Braunschweig: Kant gli risponde commosso ringraziando, dichiarando di non credere alle voci correnti ed in ogni caso di poter provvedere alla sua vecchiaia senza esser di peso ad alcuno.
Finalmente al 1° ottobre 1794 il provvedimento atteso e temuto viene: è una lettera del re a Kant: «Al nostro degno e dotto professore, caro e fedele Kant. Prima di tutto il nostro grazioso saluto. Degno e dotto, caro e fedele! La nostra altissima persona ha da qualche tempo con gran dispiacere veduto come la filosofia venga da voi malamente rivolta a travisare e deprimere più di un punto capitale della Santa Scrittura e del Cristianesimo: come voi. avete fatto specialmente nel Vostro libro «La religione nei limiti della semplice ragione» ed in altre piccole trattazioni. Noi ci attendevamo di meglio da Voi, e Voi stesso dovete vedere come Voi vi comportate in modo inescusabile contro il Vostro dovere come maestro della gioventù e contro le nostre intenzioni paterne a Voi ben note. Noi attendiamo da Voi una pronta e coscienziosa giustificazione e ci attendiamo da Voi, sotto pena della nostra altissima disgrazia, che Voi per l’avvenire non vi renderete più colpevole di queste cose e piuttosto applicherete la vostra fama e i vostri talenti a far sì che le nostre paterne intenzioni siano attuate; nel caso contrario, se Voi continuerete a mostrarvi renitente, dovrete attendervi spiacevoli provvedimenti. Assicurandovi della nostra grazia, ecc.». (Simultaneamente tutti i professori dell’Università di Koenigsberg dovevano obbligarsi per iscritto a non far lezione sulle teorie religiose di Kant).
A questo rescritto che venne trasmesso privatamente a Kant, Kant rispose con una giustificazione, la quale venne da lui stesso pubblicata quattro anni dopo, morto il re, nella prefazione alle «Dispute delle facoltà» insieme col rescritto reale: il governo prussiano aveva evidentemente sentito vergogna del suo provvedimento e non aveva osato renderlo pubblico.
Ecco la risposta di Kant:
«Graziosissimo re, ecc. La vostra altissima maestà con ordine giuntomi il 12 ottobre m’impone come devono dovere in primo luogo di giustificarmi per via dell’abuso della mia filosofìa nel travisare e deprimere, ecc.; in secondo luogo di non ricadervi più in avvenire. In riguardo ad entrambi i punti pongo ai piedi della Vostra Maestà la prova della mia devota obbedienza per mezzo della seguente dichiarazione: — Quanto al primo punto la mia coscienziosa giustificazione è questa: che io, come maestro della gioventù, cioè nelle lezioni accademiche non abbia mai introdotto, nè potuto introdurre alcun giudizio sulle Scritture e sul Cristianesimo, lo provano i manuali, su cui si regola la mia esposizione: perchè non ricorre mai nemmeno il titolo della Bibbia e del Cristianesimo da me usati nelle lezioni di Baumgarten, come quelli e, come libri filosofici, non vi deve ricorrere: e quanto al difetto di scorrazzare fuori dei limiti della mia scienza, o di confonderla con altre, esso non potrà certo venir rimproverato a me che anzi l’ho sempre biasimato e messo in guardia contro di esso.
Nemmeno io ho mancato contro le paterne intenzioni della M. V. a me ben nota con l’offendere la religione pubblica dello stato come maestro del pubblico nei miei scritti e specialmente nella «Religione, ecc.»: il che già risulta che quel libro non è un libro di propaganda, anzi è per il pubblico un libro chiuso, inintelligibile; esso si riferisce solo ad una discussione fra dotti, a cui il pubblico non prende parte, ma che le Facoltà sono libere di giudicare secondo la loro miglior scienza e coscienza. Sono soltanto i maestri pubblici (nelle scuole e sui pulpiti) che sono legati al risultato di tali discussioni in quel senso che l’autorità sanziona come il più conveniente per l’esposizione al pubblico, e invero perchè non hanno essi stesso creato a sè la loro fede religiosa, ma l’hanno ricevuta traverso l'esame e gli adattamenti delle facoltà e ciò competenti (le teologica e la filosofica). È perciò che l’autorità, non solo deve permettere questo esame, ma dovrebbe anzi esigere che essi portino a conoscenza del governo tutto quanto essi reputano utile in rapporto alla religione dello stato. Nel detto libro poi io non ho eccitato al disprezzo del Cristianesimo perchè non contiene alcun apprezzamento dello stesso; ma solo un apprezzamento della religione naturale. È stata la citazione di alcuni passi biblici, da me addotti a confermare dottrine della religione razionale, che ha dato luogo a questo fraintendimento. Ma già il prof. Michaelis (orientalista e teologo di Gottinga 1717-1791) che usò dello stesso procedimento nella sua Morale filosofica, chiarì che egli non voleva con ciò nè introdurre la Bibbia nella filosofia, nè ricavare la filosofìa dalla Bibbia, ma soltanto chiarire e confermare i suoi principii razionali con l’accordo (reale o preteso) col giudizio di altri. E se la ragione a questo proposito si esprime come se bastasse a sè e la rivelazione fosse inutile (ciò che, obbiettivamente inteso, sarebbe veramente un deprezzamento del Cristianesimo) questo non è se non l’espressione del suo apprezzamento di sè stessa; apprezzamento che riflette, non la sua potenza teoretica, ma le sue prescrizioni pratiche, in quanto da esse solo procedono l’universalità, l’unità e la necessità dei precetti della fede che ne costituiscono la parte essenziale e cioè dei precetti morali; laddove ciò che abbiamo ragione di credere per prove isteriche (sul qual punto non può parlarsi di dovere) cioè la rivelazione, è da considerarsi come una dottrina in sè accidentale, e perciò non essenziale. Il che non vuol dire che essa venga giudicata inutile e superflua, perchè essa serve a completare le deficienze teoretiche della fede razionale, che questa ben riconosce, per esempio nelle questioni sull’origine del male, del passaggio dal male al bene, sulla certezza dell’uomo di essere giunto allo stato ultimo, ecc., e coopera più o meno, secondo le circostanze dei tempi o delle persone, a soddisfare questo bisogno della ragione.
Io ho mostrato la mia grande stima per le dottrine bibliche del Cristianesimo tra il resto anche con la dichiarazione contenuta nel detto mio libro, con la quale ho celebrato la Bibbia come il libro che è, e sarà ancora per tempo incalcolabile, il mezzo migliore per la fondazione e la conservazione di una religione positiva veramente salutare e per l’istruzione religiosa; ed ho biasimato l’immodestia di quelli che levano obbiezioni e dubbi nelle scuole, sui pulpiti o in scritti popolari (perchè nelle Università ciò deve essere lecito) contro i suoi misteri teoretici. E questa non è ancora la maggior prova che ho dato di stima per il Cristianesimo. Perchè la concordanza sua che ivi ho messo in luce con la fede morale razionale più pura, è la sua migliore e più sicura lode: perchè è questa concordanza non l’erudizione storica, che sempre di nuovo ha restaurato il Cristianesimo degenerato e che ancora lo restaurerà in casi analoghi che non mancheranno.
Come poi io sempre e sopratutto ho raccomandato ai seguaci di ogni altra fede la più scrupolosa sincerità nel non formulare ed imporre ad altri come articolo di fede se non ciò di cui sono certi, cosi mi sono sempre figurato di avere in me stesso questo giudice, sempre presente ai miei fianchi nella redazione dei miei scritti: per tenermi lontano non solo da ogni errore funesto, ma anche da ogni espressione inconsiderata che potesse urtare altri: in modo che anche ora, nel mio settantunesimo anno quando è vicino il pensiero di dovere fra non molto rendere conto di tutto questo a quel giudice che scruta i cuori, posso con animo tranquillo presentare questa richiesta giustificazione come conforme alla coscienziosità più scrupolosa.
Quanto al secondo punto di impegnarmi a non travisare e deprimere il Cristianesimo, per togliere anche il più lontano sospetto, prometto solennemente, come fedele suddito di V. M. di astenermi completamente (sia nelle lezioni, sia negli scritti) dall'occuparmi di religione, tanto della religione naturale, quanto della rivelata. Con profonda devozione, ecc.».
Su questa risposta di Kant molto si è discusso e sono stati numerosi quelli che hanno veduto in questa condotta una deferenza eccessiva verso il potere e verso l'ortodossia. Questo riflette esclusivamente il secondo punto: perchè quanto al primo (cioè all’autodifesa) Kant è stato fermo al suo posto: il punto di vista che egli espone, a propria difesa, è, sia pure detto con molto riguardo, quello che troveremo nei suoi scritti quando dovremo discutere del suo atteggiamento in riguardo alla rivelazione. Qui egli non ha rinnegato vilmente la sua dottrina, come per esempio il suo collega Hasse, ma l’ha nobilmente difesa.
Su questo primo punto si è osservato piuttosto che la sua difesa era abile in qualche punto più che sincera. Per esempio che egli seguisse i manuali di Baumgarten è vero, ma con una libertà tale che era come se non li seguisse: che il suo libro non era destinato solo ai dotti: che in realtà egli considerava ogni religione rivelata come una necessità per i deboli di spirito.
Tutto questo in fondo è in parte vero: solo in parte: e per questa parte non mi sembra ne venga a Kant alcun biasimo.
Come giudicheremmo la condotta di Kant se avesse dichiarato apertamente che egli teneva la rivelazione in genere come un’illusione necessaria nell’infanzia dello spirito?
Si tratta qui di una questione morale delicata e profonda: da quale parte sta una più nobile motivazione? La questione era, la grave questione, dell’obbedienza alle leggi inique. Secondo Kant l’uomo deve sempre obbedire alla legge — dico alla legge — anche se iniqua: perchè negare la legge è negare per principio l'ordine sociale. S’intende che entro i confini di questa obbedienza formale non solo è lecito, ma è doveroso indirizzarsi secondo quelle regole che sono sopra le leggi stesse.
Vedasi per esempio la condotta di Kant rispetto all'assurda legge che imponeva ad ogni professore un manuale.
Ora Kant in tutti questi casi rispettò formalmente la legge: e di questo solo era debitore al suo sovrano. Secondo quale spirito poi vi avesse obbedito, di ciò doveva rispondere solo alla sua coscienza ed a nessun altro.
Questo viene anche più chiaramente in luce nel secondo punto, la promessa di non più pubblicare o insegnare di religione — come suddito di Sua Maestà —. Questa aggiunta era destinata a salvare la sua coscienza nel caso che avesse dovuto cessare di essere suddito prussiano o nel caso, che si avverò il 10 novembre 1797, di un cambiamento di sovrano. Che cosa dobbiamo pensare di questa promessa? Lasciamo stare il paragone con Fichte nel 1799: la condotta di Fichte in quella circostanza non mi sembra gli torni troppo ad onore. Questo anzitutto è certo che Kant non fece tale promessa per viltà o paura. Non solo nelle nelle lettere, ma anche nei colloqui con il suo biografo Borowski, egli conversava con grande tranquillità; con questi esprimeva l’eventualità di dover rinunciare al suo posto e osservava con soddisfazione che la sua parsimonia e la sua economia lo metteva fuori del bisogno di strisciare dinanzi ai potenti. Anche qui il motivo vero è il suo rispetto socratico per l’ordine e per la legge.
Già prima che il conflitto sorgesse, egli aveva dichiarato che egli avrebbe sempre obbedito alle leggi quando però non gli avessero ordinato cose contrarie ai suoi principi: anche se gli avessero vietato di esporre pubblicamente questo principio. Ciò che prova che egli non ritenne come un dovere assoluto l’insegnare la verità. «Rinnegare le convinzioni proprie, scrive Kant in un appunto, è cosa bassa: tacerle in circostanze come le presenti, è dovere di suddito. Perchè se bisogna sempre dire il vero, quando si parla, ciò non vuol dire che sia sempre un dovere parlare e dire pubblicamente la verità».
Questo contiene un ammaestramento profondo. Spesso il voler parlare ad ogni costo è un’ostentazione che non ha tanto per fondamento il sincero desiderio di giovare agli altri, quanto la vanità personale. Chi conosce gli uomini, come li conosceva Kant, sa che essi non meritano in generale e per la maggior parte, che si apra la bocca per loro: non è questo un motivo che possa entrare in considerazione quando si deve decidere se si deve o non si deve parlare. Il filosofo è debitore della verità, quando pensa e quando parla, a sè stesso in prima linea: la decisione è un atto della sua vita interiore del quale egli solo è giudice. La condotta di Kant, dati i motivi che l’ispirano, è più nobile quindi di qualunque gesto teatrale.
E che egli continuasse a fare ciò che la coscienza sua esigeva, lo dimostra la sua condotta. Dopo la lettera al re e prima del novembre 1797, egli pubblicò la Metafisica dei costumi, nella quale sono trattate liberamente anche questioni religiose. Sopratutto manteneva tutta la sua libertà nel campo politico continuando a non far mistero delle sue simpatie per la rivoluzione francese, i cui eccessi giudicava insignificanti di fronte al dispotismo anteriore: e nel 1795 pubblicava il suo scritto sulla pace perpetua nel quale fa uso della più perfetta libertà di giudizio.
La «Religione» ci è stata conservata nel manoscritto. Per la prima sezione abbiamo il manoscritto stesso che fu presentato alla censura: non è di mano di Kant, ma di mano sua sono le correzioni e la fine: porta il vidit del censore Hiller. Per la 2ª e 4ª sezione abbiamo il manoscritto che fu presentato alla Facoltà filosofica di Jena (ora in possesso della Biblioteca di Koenigsberg): anch’esso non è di mano di Kant e porta il «Vidit» di Henning. Fu pubblicata come si è detto, nel 1793 e la 2ª edizione nel 1794: ma vi sono altre riproduzioni posteriori con la data del 1793, dello stesso secolo. Nel 1796 apparve un sunto quasi letterale col titolo Kants Teorie d. sein moral. Religion, ecc. tradotta anche in francese (1842). Delle edizioni posteriori noteremo solo: l’ed. Reclame (1879); l’ed. della Philos. Bibliothek per cura di Vorlaender, (1903); l’ed. dell’Accademia di Berlino che si trova nel vol. 10° delle opere, p. 1-202.
Traduzione francese del Trullard, 1891 (pessima) del Tremesaygues, 1912. Traduzione latina, nelle Opere, 1797, vol. II, p. 347-555.
Io mi propongo di esaminare la sua filosofia religiosa: le opere capitali in cui essa è contenuta sono la Critica del giudizio (1790) e lo scritto sulla «Religione nei limiti della semplice ragione» (1793). Il pensiero kantiano è essenzialmente un pensiero religioso ed un pensiero critico: questi sono i due caratteri veramente essenziali ed inseparabili dalla speculazione kantiana. La quale fin dalle origini è diretta, non a fondare la scienza od a penetrare i problemi ultimi di questa realtà: per quanto essa prenda le mosse dall'esame del sapere e si avvolga nei più aridi problemi della gnoseologia e della logica, pure essa è fin dall’inizio diretta a indirizzare Io spirito dell’uomo alla realtà ed ai problemi della vita religiosa. I suoi biografi hanno messo in luce le influenze religiose che ha potuto ricevere dall’ambiente pietistico nel quale si svolse la sua fanciullezza, dall’indirizzo pietistico del Ginnasio fridericiano; ma la radice vera del carattere religioso della sua filosofia è più profonda, è nella sua intima personalità. Il pietismo potè svolgere in lui l’innato misticismo morale: ma d’altra parte con le sue degenerazioni devote provocò anche in lui una reazione che si manifesta nei suoi effetti per tutta la vita.
È noto infatti che Kant tenne sempre un’attitudine sprezzante verso le varie forme di misticismo; non frequentò mai la chiesa, non apprezzò la preghiera. Verso l’elemento storico della religione fu in fondo ostile: è sintomatico che egli non nomina mai Gesù altrimenti che con delle perifrasi. Le influenze di ambiente hanno potuto quindi modificare qualche suo atteggiamento parziale: ma il fondamento vero del carattere religioso della filosofìa kantiana è nella personalità religiosa di Kant stesso.
Il problema primo da cui parte la speculazione kantiana ha un presupposto religioso. È noto che la grande preoccupazione di Kant è fin dalle origini questa: come riformare la metafìsica? Ed in ciò non lo muove un puro interesse teoretico. I problemi metafisici non sono soltanto problemi indeclinabili per ogni spirito profondo, ma sono anche connessi con gli interessi morali e religiosi dell’umanità. La morale, per esempio, è, nella pratica questione di carattere e di educazione; ma una teoria che ne distrugga le fondamenta, è, a lungo andare, una corrosione anche per la vita morale. Ora in nessuna parte nei vediamo tanta incertezza, tanta fragilità, quanto nelle dottrine metafisiche.
Le diverse religioni e le diverse filosofie vanno a gara, ciascuna alla sua volta, nella pretesa di dare all’uomo un fondamento assoluto: e tuttavia noi vediamo nella loro vanità e variabilità la più chiara smentita a questa loro pretesa.
Le grandi religioni storiche si contraddicono e si perseguitano: il loro sussistere è dovuto a cause esteriori e sociali, non alla solidità della loro dottrina che è generalmente sprezzata dagli spiriti più chiaroveggenti. Questi vi sostituiscono le filosofie: e qui abbiamo una varietà ed una variabilità anche maggiori. Il compito essenziale della filosofìa è pertanto, secondo Kant, quello di trovare la ragione di questo fatto, d’istituire una analisi critica di questo preteso sapere metafìsico, e di restaurare, sulle sue basi, una concezione duratura sulla quale l’umanità possa fondare le sue aspirazioni più vitali.
Abbiamo già qui, benché affinata da secoli di speculazione, l’aspirazione platonica, se non verso una realtà, verso un sapere definitivo: il vero interesse della critica è un interesse religioso. E se anche Kant non crede che il sapere ci riveli una realtà assoluta, egli trova questa realtà per altra via, per mezzo della coscienza morale: la morale kantiana è una morale religiosa, anzi una religione morale. Con ciò voglio dire che se pure egli riduce essenzialmente il contenuto della religione quasi esclusivamente all’attività morale, questa però riceve un carattere decisamente religioso: l’uomo retto serve Dio con la pratica della moralità allo stesso modo che l’asceta crede di servirlo con la rinunzia ai beni della terra: vale a dire con la stessa volontà immutabile perchè fondata sulla comparazione del transitorio e dell’eterno.
L’avversione che egli sente per il naturalismo e per il fatalismo (spinoziano) è l’avversione d’uno spirito religioso verso le concezioni irreligiose: e lo stesso suo disprezzo per tutte le credenze superstiziose è anch’esso una manifestazione della sua religiosità. Non dobbiamo perciò meravigliarci se i critici che impresero a darci la storia dell’evoluzione religiosa nel senso del pensiero kantiano, debbono riconoscere che in lui non vi è in fondo alcuna variazione sensibile: dai primi scritti precritici alla «Religione» scritta quasi quarantanni dopo, abbiamo uno svolgimento, un approfondimento; ma il contenuto essenziale è sempre lo stesso. La filosofia religiosa dei suoi ultimi scritti è, non soltanto la conclusione, ma il presupposto implicito di tutta la sua attività filosofica.
D’altra parte il pensiero di Kant è un pensiero rigidamente critico, razionalistico; egli crede che il rinnovamento sperato debba operarsi appunto con una specie di nuova rivoluzione cartesiana, con un rigoroso esame di tutti i presupposti del sapere da parte della ragione, d’una eliminazione, in ogni campo, del dogmatismo. In questo egli segue la via tracciata dal razionalismo del XVIII secolo, ma con risultati ben diversi e più profondi.
Il razionalismo propriamente detto respinge (come il criticismo) l’elemento tradizionale e dogmatico: ma quando è giunto dinanzi a quelle che esso considera come le verità cardinali della morale e della religione, le stabilisce come i risultati supremi della ragione; è un dogmatismo attenuato, ma è sempre un dogmatismo. Esso crede nella potenza della ragione; crede di potere per mezzo di essa stabilire un certo numero di verità obbiettive, sui problemi ultimi, che costituiscano la «Religione naturale».
Nel che erra doppiamente: in primo luogo in quanto anche queste verità non hanno quel fondamento razionale assoluto che esso crede: e in secondo luogo in quanto, appunto perciò, sono principii fragili, artifìciosi, facile preda dello scetticismo e del naturalismo. Kant invece, nel suo esame critico radicale delle facoltà conoscitive umane arriva a questo risultato: che il sapere nostro è sempre, anche nelle sue conclusioni più alte, legato alle condizioni del nostro essere sensibile, e perciò incapace di rivelarci obbiettivamente la realtà soprasensibile; ma che d’altra parte, analizzando la sua costituzione, siamo da esso stesso rinviati, almeno negativamente, verso una realtà soprasensibile come verso il suo necessario fondamento.
E questa conclusione negativa è poi confermata positivamente, secondo Kant, sebbene senz’alcun frutto per il nostro conoscere, dalla nostra attività morale che è rivelazione pratica di quel soprasensibile a cui il conoscere già ci rinvia negativamente. Questo è pertanto un riconoscimento sicuro ed incrollabile della verità fondamentale di ogni concezione religiosa: vi è un mondo trascendente. È vero che, negando la possibilità di determinarlo positivamente, Kant abbatte d’un colpo solo tutte le pretese verità positive delle varie religioni: ma appunto con questa negazione di ogni pretesa d'una conoscenza obbiettiva che trascende il fenomeno, sono anche abbattute tutte le negazioni dogmatiche del naturalismo irreligioso. E con la sua concezione del fatto morale, Kant pone questo riconoscimento della realtà religiosa al di sopra d’ogni indagine storica, di ogni esame scientifico, d’ogni controversia filosofica: nel fatto morale abbiamo il fatto originario della ragione, la rivelazione del soprasensibile a sè stesso. D’altra parte è anche il riconoscimento che in qualunque modo noi esprimiamo questa verità originaria, noi la esprimiamo sempre in forma puramente umana.
Essa è presente al nostro spirito; ma come un sole misterioso che è al di là dell’orizzonte, che ci illumina e ci guida senza rivelarsi mai: ogni raffigurazione sua per opera della ragione è solo un artificio nostro che può aver valore pratico, ma non ci dà nessuna conoscenza obbiettiva assoluta. Non abbiamo quindi una costellazione eterna di verità uguali per tutti: e nemmeno tuttavia siamo abbandonati in preda ad un relativismo scettico senza speranze. Noi siamo sempre in cammino: ma la meta invisibile ci guida ad un indirizzo sicuro. Noi non vedremo mai l’eterno faccia a faccia, perchè siamo uomini; nessuna definizione, nessun principio, nessuna rivelazione potrà mai operare questo miracolo. Ma ogni rivelazione ed ogni principio potrà essere per noi un’espressione, meno inadeguata, dell’inesprimibile; e così un appoggio, un aiuto pratico nell’incessante progredire.
Come prima conseguenza di questa concezione critica della religione abbiamo che essa non pretende di sostituire nessuna nuova fede, nessun nuovo simbolo a quelli che già esistono, — nel senso almeno ch’essi vogliono essere una fede ed un simbolo. Kant accoglie e fonda il pensiero che si era già fatto strada fin dal rinascimento, e che Lessing esprime nel suo Nathan: le varie rivelazioni non sono nè pure verità nè puri deliramenti dello spirito umano: sono la rivelazione graduale, ma imperfetta sempre, della ragione. Ed anche quando esso formula, nei cosidetti postulati della fede morale, le verità religiose essenziali, il criticismo sa di dare ad esse una espressione soggettiva e puramente umana, che non può pretendere ad un valore obbiettivo. La differenza capitale fra questa espressione e le altre sta in questo: che essa sa di essere un travestimento umano della verità eterna, a noi inaccessibile nella sua purezza. Questa coscienza della sua relatività non toglie affatto ad essa il suo valore: l’eterno se non è presente in noi nella sua natura perfetta, è presente in noi come guida, come criterio che c’illumina sulla via da seguire.
Anche l’uomo retto sa di non possedere la bontà assoluta di cui non può farsi un’idea • ma sa tuttavia stabilire la gradazione della vita morale e non crede per questo (come credevano gii stoici) che, fuori del saggio perfetto, tutti siano egualmente peccatori. Anzi: questa coscienza della relatività sua è precisamente il carattere distintivo della religiosità critica, che conferisce ad essa il suo valore e la pone infinitamente al disopra di tutti i dogmatismi. È un vero passaggio ad una forma nuova della vita religiosa. Finché l’uomo crede di essere in una verità assoluta, conoscibile e partecipabile, egli è ancora nel seno della superstizione: la religiosità filosofica, razionale, veramente umana, comincia appunto con questa coscienza che le formule in cui essa racchiude la sua fede è soltanto un tentativo umano, il più alto forse, ma sempre ancora umano, di esprimere l’inesprimibile.
Una seconda conseguenza è questa: che se pure essa dà alla sua concezione il nome di «fede» questa fede non è una fede che deve essere creduta, accettata per autorità, ma deve essere costruita dall'individuo a sè stesso. In un suo programma Kant ha detto che egli si proponeva d’insegnare a filosofare, non d’insegnare una filosofìa. Anche Kant sapeva che non si può insegnare a filosofare se non sul fondamento di una filosofia personale: ma questa sua filosofia personale voleva essere mezzo, non fine. Cosi la sua filosofia religiosa non vuol imporre, al posto della religione dogmatica, rivelata, una determinata fede: ma vuole indirizzare ciascuno a costruirsela. Questo non vuol dire che fine suo sia uno sfrenato subbiettivismo. È una contraddizione accusare di subbiettivismo chi rinvia ogni uomo alla ragione, al lume divino che parla nella sua coscienza: perchè questo è uno in tutti. Ciò che divide gli uomini sono le passioni, le ambizioni, l’elemento terreno che essi mescolano alle loro controversie religiose e filosofiche: la loro coscienza profonda invece li unisce. E perciò vi è nelle filosofie una specie di unità interiore meravigliosa non voluta, nè cercata; così nelle religioni. E perciò il rinviare l’uomo alla sua ragione non vuol dire bandire la tradizione: anche nella filosofia non è possibile vero svolgimento personale senza possesso della tradizione, nella quale parla alla ragione individuale la ragione collettiva. Il rinviare l’uomo alla sua fede personale non vuol dire perciò isolarlo violentemente dalla collettività e dalla tradizione: che anzi quanto più egli penetrerà in essa profondamente, tanto più sentirà i vincoli che lo legano al passato e troverà in essa il fondamento della comunione religiosa con gli altri uomini che si trovano allo stesso livello culturale. Vi sarà la stessa unità: ma unità interiore e libera invece dell’unità forzata delle chiese: come nella morale e nel diritto.
Soltanto egli non attingerà più questa coscienza dalla comunione storica di una tradizione ristretta: egli sentirà la sua comunione con la ragione di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Quindi sarà cristiano o buddista secondo la tradizione culturale da cui proviene: ma cristiano nel senso in cui l’anima nostra è naturaliter cristiana. Riconoscendo il valore relativo dei suoi simboli, non sarà mai tanto cristiano da sprezzare per questo il buddismo, nè tanto buddista da odiare per questo il cristianesimo: dappertutto dove vi è una sincera espressione della vita religiosa, egli sentirà qualche cosa di universale e di umano.
Non vi è nessuno che non veda quale senso di umanità e di tolleranza discenda da questo spirito: quel memorabile senso di fraternità per cui nel primo congresso delle religioni, nella seduta di chiusura, il 27 settembre 1823, i rappresentanti di tutte le religioni, e tra essi anche prelati cattolici, poterono associarsi al Padrenostro recitato da un rabbino, è una manifestazione di questo spirito. Ciò non è, come spesso si dice, spirito d’indifferenza: perchè anzi nessun’esigenza è più essenziale per lo spirito religioso che il dare un’espressione simbolica al proprio pensiero ed alla propria attività religiosa.
La tolleranza filosofica non è indifferenza filosofica: un vero spirito filosofico non può sottrarsi all’esigenza di formulare a sè con chiarezza la sua visione delle cose ed avere in essa la fede più ardente, pur sapendo che non vi è una filosofia assoluta e pur nutrendo sensi di simpatia e di rispetto per le altre filosofia. La stessa concezione cristiana del resto è stata il risultato del sincretismo ellenistico. La religiosità critica impone perciò l'esigenza d'una coltura religiosa personale fondata sulla conoscenza storica della vita religiosa di tutta l’umanità, non di una tradizione sola: ciò che non è in contraddizione con la fedeltà ai simboli della religione propria, ma anzi concorre a dare ad essi un significato sempre più universale e più profondo.
L’attuale interesse per la storia delle religioni, l’aspirazione sincera di molte anime religiose verso una conciliazione delle varie confessioni, i tentativi ripetuti di costruire sulla base di questa penetrazione reciproca delle vere religioni sincretistiche, come per esempio la teosofia, sono manifestazioni diverse di questa universalizzazione critica della religione. Però, quanto a questi ultimi tentativi, bisogna notare che essi, pur cercando di elevarsi al disopra della ristrettezza delle religioni storiche, non si elevano sopra il loro punto di vista dogmatico. Essi vogliono stabilire nuovi dogmi al posto dei dogmi antichi: ciò che è forse una catena più leggera e più lunga, ma è sempre una catena: ora ciò che lo spirito critico vuole è la liberazione da ogni catena. L'atteggiamento dello spirito di fronte ad essi, non può essere che quello stesso di Kant rispetto a Swedenborg: d’una simpatia ironica.
La concezione di Kant era in molti punti affine a quella di Swedenborg, anzi ne ricevette forse influenze abbastanza notevoli: ma differisce in un punto: in questo cioè che Swedenborg credeva di aver trovato un sistema di verità assoluta, mentre Kant sapeva che non ci sono per voi verità assolute, e che la concezione di Swedenborg non era, per quanti meriti potesse avere, sotto questo rispetto che un’illusione nuova aggiunta alle antiche.
Ciò che vi era di repellente per Kant non erano le visioni soprannaturali, che si potevano spiegare con anomalie personali, ma le sue concezioni dogmatiche circa lo spirito, Dio, l’al di là e simili.
Questa medesima attitudine — di simpatia ironica — è quella che lo spirito critico assume di fronte alle grandi religioni storiche ed ai loro dogmi. Poiché Kant riconosce che l’espressione data dalla filosofìa alle verità religiose è solo un postulato pratico, vale a dire un’espressione relativa, umana, che si accetta e si fissa per le esigenze della direzione pratica della vita, come la più alta espressione possibile per noi uomini, nel nostro momento storico; la distinzione di valore tra questa espressione e quella fissata nei sistemi dogmatici delle religioni positive, è una distinzione del tutto relativa. La verità espressa razionalmente (il più che sia possibile) in quella deve trovarsi anche qui: ma in altra veste. Di qui il senso di simpatia che non possiamo non sentire per tutte le convinzioni religiose sinceramente professate: alle quali non possiamo negare il nostro rispetto e la tolleranza più delicata. Il vero carattere distintivo della religione critica sta nella coscienza della sua relatività — e della relatività di tutti i sistemi dogmatici. È appunto il contrasto fra questa chiara, sicura coscienza della relatività di tutti questi sistemi e la loro sicurezza dogmatica — frutto dell’assenza più completa di ogni spirito critico — che fa nascere quel lieve senso di compatimento ironico, al quale anche Kant non si sottrae quando parla del Cristianesimo e delle sue diverse confessioni. È un poco l’atteggiamento di un uomo di fronte ad un bambino, che non può ancora comprendere tutto, ma che bisogna educare perchè arrivi a comprendere.
E questo è l’atteggiamento pratico del pensiero critico di fronte alle religioni pratiche. Kant sa benissimo che la veste che esse impongono alle verità religiose è una necessità relativa allo stato di minorità intellettuale in cui vivono quelli per cui esse sono fatte : per essi le verità essenziali devono essere travestite nella forma di rivelazione soprannaturale, perchè le accettino. E così deve essere. Soltanto il pensiero critico deve cercare di illuminare poco per volta non solo i gregari, ma anche e più, i dirigenti, perchè essi dirigano lo svolgimento nel senso della maggiore razionalità possibile, anche se questa dovrà restare pur sempre un ideale.
Ma è appunto in questa funzione della religiosità critica che hanno origine i dolorosi conflitti attraverso i quali si svolge la vita religiosa. Non è facile strappare l’uomo ai suoi errori ed alle sue illusioni, quando egli ha con esse intrecciato la sua vita: per questo il predicare la verità è sempre un’opera odiosa e pericolosa. Inoltre l’uomo volgare rilutta in fondo, specialmente nelle cose della religione, alla libertà, all’obbligo di dirigersi da sè col proprio intelletto .
La pigrizia e la viltà trattengono i più da questo atto: essi amano stare sotto tutela. E naturalmente quelli che li guidano e ne ritraggono compensi materiali o ideali, cooperano a tenerli in questo stato e non vedono con occhio benigno gli sforzi di quelli che vorrebbero educare gli uomini a guidarsi nelle cose della religione col proprio intelletto. E in questo conflitto si trovò avvolto anche Kant, per effetto appunto della pubblicazione della sua «Religione». Le diverse condizioni storiche possono dare un’estensione maggiore o minore a quest’azione dello spirito critico sulle religioni storiche e ai doveri che ne derivano per i filosofi. Noi vedremo la soluzione che da Kant a questi problemi dello spirito: soluzione improntata ad uno spirito di moderazione e di tolleranza e nel tempo stesso al senso più rigido dei diritti che ha l’uomo alla libertà dello spirito.
Del resto non sono questi, come parrebbe, i problemi più essenziali per lo spirito religioso. I grandi rivolgimenti esteriori non sono in ultima analisi (come anche Kant accenna nel suo scritto «Sulla fine del mondo» 1794) che traduzioni simboliche dei soli avvenimenti veramente importanti che sono i processi della vita interiore. I contemporanei di Cristo attendevano un rinnovamento radicale delle cose, un rinnovamento apocalittico: e tuttavia noi vediamo ora chiaramente che questa loro immaginazione non era se non la traduzione simbolica di un fatto morale: e cioè della estrema corruzione morale del loro tempo e dell’esigenza d’una rinnovazione radicale. Ma questo rinnovamento era tutto interiore: la fine del mondo non ha luogo per una catastrofe fisica, ha luogo per una palingenesi morale, quando il mondo cessa di esistere, di aver valore per noi, di essere il mondo del nostro io. Da questo punto di vista, e il progresso e i rivolgimenti esteriori non debbono essere considerati che come mezzi della nostra vita morale e religiosa.
Il fine nostro essenziale non è di convertire intorno a noi il mondo, ma di convertire noi stessi: la prospettiva di operare intorno a noi nel nostro mondo non è che una illusione sempre rinnovata la quale non ha altro senso che questo: che noi dobbiamo mirare sempre ad elevare noi stessi, e che la stess’azione sugli altri non è che un dovere subordinato, il quale ha la sua giustificazione e il suo fondamento nel dovere essenziale della nostra perfezione: di fronte alla quale dobbiamo considerare tutto il resto soltanto come un mezzo provvidenziale. Qualunque cosa avvenga intorno a noi, la via ci è sempre chiaramente segnata dalla coscienza nostra migliore: e quando noi ne ascoltiamo la voce, quello che avviene a noi è sempre il meglio che ci possa avvenire.
Laddove la conoscenza e la scienza si aggirano sempre ancora nel mondo dei fenomeni, per la vita morale noi abbiamo una partecipazione diretta al mondo intelligibile: una partecipazione di una natura particolare certamente, per cui noi partecipiano ad essa solo praticamente, in quanto tutto l’insieme delle nostre tendenze sensibili è subordinato per una esigenza assoluta ad una legge che è la legge naturale dell’intelligibile, e per noi legge morale. Per quanto limitata sia questa partecipazione essa è tuttavia già la rivelazione di una realtà superiore nella quale ci si rivela un valore che trascende qualunque realtà sensibile, ed alla quale sentiamo d'appartenere per il profondo e il più vero essere nostro. Noi sentiamo allora di essere destinati per un mondo tutt’altro dal presente, che tuttavia sappiamo di non poter conoscere nè determinare coi nostri concetti, che sono interamente attinti, quanto alla materia, dall’esperienza sensibile. La morale è per Kant una metafisica, ma una metafisica «oscuramente pensata».
Nonostante la certezza critica che questa realtà è negata alla nostra conoscenza, noi non possiamo rinunziare in qualche modo a concepirla ed a pensarla: ossia a formarcene un concetto, che sappiamo essere inadeguato, ma che ci serve ad averlo presente nelle questioni pratiche. In che rapporto sta, noi ci chiediamo e dobbiamo chiederci, questa realtà col problema della morte? E poiché la realtà intorno a noi ci dà tanti e continui esempi del prevalere delle forze irrazionali nella natura e nella storia, dell’indifferenza della natura al bene e al male, come si concilia questo con la nostra affermazione? Io ho bisogno quindi di poter pensare in qualche modo questa realtà non per poter dire che cosa è in sè, ma che cosa è in rapporto a me ed al mio destino: nel quale riguardo non importa se i concetti sono inadeguati, purché rispetto alle esigenze della mia vita morale, possa per mezzo di essi esprimere e fissare ciò che queste esigenze vogliono che questa realtà sia per me.
Se per la validità delle esigenze morali io debbo pensare che questa realtà deve manifestare rispetto a me quel carattere di bontà che io trovo qui sulla terra solo nel padre, non importa che io sappia che questo carattere è ancora inadeguato: esso esprime imperfettamente, ma esprime qualche cosa che è in Dio: perciò io posso chiamarlo Padre. Questo è il conoscere che Kant chiama analogo e simbolico: il complesso di queste conoscenze analogiche rispetto alla realtà trascendente, che sono praticamente necessarie alla nostra vita morale, è da Kant chiamato fede morale.
Abbiamo anche veduto che cosa intenda Kant per fede.
Kant distingue tre forme di conoscere: l’opinabile, il sapere, il credibile. L’opinare è un conoscere subbiettivamente ed obbiettivamente incerto; il sapere è un conoscere subbiettivamente ed obbiettivamente certo; la fede è un conoscere subbiettivamente certo, sebbene obbiettivamente incerto. Ma perchè un conoscere obbiettivamente incerto può essere subbiettivamente certo ?
Qui interviene qualche cosa che corrobora la nostra convinzione: non un fattore teoretico (che dovrebbe allora trasformare tale conoscere in sapere), ma un fattore pratico.
Nella Critica della ragion pura Kant distingue la fede in pragmatica e morale. Quando noi dobbiamo prendere una decisione pratica, dobbiamo spesso anche decidere sul valore teoretico di circostanze relative al nostro agire, pur avendo coscienza dell’insnfficienza teoretica dei dati sui quali decidiamo. Che questa estate vi sarà un cattivo raccolto, è un’opionione più o meno fondata; se vengono geli a distruggere irremissibilmente un raccolto, diventa un sapere; ma anche senza questa certezza può essere una fede (pragmatica) pel mercante che deve decidersi se ha da comperare o no. Nella Critica del giudizio Kant riferisce la fede pragmatica anche al sapere: in fondo è un opinare che poi diventa sapere o che può diventare sapere, o che potrebbe diventarlo in date circostanze (per esempio l’esistenza di abitanti nei pianeti).
Ad ogni modo la fede in vero e proprio senso è la fede morale. In essa lo spirito, pur avendo coscienza dell’insufficienza del fondamento teoretico delle sue conoscenze, conferisce a queste una validità obbiettiva assoluta per il fatto che tali conoscenze sono corollari necessarii della legge morale, al cui valore assoluto anch’esse partecipano.
Intendendo la fede come abito, disposizione dello spirito, essa è la disposizione dello spirito a tener per vero ciò che è necessario supporre come condizione della realizzabilità della nostra attività morale; è una confidenza nelle promesse della legge morale che non viene dalla legge stessa, ma che noi vi aggiungiamo perchè crediamo nella sua realizzabilità nel mondo. Noi vedremo ulteriormente meglio, parlando della prova morale dell’esistenza di Dio, il carattere di questa fede : essa è quindi un atto morale libero, che completa l’obbedienza alla legge morale, senza farne parte in modo immediato. Non vi è un imperativo che ci dica: credi: ma lo spirito profondamente morale sente di dover credere: per quanto si possa pensare uno spirito morale che, non illuminato ancora dalla critica, atterrito dalle incertezze della metafìsica, oscilla tra la convinzione pratica ed il dubbio teoretico. È in verità il primo atto della vita religiosa che corona la vita morale ed inizia una nuova vita.
La fede morale, in quanto è fondata sulla ragion pratica, ha un’assoluta certezza: essa non potrà mai convertirsi in sapere, ma non potrà mai nemmeno essere scossa da alcun progresso del sapere nelle scienze. Gli oggetti della fede morale non polendo essere oggetti di sapere, non possono esserlo nemmeno di verosimiglianza o di opinione: circa il soprasensibile non vi può essere sapere e nemmeno un mezzo sapere.
Le nostre immaginazioni circa il soprasensibile o sono finzioni o sono fede: in esse noi possiamo distinguere la finzione oggettiva dalla fede, che è certezza assoluta: quando parliamo di opinioni, in questo campo, opinione significa finzione. (Critica del giudizio, parag. 91).
La fede morale non deve essere quindi confusa con la fede storica che è relativa a fatti storici, che possono essere oggetto di sapere e perciò è in realtà opinione, che soltanto la credulità trasforma in fede. In un senso certamente la fede storica può aver diritto al nome di fede: in quanto essa è nella maggior parte dei casi una fede morale ancora non bene conscia della sua natura, che pone come condizione indeclinabile della legge ciò che invece non sta con essa in alcun rapporto essenziale: di ciò vedremo trattando dell’elemento storico nella religione e del suo rapporto con la religione razionale pura, il cui credo fondamentale è costituito appunto dalla fede morale. Pur ammettendo quindi il valore della fede storica come fede, è chiaro che ciò che in essa ha valore, è la fede morale in essa oscuramente implicata; e che il criterio e la ragion d’essere di ogni fede storica è la fede morale.
Quando perciò si rinnega la ragione (e con essa la fede morale) per porre al suo posto come assolutamente valida una fede storica qualunque, oppure si dice che la ragione per sè condurrebbe allo scetticismo e si pretende di correggere la ragione con l’intuizione, il sentimento, ecc., si apre la porta ad ogni specie di fanatismo o d’aberrazione. Per questo Kant, pure riconoscendo i limiti della ragione, che solo come ragion pratica può determinare per noi in modo del tutto umano la realtà soprasensibile, insiste neH’affermare energicamente che essa è il nostro solo strumento per elevarsi al di sopra della realtà sensibile e il nostro solo criterio che ha nella sua universalità e necessità la garanzia della sua obbiettività.
Ogni pretesa di vedere al di là della ragione, con l'intuizione geniale e simili, conduce in fondo alla negazione della ragione e poi per questa via alla superstizione ed alla servitù spirituale. Il geniale, quando è veramente tale, dice cose conformi alla ragione, ma pretende dirle in virtù di una illuminazione particolare e contesta l’autorità della ragione. Questo è il misticimo. Esso apre naturalmente la via all’arbitrio ed alle fantasie personali: la sicurezza è cercata allora in documenti storici, in una fede storica: allora abbiamo la superstizione. La reazione alla superstizione getta lo spirito nell’estremo opposto, nell'incredulità: la quale conduce al suo solito effetto, alla dissoluzione dei vincoli sociali. Allora interviene lo stato che con la sua logica grossolana considera come radice del male la libertà di pensare: la libertà di pensiero è finita. Kant aveva di mira nelle sue considerazioni sul misticismo sopratutto i nuovi filosofi dell’intuizione, il cui rappresentante è Jacobi, il «philosophus per inspirationem» (1743-1819): ma le sue considerazioni hanno ancora un valore attuale. Certo egli è andato forse troppo oltre nella sua reazione contro il misticismo che aveva in orrore: ma in questo aveva ragione, che tutto quanto possiamo aspirare a sapere (in qualsiasi modo) circa le cose ultime, solo la ragione può dircelo: che anche la nostra fede deve essere una costruzione della ragione e in armonia con la ragione: e anche quando crediamo di abbandonare la ragione per seguire non so quale sorgente più alta di sapere, non facciamo in fondo che metterci in contraddizione con la ragione e con noi stessi ed apriamo le porte ad ogni forma di decadenza spirituale.
La fede morale comprende, secondo Kant, tre posizioni fondamentali, che corrispondono alle tre idee .della ragione: e che qui assumono, a differenza di queste, una determinazione positiva fondata sulle esigenze della legge morale: appunto per ciò sono chiamate postulati della ragion pratica. La posizione loro è fondata sulle esigenze razionali della moralità: è una conseguenza necessaria della legge morale. Però il fatto medesimo che esse sono fondate su di un’esigenza pratica assoluta (non su d’un fondamento teoretico) implica che non possono, quanto al loro contenuto positivo, venir erette in verità teoretiche assolute senza ricadere in quelle contraddizioni da cui appunto la critica ci ha liberati. Si tratta di verità certamente, ma di verità alle quali noi non possiamo dare un’espressione logica adeguata : esse hanno valore teoretico solo come negazio/ ne (come idee della ragione), e come negazione gravide d’un senso positivo, che noi non possiamo tuttavia rendere esplicito. Perciò quando noi, come qui, le rivestiamo d’una forma positiva, dobbiamo sempre essere memori che questa forma serve soltanto a tenerci presente allo spirito una verità trascendente e non deve essere intesa in senso assoluto. La tripartizione del contenuto della fede morale procede dalla tripartizione delle idee: i tre postulati sono: l’immortalità, la libertà, resistenza di Dio.
Un accenno ad un mutamento in questo punto abbiamo nella Critica del giudizio dove la libertà è posta come una verità di fatto (dell’ordine razionale, s’intende) (Critica del giudizio, ed. Vorl., pag. 358, 361 s) e i tre oggetti della fede morale sono: il bene supremo, l’immortalità e l’esistenza di Dio. Sul bene supremo che secondo Kant è l’accordo delle leggi della moralità con la felicità, dovremo ritornare parlando della cosidetta prova morale dell’esistenza di Dio. Ad ogni modo, anche come innovazione formale, questa modificazione alla teoria dei postulati che troviamo nella Critica del giudizio non è del tutto felice e noi possiamo attenerci qui alla forma classica della teoria, come ricorre nella Critica della ragion pratica, sempre ricordando del resto — come si è già osservato in riguardo alla tripartizione delle idee — che qualunque classificazione non ha qui nessuna portata essenziale.
Come le tre idee, così i tre postulati non esprimono in realtà che un’unica esigenza: l’esigenza della posizione d’una realtà trascendente. La quale non solo dev’essere un’unità assoluta fuori della quale nulla assolutamente è (postulato dell’assistenza di Dio), ma deve anche essere un'omnitudo realitatis, nella quale non vengono annullati, ma anzi potenziati in tutta la loro perfezione tutti i momenti essenziali della realtà (e perciò anche il mio come volontà buona) (postulato della immortalità); i quali momenti sono in essa come in una perfetta identità d’essere e perciò sono in essa come unità libere ed autonome (il postulato della libertà).
L’ordine nel quale tentiamo questa determinazione del trascendente, è perfettamente indifferente: noi possiamo perciò serbare l’ordine adottato da Kant, solo tenendo presente che si tratta in realtà dei varii aspetti dell’unico postulato della ragione.
IL POSTULATO DELL’IMMORTALITÀ
Il primo di questi postulati è il postulato dell’immortalità: che è l’affermazione, in forma teoretica impropria, di un’esigenza necessariamente connessa con la legge morale. Questa non avrebbe senso se non dovesse essere perfettamente realizzabile dall’uomo: il minimo precetto morale può avere la sua ragion d’essere solo nella realizzazione della moralità completa, cioè della santità. Ora sarebbe assurdo ed anche immorale ammettere che questa santità (nel senso kantiano) sia conseguibile nell’esistenza presente. Se si tien conto della severità e delle esigenze della perfezione morale, l’ammettere la possibilità d’una acquisizione perfetta della santità è un ammettere nella natura umana possibilità che essa non possiede.
Generalmente si costituisce allora la perfezione morale, una perfezione presente che è cercata in stravaganze ascetiche o mistiche: questa perfezione immaginaria ha il solo risultato di fare perdere di vista il compito essenziale dell’uomo che è l’osservanza puntuale e perfetta della legge umana. Per rendere all’uomo possibile la conquista della santità, si rappresenta artificiosamente la legge come indulgente ed adatta ai nostri comodi e si fa balenare la speranza nell’indulgenza di Dio e nella remissione dei peccati: cose del tutto inconciliabili con la sua giustizia. Quindi una vera santità è conquistabile solo in una esistenza avvenire; anzi poiché nessun essere finito può essere veramente capace d'una santità perfetta, essa è conseguibile solo in una infinita serie di esistenze future: che sarà anche un progresso infinito verso la santità.
Avvertiamo subito che l'immortalità cosi concepita non è una rappresentazione teoreticamente sostenibile: anzitutto essa ha di mira soltanto il nostro avvenire e tace del nostro passato.
Se noi costruiamo ora qui il nostro avvenire spirituale, ciò implica che il nostro presente sia la creazione di un passato che si estende indefinitivamente dietro di noi: ma questo praticamente non ci interessa e perciò è lasciato da parte. Di più s’intende da sé che un’immortalità che si estende nel futuro come una successione infinita di esistenze, non può essere presa in senso assoluto. Kant si esprime a questo riguardo ben chiaramente là dove dice: «L’Infinito, Dio, per cui non esiste la condizione dei tempo, vede in questa successione per noi infinita, la conformità perfetta con la legge morale: e la santità, che la sua legge inflessibilmente esige, Egli la trova completamente in un'unica intuizione intellettiva dell’esistenza degli esseri razionali». (Critica ragion pratica , ediz. Vorl., pag. 157). Che cosa vuol dir questo? Vuol dire che l’esigenza dell’immortalità più rigorosamente espressa dice che ogni essere razionale, nella sua più perfetta realtà, in quando cioè con la provata volontà di progredire costantemente si è liberato dalla limitazione e dalle imperfezioni dell’esistenza empirica, è un momento eterno della vita divina ed ha in Dio il suo fondamento. Questo dice assai più che ogni rappresentazione antropomorfica d’una immortalità futura.
Ma questa rappresentazione è necessaria alla nostra concezione umana: essa contraddice direttamente ad ogni concezione materialistica della vita umana ed esprime nel modo più adatto per noi la convinzione incrollabile di ogni spirito retto, che questa vita è soltanto la preparazione d’un'esistenza più alta: quando naturalmente si tenga lontano da questa rappresentazione ogni elemento superstizioso, per cui è posto nell’eternità ciò che è proprio solo della realtà sensibile.
La rappresentazione d’una successione infinita di esistenze future concilia queste due esclusioni: con la sua posizione d’un al di là esclude la tesi materialistica, con la sua posizione d’una purificazione infinita esclude la concezione superstiziosa d’una eternità del nostro essere empirico. Ma naturalmente è solo una rappresentazione simbolica: e quando venisse presa in senso proprio ci avvolgerebbe in un’infinità di questioni insolubili ed assurde. Il che non toglie che noi non possiamo accoglierla come la migliore rappresentazione approssimativa d’una realtà a noi non rappresentabile nella sua natura assoluta: e che noi ce ne possiamo servire come di una direttiva pratica per la nostra vita morale.
Accogliere questa rappresentazione vuol dire determinarla, vestirla di particolari: cosi si costituisce anche nel suo travestimento simbolico la fede personale, ed ogni sogno in questo campo è lecito purché: 1) sia una conseguenza delle esigenze della ragione e non si ponga con esse in contraddizione; 2) non sia convertito in un dogma teoretico.
Verso quale sogno inclinasse Kant, appare con una certa trasparenza dalle sue Lezioni sulla Metafisica (ediz. Pölitz., trad. fr. 1843, pag. 341-342), dove cita con approvazione il pensiero di Swedenborg. Egli era decisamente contrario al concetto dell’immortalità della nostra personalità empirica, la quale non potrebbe essere sorgente per noi che di un tedio infinito. La nostra personalità empirica si trasmuta continuamente e con essa si trasmuta il nostro mondo: la cui costituzione è condizionata dalla natura dell’intuzione di cui la personalità nostra è dotata. Qui, per noi questa intuizione è l’intuizione sensibile nello spazio e nel tempo, principio della rappresentazione nostra del mondo sensibile. La morte è una crisi per cui ha luogo un mutamento nelle forme dell’intuizione, per cui sono tolte l’intuizione e la realtà sensibile ed è sostituita ad esse l’intuizione che Kant dice spirituale. Non bisogna certo credere che per questa intuizione noi arriviamo al contatto con la realtà assoluta : ciò contraddirebbe al concetto sovraesposto di una infinità di esistenze: è una nuova forma d’intuizione che crea una nuova esistenza, un nuovo mondo. Per i buoni è un mondo spirituale migliore, un paradiso, per i reprobi un mondo spirituale peggiore, un inferno.
«L’altro mondo NON è un altro luogo, ma un’altra intuizione... L’anima ha ora per mezzo del corpo un’intuizione sensibile del mondo spirituale; quando sia liberata dall’intuizione sensibile del corpo, essa avrà un’intuizione spirituale: in ciò consiste l’altro mondo. Quando s’entra nell’altro mondo, non s’entra in comunione con altre cose, per esempio con altri pianeti: perchè con essi siamo già ora in rapporto anche se lontano; ma si resta in questo mondo con la differenza che si ha delle cose un’intuizione spirituale. Quindi l’altro mondo non è distinto da questo quanto al luogo: il concetto di luogo qui non ha valore. Onde ancora, nè lo stato di beatitudine, cioè il cielo, nè lo stato di miseria, ossia l’inferno, debbono essere creati in questo mondo sensibile. Se io sono stato qui un uomo onesto e dopo la morte, per l’intuizione spirituale, entro in comunione con gli altri spiriti buoni, allora sono nel cielo. Ma se per effetto della mia condotta entro a far parte della comunione degli esseri, la cui volontà contrasta ad ogni legge morale, allora sono nell’inferno».
Kant si richiama qui per questa concezione a Swedemborg di cui trova «sublime» il concetto che noi siamo già qui nel cielo o nell inferno e la morte non fa che togliere il velo che ce lo nasconde. Già in questa vita, oltre al rapporto locale e temporale, le anime stanno fra di loro in una specie di comunione dipendente soltanto dalla natura morale. Le condizioni della vita sensibile ci impediscono di vederci in questa comunione. Quando queste condizioni sono tolte, allora ci vediamo in questa comunione: questo è «l’altro mondo».
«Quando un uomo è giusto nel mondo, egli è già in questo mondo in comunione con tutte le anime rette e buone, anche «e esse siano nell'India o nell’Arabia; solo egli non si vede in questa comunione, finché non è liberato dall’intuizione sensibile. Così il malvagio è qui in comunione con tutti i malvagi che si odiano: solo egli non si vede in questa comunione, finché non è liberato dall’intuizione sensibile. Perciò ogni buona azione degli animi retti è un passo verso la comunione dei beati, come ogni cattiva azione è un passo verso la comunione dei dannati. E perciò i buoni non salgono al cielo, ma già vi sono: per quanto debbano vedersi in questa comunione solo dopo la morte. Così i malvagi non si vedono nell’inferno, sebbene già vi siano: quando saranno liberati dal corpo, allora vedranno dove sono. Terribile pensiero per lo scellerato! Non deve egli temere ogni momento che gli occhi dello spirito, gli siano aperti? Ed appena gli sono aperti, egli è nell’inferno» (loc. cit., pag. 342).
Non si può negare che questa concezione, riferita da Kant con evidente approvazione non contenga in sè vedute profonde, che sono forse la rappresentazione meno inadeguata di ciò che è il nostro destino dopo la morte. Essa è pero ben lungi dal soddisfare il nostro desiderio di conoscere qualche cosa circa il nostro destino oltremondano: e più che una concezione filosofica sembra una semplice interpretazione filosofica delle rappresentazioni religiose comuni. Possiamo noi dire qualche cosa di più? Prima di rispondere dobbiamo ricordare che non si tratta qui di tessere dei sogni, che sarebbero semplici nozioni, ma di svolgere le esigenze necessarie della legge morale.
Queste esigenze possiamo raggrupparle intorno a tre punti. Il primo è che il problema dell’avvenire spirituale si riferisce a tutti i principii senzienti che sono nel mondo sensibile: il riferire all’uomo questo privilegio è un grossolano antropocentrismo. Tutti gli esseri che fanno parte della realtà sensibile appartengono ad un ordine morale: questo solo è la ragion d’essere della manifestazione sensibile. Ora da questo punto di vista l’intelligenza e le sue opere non hanno che un valore del tutto secondario: ciò che decide è il valore morale: e sotto l’aspetto morale la rassegnazione e la mitezza con cui l’animale sopporta il suo destino può stare a pari di qualunque valore morale umano. Assurdo sarebbe certo estendere questo privilegio a tutti gli esseri animali: ma egualmente assurdo sarebbe estenderlo a tutti, anzi anche solo alla maggior parte degli individui umani. Se le sofferenze inique e crudeli a cui una gran parte degli animali è soggetta non avessero alcun senso, ciò sarebbe nel più alto grado inconciliabile con la giustizia e la bontà divina.
Un secondo punto è quello che l’escatologia indiana esprime nella legge del merito: le volontà buone proseguiranno il loro cammino verso la perfezione, la bontà, la realtà : le altre seguiranno la via che esse medesime hanno tracciato a sè durante la vita presente, verso l’imperfezione e l’irrealtà. Bisogna a questo riguardo eliminare un modo di concepire questa degradazione, verso il quale inclina anche Kant, e che non è se non una manifesta reviviscenza mitica. La realtà più alta verso la quale ci rinvia la legge morale è la realtà intelligibile, che è pura da ogni imperfezione sensibile: la sua più profonda realtà è sinonimo di perfezione e di bontà. Noi non possiamo perciò pensare il destino del malvagio come un destino che si svolge nel soprasensibile; esso ha il suo luogo naturale nell’ordine sensibile e negli ordini inferiori al sensibile che noi non possiamo immaginare. Ora nel regno sensibile l’ordine spaziale e temporale non ammette altra continuità che quella del divenire sensibile, fisico: esso è il regno della vanità, della dissoluzione, della morte. Quale sia il destino del malvagio noi non possiamo sapere: ma questo sappiamo, che esso non è l’immortalità, non è la partecipazione all’ordine soprasensibile, che è privi legio della volontà buona, la quale ha superato la natura.
Un terzo punto è questo: che noi non dobbiamo pensare la partecipazione alla vita intelligibile come una continuazione della nostra esistenza individuale. Non solo dobbiamo escludere il concetto di continuazione, ma anche quello dell’individualità, che è connesso con la nostra realtà fisica, e inadeguato.
Anche qui la vita morale è già costituzione di unità morali in cui l’individuo si confonde senza perdersi: per esempio nella vita della famiglia.
Dio non è semplicemente il luogo degli spiriti, ma è la loro unità: non è senza profondità il concetto dei kabbalisti (adottato da Swedenborg) che riferisce a Dio la forma della persona umana: con che essi adombrano l’alto concetto che Dio è l’unità nella quale si raccolgono come in una personalità altissima tutti gli spiriti. Come in questa unità superiore e alla fine in Dio si raccolgano tutte le vite spirituali che qui hanno avuto un palpito di vera bontà e che hanno associato il loro destino con la vita delle cose eterne, noi naturalmente non sappiamo, ed è inutile costruirsi a questo riguardo delle finzioni. Questo solo sappiamo, che ciò che era degno di vivere, vivrà. Queste sono le linee sommarie secondo le quali ci è dalle esigenze morali imposto di pensare la vita futura. Esse per sè non ci danno alcuna rappresentazione definita: non sono che delle direzioni, ed in questo sta la loro verità. Per avere una rappresentazione definita noi dobbiamo naturalmente incarnarla in una qualche finzione: la quale non è che un compromesso soggettivo, un sogno che noi ci tessiamo per rappresentarci in qualche modo il non rappresentabile.
Da ciò il carattere di serietà profonda e nello stesso tempo d’ironia che troviamo in Kant, come già in Platone, rispetto a queste finzioni.
Spesso (dice il biografo Jachmann) Kant si esprimeva con commozione intorno alla speranza di una vita migliore. E qualche volta con leggero scherzo accennava alla gioia che avrebbe provato di rivedere il suo vecchio Lampe e tante altre persone care e scomparse.
Un ultimo punto ci rimane a toccare: che cosa pensava Kant e che cosa dobbiamo pensare noi del rapporto nostro con il regno dell’invisibile? Kant si è espresso abbastanza chiaramente a questo riguardo nel suo scritto su Swedenborg. Una mescolanza dell’intelligibile col sensibile non è pensabile: la mia coscienza spirituale (come Kant si esprime) e la mia coscienza sensibile non possono avere alcuna interferenza, perchè la prima trascende assolutamente la sfera del sensibile. Questo non vuol dire, possiamo aggiungere noi, che il regno degli esseri intelligibili ci resti compieta-mente straniero: noi pure veniamo con esso a contatto come esseri morali: ed è appunto sotto questo rispetto che noi possiamo riceverne l’azione. Questo coincide del resto con la fede istintiva di tutti gli spiriti più nobili: secondo la quale gli spiriti migliori, liberati da questo mondo, sono ancora, in questo senso, in comunicazione con noi, sebbene noi non ne abbiamo alcuna rappresentazione possibile. Per esempio, un biografo di Benedetto Cairoli riferisce ch’egli asseriva, con accento che non ammetteva dubbio, che nei momenti gravi della vita assorto in un raccoglimento intenso egli parlava con i suoi cari estinti e ne ascoltava gli ammonimenti e i consigli. Certo in tali casi avveniva in lui un fenomeno psichico di straordinaria efficacia, perchè la sua volontà si manifestava allora con ferrei propositi, come una deliberazione immutabile. Ma questo vuol dire che ogni pretesa comunicazione per forme sensibili è un’illusione superstiziosa.
Kant si trovava dinanzi al fenomeno singolare dello Swedenborg, che costituiva un problema difficile e singolare. Ma anche per lo Swedenborg Kant non accoglie altra soluzione. Egli ammette che per una costituzione tutta sua particolare le influenze spirituali si traducessero in immagini sensibili, ma considerava questo fatto come dovuto ad una costituzione squilibrata: le pretese visioni non sono tanto una rivelazione dell’inconoscibile quanto un indice della mentalità di colui che pretende di averne il privilegio. Questo naturalmente non implica che tutti i fatti della cosidetta psicologia occulta si debbano ridurre ad illusioni di menti squilibrate: noi neghiamo soltanto che essi costituiscano delle rivelazioni circa il mondo spirituale trascendente. Del resto noi sappiamo bene che la scienza della realtà spirituale è ancora nella sua infanzia: da questo punto di vista non vi è dubbio che molti fenomeni che oggi vengono considerati come meravigliosi appariranno, come oggi già i fenomeni del magnetismo animale, fenomeni normali di un ordine oggi a noi quasi totalmete ancora ignoto.
IL POSTULATO DELLA LIBERTÀ
Noi abbiamo già veduto che il concetto della libertà è un’esigenza immediata della legge morale: per questa sua immediatezza (per quanto empiricamente noi non troviamo in noi la libertà) Kant pone nella Critica del giudizio la libertà come un fatto della ragione, non come un postulato. Sotto questo riguardo avremmo qui nella posizione della libertà, come postulato della ragion pratica, una semplice ripetizione che non mancherebbe di creare qualche imbarazzo architettonico, e questo è ben stato avvertito dagli interpreti della morale kantiana (vedi per es. Messer, Kants Ethik, 1904, pagina 92-95). Ma su questo punto dobbiamo fare due osservazioni. La prima è che la difficoltà procede unicamente dalle complicazioni sistematiche non essenziali in cui Kant rinserra il suo pensiero. Sostanzialmente il postulato della libertà non differisce dagli altri due; l’affermazione della libertà è anch’essa un’affermazione che consegue dalla legge morale, — che è il solo fatto immediato della ragione — ma non la condiziona affatto: essa costituisce con gli altri due postulati quell’estensione metafisica della ragion pratica unica nel suo complesso, che è la posizione d’una realtà ideale assoluta. Quindi la duplicazione è soltanto nella forma disgraziata dell’esposizione.
La seconda è che in ogni caso non si tratta in realtà di una semplice ripetizione: non si tratta della semplice posizione della mia libertà morale, ma della posizione di un mondo di esseri liberi, di un regno di esseri ideali, di esseri razionali puri, la cui legge naturale è ciò che per noi è la libertà. Per un uomo solo non ci sarebbe alcuna possibilità di vita morale.
Il secondo postulato viene perciò a dire essenzialmente questo: che esigenza indeclinabile della nostra attività morale è la possibilità d’un commercium di esseri spirituali e liberi del quale anche noi facciamo parte. Noi sappiamo bene dalla critica dell’esperienza che ogni divenire empirico e perciò anche la nostra attività (in quanto anch’essa è tale) è causalmente concatenata; ma nello stesso tempo ancora che tutta questa concatenazione è puramente fenomenica, non è in sè qualche cosa d’assolutamente reale, anzi mi rinvia ad un fondamento assoluto, che noi non possiamo conoscere, ma non dobbiamo confondere con la sua manifestazione fenomenica. La coscienza della legge morale dà un contenuto positivo (sebbene inadeguato) a questa concezione teoretica negativa: mentre la ragion teoretica ci dice solo che il fondamento assoluto di tutta la serie causale dei miei atti deve essere in qualche cosa che non è soggetto alla legge causale; la ragion pratica rappresenta questo fondamento assoluto come un principio razionale libero, di cui tutto il nostro operare è soltanto la espressione fenomenica. Qui dobbiamo richiamare quanto si è a questo proposito detto in riguardo al problema della libertà, alle oscillazioni, alle oscurità che esso ci presenta in Kant. Ad ogni modo però questo è fermo; che noi non possiamo pensare la nostra vita morale se non come la manifestazione d’un principio intelligibile libero, il quale resta per noi sempre trascendente ed è solo impropriamente pensato come un soggetto razionale autonomo: che la vita morale è possibile solo per via del rapporto d’una molteplicità di soggetti razionali liberi: e che perciò essa ci rinvia, come a proprio fondamento, alla posizione di un mondo intelligibile di esseri liberi, di soggetti razionali, che è il vero mondo spirituale.
Kant chiama nella Critica della ragion pura questo mondo il mondo morale che è una specie di corpus mysticum degli esseri razionali, il cui libero volere costituisce una perfetta unità sistematica. Kant richiama altrove anche la denominazione leibniziana di «regno della grazia» per opposizione al regno della natura, in quanto esso è un mondo di esseri razionali viventi sotto il governo di Dio: ma in fondo anche questa denominazione non aggiunge molto alla semplice caratterizzazione negativa.
Nei «Sogni d’un visionario» Kant delinea meglio questo «regno della grazia»; sebbene egli tratti l’argomento quasi con leggerezza ed ironia, quasi come un sogno senza consistenza, pure in esso si tradisce senza dubbio la sua fede personale.
Esso comprenderebbe in sè tutte le intelligenze create, tanto quelle unite col corpo in forma umana, quanto quelle incorporee e tutti i principii spirituali della natura; tutti questi esseri spirituali starebbero fra di loro in una comunione conforme alla loro intima natura, la quale comunione è nell’esistenza sensibile in gran parte celata e snaturata dai grossolani rapporti della forma sensibile. Noi qui possiamo avere di questa comunione solo presentimenti e partecipazioni formali: e la vita morale è già, nel seno stesso della vita sensibile, l’indirizzo verso questa comunione spirituale e la rivelazione parziale della sua legge. Ma il termine, verso cui la nostra vita è diretta, è la pienezza di questa comunione degli spiriti: il mondo, di cui la stessa vita morale è una preparazione, è l’ideale d’una repubblica perfetta di spiriti razionali e liberi.
IL POSTULATO DELL’ESISTENZA DI DIO
Per l’esistenza di Dio dobbiamo qui premettere anzitutto quanto già si è detto circa l’immortalità: che non può trattarsi di una dimostrazione teoretica. Kant aveva già sottoposto a sagace critica le cosidette prove dell’esistenza di Dio nel suo breve scritto: «L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio» (1763); nel quale tuttavia cerca di stabilire una dimostrazione derivata dal concetto del possibile.
Ma già nella conclusione traspare un’attitudine quasi scettica circa la costruzione sua: «ciò che è assolutamente necessario è di persuadersi dell’esistenza di Dio: non altrettanto necessario invece è il dimostrarla». Pochi anni dopo l'atteggiamento suo è profondamente mutato: nei «Sogni di un visionario» (1766).
La parola «sommo bene» può avere due sensi: il bene più alto e il bene più completo. Il primo è la legge morale. Ma la legge morale non è ancora il bene completo : è qui che Kant fa o sembra fare una concessione legittima all’esigenze sensibili. Per noi uomini, esseri sensibili, il bene più alto deve, per essere il bene completo, dare soddisfazione — entro i limiti della legge — alla natura sensibile, cioè deve completarsi con la felicità.
Il bene completo deve comprendere la virtù come condizione prima, la felicità come conseguenza necessaria. Ora non vi è nella legge morale il minimo fondamento per un accordo necessario fra la moralità e la felicità: questi due concetti non stanno fra di loro in un rapporto necessario. Kant critica nella Critica della ragion pratica tanto gli Epicurei quanto gli Stoici che, da due punti di vista opposti, cercavano d’assimilare i due concetti: nè la felicità contiene la virtù, nè la virtù contiene la felicità.
Tuttavia la ragione esige quest’unione — almeno idealmente: noi dobbiamo seguire la legge morale, ma per la connessione necessaria che la ragione vede tra i due concetti sovraccennati, tale proposizione può anche suonare così: noi dobbiamo cercare di realizzare il bene supremo (il bene completo). La possibilità del bene supremo è quindi un principio sintetico a priori pratico (è l’unico dei due concetti, imposto a priori dalla ragione pratica). Noi dobbiamo perciò pensare la natura come concordante con il nostro fine morale: e quindi dobbiamo postulare l’esistenza d’una causa della natura la quale deve poter armonizzare la natura con la legge, deve quindi operare mirando al fine assoluto che non soltanto non crede sia necessario, ma non crede sia possibile dare una dimostrazione di questo genere: la Critica della ragion pura (1781) è la condanna definitiva d’ogni teologia naturale e in genere d'ogni pretesa di voler sapere o dimostrare qualunque cosa relativamente alla realtà trascendente.
L’esistenza di Dio non può essere oggetto che di fede razionale: vale a dire non può essere posta che come un presupposto necessario della ragion pratica. Nè questo deve parere una concessione allo scetticismo: la fede in Dio cosi stabilita è sicuramente stabilita al di sopra d’ogni sapere, d’ogni discussione teoretica; di più con essa è tolta la base a tutte quelle aberrazioni della ragione che essa, una volta posto il suo diritto a decidere teoricamente sul trascendente, non poteva evitare con gave danno della religione stessa.
Kant chiama questa la dimostrazione che l’esistenza di Dio è un presupposto della ragion pratica «prova morale dell’esistenza di Dio» : basta ricordare in che senso è una prova. In che cosa essa consiste? La coscienza morale per sè sola non esige affatto che noi usciamo da noi per porre una causa divina del mondo: la legge vale per sè, assolutamente. Ma quando noi ci consideriamo come esseri del mondo, allora dobbiamo porre il nostro essere morale, la legge come fine ultimo anche delle cose del mondo: ed allora nasce l’esigenza di pensare la natura come obbediente anch'essa alla legislazione morale e di cercare la causa della possibilità di questo accordo in una causa suprema intelligente. Vi è un ordine ideale (la legge) e un ordine reale (la natura): è necessaria una potenza che sottometta questo a quello. Kant ha formulato questo passaggio anche in altro modo, che però ha esposto la sua dottrina ad accuse (nella sostanza non fondate) di ritorno larvato all’eudomonismo. E’ qui che Kant fa intervenire il concetto del «sommo bene».
La parola «sommo bene» può avere due sensi: il bene più alto, il bene più completo. Il primo è la legge morale. Ma la legge morale non è ancora il bene completo: è qui che Kant fa o sembra fare una concessione legittima alle esigenze sensibili. Per noi uomini, esseri sensibili, il bene più alto deve, per essere il bene completo, dare soddisfazione — entro i limiti della legge — alla natura sensibile, cioè deve completarsi con la felicità.
Il bene completo deve comprendere la virtù come condizione prima, la felicità come conseguenza necessaria. Ora non vi è nella legge morale il minimo fondamento per un accordo necessario fra la moralità e la felicità: questi due concetti non stanno fra di loro in un rapporto necessario. Kant critica nella Critica della pratica tanto gli Epicurei quanto gli Stoici che, da due punti di vista opposti cercavano di assimilare i due concetti: nè la felicità contiene la virtù, nè la virtù contiene la felicità.
Tuttavia la ragione esige quest’unione — almeno idealmente: noi dobbiamo seguire la legge morale, ma per la connessione necessaria che la ragione vede tra i due concetti sovraccennati, tale proposizione può anche suonare così: noi dobbiamo cercare di realizzare il bene supremo (il bene completo). La possibilità del bene supremo è quindi un principio sintetico a priori pratico (è l’unico di due concetti, imposto a priori dalla ragione pratica). Noi dobbiamo perciò pensare la natura come concordante con il nostro fine morale: e quindi dobbiamo postulare l’esistenza d’una causa della natura la quale deve poter armonizzare la natura con la legge, deve quindi operare mirando al fine assoluto che è il fine della legge (il bene supremo). Questa causa deve quindi essere una volontà intelligente, cioè Dio: Perciò è moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio.
Non si può negare che questa esposizione presta il fianco alla critica: si ha qui, almeno in apparenza, l’intrusione illegittima del concetto di felicità. Ma se noi cerchiamo di penetrare a fondo il pensiero di Kant, vediamo che questa intrusione può essere evitata. Infatti nella nota contenuta nella prefazione alla «Religione nei limiti della semplice ragione» la teoria del bene supremo ha un altro aspetto. La legge morale (è detto ivi) è una legge a priori che s’impone all’uomo per reverenza, fatta astrazione da ogni fine: un puro intelletto non avrebbe bisogno d’altro per agire moralmente. Ma l’uomo per la sua limitazione sensibile ha bisogno di rivolgere sempre la sua attività a qualche fine, ha bisogno di amare e desiderare qualche cosa: il complesso di questi fini è per lui la felicità. Perciò anche quando opera moralmente, tende sempre verso qualche cosa — che pur viene subordinato alla legge. Il bene supremo non è che il complesso dei fini sensibili in quanto subordinato, nella sua totalità, alla legge morale. In esso la ragione va oltre al concetto della semplice legge: collegando a priori il concetto della legge con il concetto di tutti i fini’ possibili dell’uomo, giunge al concetto del bene supremo, cioè del complesso dei fini d’una volontà traducente nel mondo la legge morale.
E nelle Lezioni di filosofia della religione leggiamo: «se vi è un essere supremo, che può e vuole renderci felici e se vi è un’altra vita, il nostro sentimento morale ne è consolidato».
E nella Critica del giudizio dobbiamo anche richiamare quel notevole e bellissimo passo in cui mostra come sarebbe terribile la nostra vita morale se noi non fossimo convinti dell’esistenza d’un ordine morale che comprende tutto, anche la natura.
«Supponiamo un uomo giusto (per es. Spinoza) il quale è fermamente convinto che non vi è Dio e che non vi è vita futura: come egli giudicherà la sua determinazione interiore per opera della legge morale, che egli praticamente onora? Egli non attende per sè dall’ubbidienza sua alcun vantaggio, nè in questo, nè in un altro mondo: egli vuole praticare disinteressatamente il bene che quella santa legge propone come fine a tutte le sue attività. Ma il suo sforzo è limitato: egli può trovare qua e là nella natura un concorso accidentale, non mai però un accordo regolare e costante con quel fine, che egli pure si sente obbligato a perseguire. La frode, la violenza e l’invidia trionfano intorno a lui, benché egli sia onesto, mite e benevolo: ed i giusti nei quali s’incontra, per quanto meritino la felicità, dalla natura, che a ciò non bada, vengono esposti come gli altri animali della terra a tutti i mali del bisogno, della malattia e della morte prematura e così rimangono, finché una vasta tomba tutt’insieme, giusti ed ingiusti li inghiotte e li rigetta, — essi che credevano di essere il fine della creazione — nell’abisso e nel caos cieco della materia dal quale erano sorti. Così quest’uomo virtuoso dovrebbe abbandonare com'impossibile il fine che si era proposto e doveva proporsi nell'adempimento della legge morale: o se vuole restare fedele alla voce interiore della sua destinazione morale e non indebolire il rispetto che immediatamente gli inspira la legge morale, dovrà raccogliere almeno sotto il rispetto pratico, l’esistenza di un autore moraie del m< ndo, cioè di Dio». (Critica del giudizio, ediz. Vorl., pag. 323-324).
Se noi esaminiamo con un poco d’attenzione questi vari punti, vediamo anzitutto che il concetto di felicità non deve essere inteso nel senso eudemonistico: la felicità è qui semplicemente la possibilità della realizzazione dell’ordine morale (il regno di Dio): ciò che certamente sarebbe per il giusto la felicità (non però nel senso eudemonistico).
In secondo luogo dobbiamo ben precisare il rapporto di questa «felicità» con la moralità e ricondurre al loro giusto valore quei passi nei quali Kant dichiara che l’esigenza del bene supremo è inseparabilmente connessa con la legge, la quale, se il bene supremo fosse impossibile, sarebbe rivolta a fini impossibili, e perciò falsa. Anche Kant riconosce che per obbedire alla legge morale non è necessario riconoscere Dio: il credere in Dio è un bisogno della ragione, non è un dovere.
Chi non credesse in Dio sarebbe tenuto egualmente all’osservanza della legge; egli opererebbe il bene, ma disperatamente. Chi opera moralmente è quindi tratto a credere in Dio e in un ordine divino anzitutto per un’esigenza logica: non è possibile pensare una legge di valore assoluto, senza pensare che nell’ordine reale delle cose essa sia la legge universale della realtà. Inoltre per un’esigenza pratica: ciò che impone a noi il rispetto della legge è il suo carattere assoluto: noi non potremmo ammettere una limitazione che sarebbe in contraddizione con questo carattere e quindi anche col rispetto che noi professiamo per la legge. Ora certo anche una contraddizione simile non toglierebbe il valore della legge: ma creerebbe in noi una contraddizione dolorosa, oltreché teoreticamente assurda.
La fede nell’immortalità e nell’esistenza di Dio sono corollarii teoretici necessarii della nostra coscienza morale: per quanto uniti con la chiara conoscenza della loro insufficienza teoretica. La loro negazione sarebbe lo stabilimento d’una contraddizione teoretica anche praticamente dolorosa.
Nello stesso ordine di idee è già volta la conclusione dell’operetta «I sogni di un visionario» con lieve accentuazione scettica.
Anche lì Kant nega che la conoscenza dell’immortalità e dell’esistenza di Dio sia il fondamento della vita moale: che anzi è il contrario. Certo nessun animo ben fatto s’arresta al pensiero che tutta la realtà sia quella che è chiusa in questo mondo: ma non è questo il motivo del suo bene operare. Vi è nel cuore dell’uomo una legge immediata che non fa appello ad alcun al di là. Chi è virtuoso solo per i premi e le pene del-l’al di là ama i vantaggi della virtù, ma odia la virtù. «Ma non vi è stata mai un’anima ben fatta, la quale potesse sopportare il pensiero che con la morte tutto sia finito e il cui nobile sentimento non si sia elevato alle speranze dell’al di là. Onde sembra più conforme alla natura umana ed alla purezza morale lo stabilire la speranza di un mondo futuro sui sentimenti di un animo retto, che fondare la condotta buona sulla speranza di un altro mondo».
Questa esigenza, che si traduce per noi nel postulato della esistenza di Dio, è in fondo quella stessa che diede origine alle religioni.
«Appena gli uomini cominciarono a riflettere sul diritto e sul torto, in un tempo nel quale essi restavano ancora indifferenti alla finalità della natura e se ne servivano senza vedervi ancora altro che l’ordinario corso delle cose, dovettero essere condotti inevitabilmente a giudicare che alla fine non può essere indifferente all’uomo Tessersi condotto con onestà o con perfìdia, con giustizia o con violenza anche se sino al fine della sua vita, non abbia visibilmente raccolto alcuna felicità per le sue virtù od alcuna pena per i suoi delitti. È come se una voce interna dicesse loro che non poteva essere così: essi dovevano sentire come nascosta in sè l’oscura rappresentazione di qualche cosa a cui dovevano tendere e con cui non poteva accordarsi un tale esito delle cose: o con cui, quando essi consideravano il corso della natura come l’unico ordine naturale, sentivano di non po ter accordare quell’intima finalità del loro spirito. Per quanto il modo, con cui essi pensavano la possibilità della compensazione di una simile irregolarità, fosse ancora grossolano essi non potevano tuttavia immaginare altro principio della possibilità dell’accordo della natura con la loro legge morale interiore, che una causa suprema governante il mondo secondo leggi morali; perchè un fine ultimo imposto come dovere nel loro interno ed una natura senza alcun fine all’esterno, nella quale tuttavia quel dovere deve essere reaizzato, erano una contraddizione. Sulla natura interiore di quella causa del mondo essi potevano inventare più di un’assurdità: ma il rapporto morale del mondo col suo autore restava sempre lo stesso; rapporto che è considerevolmente accessibile alla ragione, anche la meno coltivata, in quanto essa si pone sul terreno pratico, mentre è ben lungi dall’essere così accessibile alla ragione speculativa». (Critica del giudizio, ediz. Vorl., pag. 330-331).
Posto il carattere puramente pratico del postulato dell’esistenza di Dio, esso non ci dà una conoscenza in senso speculativo. La teologia razionale che vuol darci questa conoscenza è condannata ad oscillare fra un concetto puramente 'azionale ma vuoto (deismo), ed un concetto concreto ma empirico (teismo, antropomorfismo).
Gli elementi con cui si cerca di costruire un concetto concreto di Dio (spirito, volontà, intelligenza, ecc.) hanno valore soltanto come elementi simbolici validi per l’uso pratico. Kant sfida i teologi ad addurre anche una sola proprietà di Dio che, spogliata di ciò che ha di antropomorfico, non si riduca a zero.
Anche l’intelletto e la volontà gli sono attribuiti dal solo punto di vista pratico. Noi possiamo perciò benissimo costruirci un concetto di Dio, includendovi però solo quegli attributi che sono necessarii, perchè noi possiamo pensarlo come l’esige la nostra legge morale. Noi dovremmo pensarlo come un’intelligenza e come una volontà, come onnisciente e onnipotente, come infinitamente buono e giusto, quindi com’eterno, onnipossente, ecc. : solo ci guarderemo dal credere che questi concetti esprimono un’adeguata conoscenza di Dio. «Qui dobbiamo (scrive Kant nella Critica del giudizio, pag. 344), per evitare facili fraintendimenti, inserire la necessariissima osservazione: che noi possiamo pensare tutte le proprietà dell’essere supremo solo per via di analogia. Come potremmo noi indagare la sua natura che non ha nulla di simile nell’esperienza? Ed ancora, che noi possiamo pensarle, ma non conoscere per mezzo di esse nè attribuirle a Dio teoreticamente. Qui per noi si tratta solo di vedere quale concetto dobbiamo farci di Dio, data la costituzione della nostra facoltà di conoscere, per dare pratica realtà ad un fine che la ragione pratica pura c’impone a priori di realizzare con tutte le nostre forze, senza nessun presupposto di questo genere, cioè di poter pensare come possibile un’azione disegnata dalla nostra volontà. Può darsi che quel concetto trascenda la ragione speculativa e che le proprietà da noi attribuite all’Essere così pensato celino in sè qualche antropomorfismo: ma lo scopo del loro uso non è per noi di determinare la sua natura, non determinabile per noi, bensì di determinare in conformità di ciò noi stessi e la nostra volontà».
Ma non potremo noi dire almeno che Dio è «spirito»?
Sarebbe necessario qui indagare anzitutto questo indeterminato concetto e, dando ad esso un senso particolare e preciso, non sarebbe forse impossibile conservare in seno proprio questa determinazione. Ma se si prende la parola «spirito» nel senso metafisico di sostanza, ciò è impossibile: nè occorre arrestarci a dimostrarlo.
Ê interessante a questo riguardo vedere il progresso compiuto da Kant dal 1763 (Unico argomento possibile, ecc.) al 1766 (I sogni di un visionario). Nell’operetta del 1763 dopo aver dimostrato (o creduto di dimostrare) che ogni possibilità presuppone una realtà per sè stante (per cui solo può essere pensata come possibile) e che questa deve essere unica, semplice, immutabile, Kant vuol dimostrare che essa è spirito, cioè ha le proprietà dell’intelletto e della volontà: e lo dimostra essenzialmente col mostrare che queste proprietà esprimono il grado più alto della realtà e perciò devono essere contenute già nel suo fondamento assoluto: d’altra parte che l’ordine, la regolarità della realtà non sarebbero pensabili senza una causa intelligente e volente. Nell’operetta del 1766 Kant analizza il concetto di spirito e mostra che esso è un concetto costruito arbitrariamente pensando un essere semplice, dotato di ragione, non dotato dell’impenetrabilità (cioè non occupante uno spazio col raggio della sua azione, come le unità dinamiche materiali): concetto che l’esperienza non ci presenta in nessuna parte, che perciò può essere pensato come si vuole e su cui si può disputare all’infinito perchè in realtà nulla ne sappiamo.
CARATTERE PRATICO DEI POSTULATI
La questione se Dio possa dirsi spirito si connette con la questione se noi possiamo avere con la ragione spesculativa un qualche concetto sia pure inadeguato e simbolico di Dio: se cioè il nostro sapere razionale debba concludere solo con una negazione ed un grande punto interrogativo o se invece abbia come coronamento il sapere simbolico. Ma per Kant il sapere simbolico è solo praticamente fondato. La ragione come facoltà pratica esige queste affermazioni; (i tre postulati) pur non potendo stabilirle nè determinarle come facoltà speculativa. Per esse noi non abbiamo nessuna conoscenza nè dell’anima, nè di Dio : la sola estensione che la conoscenza riceve sta in ciò che le tre idee,, delle quali la ragione teoretica aveva semplicemente dichiarato la possibilità, debbono venire considerate come obbiettivamente reali, senza che perciò possano venir meglio determinate.
Il concetto di Dio appartiene perciò secondo Kant alla morale: solo la ragion pratica ci permette di stabilirne la realtà e di determinarlo in qualche modo. Vi può essere una teologia, ma solo una teologia morale (i. e. fondata sulla morale).
Questo carattere esclusivamente pratico dei postulati ci pone naturalmente dinanzi al problema: che senso, che valore hanno allora i concetti puri per mezzo di cui li pensiamo? Se questi valgono esclusivamente dell’esperienza, con qual diritto ne facciamo un uso simbolico, cioè ce ne serviamo per designare qualche cosa che trascende l’esperienza? Questa è un’obbiezione che venne mossa con molta insistenza dai suoi primi citici: Kant vi accenna nella prefazione della Critica della ragion pratica. Egli difende questo uso nel senso, che le categorie esprimono le condizioni dell’obbiettività in genere: per noi uomini esse sono condizionate dalla presenza dell’intuizione sensibile che solo dà la materia per l’azione formale delle categorie. Senza di ciò esse restano forme vuote. Ora certamente nel caso presente l’intuizione ci manca: perciò esse ci servono a pensare, cioè a porre gli oggetti corrispondenti ai postulati come unità astratte e vuote senza contenuto. Quando per esempio io passo da un effetto ad una causa (empirica), la categoria della causalità mi serve a collegare l’effetto con un altro fenomeno che io posso ben determinare nella sua natura, nelle sue relazioni temporali e spaziali, che cioè può diventare per me un oggetto: la relazione è tra due oggetti della realtà. Invece quando passo per le categorie ad una causa soprasensibile, non ho nulla con cui determinare questo concetto; il concetto della causa resta vuoto. Io posso con le categorie trascendere la realtà, pensare qualche cosa che è al di là di essa, ma non posso poi determinarla. Ma l’intuizione è qui sostituita dall’esigenza della realtà delle idee posta dalla ragion pratica: il concetto della causa è perciò accolto come reale, ma il contenuto manca: è un concetto vuoto. Ciò che del resto poco importa: perchè io non pretendo qui di conoscere; a me basta sapere che il concetto mio è reale e che io posso agire in conformità con esso.
La questione che qui agita Kant non è certo risolta con ciò in modo soddisfacente. È certo che qui avviene un’estensione: le categorie che originariamente servono solo all’esperienza e perdono fuori di essa ogni senso, qui diventano collegamenti generici dell’obbietti-vità, ristretti nell’esperienza al contenuto sensibile, ma applicabili anche (certo senza risultato obbiettivo) ai rapporti dell’esperienza con ciò che la trascende. Il problema è tuttavia troppo strettamente connesso con le questioni gnoseologiche per poter essere svolto qui completamente.
I PROBLEMI ULTIMI
I postulati pratici ci assicurano circa tutto quanto è necessario affinchè l’uomo che opera secondo la legge possa concepire il mondo in armonia con la sua attività morale. Essi ci dicono: vi è un ordine morale delle cose, che ha il suo fondamento in una realtà trascendente. E questo basta alla nostra coscienza. Con ciò non sono ancora risolti tutti i problemi: in modo particolare rimane quello che si può considerare come il problema capitale della metafisica: perchè vi è l’imperfezione, il male?
Rari sono gli esempi nella storia della filosofia di dottrine radicalmente pessimistiche, le quali pongono il male stesso nel fondamento ultimo delle cose: tutti in generale pongono a fondamento delle cose una realtà normale, verso la quale tende o nella quale si risolve in ultimo anche l’imperfezione presente. Anche per Schopenhauer, per es. la vera cosa in sè è la realtà normale, la noluntas nella quale tende a risolversi la volontà quando viene illuminata dall’intelletto: sotto questo riguardo anch’egli è un ottimista. Il problema che allora si pone è questo: donde la deviazione, l’imperfezione, la caduta? Perchè la noluntas non è rimasta nella pace immobile della sua beatitudine, nel suo nirvana? Perchè accanto a Brahma, l’illusione dolorosa della vita separata? In generale la soluzione è cercata in una giustificazione del male, in una teodicea. Kant ha dedicato (1791) un breve scitto a dimostrare che nessuna giustificazione del inale è possibile. Sono poche pagine, ma recise e chiare, che mostrano la vanità di ogni tentativo di questo genere (Martinetti: Antologia kantiana, pagina 195-201).
L’unica soluzione possibile è per Kant la constatazione dello stato di fatto: il male esiste. E di più aggiunge: esso ha la sua origine in un inesplicabile atto della volontà, che è una decisione libera della ragione: perchè altrimenti non potrebbe esserci imputato. Quindi non è, secondo Kant, solo nell’inferiorità della natura sensibile da cui deriviamo, ma in una regola razionale che la volontà liberamente si costituisce. Ciò vale non dell’uomo singolo soltanto, ma dell’uomo in generale: vi è in ciò che diciamo «natura umana» la possibilità (per noi inesplicabile) di decidersi in un senso o nell’altro: il nostro essere intelligibile è dotato di questa pericolosa, terribile facoltà, di poter stabilire a sè la propria natura, una disposizione originaria al bene o al male che poi decide di tutta la nostra vita. La disposizione al bene è la disposizione a conservare la propria natura razionale nella sua autonomia; la disposizione al male è l’inclinazione ad asservirla ai motivi della vita inferiore. Al di là non possiamo risalire.
Kant trova espresso il nucleo stesso della sua teoria nel dogma tradizionale della caduta. Il male ha origine in uno spirito superiore: cioè per noi è qualche cosa d’incomprensibile. Nell’uomo è soltanto il frutto della seduzione, cioè una corruzione, un disordine venuto dall'esterno, non risiedente nella sua intima natura; per cui non è tolta la speranza di una restaurazione del bene.
Un altro problema del pari interessante è quello che riguarda la conclusione del dramma tra il bene e il male: il male scomparirà alla fine delle cose per una rinnovazione di tutte le cose o resterà eternamente? A questa considerazione Kant ha dedicato un’operetta del 1794 che ha per titolo: «La fine del mondo».
La fine del mondo dice Kant, è intesa come un processo fisico: così ci è descritta nelle visioni apocalittiche. Ma essa è invece un fatto morale: non è solo il chiudersi dei tempi, ma è il passaggio dal tempo all’eternità, al soprasensibile. Il fatto che in tutte le religioni troviamo questa fede e questa attesa, non è se non l’espressione simbolica del convincimento morale che la vita sensibile non vale per sè, non meriti di durare indefinitamente, ma è solo una preparazione od una prova. E il fatto che in tutte le religioni questa fine è circondata da terrori fantastici, vuol dire che questo passaggio non può aver luogo senza la distruzione di ciò che vi è di corrotto nella natura umana. Ma in che cosa consisterà questa reintegrazione, avrà essa luogo per tutti o solo per una parte dell’umanità? Anche qui dal punto di vista teoretico non possiamo decidere nulla : dal punto di vista pratico noi dobbiamo ritenere che quella volontà che noi avremo creata qui verso il bene o verso il male continuerà a dominarci anche dopo: onde noi dobbiamo attenderci per l’eternità le conseguenze del nostro merito o della nostra colpa. Quindi è cosa saggia operare come se l’al di là dovesse essere immutabilmente quale noi l’abbiamo qui costituito.
Anche dalla parsimonia delle indicazioni che Kant ci dà intorno a questi problemi che sono stati oggetto di tante e così fantastiche speculazioni, noi già vediamo che siamo nel campo di quella fede morale personale che Kant considerava come una specie di patrimonio privato e intorno alla quale ci è così avaro di comunicazioni. Del resto un punto solo è degno di essere rilevato circa questi problemi : ed è che non solo si tratta di conoscenze non necessarie per noi, ma che l’ignoranza ad esse relativa è per noi qualche cosa di saluta re e di essenziale per la nostra vita morale. Quello che costituisce il merito della nostra vita morale è che noi operiamo per reverenza ad una legge che sentiamo in noi e della quale riconosciamo il valore, senza che essa abbia il suo appoggio in alcuna conoscenza della natura delle cose: ad essa non si accompagna che un oscuro ed incerto presentimento che noi, per virtù ancora della legge, convertiamo in fede. Laddove se noi avessimo dinanzi a noi Dio e l’eternità in tutta la loro terribile maestà, noi non avremmo più alcun merito di operare bene: tutti gli uomini opererebbero bene, ma per paura e per speranza non per senso del dovere. Il mondo sarebbe trasformato quindi esteriormente in un regno della moralità, ma la moralità sarebbe scomparsa. Bisogna quindi fondarci in primo luogo e risolutamente sulla coscienza del nostro dovere lasciando le inutili speculazioni e fondando su di esse la rappresentazione che noi dobbiamo farci del mondo, in ciò che esso ha di essenziale e di necessario per la nostra vita morale. Questo è il punto di vista che già appare nella bella conclusione dei «Sogni di un visionario» e che con poche differènze è rimasto valido per Kant in tutta la sua speculazione ulteriore. (Antologia kantiana, pag. 206-208).
La concezione teleologica del mondo, della natura e della storia (a cui si riconnettono indirettamente anche la sua filosofìa dell'arte e della religione) è un’estensione della sua dottrina dei postulati, uno svolgimento di questa dottrina fondamentale in una visione morale della natura e della storia. Se il mondo della realtà deve nella sua natura ultima essere tale che sia possibile la realizzazione in esso d’un ordine morale, questo vuol dire che esso deve già contenere in sè come in certo modo preformato quest’ordine : deve già qui ed ora poter essere considerato sotto il punto di vista morale, che è il punto di vista dell’intelligibile, in modo che s’accordi con le leggi pratiche: e questo naturalmente non per estendere il nostro conoscere, ma per estendere la nostra visione pratica.
Kant deriva questa conclusione anche per un’altra via che egli chiama deduzione trascendentale (Critica del giudizio, ediz. Vorl., pag. 19-20), in quanto per essa mira a stabilire direttamente come un principio a priori, il principio di finalità senza considerarlo come una conseguenza (ciò che è veramente) della dottrina dei postulati. Il nostro spirito sottomette la materia della conoscenza cioè il caos delle sensazioni ad un ordinamento, ad una unificazione che ha luogo mediante le forme intellettive, e attraverso queste, mediante le idee della ragione: la natura (intendendo per essa la massa caotica delle sensazioni) subisce una legislazione razionale. Ora se essa fosse completamente dissimile e discordante dalla ragione, giammai la nostra ragione potrebbe ridurla ad una «natura» nel vero senso, cioè ad un insieme regolato da leggi di carattere razionale.
Vi deve quindi essere nella natura, anche nella parte della materia del conoscere, un principio interiore d’unità che la predispone a subordinarsi all'unifìcazio-ne intellettva e che noi non possiamo pensare altrimenti che come procedente da un intelletto supremo il quale lo avrebbe così predisposto in vista dell’unità della esperienza. Questa unità nascosta dell’esperienza, in quanto è l’unità che un intelletto superiore ha in antecedenza predisposto, è un’unità finale, pensare le cose da questo punto di vista è pensarle sotto l’aspetto della finalità.
Ecco come ci si pone quindi come un principio a priori, il quale si aggiunge come un principio distinto di natura affatto particolare, il principio della finalità: che non ci è dato dall’esperienza, non è un elemento empirico; non è nemmeno una legge da imporre alle cose per costituire la natura (come i principii dell’intelletto); ma un’esigenza del nostro spirito, per mezzo della quale soltanto possiamo comprendere la natura in armonia con le esigenze della ragione; una specie d'interpretazione aggiunta, in virtù della quale la realtà non è più per noi un elemento straniero imprigionato come un meccanismo, nelle leggi intellettive, ma qualche cosa di affine a noi, la volontà di uno spirito i cui fini coincidono coi fini supremi della nostra natura. Questa esigenza resta sempre qualche cosa di subbiettivo nel senso che pure esprimendo un aspetto vero e profondo della realtà, l’esprime in modo del tutto inadeguato e subbiettivo.
Essa è l’imposizione di una legge che non vuole entrare a costituire solo la realtà fenomenica (come le leggi dell'intelletto), ma vuole penetrare nella sua più profonda realtà (come la ragione) e comprenderla nella sua omogeneità con i fini del nostro spirito: ma non può farlo naturalmente che in modo improprio, quasi come divinandola ed esprimendola in rapporto a noi per i nostri fini pratici supremi.
Il giudizio che subordina la realtà a questo principio è perciò di natura diversa del giudizio che subordina il materiale del senso alle categorie: questo è quello che Kant chiama giudizio determinante, il giudizio finale è chiamato giudizio riflessivo. Non si può negare che il giudizio, in quanto riflessivo, non ha più nulla di comune col giudizio, come Kant lo definisce nella Critica della ragion pura; ed è solo il bisogno di classificazione architettonica delle critiche, che ha fatto coincidere per Kant la trattazione della visione teleologica delle cose con la critica del giudizio. Questa identificazione si fonda del resto sopra un’altra complicazione. Alla tripartizione delle facoltà (conoscenza, sentimento, volontà) Kant fa corrispondere la tripartizione dei gradi dell’attività spirituale.
Alla conoscenza corrisponde l’intelletto: la conoscenza intellettiva del mondo è il risultato obbiettivo e fecondo dell’attività dell’intelletto. La ragione è invece posta in rapporto con la volontà; l’attività della ragione è nulla nel campo teoretico, feconda nel campo pratico, dove si traduce nella vita morale. L’attività intermedia, il giudizio (che del resto dovrebbe logicamente coincidere con l’intelletto) deve perciò corrispondere al sentimento. Opera del giudizio è, nella sua più alta esplicazione come giudizio riflessivo, la visione teleologica : ora questa non è una conoscenza obbiettiva e può essere anche apprensione vaga, presentimento, connesso con uno stato di piacere : noi proviamo una certa gioia quando la natura stessa ci pone di fronte a questa unità interiore che non possiamo nè vedere nè dimostrare: questa gioia è l’emozione estetica, il cui momento essenziale è sentimento.
Ecco quindi come la critica del giudizio comprende in sè la critica della visione teleologica e una teoria estetica del bello e dell’arte: la visione estetica non è che una divinazione sentimentale della visione teleologica. Entrambi sono perciò riunite in una trattazione unica e sottoposte ad un comune elemento a priori che è il principio di finalità. Kant non entrò che assai tardi in quest’ordine di idee. Nella prima edizione della Critica Kant nega ancora che sia possibile stabilire principii a priori per il bello, cioè per il sentimento: solo in una lettera del 1787 a Reinhold appare l’enunciato esplicito di una «critica del gusto». L’opera annunziata già al principio del 1788 appare nel 1790 e in nuova edizione accresciuta nel 1792. In essa Kant aveva premesso una vasta introduzione che poi rimase inedita; Kant la mandò più tardi al suo scolaro Beck per il suo «Estratto letterale»; Beck ne fece un sunto che nell’opera «Erlauternden Auszug aus den Kritischen Schriften des Herm Prof. Kant», è nel vol. II, pag. 543-590, e venne pubblicato anche in alcune edizioni della Critica del Giudizio. Ora è stato per la prima volta edito in un volume (1927) a parte nella Philos. Bibliotek.
Nell’introduzione che Kant vi sostituì e che fa parte dell’opera come ora l’abbiamo, Kant ricapitola la sua teoria della filosofìa e delle sue parti per inserire tra la critica della conoscenza e la critica dell’attività pratica la sua critica del giudizio come critica del principio a priori del sentimento, che è il principio di finalità ; e per distinguere tra finalità estetica e finalità reale; onde la distinzione della Critica in critica del giudizio estetico e critica del giudizio teleologico.
Noi dobbiamo adesso approfondire il concetto di fine e chiederci : che cosa vogliamo propriamente dire quando poniamo la natura come un processo finale? Noi dobbiamo porla come tale, abbiamo visto, per non concepire una natura materiale che sia in sostanziale opposizione con le leggi e le finalità dello spirito: ma che cosa vogliamo propriamente dire con questo? Questo ci guiderà anche appresso nel determinare verso quali fini dobbiamo pensare diretto questo processo.
La finalità, abbiamo detto subito da principio, non appartiene alla natura in senso obbiettivo: la scienza non la trova in essa: la concezione scientifica (causale) delle cose pone le loro forme e i loro processi come accidentali prodotti delle loro cause (necessari come prodotti, ma accidentali in sè e nell’insieme del processo), nè sente bisogno di una concezione finale.
Noi non ricaviamo perciò la finalità dalla natura, ma ve la introduciamo; noi ci serviamo dell’interpretazione finale come di una interpretazione che — lasciando sussistere intatti i nessi causali interni delle cose — ci chiarisce il loro insieme pensandolo come penetrato da un’unità essenziale e profonda: e questa unità dobbiamo pensarla analogamente come l’opera di un’intelligenza.
Il nostro pensiero nell’esplicazione causale va dagli effetti molteplici e dispersi all’unità della causa; aspira a vedere la molteplicità (Critica del giudizio § 77) nell’unità della causa, che è come la totalità raccolta dei suoi effetti.
Ma quest’esplicazione non ci farà mai pervenire alla vera unità: è sempre soltanto un compromesso. Ammettiamo pure la possibilità di un’esplicazione meccanica di tutta la natura, la quale ci faccia pervenire all’unità di una causa suprema: ma noi avremo ricondotto la natura all’unità di un principio, non potremo mai derivare la natura nella sua molteplicità da questo principio. (Le specie e l’unità del tipo animale). Quando noi cerchiamo di derivarla, noi ci troviamo di fronte ad un elemento contingente che non possiamo determinare partendo dal principio. E tuttavia ci deve essere tra questo elemento accidentale e il principio una unità, un intimo accordo, il quale però a noi sfugge. Ed a noi sfugge perchè noi apprendiamo soltanto l’aspetto fenomenico delle cose: perchè il nostro intelletto ordinando i dati sensibili nell’unità delle sue leggi e risalendo, con la ragione, verso i principii, non fa che tradurre in una trascrizione subbiettiva molto imperfetta l’unità delle cose.
Un’intelligenza perfetta non avrebbe bisogno di questa trascrizione: essa vedrebbe i singoli nel loro principio con necessità ed intuitiva evidenza. Noi abbiamo una specie di presentimento a priori di quest’unità e aspiriamo a rappresentarcela per mezzo della finalità. Pur spiegando per mezzo della causalità ciò che nel. la natura appare ai sensi come necessariamente collegato, cerchiamo di spiegarci l’accordo intimo, per cui è possibile ridiscendere dal principio alle sue manifestazioni (per noi accidentali) mediante le leggi teleologiche: vale a dire poniamo l’unità del principio in quel solo modo che a noi è possibile, in quanto ci rappresentiamo la totalità degli effetti e delle manifestazioni come presente fin dall’inizio nel principio, in quanto rappresentazione; la quale è causa poi del loro prodursi nella realtà. Un processo di questa natura è un processo finale. Questa profonda analisi del concetto di fine pone sotto la sua vera luce l’esigenza della finalità com’esigenza di una interpretazione idealistica o morale della realtà naturale. In essa Kant va al di là della sua teoria dell’intepretazione teleologica come semplice sapere pratico. Perchè noi assumiamo che la realtà naturale debba in ultimo corrispondere alle esigenze del nostro spirito, subordinarsi alle sue leggi intellettive, soddisfare le aspirazioni della sua coscienza morale? Perchè questa molteplicità rude e caotica, che noi riduciamo con fatica sotto l’unità delle leggi e dobbiamo pensare come non ostile, in ultimo, all’unità dei fini morali, è tale soltanto per noi: per un’intelligenza perfetta l’opposizione si risolverebbe in un’unità perfetta. Ora noi non possiamo eliminare questa opposizione: perciò pensiamo tale unità (che come tale si trova solo nel fondamento intelligibile delle cose) come una concordanza, come un dover essere: la natura come per una specie di esigenza interiore tende anch’essa a conformarsi alle leggi ideali dello spirito; perchè in questo era presente fin dall’inizio come una specie di disegno preordinato avente il suo termine ideale nell’unità, tutto lo svolgimento della natura.
Quello che è in sè identità perfetta di natura nel principio intelligibile, è per noi concordanza, aspirazione verso quella legge dell’intelligibile che si rivela in noi come legge morale, è per noi ordine morale.
Questo ci chiarisce anche il carattere subbiettivo dell’esplicazione finale e la sua insufficienza per il sapere obbiettivo.
In questo concetto del fine trova la sua conciliazione anche quell'apparente contraddizione tra teleologia e causalità che Kant pone (Critica del giudizio § 69 ss.) come l’antinomia del giudizio riflessivo.
La ragione, nel progresso delle conoscenze, ci pone come regola il principio dell’estensione indefinita del nesso causale: nè noi possiamo porre a questo alcun limite. Noi possiamo supporre un’intelligenza tale che riuscisse ad ordinare causalmente tutta l’esperienza data. Certo resterebbe in quest’esplicazione sempre una lacuna : noi potremmo in tal caso risalire ad una o più cause supreme: ma il procedere da queste all’infinita varietà dei loro effetti resterebbe sempre un puro dato di fatto, per noi inesplicabile. È appunto questa lacuna che ci ha sospinti a ristabilire, in certo modo, l’unità delle cose sotto forma d’unità finale, pensando questo procedere come un processo finale. Da qual parte sta allora la verità? Non vi è contraddizione fra questi due ordini? Ed in tal caso dobbiamo pensare la concezione finale come un travestimento subbiettivo della causalità che sostituiamo a questa, laddove essa ci è troppo profondamente nascosta, o come un ordine obbiettivo interiore che si nasconde per noi sotto le apparenze della causalità?
La soluzione dell’antinomia è facile quando si tenga presente il valore che hanno, sotto l’aspetto conoscitivo, e la concezione causale e la concezione finale. Il principio causale è il nostro principio d’esplicazione intellettiva: quello con cui costituiamo la natura fenomenica come realtà obbiettiva. Esso dà origine quindi ad un vero sapere: il quale però non va oltre al fenomeno: esso ordina i fenomeni, non pretende affatto di darci l’ordine della realtà in sè. La finalità è invece un principio regolativo della ragione che vorrebbe stabilire l’ordine della realtà come procedente da un principio tascendente. Esso ci serve come idea direttiva per penetrare nell’interno della realtà più che non faccia l’intelletto; ma appunto perchè vuol andare al di là dei fenomeni e del loro ordine, è qualche cosa di subbiettivo, per quanto necessario; qualche cosa che non intralcia punto l’ordine causale obbiettivo. Noi non dobbiamo quindi abbandonare nè l’uno, nè l’altro: non il principio causale che resta per noi il solo principio di esplicazione scientifica; non il principio teleologico che non solo ci serve spesso a dirigere l’indagine empirica, ma ci è necessario sopratutto per penetrare la natura nel suo insieme. Solo non bisogna mescolare queste due esplicazioni. Noi dobbiamo spingere sempre più in là l’esplicazione causale pure riconoscendo che essa è soltanto un ordinamento obbiettivo di fenomeni e che nell’ordine ultimo, che noi non possiamo conoscere se non molto imperfettamente, tutte le cose sono soggette ad un ordine finale.
Rinunciando all’esplicazione causale rinunceremmo al solo sapere che abbiamo, alla scienza: mescolando con esso interpretazioni teleologiche, in fondo lo annulliamo. E d’altra parte dobbiamo lasciar sussistere a suo fianco l’interpretazione teleologica: ricordando che essa è solo una divinazione subbiettiva, fondata sulle esigenze della ragione, che non dà sapere. Certo entrambe riposano su di un unico principio e l’esplicazione causale deve in ultimo risolversi in qualche Cosa di analogo alla finalità: ma questa unità fondamentale è nel trascendente che non è da noi conoscibile chiaramente come un principio dal quale possiamo derivare in un piano l’ordine causale, e in un altro piano più alto l’ordine dei fini.
L’interpretazione teleologica della realtà è un’esigenza a priori: quindi s’applica a tutta la realtà. Vi sono però in questa dei prodotti che esigono già insistentemente per sè questa interpretazione: in quanto in essi si realizzano dei risultati che la pura concatenazione causale non sembra poter spiegare in modo sufficiente: ossia traluce in essi una finalità intenzionale, una specie di volontà interiore di cui la causalità esteriore sembra essere lo strumento. Questi sono gli esseri organici viventi, dove ogni parte ed ogni funzione sembra avere costantemente dinanzi a sè l’idea del tutto come un fine e quindi richiama l’analogia della nostra attività agente secondo fini.
Certo questo non vuol dire che noi non dobbiamo egualmente spiegare causalmente tutto il processo in base al quale essi si formano ed agiscono: l’interpretazione finale è come una interpretazione interiore che ce dà il senso. Questo è il primo campo della realtà nel quale applichiamo quasi istintivamente fin dal principio l’interpretazione finale perchè una semplice interpretazione causale ci parrebbe assurda : ma da qui noi dobbiamo estendere l’interpretazione finale a tutta la natura e pensare questa come un solo e grande sistema di fini.
Perciò ciascun essere organico ci appar in sè, è vero, come un fine a sè, un ordine finale interiore: ma come nella natura tutto è causalmente connesso, così quando la consideriamo sotto l’aspetto del fine, tutto è finalmente concatenato e costituisce un sistema universale di fini culminanti in un fine supremo: dove ogni essere è fine a sè, ma nel tempo stesso serve ad una finalità superiore; il fine supremo dovrà essere qualche cosa che non è più fine per altro.
Ora qual’è questo fine supremo? Un’indagine teoretica in questo senso, noi sappiamo, non è possibile: la teleologia speculativa che vorrebbe concludere nella prova teleologica dell’esistenza di Dio, non ha alcun fondamento. Il fine supremo delle cose deve essere qualche cosa di assoluto e di incondizionato: ora tutto ciò che può darci l’esperienza è sempre qualche cosa di relativo e di condizionato. Un fine solo, nel mondo, è assoluto ed incondizionato: ed è il fine della legge morale. Fine ultimo del mondo non può essere quindi che l’uomo considerato come soggetto morale.
Quest’esigenza che discende dal concetto stesso di fine, ci riconduce a quello che è stato il nostro punto di partenza in queste considerazioni sulla concezione finale. Noi abbiamo veduto che questa concezione non è che l’estensione alla realtà della concezione morale del mondo implicito nei postulati: noi pensiamo la natura come penetrata di fini appunto perchè dobbiamo pensarla come accordantesi e in certo modo obbediente al fine assoluto della legge inorale.
Anche l’intelligenza comune infatti non ha potuto non giudicare per quanto confusamente che il fine della natura è l’uomo.
Ma essa pone come fine il benessere, la felicità, cioè l’uomo come essere sensibile. Ora l’uomo come essere sensibile non è che uno degli esseri naturali: quindi, come tale, un essere relativo, il quale non può essere che un anello nella catena dei mezzi e dei fini naturali. Il fine della natura non può essere nella natura: fine di tutti i processi naturali dell’uomo non può essere che il liberare l’uomo dalla natura, il renderlo capace di fini autonomi, di rivestire una natura razionale..
Fine della natura è perciò l’uomo, ma l’uomo come essere culturale. Ma vi è ancora una duplice cultura, la cultura dell’abilità e la cultura della disciplina (o cultura morale). La prima è la cultura vera in quanto rivolta ancora a fini sensibili: strumento essenziale di questa cultura è lo Stato. Ora questa non può essere ancora il fine supremo.
La cultura della disciplina ha invece per fine la moralità e la libertà vera dell’uomo: la cultura dell’abilità e lo stato non ne sono che una preparazione. Questo può quindi essere il fine supremo: l’uomo come essere morale.
Questo è il fine supremo della natura: ma esso ci rinvia naturalmente ad un ordine spirituale, del quale l’uomo come essere morale è solo parte. La ragione e l’esperienza qui sembrano contraddirsi: il mondo e le sue rivoluzioni fisiche sembrano essere un puro prodotto meccanico che non ha alcun riguardo all’uomo come essere morale. Noi abbiamo già veduto come si risolve quest’antinomia. Noi dobbiamo credere in un ordine morale che comprende anche la natura: solo la nostra imperfezione ci impedisce di vedere il nesso tra la causalità e la finalità e di comprendere la realtà come un sistema di fini. E noi dobbiamo pensare questo sistema come fondato in un principio spirituale assoluto, legislatore morale delle cose. In questo principio, che è l’ordine morale stesso, risiede il fine ultimo dell’uomo e di tutte le cose.
Kant ha applicato già la sua concezione teleologica al mondo degli esseri viventi, pensandolo come una totalità unica penetrata da una virtù formatrice, da un nesso interiore, per cui le forme interiori si elevano gradatamente verso le superiori. Per questo si è voluto vedere in lui un precursore della teoria dell’evoluzione (F. Schultze, Kant und Darwin, 1875). E veramente non mancano in lui vedute profonde e geniali che preludono a teorie recenti: in un paragrafo notevole dela Critica del giudizio (§ 80) svolge una audace visione d’insieme in questo senso.
Bisogna però riconoscere che in lui prevale quasi sempre alla fantasia creatrice d’ipotesi, il freddo spirito critico: più che alla creazione di un sistema di filosofia naturale, egli si è applicato a fissare i criteri e i punti di vista, che debbono regolare la scienza e la filosofìa della natura. Di più l’esperienza non gli offriva al suo tempo, in questo campo, che uno scarso materiale: quindi non dobbiamo meravigliarci se, all’infuori dei principii metodici generali, non troviamo in lui una filosofìa teleologica della natura con tratti chiari e decisi.
Il primo punto saldo per Kant è questo: che dal punto di vista della scienza tutto nella natura deve essere spiegalo secondo la causalità naturale senza intervento di concetti teleologici: i quali servono al più a guidare la scienza, a suggerirle le vie per le quali essa deve istituire le sue ricerche metodiche.
Quindi anche un’ipotesi che derivasse da una radice sola tutto il mondo dei viventi, dovrebbe pur sempre essere in grado di derivarlo casualmente. (Sull’uso dei principii teologici nella filosofìa, 1788; Critica del giudizio § 80).
Il secondo punto è che l’esplicazione causale, meccanica può spiegarci la natura, ma non farcela comprendere: noi la comprendiamo solo quando all’esplicazione causale sovrapponiamo la concezione finale. L’affinità delle specie naturali ci rivela la loro unità: noi possiamo quindi sperare che la scienza possa un giorno esplicare meccanicamente la loro genesi da una matrice naturale unica, la quale avrebbe da principio prodotto creature meno adatte dalle quali sarebbero sorte in appresso altre creature più conformi all’ambiente ed al rapporto cogli altri esseri. Così si avrebbe una reale ascensione degli esseri dagli organismi più semplici fino all’uomo.
La matrice naturale avrebbe generato tutte le specie attuali nel loro ordine: dopo di che essa si sarebbe in sè irrigidita ed isterilita, limitando la sua attività alla continuazione delle specie esistenti. Questa ipotesi avvicina singolarmente Kant alle più recenti forme della teoria dell’evoluzione (la teoria delle variazioni). E che egli non avesse alcun scrupolo di comprendere anche l’uomo in questa evoluzione appare per esempio da una sua recensione d’una prolusione dell’anatomista Moscati (di Pavia) il quale aveva mostrato che l’incesso eretto nell’uomo non è naturale e porta con sè dal punto di vista fisiologico molti inconvenienti. Da ciò Kant deduce che l’uomo fu già un semplice animale affine alle scimmie antropoidi : del che restano ancora in lui molti segni. Ma la stessa vastità e complessità di questo piano esige la posizione d’una sostanza semplice in tal senso preordinata da un’intelligenza: cioè esige la posizione d’un ordine finale.
Questo disegno non è però per Kant che un’audace ipotesi evocata per un momento dalla sua fantasia: altrove (nella Recensione delle Idee di Herder, 1785) rilutta alla supposizione d’una genesi delle specie da altre specie e così di tutte le specie da una matrice comune; e in generale si attiene al concetto della fissità delle specie.
Queste incertezze nell’applicazione dei suoi principi al divenire biologico, hanno la loro origine nello scarso materiale empirico di cui Kant poteva disporre; nè del resto hanno per noi grande importanza. Ciò che per noi ha importanza è il suo criterio metodico del valore del concetto di fine nella natura e del suo rapporto con il concetto di causa: criterio che anche oggi ci apre l’unica via possibile all’accordo fra la concezione causale e la concezione finale, fra la scienza e la filosofia.
Più largamente si estende Kant nella considerazione del punto di vista teleologico nella storia: nei brevi saggi che egli vi ha dedicato egli ci delinea un vero e profondo sistema di filosofia della storia.
Come nella natura, anche qui dal punto di vista empirico (che è anche quello della scienza) dobbiamo ritenere tutto come causalmente e meccanicamente concatenato. Anche Kant rileva che le manifestazioni umane, in apparenza più arbitrarie, sono soggette come qualunque altro fatto fisico, a leggi naturali universali: i matrimonii, le nascite, i delitti, ecc. sebbene in apparenza soggetti all’arbitrio individuale, avvengono secondo leggi naturali costanti come le variazioni atmosferiche, le quali non possono singolarmente venir prevedute, ma nell’insieme costituiscono un ordine causale rigorosamente concatenato.
Kant ha quindi della storia il concetto che abbiamo noi, d’una scienza descrittiva rigorosamente ristretta all’esplicazione causale. Anzi egli mostra un certo disprezzo ironico per la storia del suo tempo che era per lo più soltanto erudizione biografica intesa a narrare le gesta dei principi e le vicende esteriori dei popoli: essa deve penetrare ben più profondamente e metterne a nudo la storia spirituale, lo svolgimento del diritto, della morale, della religione, del costume: la vera storia, in breve, è per Kant come per noi, storia della cultura.
Ma la filosofia deve considerare il processo storico da un altro punto di vista, come uno sviluppo finale. Noi non troviamo questo disegno finale nel corso meccanico della natura, nè lo deduciamo da esso, ma ve lo sovrapponiamo per un atto della riflessione teleologica, al fine di dare alla storia un senso ed un valore morale. Quindi è un'interpretazione che non pretende ad un valore teoretico, ma che praticamente è fondata, anzi necessaria. Certo può sembrare strano quello di voler concepire una storia fondata sull’idea di ciò che deve essere: e che una storia di questo genere potrebbe essere accusata di non essere che un romanzo. Ma noi dobbiamo ben ricordare il valore dell’interpretazione teleologica. Fondandosi sui dati della conoscenza empirica essa cerca di penetrare più profondamente, sebbene con la coscienza di non poter dare qui un’espressione adeguata a questa realtà più profonda. Quindi essa non contraddice ai dati empirici, ma li interpreta e li trascende. Anche l’interpretazione teleologica che Kant ci dà della storia è la stessa storia della società umana causalmente concatenata, risultante dai conflitti dei rozzi istinti umani e dall’antagonismo delle forze: solo essa ci mostra, ciò che la interpretazione causale non può fare, in questa concatenazione la realizzazione di un disegno, scopre un filo conduttore che non solo dà un senso al processo meccanico, ma schiude a noi una prospettiva confortante dell’avvenire, ci rivela nella storia la realizzazione di un ideale umano conforme alle nostre esigenze morali. A che gioverebbe infatti l aver messo in rilievo il disegno sapiente della creazione nel regno della natura, se in quella parte della natura che contiene lo scopo di tutto, la storia dell’uomo, non avessimo che un caos cieco ed irrazionale, contro il quale dovessero infrangersi le nostre aspirazioni morali? Nella tesi nona della sua «Idea di una storia universale» Kant dice: «Un tentativo filosofico di comporre una storia universale del mondo, secondo un piano della natura che miri alla perfetta unione civile della specie umana, deve essere riguardato come attuabile e come capace di contribuire al compimento di questo disegno della natura».
Il fine di un’interpretazione teleologica della storia è dunque esclusivamente pratico: essa completa, non contraddice l’esposizione causale della scienza storica.
Senza dubbio gli individui e i popoli tendono ciascuno verso i propri fini, mossi da moventi particolari spesso in contrasto fra di loro : e di questi deve esclusivamente tener conto l’analisi storica. Ma il filosofo deve cercare di vedere in questo intreccio insensato un senso e un disegno: partendo da un principio a priori egli deve cercare di scoprire quale è quel disegno ignoto agli uomini, che essi attuano inconsciamente, e quasi senza volerlo. Questa volontà immanente nella storia è stata chiamata destino in quanto è necessità d’ima causa agente secondo leggi a noi ignote, o provvidenza perchè è anche una sapienza più alta, i cui fini debbono concordare con i fini obbiettivi del'uomo; ma noi possiamo anche dirla natura per esprimere la modestia delle pretese della nostra ragione, la quale non vuole penetrare i disegni impermutabili dell’assoluto, ma aspira solo ad esprimerli nei limiti della sua esperienza possibile.
È in questa distinzione metodica della storia che espone le cose come sono, che la filosofia della storia cerca di penetrare e si rappresenta simbolicamente in quest’ordine che è l’ordine che deve essere, che sta il merito principale della dottrina Kantiana. Perciò anche si comprende la sua antipatia contro quella filosofia della storia che mescolando insieme la precisione obbiettiva e il sentimento, confonde i due punti di vista: che vuole costruire teoreticamente una visione religiosa della storia e non ci dà che una fantasia retorica senza fondamento.
Kant ha dato espressione a questa sua antipatia nella sua recensione delle «Idee di una filosofìa della storia dell'umanità» di Herder (1784) già suo discepolo e poi voltosi decisamente in senso antirazionalistico. Kant ne fa l’elogio quanto alla genialità, all’erudizione, alla libertà di spirito: ma nel complesso non può vedere in esse altro che un ritorno al dogmatismo metafisico. Non bisogna mescolare gli elementi empirici e l’interpretazione filosofica e metterli sullto stesso piano dando loro lo stesso valore: si corre allora il rischio di voler cercare l’ultima parola del destino dell’uomo nei musei di storia naturale, e nello stesso tempo di voler dare l’interpretazione filosofica (che è puramente simbolica) per un dato di fatto di valore assoluto. La storia deve essere storia e non ammettere fantasie filosofiche: l’interpretazione filosofica deve alla sua volta fondarsi sulla storia e serbare la coscienza d’essere una semplice interpretazione di carattere simbolico.
Il principio fondamentale dell'interpretazione teleologica della storia è il principio stesso morale in quanto applicato alla realtà storica e si può brevemente esprimere così: lo svolgimento della storia deve tendere allo svolgimento della ragione. In ogni creatura il complesso delle disposizioni non è un aggregato accidentale, ma un tutto organico nel quale ogni parte ha il suo posto e il suo fine. Così nell’uomo: dove tutto è subordinato alla ragione. Lo svolgimento della ragione non potrebbe aver luogo pienamente nell’individuo: la storia è il teatro nel quale ha luogo questo svolgimento perfetto, senza il quale tutti gli sforzi che l’antecedono non sarebbero che un giuoco infantile senza scopo. Certo in questo svolgimento resta un fatto incomprensibile: e cioè come le generazioni antecedenti sembrino compiere l’opera penosa solo per preparare alle generazioni più tarde una perfezione più alta, di cui esse non sono partecipi.
Di fronte a questa difficoltà noi dobbiamo ricordare il carattere puramente simbolico che ha la rappresentazione teleologica: essa ci rappresenta ciò che dal punto di vista assoluto è una partecipazione perfetta alla ragione come una conquista graduale e collettiva: e questa rappresentazione ha per fine di tracciarne il compito che è di tendere al nostro fine in armonia con gli altri spiriti razionali e per uno sforzo senza limite. Il fatto che questa rappresentazione è per ciascuno e in ogni tempo accentrata nel suo io, dice che la rappresentazione non ha un valore assoluto e che per essa si esprime un rapporto ed un'azione, il cui momento essenziale non è più nel tempo.
La rappresentazione teleologica che Kant ci dà della storia è estremamente semplice e schematica: essa lascia da parte il succedersi delle diverse società che sembrano aver per fine di rendere possibile, attraverso le loro rovine, un ulteriore progresso: cioè lascia da parte quel campo della filosofia della storia propriamente detta, al quale la filosofìa hegeliana ha dato un cosi vasto, ma così problematico svolgimento. Essa si riduce ad una filosofìa della società e dello stato considerati schematicamente nel loro sviluppo: il disegno razionale che si svolge nella storia non può contenere in sè particolarità empiriche, ma è qualche cosa d’immobile e d’identico, rispetto a cui le differenze etniche e personali non contano.
Tuttavia in un piccolo scritto che ha per titolo «Probabile inizio della storia umana» (1786) Kant ci ha dato una specie di delineazione filosofica delle origini della coltura: delle origini cioè del processo dello svolgimento della ragione. Esso ci è dato, ironicamente, come un commento al racconto biblico: ed è interessante anche come esempio della libera interpretazione data da Kant alle Sante Scritture. Io mi propongo qui, dice Kant, di tracciare una storia puramente congetturale delle origini della coltura: per fortuna abbiamo qui come guida sicura il racconto mosaico, la cui credibilità tuttavia riposa su tutt’altri criteri che quelli che valgono per la filosofia. La storia della coltura deve incominciare con l’uomo giunto già ad un relativo sviluppo delle sue capacità: ricercare come egli si sia elevato a questo stato dalla rozzezza animale è a noi ormai impossibile. Ma sebbene potesse già parlare pensare e provvedere ai suoi bisogni con una certa facilità, egli era guidato ancora solo dall’istinto (la voce di Dio) che gli indicava chiaramente di che cosa poteva nutrirsi, di che cosa no: e questo era uno stato di relativa beatitudine (animale). La voce della ragione lo tolse da questo stato. È una particolarità della ragione che essa si levi sopra l’istinto, desti curiosità e desiderii nuovi: la prima volta che l’uomo deviò dall’istinto, anche per un desiderio insignificante, egli entrò veramente in questa nuova vita: questa gli aprì gli occhi, gli scoprì un mondo infinito di possibilità, nel quale l’istinto non poteva oramai più guidarlo. Anche l’istinto della generazione soggiacque a questo destino: esso diventò un’impulso soggetto alla volontà ed ai suoi capricci: ma la ragione insegnò anche a rendere questo impulso più delicato e più umano con il riserbo e la rinunzia all’immediata soddisfazione bestiale. Di qui nacque il regno della bellezza e le forme ideali dell’amore: nacque anche il pudore, che fu una creazione della ragione. Con la ragione apparve anche la previsione del futuro e con essa le cure e il timore della morte, e il senso del dominio dell'uomo su tutte le altre creature. Così sorsero nell’uomo ad un tempo la ragione e la coltura: che furono veramente un abbandono, senza speranza del paradiso, della vita dell’istinto: sebbene l’uomo torni spesso col desiderio a questo paradiso perduto, la via lo sospinge sempre più lontano, a riconquistare la pace e la felicità in un grado più alto di esistenza.
È inutile perciò chiederci se l’uomo abbia guadagnato o perduto con l’uscire dallo stato di natura: il destino suo non è la felicità, ma la conquista della ragione e della libertà: per quanto i primi passi che egli muove in questo senso possano essere funesti e dolorosi. La ragione infatti togliendo all’uomo la guida sicura dell’istinto, non per questo diventa pincipio esclusivo della sua condotta: che anzi da principio essa soggiace alle tendenze animali e dà origine al vizio. Moralmente perciò l’inizio della vita razionale c della coltura è una caduta: la storia della natura comincia col bene, ma la storia dell’uomo comincia col male. L’entrata dell’uomo nella civiltà è una corruzione della natura (Rousseau): ma una corruzione salutare per la quale soltanto l’uomo può diventare per un graduale e lento processo un essere morale e libero. Questo processo è la storia e suo strumento è lo stato, che è creazione della lotta e dell’egoismo, ma che rende possibile un certo stato di equilibrio e di pace, nel quale possono svolgersi tutte le più alte disposizioni dello spirito, e cioè la moralità e la libertà.
«Il mezzo di cui la natura si serve (dice Kant) per produrre lo sviluppo di tutte le sue disposizioni è l’antagonismo di esse nella società, in quanto questo antagonismo diventa la. causa d’un ordinamento sociale conforme a leggi». (Idea di una storia universale, tesi IV).
L’uomo certamente porta in sè una certa inclinazione sociale: ma se l’uomo non avesse altr’inclinazio-ne, ne sorgerebbe una vita come quella dei pastori di Arcadia in cui tutti i talenti resterebbero in germe: gli uomini sarebbero forse felici, ma non sarebbero esseri razionali e liberi. Essi debbono conquistare a sè questa natura: e ciò non può avvenire che attraverso una serie di dolori e di fatiche senza fine. Alla prima si associa perciò un’altra tendenza: la tendenza ad isolarsi, ad individualizzarsi, a dominare: onde l’opposizione e la lotta con gli altri suoi simili. Da questa guerra senza fine ha origine appunto lo stato: che nella sua prima genesi non è un’istituto morale, ma una creazione dell’egoismo: sia dell’egoismo dei forti e dei violenti che per mezzo di esso impongono la loro volontà alla turba dei deboli; sia dell’egoismo di questa stessa moltitudine, la quale trova preferibile una servitù ordinata e pacifica allo stato selvaggio di guerra di tutti contro tutti.
È quindi lo stesso meccanismo naturale delle tendenze egoistiche che serve alla natura per raggiungere un fine superiore, il regno del diritto, col quale è resa possibile la pace con tutti i suoi benefizi. Anche la guerra serve a questo fine: sebbene essa (e più ancora che la guerra, la continua preparazione alla guerra) sia fonte all’umanità di infiniti mali, anch’essa ha servito ad imporre agli uomini ed ai popoli quel rispetto reciproco della loro libertà, dal quale solo è possibile la cooperazione e la cultura.
Questo carattere quasi salutare dell’ostilità degli uomini che, anche quando la necessità li ha raccolti in società, li mantiene sempre ancora ad una certa distanza, non è quindi solo un fatto, ma un istituto provvidenziale della natura, che ha la sua ragione nel duplice carattere dello stato ideale, secondo Kant, il quale non è soltanto unità, ma è anche autonomia dei singoli, libertà. Lo sviluppo di tutte le forme superiori della cultura è possibile solo in uno stato che sia uno, che abbia eliminato da sè tutte le opposizioni: ma che nello stesso tempo permetta l’autonomia dei singoli e l’antagonismo, la concorrenza tra di loro.
L’uomo, cosi possiamo riassumere in breve, è originariamente dotato d’una tendenza ad associarsi in gruppo, e della tendenza egoistica a dominare, a subordinare il resto a sè: anche queste tendenze sono, originariamente nell’uomo, al servizio esclusivo del suo egoismo e dei suoi impulsi sensibili. Ma per un processo provvidenziale il conflitto tra le volontà individuali dà meccanicamente origine ad un’unità conciliante in sè (più o meno perfettamente) la libertà dei singoli: questa unità è lo stato, nel cui duplice carattere (unità, libertà) si esplica, in ciò che ha di salutare, l’azione delle due originarie tendenze egoistiche dell’uomo.
Lo stato non è quindi una creazione della volontà morale: certo esso serve ai fini morali ed è diretto, nella sua funzione, dall’esigenza suprema dell’unità morale; ma in sè, nel suo essere immediato, esso non è che la migliore unità possibile delle volontà umane egoisti, che. Quest’unità certo esige che queste volontà siano esteriormente concordi fra loro: ma questa concordia esteriore non esclude affatto l’opposizione interiore. Anche un popolo di diavoli, dice Kant, potrebbe costituire uno stato: il problema si porrebbe per essi in questi termini: «dato una moltitudine di esseri razionali, che desiderano per la loro conservazione leggi generali, pur essendo ciascuno nel suo interno guidato solo dal più sconfinato egoismo, trovare un rapporto tale fra loro, che, sebbene nell’interno siano tutti ostili l’uno all’altro, tuttavia nell’azione esteriore diano luogo ad una azione concorde». È l’egoismo stesso che, urtando con l’egoismo altrui, trova conveniente limitarsi reciprocamente in modo da stabilire un modus vivendi relativamente duraturo: questo equilibrio, che deve risultare da principii generali (leggi) è lo stato. — Nemmeno perciò è un contratto originario come fatto : l’origine di fatto dello stato è nel conflitto irrazionale degli egoismi, non in un disegno razionale. Lo stato come contratto è anzi l’ideale e il criterio di ogni stato di fatto: giusta è la legge quando si può legittimamente presumere che in essa consentirebbero tutte le volontà razionali raccolte nello stato. Il processo storico ha il suo punto di partenza nelle forme più rozze di equilibrio sociale, create dall’egoismo e dalla violenza: e di qui tende per un’approssimazione indefinita verso quell’equilibrio razionale perfetto che ha appunto la sua espressione nella convenzione ideale del contratto sociale.
Questo è pertanto il fine immediato e il senso della storia (che è ancora natura) secondo Kant: la creazione d’un ordine sociale perfetto, il quale rende poi possibile alla sua volta la realizzazione di quei fini morali che costituiscono un regno tutto interiore, il quale trascende la natura. La storia non è che la lenta e faticosa conquista di quest’ordine attraverso il sorgere e il tramontare degli stati; nella sua realtà empirica essa risulta dalla semplice concatenazione meccanica delle volontà egoistiche umane; nell’interpretazione filosofica è un processo finale che ha in queste volontà egoistiche i suoi consapevoli strumenti. E quest’ordine sociale perfetto non ha nulla a vedere ancora con i fini culturali più alti, rispetto ai quali è soltanto mezzo; esso è semplicemente quell’ordine, quell’equilibrio delle volontà individuali, che è il più appropriato ad assicurare la loro cooperazione pacifica c perciò lo svolgimento delle attività umane più alte.
Il fine vero e proprio dello stato non è quindi la felicità — che è cosa del tutto individuale e da lasciare al criterio individuale. Lo stato assicura la felicità dei singoli assicurando a tutti il massimo della libertà: la quale poi permette a ciascuno di cercare la sua felicità per quella via che crede migliore, purché con ciò non offenda quella universale libertà che è conforme alla legge.
Se il governo emana leggi relative alla felicità e alI agiatezza, ciò è fatto solo in quanto esse sono mezzi per assicurarne lo stato giuridico o per contribuire a quella prosperità comune che deve essere una difesa contro i nemici esterni.
I fini veri e propri dello stato sono l’unità del tutto e la libertà dei singoli: ma poiché l’unità è posta generalmente fin dalle origini in forme violenti e dispotiche, il progresso dello stato è un passaggio a forme di unità più umane e compatibili con la libertà dei singoli: quindi un progresso verso la libertà. Ciò che caratterizza la filosofia politica di Kant è appunto questo senso vivo della libertà: che non è se non una conseguenza del suo alto concetto del valore e della dignità della personalità umana. Il valore della vita umana (anche rispetto ai fini più alti) è nella libertà. L’uomo che non è libero, non è più un uomo, ma uno strumento ed una proprietà d’altri, una cosa. Ben s’intende però che questa libertà, secondo Kant, è la libertà della personalità morale, non l’arbitrio individuale sconfinato: sebbene il diritto non abbia carattere morale e non miri che all’equilibrio delle volontà, questo equilibrio costituisce già — almeno esteriormente — un ordine morale, ha il suo fine ideale — ed il suo limite — nell’unità morale. Perciò la libertà verso cui esso tende è la libertà delle personalità morali — che solo può stabilire da sè, senza coercizioni, un accordo ed un equilibrio perfetto di tutte le volontà.
Ora, la personalità morale non può essere pensata senza un ordine morale collettivo: la libertà, come Kant la pensa, è inseparabile dalla volontà collettiva, dalla legge, ossia è la volontà secondo la legge (ideale).
Lo stato ideale è certamente quello in cui il singolo ha il massimo di libertà: ma in cui anche impera in modo assoluto la legge: due esigenze del resto che, ben lungi dal contraddirsi, si richiamano. Perchè lo stato più libero è quello nel quale più assoluto è il rispetto della legge.
Certamente questo stato ideale non è che un limite, ed anche l’approssimazione a questo limite è opera estremamente lenta e difficile. L’uomo è un animale, dice Kant, che quando vive con altri esseri della sua specie, ha bisogno d’un padrone. Egli infatti è pronto a desiderare che vi sia una legge che limiti l’egoismo degli altri: ma come animale egoistico eccettua secretamente sè stesso e abusa, se può, della sua libertà in rapporto agli altri. Quindi, poiché tutti in questo sono pari, il rispetto della legge resta un desiderio platonico: di qui la necessità d’un padrone che imponga a tutti il proprio volere costringendoli ad obbedire ad una volontà universalmente valida, cioè ad una legge. Ma anche questo padrone è un uomo, il quale avrebbe alla sua volta bisogno di un altro padrone: sia che questo padrone sia un uomo solo od un gruppo, esso sarà tratto ad abusare della sua libertà e del suo potere.
La storia c’insegna quanto sia difficile l’indurre quelli che hanno in mano il potere a stabilire tra il proprio volere e il collettivo un rapporto giuridico: questo implica un grado di nobiltà e di grandezza morale (senza di cui qualunque costituzione non è che una menzogna) da una parte, un grado di maturità e di senso civile dall’altra, che sono condizioni non realizzabili se non difficilmente ed attraverso una lunga evoluzione. Ad ogni modo Kant traccia le linee generali e concrete di questo ideale — che è lo stato democratico liberale.
Esse possono venir riassunte in tre principi fondamentali: la libertà, l’uguaglianza e l’indipendenza dei cittadini.
La libertà riassume in sè l’essenza dello stato, la cui legge cardinale è già così espressa nella Critica della ragion pura (ediz. Valent., pag. 330-331). «(Una costituzione inspirata alla più grande libertà umana secondo leggi, le quali fanno sì che la libertà di ciascuno possa coesistere con quella degli altri (e non alla più grande felicità, la quale non sarà che una conseguenza) è quanto meno un’idea necessaria che non deve essere contenuta solo nel primo abbozzo della costituzione, ma deve essere posta a fondamento anche di tutte le leggi».
Nessuno deve quindi avere il diritto di intromettersi in quella sfera della mia attività che mi appartiene, in quanto qualunque cosa io faccio entro i suoi limiti non reco violenza alla libertà degli altri. È già stato osservato che in concreto è difficile stabilire una sfera d’attività individuale che sia senza ripercussione sull’attività altrui: la società è un complesso di azioni e reazioni, in cui ogni punto esercita una maggiore o minore ripercussione sugli altri. La volontà altrui che io non debbo offendere non è del resto tanto la volontà individuale, quanto la volontà complessiva riassumente in sè la maggiore unità possibile di tutte le volontà singole: nei suoi limiti legittimi l’altrui volontà coincide con questa volontà complessiva. La legittimità della limitazione della mia volontà dipende perciò dalla legittimità di questa volontà complessiva.
Liberi sono perciò i cittadini quando la volontà collettiva è legittimamente espressa: il principio della libertà dice che nessuna volontà deve limitare l’attività individuale se non la legge. Kant distingue perciò due forme di regime: il regime repubblicano o patriottico e il regime dispotico. Dispotico è ogni regime in cui la autorità limitatrice è qualche cosa di personale, non è l’espressione legittima della volontà collettiva.
Anche se questo regime personale fosse un regime paterno, in cui l’autorità tratta i sudditi come figli minorenni, i quali non sapendo distinguere il bene dal male debbono aspettare dalla bontà e dalla grazia del principe il modo con cui debbono essere felici, esso è, secondo Kant, la forma più ingiuriosa e degradante di governo, indegna di uomini che sentono di essere capaci di diritto.
Patriottico o repubblicano è invece quel regime in cui nessuno può esercitare nello stato il suo volere privato, ma anche lo stesso principe è strumento della volontà collettiva legittimamente espressa: dove quindi ciascuno sente di essere soggetto del diritto e fattore di questa volontà collettiva, anche se questa debba costituire per lui un limite.
«È patriottica in altri termini quella concezione, per cui ognuno nello stato (non escluso il sovrano) considera il corpo comune come il grembo materno da cui egli ha tratto la vita o il paese come il suolo paterno in cui è nato e che egli pure deve tramandare qual pegno prezioso ai discendenti e lo considera così solo allo scopo di difenderne i diritti con le leggi della volontà generale, e non si ritiene per contro autorizzato a sottoporlo per proprio uso al suo incondizionato capriccio» (Ueber den Gemeinspruch: «Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis», ediz. Vorl., pag. 88).
Il principio della libertà si riassume quindi in questo: nello stato deve imperare soltanto la legge.
Il principio dell’uguaglianza è così espresso: «ogni membro della collettività dove poter giungere in essa a quel grado a cui possono elevarlo il suo talento, la sua attività e la sua fortuna: e non possono gli altri sudditi per via di prerogative ereditarie ostacolarlo per opprimere con esse perpetuamente lui ed i suoi discendenti» (ib, p. 89-90).
Questo principio è chiaro ed è esplicabile per le circostanze storiche. Non altrettanto chiara e coerente è invece la deduzione e l’estensione che Kant ce ne ha dato. Quanto alla deduzione, è abbastanza facile mostrare che il principio d'uguaglianza discende dal principio della libertà. Nessuno può limitare la volontà di un altro se non per via della legge: ma anche questo altro non può limitare quella del primo se non per la legge: vale a dire tutti i cittadini hanno azione gli uni contro gli altri solo in quanto la loro volontà coincida con la legge; in quanto (vale a dire) sono soggetti razionali: sul che non può esservi disparità dall'uno all’altro. Si capisce che essendo lo stato un organismo, i singoli debbono, dalle esigenze stesse della sua conservazione (cioè dalla volontà collettiva) essere posti in condizioni d’uguaglianza, ed ogni disuguaglianza ulteriore deve essere giustificata solo dalle esigenze collettive. Nessuno deve per esempio per la nascita essere predestinato ai gradi superiori dell’esercito o impedito di conseguirli (come avveniva sotto l’antico regime): ma è legittimo che la capacità e le altre doti operino una separazione ed assegnino un posto diverso. L’introduzione di un privilegio originario stabilirebbe una disuguaglianza originaria, non giustificata da alcuna proprietà od attività dell’individuo e perciò non giustificabile dalle esigenze collettive: essa verrebbe a porre in astratto due specie diverse di soggetti razionali e quindi l’impossibilità di un’unificazione razionale della loro volontà: cioè l’impossibilità della legge — che è condizione di libertà. Quindi nessuno può avere, in uno stato libero, privilegi di nascita, nè trasmetterli; nessuno ugualmente (osserva con ragione Kant) può rinunziare a questo diritto innato (la qualità di essere razionale) e rendersi schiavo, vale a dire per un atto del soggetto razionale negare sè stesso come soggetto razionale. Anche la schiavitù come istituzione è negata da questo principio: se lo schiavo è uomo, è partecipe del diritto del soggetto razionale e l’esclusione sua dal consorzio libero è negazione del diritto della ragione.
Fino a questo punto possiamo essere d’accordo con Kant. Non possiamo invece trovare giustificabile la limitazione che egli pone a questo principio (esplicabile del resto anch’essa con le condizioni del tempo). L’n-guaglianza degli individui (egli dice) è invece conciliabile con la più grande disuguaglianza nelle doti fisiche o morali, quanto nella posizione economica ed in genere nel possesso di tutto ciò che è acquistabile e alienabile.
Quanto al primo punto si comprende: l’uguaglianza degli individui vale per essi come soggetti razionali; la disuguaglianza naturale è un fatto che l’uguaglianza di diritto non annulla, ma subordina al fatto della loro uguaglianza generica come soggetti razionali. Questa subordinazione implica che, qualunque siano le loro disuguaglianze, essi debbono sempre venir trattati come soggetti razionali e quindi anche la diversità di trattamento deve essere sempre giustificata da esigenze razionali, cioè dalle esigenze della volontà collettiva.
Ma il secondo punto è meno giustificabile. La diversità originaria delle condizioni economiche non è tale che possa venire annullata dall’individuo: essa appare una barriera che è quasi altrettanto insormontabile quanto quella della nascita, e che non è socialmente giustificabile. Anche Kant ha condiviso il preconcetto del liberalismo politico del suo tempo, che si è arrestato dinanzi all’esigenza di una riforma sociale economica, altrettanto indeclinabile quanto la riforma politica.
Il terzo principio dell'indipendenza esige che ogni membro del corpo sociale sia partecipe del potere legislativo. Soltanto a questa condizione infatti può dirsi libero: perchè allora la legge di cui subisce l’imperio è anche opera sua : e ciò anche nel caso in cui egli vi sia contrario e debba sottomettersi ad essa come alla volontà collettiva predominante. Laddove se egli resta estraneo alla costituzione della legge, essa è per lui una volontà estranea, un’imposizione illegittima, una violenza, non un diritto. La sola condizione è che il singolo sia un soggetto razionale: per la partecipazione alla costituzione della volontà collettiva non si richiede altro.
Questa partecipazione non è un particolare inerente all’organizzazione dello stato e perciò dipendente dalle doti personali: questa medesima organizzazione presuppone già quella volontà collettiva che pertanto deve risultare dalla uguale partecipazione di tutti i singoli: l’esclusione creerebbe una disparità una dualità ingiustificata e contradditoria. La sola esclusione possibile riguarda coloro che non possono venire considerati come soggetti razionali: i bambini, i mentecatti, quelli che un regolare giudizio dichiarasse decaduti dai diritti civili.
Ma non è giustificabile la distinzione che Kant introduce fra cittadini veri e proprii aventi diritto di voto e i protetti dallo stato, una specie di cittadini di seconda classe, tenuti all’osservanza delle leggi e da esse protetti, ma non partecipanti alla legislazione. Tra questi Kant annovera le donne: esclusione ingiusta, alla quale la legislazione più civile ha riparato. Ed annovera i sudditi economicamente non indipendenti, gli addetti ad opere servili: con la quale cosa egli non fa che dimostrare l’ingiustizia d’una costituzione sociale che ammette una dipendenza economica servile.
La condizione essenziale d’una costituzione civile è pertanto questa: che i singoli, in quanto soggetti razionali, non abbiano altra limitazione della loro volontà se non da parte della legge (libertà), siano tutti di fronte alla legge in condizione di originaria eguaglianza (uguaglianza), e partecipino tutti alla costituzione della legge (indipendenza).
Ora come, per quale processo deve aver luogo questa costituzione della legge sul fondamento delle volontà dei singoli?
Genericamente Kant inclina al sistema rappresentativo: al diritto della maggioranza: l’ideale suo è quello di un governo rappresentativo democratico: la sorgente del diritto è la volontà di tutti, non certo nel senso dell’addizione delle volontà egoistiche ed impulsive, ma nel senso dell'unità razionale delle volontà dei singoli. Si comprende perciò il suo entusiasmo per la rivoluzione francese (che del resto nella Germania di allora era almeno in principio, abbastanza diffuso): che egli conservò sempre pur non approvando gli eccessi del terrore: e che non dubitò di esprimere in pubblico anche più tardi quando il pensare così attirava il nome pericoloso di «giacobino» e fioriva intorno a lui, fra i suoi stessi colleglli, lo spionaggio politico. Il paese al quale andavano le sue simpatie era l’Inghilterra, nella quale vedeva realizzata la vera costituzione d’un popolo civile. Però non dobbiamo credere con questo che Kant fosse un fautore del sistema parlamentare. Egli vedeva benissimo come la corruzione parlamentare rendesse possibile, anche in Inghilterra, sotto forme liberali, un governo in realtà assoluto: ciò che spiegava la sua politica predatrice od immorale nel rapporto con le colonie.
Il problema del governo rappresentativo è questo: come far sì che la volontà dei singoli si esprima, in ciò che ha di veramente universale e perciò d’ideale, nella sua rappresentanza?
Il sistema parlamentare, — della nomina diretta per suffragio universale a base di maggioranza — non è che uno dei sistemi, e forse il più rozzo: quindi la condanna del sistema parlamentare non implica per nulla la condanna del liberalismo democratico. Ad ogni modo Kant non si è espresso ulteriormente su questo problema: che del resto, più che i filosofi, deve interessare gli uomini di stato ed i politici.
L’essenziale, secondo Kant, non è la forma esteriore del governo, ma lo spirito. Se il sistema rappresentativo è la sola forma di governo civile, ciò è perchè in esso il potere legislativo è separato dall’esecutivo: e cioè mentre il potere legislativo è posto nella totalità dei cittadini, la costituzione della legge ha luogo mediante un processo di progressiva epurazione ed unificazione: nel potere esecutivo stabilito dalla legge per la sua esecuzione la volontà caotica e violenta del grande numero si idealizza, attua la sua unità razionale, diventa la vera volontà collettiva. Perciò Kant dice che un governo è tanto più perfetto quanto minore è il numero di quelli che hanno il dominio e quanto maggiore è il numero di quelli che vi sono rappresentati: e considera il governo diretto del popolo come un despotisme contrario alla libertà.
Anche un monarca assoluto può governare repubblicanamente: quando governa il popolo secondo quei principii che un popolo con matura ragione s’imporrebbe, anche se non è stato intorno ad essi interrogato (Streit d. Fakultaeten, ediz. Vorl., pag. 138).
Il criterio più sicuro di questo carattere democratico e liberale dell’attività del governo Kant lo vede nella pubblicità dei suoi atti: il giusto è ciò che è pubblicamente palesabile.
Una massima che non si può pubblicamente confessare perchè contro di essa si solleverebbe un’opposizione generale, non può derivare da altro che dall’ingiustizia.
Un altro carattere dello stato civile è il suo rispetto della libertà di pensiero e di giudizio. I singoli non sono ancora soggetti razionali, capaci di un giudizio e d’una volontà autonoma: la maggior parte vive in uno stato di tutela, di minorità spirituale che rende possibile il suo asservimento alla minoranza dei più abili e dei più forti. L’interesse ideale dello stato coincide qui con l’interesse della ragione: la libera ricerca, la libera discussione sono i soli mezzi coi quali è possibile illuminare la coscienza pubblica, svolgere in essa la ragione dormiente, trasformare i sudditi in cittadini liberi e consci dei loro doveri. Questa libertà ha inoltre un altro salutare effetto: quello d’illuminare il governo stesso. Poiché vi è poca probabilità che i re filosofeggino o i filosofi diventino re (ciò che non è nemmeno da desiderarsi perchè possedere la forza turba il libero giudizio delia ragione), il meno che si possa desiderare è che i filosofi possano nello stesso parlare liberamente e far sentire in mezzo al conflitto delle passioni e degli interessi, la voce disinteressata della ragione.
Un’ultima questione ci resta da esaminare: quella del diritto alla ribellione: — Noi abbiamo visto che lo stato ideale è quello in cui l’azione del governo coincide con la volontà razionale collettiva. Ma se non coincide, anzi va contro ad essa, che cosa deve fare il singolo? In altre parole, nel caso di un governo tirannico, è lecita la ribellione o doverosa l’ubbidienza?
Secondo Kant se il governo è legale ed agisce legalmente, il cittadino deve ubbidire. La resistenza violenta del suddito sarebbe non soltanto la negazione dei governo tirannico, ma la negazione di ogni ordine civile: perchè un diritto è possibile solo nel seno di quest’ordine: negato l’ordine esistente, in virtù di che cosa potrebbe essere ancora affermato un diritto, il diritto di resistenza? Kant su questo punto è reciso: non vi è diritto alla ribellione. Questo preteso diritto è un’intrusione del principio della felicità: lo stato non ha per oggetto la felicità del popolo, ma lo stabilimento di un ordine giuridico: fuori del quale non si può parlare di diritto.
Come dunque ammettere in una costituzione un diritto che non potrebbe essere fatto valere se non con la forza, annullando ogni vincolo giuridico? Perchè non vi può essere un potere superiore al principe e al popolo che in caso di conflitto possa decidere giuridicamente da qual parte sta il diritto: e d’altra parte nessuno può essere giudice in causa propria.
Questo non vuol però dire che Kant sia d’accordo con Hobbes, secondo il quale il capo dello stato non è a nulla obbligato verso il cittadino e non può mai commettere ingiustizia verso di lui. L’individuo ha i suoi inalienabili diritti, che in fondo si riducono ad essere e valere nello stato come soggetto razionale, ed è in grado di giudicare della giustizia o dell’ingiustizia delle decisioni dell’autorità: soltanto non deve arrogarsi il diritto di resistere ad esse con la forza.
Ma nello stato bene ordinato egli deve avere il diritto di manifestare liberamente le sue opinioni su ciò che nelle disposizioni dell’autorità gli sembri ingiusto riguardo alla collettività. Perchè ammettere che il principe non possa sbagliare sarebbe come rappresentarlo quale un essere celeste e dotato d’una ispirazione sovrumana. Perciò la libertà di stampa nei limiti dell’ossequio alla costituzione è il vero palladio dei diritti del popolo. Negare questa libertà è un impedire al governo stesso di essere informato dei suoi errori e di essere guidato dal consenso dell’opinione pubblica. Perchè questa, quando sia liberamente e sinceramente espressa, è il principio su cui deve orientarsi il legislatore: «quello che un popolo non può deliberare su sè medesimo, non può nemmeno il legislatore deliberarlo sul popolo». Che se il principe non ascolta questa voce della volontà collettiva o le impedisce di manifestarsi, che cosa accade? Accade che allora per fatto stesso del principe, è distrutta l’essenza stessa dello stato: il conflitto si riduce a un conflitto di forza e lo stato stesso si rende malsicuro: perchè se non c’è qualche cosa che per mezzo della ragione meriti il rispetto difficilmente la pura forza riesce a tenere in freno le volontà degli uomini. E se nel popolo si costituisce una volontà unica collettiva, lo stato non è più dalla parte del principe; la rivoluzione non è più una rivoluzione, ma un giusto giudizio.
Ma il problema dello stabilimento d’una costituzione civile perfetta in un popolo non può essere risolto indipendentemente da un altro problema: da quello di regolare giuridicamente i suoi rapporti con gli altri popoli. Questo è stato, come è noto, l’ideale a cui Kant ha dedicato gli ultimi suoi pensieri, specialmente nel saggio «Sulla pace perpetua» (1795).
Diciamo subito che non si tratta qui di un sogno sentimentale. Chi accusa Kant di sentimentalismo, non lo conosce: nessuno più di lui conosceva la vera natura degli uomini e sapeva vedere con occhio realistico e con sano pessimismo la società e la storia.
Egli vedeva bene che cosa erano i capi degli stati, non mai sazi di guerre, che dichiaravano una guerra a cuor leggero come fosse una partita di piacere, invece di considerare con profonda umiltà il peso terribile del loro alto ufficio, come avrebbero dovuto fare se avessero avuto un poco d’intelligenza: vedeva la grave e solenne superficialità degli uomini di stato col loro gesuitico opportunismo; vedeva le miserie materiali e morali dei popoli e dichiarava egli stesso (Lose Blaelter, pag. 584) le esortazioni morali ai principi ed ai popoli come la cosa più inutile di questo mondo. Egli sapeva che l’dea d’una pace universale intesa come una realtà del domani è un sogno inutile : e non sperava nemmeno per questo nella generosità degli uomini. Egli vede in essa soltanto il lontano ideale al quale poco per volta il meccanismo storico dell’egoismo umano ci avvicina: quindi un compito, un indirizzo, non uno stato che dobbiamo e possiamo realizzare subito. E che egli non fantasticasse chimerici progetti, lo dimostra anche il progetto da lui messo innanzi nella Dottrina del diritto (1797) d’un congresso permanente degli stati all’Aia, per derimere le questioni tra gli stati. (Rechtslehre, § 61). Egli era una natura realistica tanto quanto il più abile dei politici: ma era anche un filosofo idealista e perciò vedeva più profondamente e più lontano che qualunque uomo politico.
Se gli uomini hanno assicurato l’uno di fronte all’altro la libertà e i propri beni nello stato, gli stati sono ancora fra di loro in quello stato di barbarie che antecede il diritto. Perciò è costante in essi l’aspirazione a soggiogarsi ed a sminuirsi: onde gli armamenti difensivi che rendono la pace altrettanto rovinosa quanto la guerra. Ora qui si presenta una questione. Dobbiamo credere che tutte queste azioni e reazioni caotiche degli stati non abbiano in sè nulla di ragionevole e le cose debbono sempre restare come sono state? In modo che perciò o i loro conflitti debbono condurci accidentalmente (come gli atomi d’Epicucro) ad un qualche ordine stabile, o possano anche condurre l’umanità a distruggere nuovamente, in un abisso di mali, tutta l’opera della coltura? Oppure dobbiamo credere che la natura segua qui un corso regolare, miri a dei fini, sebbene l’uomo per sè non sappia di cooperarvi?
Ammettere il caso, sarebbe come ammettere una finalità nei particolari e un’assenza di fini nell’insieme. Se vi è una finalità inconscia nella costituzione dello stato, vi è anche una finalità nella storia e nei rapporti degli stati: gli stessi mali che all’umanità derivano dalla libertà barbarica degli stati, dovranno costringerla a cercare una legge che appoggiata alla forza di un potere collettivo, costituisca un ordine e un diritto cosmopolitico in cui la sicurezza dei popoli sia pubblicamente garantita. Anche qui la natura si serve della discordia degli uomini, delle guerre e delle miserie che ne derivano per conciliare l’inevitabile antagonismo degli uomini con la pace e l’unità; per svolgere tutte le energie e le particolarità dei singoli popoli e nello stesso tempo condurli attraverso sistemazioni instabili ed imperfette verso una grande federazione di popoli, nella quale si esprima per mezzo di leggi, la volontà collettiva dell’umanità. Perchè una pace durevole ottenuta per mezzo del cosidetto equilibrio delle forze è semplicemente una chimera, come quella casa di cui parla Swift, che era costruita secondo le leggi dell’iquilibrio con tanta perfezione che bastò vi si posasse un passero perchè rovinasse.
Certo a questo i popoli non saranno condotti dalla buona volontà, ma dall’egoismo e dalla necessità. Mai vorranno gli stati accettare sinceramente l’idea d’una confederazione universale alle cui leggi debbano ubbidire: ma a questo li porterà la miseria crescente derivante dalle continue guerre. Infatti la crescente coltura degli stati con il crescere dei bisogni, delle raffinatezze della vita, dei rapporti internazionali derivanti dalle esigenze dell’industria e del commercio, rendon sempre più difficili i rapporti fra i popoli: e gli eserciti stabili, disciplinati e muniti di tutti gli istrumenti guerreschi più perfezionati, sono essi stessi il più potente incentivo alla guerra. Ma le guerre creeranno una miseria economica sempre maggiore e nessuna pace durerà tanto a lungo da poter restaurare le perdite della guerra: e il ritrovato del debito pubblico è un mezzo ausiliario ingegnoso, ma che finisce per distruggere sè stesso. Si che la miseria dei popoli finirà per fare quello che avrebbe dovuto fare la volontà buona: cioè togliere la facoltà di far la guerra ai principi, i quali la fanno a spesa del popolo e riserbare a sè la facoltà di decidere se una guerra sia o non sia necessaria. E per quanto gr(ave possa sembrare agli stati il rinunziare alla propria libertà sconfinata, (piando essi vedranno il proprio vero vantaggio e potranno decidere liberamente intorno al proprio destino, anch’essi faranno ciò che altrettanto malvolontieri ha fatto l’uomo selvaggio: cioè rinunzieranno alla propria libertà selvaggia e cercheranno quiete e sicurezza in una costituzione internazionale retta da leggi.
Così proprio l’antagonismo delle inclinazioni che hanno per fine il male, procura alla ragione un libero gioco, per mezzo del quale essa le soggioga tutte e fa trionfare, in luogo del male che distrugge sè stesso, il bene, che, una volta prodotto, si mantiene da sè medesimo nell’avvenire.
Questa subordinazione dello stato ad una legislazione internazionale, è una condizione del suo progresso civile e morale. «Fin tanto che gli stati impiegano tutte le loro energie in vane e violente mire d’ingrandimento, ostacolando così incessantemente i lenti sforzi diretti all’interiore educazione della coscienza dei propri cittadini, negando in ciò ad essi ogni aiuto, non è da aspettarsi alcuna vera coltura morale: perchè a ciò occorre un lungo lavorò, nell’interno dei singoli stati, diretto alla formazione dei cittadini. Ogni prosperità che non sia fondata su d’una volontà morale buona, non è che pura apparenza e splendida miseria. Ed in questo stato rimarrà certo la specie umana finché non si sarà adoperata per uscire, nel modo che abbiamo detto, dalla caotica condizione dei suoi rapporti internazionali» (Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlischer Absischt», ediz. Vorl., pag. 15).
D’altra parte, non si può sperare un reale avvicinamento all’ideale della pace universale, se non quando gli stati avranno una vera costituzione civile, in cui la legge sia la vera espressione della volontà collettiva.
«La costituzione repubblicana oltre la purezza della sua origine, essendo essa derivata dalla limpida fonte del concetto del diritto, offre anche la prospettiva dell’effetto desiderato, cioè la pace perpetua: e ciò per questa ragione. Se, come in questa costituzione non può essere altrimenti, si richiede l’adesione dei cittadini per decidere se una guerra debba o non debba farsi, non c’è niente di più naturale che essi riflettano bene, prima d’intraprendere un giuoco così pericoloso, perchè essi dovranno assumere sopra di sè tutte le calamità della guerra (il combattere personalmente, il pagare del proprio le spese, ripararne penosamente le rovine, e da ultimo per colmo di sciagura, addossarsi il peso dei debiti sempre nuovi per le nuove future guerre): mentre in uno stato dove il suddito non è cittadino il decidere d’una guerra è la cosa più semplice di questo mondo, perchè il sovrano non è membro dello stato, ma ne è il proprietario e per via della guerra non perde nulla dei suoi banchetti, delle sue caccie, dei suoi castelli, delle sue feste: può quindi dichiararla per futili motivi come una partita di piacere, lasciando poi ai diplomatici, sempre pronti a ciò, di trovarne una giustificazione per salvare le apparenze» (Per la pace perpetua, ediz. Vorl., pag. 127-128).
La costituzione civile dello stato e la sua subordinazione ad una federazione internazionale, sono quindi ideali che si richiamano a vicenda: anche da questo è facile vedere che noi ne siamo ancora ben lontani. Ma questo non importa: l’essenziale è che noi riconosciamo in essi, non delle utopie, ma degli ideali, realizzati e realizzabili anche in minima parte, ma che in ogni modo possiamo porre dinanzi a noi come un compito ed un fine verso il quale dobbiamo tendere fin d’ora ed indirizzare i nostri sforzi.
L’ideale di questa costituzione dell’umanità sarebbe uno stato di nazioni che abbracciasse tutti i popoli della terra; ma che lasciasse ad ogni popolo le sue particolarità e la sua libertà e non pretendesse di ridurre tutta la terra sotto un giogo unico. In questo caso è sempre meglio lo stato di guerra che la fusione degli stati in una monarchia universale: perchè «di mano in mano che il dominio si estende, le leggi perdono sempre più di forza e un dispotismo senz’anima, dopo aver spento i germi del hene, finisce per degenerare in anarchia». Tuttavia anche Kant riconosce che questo ideale è ancora troppo remoto: più vicino e più pratico può essere l’ideale di una federazione universale, di una lega della pace, avente di mira, non l’acquisto di potenza, ma semplicemente la conservazione della libertà e della sicurezza dei singoli stati confederati.
Questa confederazione (che è come il surrogato, la preparazione dello stato universale) non è qualche cosa di inattuabile: basterebbe che un popolo potente e costituito repubblicanamente formasse un primo nucleo centrale per l’unione con altri stati: l’interesse, lo spirito commerciale, il senso stesso del diritto estenderebbero a poco a poco questa aggregazione iniziale a tutti i popoli civili. E dove non venisse la libera adesione, soccorrerebbe poi la forza: perchè, come il singolo nello stato, cosi ogni singolo stato può pretendere, per la sua sicurezza, che gli altri stati entrino con esso in una società giuridica, nella quale sia ad ognuno assicurato il suo diritto.
La storia non ha confermato, almeno per il secolo immediatamente seguente, le speranze di Kant e la storia recente vi è meno favorevole ancora. Ma il valore dell’ideale è indipendente da questa attuazione immediata. Sia esso per attuarsi o non in questa nostra nostra civiltà occidentale, ogni diritta coscienza sarà con Kant nel considerare la guerra come una piaga orribile dell’umanità, che ha la sua origine nelle cupidigie e nell’egoismo dei potenti.
La guerra è in realtà ancora una barbarie della quale l’umanità dovrebbe vergognarsi, non gloriarsi. Un popolo non dovrebbe, a guerra finita, soltanto festeggiare la pace, ma anche stabilire un giorno di penitenza per domandare al cielo in nome dello stato grazia per il grave peccato di aver fatto la guerra. E nessuno dovrebbe ardire durante la guerra, di alzare al Padre di tutti gli uomini inni di ringraziamento per la vittoria dimostrando così, non solo insensibilità per la barbara violenza, ma anche gioia per aver distrutto la vita e la felicità di tanti uomini. (Per la pace perpetua, ediz. Vorl., pag. 135 nota). In questo, come in tanti altri punti, la cosidetta umanità civile è ancora in pieno stato di barbarie.
Il concetto kantiano dello stato e delle sue finalità ultime ci offre anche il modo di risolvere una questione agitata al suo tempo e che anche oggi non è senza interesse: la questione del rapporto fra la politica e la morale. Lo stato, abbiamo veduto, non è un istituto morale; ma ha la sua ragion d’essere nella vita morale e tende ad un ordinamento esteriore che risponde perfettamente alle esigenze della vita morale: ad esso manca soltanto quell’interiorità che è l’esigenza della vita morale. Ma ciò non toglie che questa è per il suo svolgimento la legge finale e il criterio di valore: quindi essa dà alle attività sue la norma suprema. Certo se si considera la realtà dei fatti politici, non si scorge in essi alcuna traccia di volontà morali: sono conflitti di passioni e di interessi. Perciò il politico puro proclama la vanità d'ogni principio morale nella politica: che deve essere unicamente fondata sulla conoscenza degli uomini e sul l’accortezza. Ora questo è unicamente un effetto della loro cecità di uomini puramente pratici che credono di far consistere la suprema saggezza solo nel mirare al vantaggio immediato di sè e del proprio partito e si fondano unicamente sul meccanismo delle passioni e degli interessi umani, deridendo ogni visione e concezione superiore. Ma di costoro può ben dirsi che vedono gli alberi e non la foresta: conoscono gli uomini e non conoscono l’uomo: per il che si esige un punto di vista ben più elevato.
Questa politica non è mai salutare ai popoli; ed anche individualmente, quando è sfortunata, non è che un capolavoro dell’egoismo. Certo essi hanno ragione di deridere chi voglia trattare la politica da un puro punto di vista morale: ma se la vita collettiva è un intreccio di azioni e reazioni egoistiche aventi una finalità morale (nell’intenzione della natura), non è difficile vedere che una conciliazione tra questi due punti di vista è possibile. Nel campo della politica non è lecito certamente procedere con l’ingenuità delle anime semplici: ma è vana presunzione anche di potere in essa con la semplice accortezza abbracciare e prevenire tutto il meccanismo delle cause naturali. Quest’accortezza può servire caso per caso: ma l’insieme deve essere considerato sotto un altro aspetto: e questa considerazione deve anche guidare l’accortezza nel suo caso per caso.
Giove, il Dio della forza, è soggetto anch’esso al fato: la coscienza chiaramente ci insegna che la vita umana è tutta indirizzata verso alti fini che trascendono il meccanismo delle azioni naturali.
Tutta l’azione del politico deve essere pertanto guidata dall’accorgimento che dà la conoscenza realistica degli uomini: ma deve essere inspirata nel suo insieme da una visione idealistica fondata sul concetto del dovere. Quindi il politico vero avrà di mira anche ciò che il volgare non vede, una riforma dello stato nel senso morale: ma la realizzerà solo nella misura che le condizioni reali lo permettono, perchè ogni riforma precipitata ha per solo risultato l’anarchia. Preparerà lo spirito prima che le forme esteriori, terrà nel debito conto le esigenze della conservazione dello stato: ma dirigerà costantemente ogni suo sforzo nel senso che i principii di libertà e di giustizia richiedono. Sopratutto eviterà tutto ciò che va contro essi direttamente: perchè tutto ciò che è in sè ingiusto, non solo non è giustificato dal fine (che è il fine morale), ma anzi va direttamente contro questo fine.
Un’applicazione di questo principio sono le considerazioni che Kant svolge relativamente al jus bellicum. Nessun stato in guera con un altro deve permettere atti di ostilità tali da rendere impossibile la reciproca fiducia nella pace futura: la guerra, in breve, deve essere una specie di duello leale e non deve trasformarsi in una guerra di sterminio. È vero che due stati belligeranti sono nello stato di natura e perciò non si può dire che l’uno o l’altro sia un nemico ingiusto, perchè solo il successo, nello stato di natura, decide da che parte sia il diritto. Perciò è vano, da un punto di vista obbiettivo, proclamare la giustizia della propria causa: nella guerra non vi è giustizia. Ma anche la guerra deve essere indirizzata verso la giustizia: cioè non deve rendere impossibile lo stabilimento dei vincoli giuridici e con esso la giustizia: perciò non dev’essere condotta con mezzi abbietti e sleali, i quali perpetuerebbero lo stato di guerra anche dopo la conclusione della pace.
Si aggiunga ancora che l’uso di questi mezzi crea poi condizioni morali le quali si estendono anche dopo la guerra: l’uso delle spie, per esempio, abitua alla mancanza del senso d’onore e così rende possibile poi il fiorire dello spionaggio anche nel seno della pacifica convivenza civile.
Il processo storico universale s’identifica cosi per Kant con il processo della costituzione dello stato civile, ossia del passaggio dallo stato di natura (lo stato di barbarie) allo stato d’organizzazione giuridica di tutta l’umanità: stato puramente ideale, dal quale l’umanità presente è ancora ben lontana. Dal punto di vista teoretico puro questo processo è una pura consecuzione meccanica: ma ad una più profonda considerazione esso si risolve in un processo teleologico, in un tendere (per lo più inconsapevole) dell’umanità verso questo fine, come verso la condizione della sua vita morale. Sotto questo secondo aspetto è risolta quindi per Kant la questione che ogni spirito angosciosamente si pone in occasione di ogni visione filosofica della storia: vi è realmente un progresso?
Kant ha specialmente trattato di questo problema in due punti: nel terzo capitolo della sua operetta «Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non è applicabile nella pratica» (1793); e nella seconda sezione della sua «Disputa delle facoltà» (1798). E nella soluzione che egli ne ha dato confluiscono visibilmente due tendenze. In primo luogo deve sempre essere tenuto fermo il punto di vista trascendentale: la visione del progresso storico come di ogni processo è finale, è una visione subbiettiva che non può pretendere ad alcun valore teoretico.
Ma accanto a questi si fa sentire vivamente in Kant un secondo motivo, nel quale si riflettono vivamente gli ideali e le aspirazioni del suo tempo: la fede viva, ardente, entusiastica nel progresso civile dell’umanità. Come si conciliano questi due punti di vista? Non si può negare che in Kant il secondo tende spesso a prevalere: ma chi analizzi nei suoi particolari il concetto che egli ci dà del progresso vede facilmente che egli lo subordina sempre al primo e fondamentale punto di vista della sua filosofìa.
Egli respinge prima di tutto la teoria che nega, anche empiricamente, l’esistenza di un progresso qualsiasi: che nega quindi con esso anche ogni parvenza di un ordine esteriore delle cose umane, indirizzato verso il progresso morale. Contro Mendelssohn si rivolge Kant, a questo riguardo in un passo eloquente dell’operetta «Sul detto comune, ecc.). Noi vediamo, dice Mendelssohn, che il genere umano nel suo insieme compie delle piccole oscillazioni: e non fa mai alcuni passi in avanti senza tornare ben presto indietro al punto di prima. L’uomo avanza: ma l’umanità ha dei continui alti e bassi entro confini fissi: riguardata nell’insieme mantiene all’incirca in tutte le età il medesimo grado di moralità, la stessa quantità di religione e di irreligione, di virtù e di vizio, di felicità e di miseria. Ciò che accade è sempre accaduto: Mendelssohn ricorda qui la filosofia scetticamente rassegnata dell’Ecclesiaste. Kant si volge quasi sdegnato contro questa opinione. Egli riconosce che il problema non può essere deciso con una constatazione empirica: se anche fino adesso l’umanità è andata di male in peggio, si può dire che essa non sia vicina al punto critico in cui il bene riprenda il sopravvento? E se è veramente progredita, si può predire con certezza che questo progresso debba continuare? Se l’uomo fosse una natura buona, sebbene limitata, si potrebbe predire con certezza il progresso verso il bene: ma in lui si combattono due principii e noi non possiamo predire quale sarà il risultato.
Ma l’argomento inoppugnabile della realtà del progresso sta, secondo Kant, nella nostra volontà morale, nel dovere che noi abbiamo di lavorare per il miglioramento morale dell’umanità. Qualunque ipotesi sul progresso non è che un’ipotesi: ma il dovere è una certezza della ragione, che non avrebbe senso senza la presupposizione della realtà del progresso. E ciò tanto è vero, dice Kant, che anche Mendelssohn non si sarebbe adoperato con tanto zelo per l’elevazione della nazione ebraica se non avesse sperato che sarebbero venuti dopo di lui altri che avrebbero continuato l’opera sua.
Questa esigenza morale è posta anche in luce dal consenso morale disinteressato con cui la coscienza pubblica accoglie i grandi rivolgimenti storici, in quanto essi sono o sembrano essere un progresso dell’umanità verso il suo fine ideale. Questo è applicato da Kant sopratutto all’evento che aveva scosso così profondamente le coscienze dell’età sua, alla rivoluzione francese. «La rivoluzione di un popolo intelligente che noi abbiamo veduto svolgersi dinanzi a noi, poteva riuscire o naufragare (Kant scriveva nel 1798): potrà essere riempita con miserie e crudeltà tali che un uomo di retto pensare, se anche potesse sperare di compierla felicemente una seconda volta non si deciderebbe forse mai a tentarne la prova a così grave prezzo; questa rivoluzione, dico, trova tuttavia nell’animo di tutti gli spettatori tale una partecipazione che confina con l’entusiasmo, anche quando la manifestazione di questo entusiasmo può essere pericolosa, e mostra così di avere per fondamento la disposizione morale che è in fondo all'anima di tutti gli uomini».
Però questo progresso è pur sempre il risultato delle azioni e reazioni meccaniche delle volontà egoistiche. Anche il progresso avvenire non dobbiamo attendercelo dai nostri sforzi, quanto piuttosto dall'azione naturale delle forse sociali che costringono l'umanità ad entrare in una via sulla quale essa non si metterebbe da sè tanto facilmente. Gli uomini possono rivolgere le loro idee al progresso dell'umanità con i loro sforzi personali; esso è qualche cosa di troppo vasto per essi: ciò che dirige i loro sforzi uniti in un senso è la necessità d’una volontà superiore all'umana. '
Di più Kant non pone il progresso come un progresso morale, ma come un progresso civile, esteriore. Il risultato del progresso del genere umano non deve essere posto in una quantità sempre maggiore della moralità come disposizione interiore, bensì in aumento della legalità delle azioni, siano poi i loro moventi interiori quelli che si vuole. Poco per volta la violenza dei potenti cederà sempre più di fronte al rispetto delle leggi. Vi sarà più beneficenza, minore litigiosità, maggiore lealtà sia per senso d'onore, sia per il ben inteso interesse: e questo si estenderà anche al rapporto dei popoli fra di loro, senza che con ciò la moralità intrinseca venga menomamente migliorata: per il che si richiederebbe un atto soprannaturale, una specie di nuova creazione.
Questa singolare teoria del progresso merita di essere chiarita ed approfondita. Senza dubbio Kant non può essere confuso con quelli che pongono la realtà assoluta di un progresso indefinito: questo è una specie di naturalismo storico che contrasta recisamente con i principii della filosofìa critica. Egli si unisce con l'illuminismo nella fede entusiastica al progresso dell’umanità e sopratutto nel profondo senso del dovere d’ogni uomo di collaborare a questo progresso: ma la particolarità della sua teoria del progresso si rivela e nella giustificazione che egli ne dà e nelle limitazioni con cui lo concepisce. Quindi non vi è un progresso esteriore assoluto: come per Spinoza, così anche per Kant, ciò che è storico non è metafìsico.
D’altra parte egli riconosce al concetto di progresso un valore assoluto nel senso che esso è inseparabile dal principio della moralità; è la nostra coscienza morale, non l’osservazione, che non ci permette di considerare la realtà storica come un meccanismo senza senso e senza indirizzo. Come si conciliano queste due esigenze?
Bisogna che noi risaliamo per questo al concetto della finalità ed al senso che esso ha in Kant. Noi abbiamo veduto che l’interpretazione finale delle cose è come una visione filosofica più profonda che si sovrappone alla concezione meccanica, scientifica, senza annullarla. Perciò dal punto di vista della storia non vi è progresso; o almeno ciò che noi interpretiamo filosoficamente come un processo finale, progressivo è, dal punto di vista empirico, una semplice consecuzione meccanica. Qui la contraddizione apparente è facile a dissiparsi.
Ma anche la visione finale della storia (e della natura) non è in Kant che una visione soggettiva la quale traduce per noi, e per le nostre esigenze pratiche supreme, quella realtà metafisica la quale è a noi in sè stessa inaccessibile. Ciò che è in questa un ordine eterno, si traduce per noi in una successione finale: ciò che fluisce eternamente in un presente immobile dell’eterna realtà appare a noi come una costruzione successiva d’una intelligenza divina che è a fondamento delle cose: quindi si capisce che di una realtà assoluta del progresso non si può parlare, sebbene a base di questa nostra concezione stia una realtà assoluta. La nostra costruzione teleologica della storia è, come la nostra costruzione del mondo in genere, qualche cosa di soggettivo nel senso che, pur essendo per noi uomini, la più alta traduzione possibile della realtà assoluta, è pur sempre una traduzione umana, dalla quale non possiamo eliminare elementi che noi pure comprendiamo che non possono appartenervi (per esempio il tempo): traduzione che ha per noi essenzialmente un valore pratico, come condizione dello svolgimento della vita morale. Noi possiamo comprendere allora perchè Kant non si fondi, per l’affermazione del progresso, sull’osservazione storica; questa non ci farebbe uscire dall’elemento empirico.
Quando noi affermiamo la realtà del progresso, noi non vogliamo affermare altro se non questo: che con tale concezione inadeguata (ma per noi necessaria) mettiamo la realtà storica in accordo con le esigenze della nostra vita morale, stabiliamo come deve essere in fondo la realtà ultima della storia, se noi non vogliamo che la nostra vita morale si trovi con essa in contraddizione. Quindi non abbiamo nemmeno bisogno di gettare lo sguardo sulla realtà storica per l’affermazione del progresso: questa affermazione è un’affermazione a priori che abbiamo il diritto di stabilire contro tutte le apparenze.
Anche la realtà storica non è un mondo cieco ed ostile allo spirito: è un mondo in cui attraverso lotte e dolori innumerevoli si costruisce il mondo migliore della volontà buona.
E quale è precisamente la funzione di questa realtà, come strumento della vita morale? Noi l’abbiamo veduto: non è la costituzione d’un mondo morale, ma la costituzione d’un ordine razionale (l’ordine giuridico) che rende possibile poi la costituzione d'un altro ordine al quale è essenziale l’interiorità: la costituzione della società etica, della città di Dio.
In questi limiti si rinserra anche la funzione della realtà storica e si rinserra anche il progresso: non vi è, in vero e proprio senso, un progresso nella vita morale.
La vita morale è un mondo che tocca il trascendente e che, se per una parte confina con il tempo, confina dall’altra con ciò che è sopra il tempo. Perciò il regno di Dio è come un ordine che corona, immobile, l’interessante divenire della città terrena: l’infinito progresso che si apre dinanzi a questa come un ideale che non sarà mai raggiunto, vuol dire appunto che lo sforzo di raggiungerlo trapassa, rinnovato senza posa, in qualche cosa che lo trascende. Perciò il progresso nella storia è sempre soltanto progresso civile, esteriore, che non tocca l’interiorità; e tuttavia esso è la condizione perenne che l’interiorità presuppone. Noi non dobbiamo farne un fine in sè e far dipendere l’interiorità nostra dalle condizioni esteriori; ma anzi è questa interiorità che deve illuminare agli occhi nostri anche la realtà esteriore in cui si svolge, accendere e sostenere in noi la fede, che anche questa realtà esteriore, in qualunque modo ci apparisca, è stala così determinata nel suo svolgimento per rendere possibile la nostra vita interiore e che in questa essa ha ed avrà sempre il fine ideale a cui è diretto, nonostante gli ostacoli, il suo svolgimento. E da ciò è anche determinato il suo valore pratico. Noi siamo membri del regno di Dio; ad esso dobbiamo collaborare e servire. Perciò noi dobbiamo fare quanto è in noi perchè il regno di Dio sia anche fuori di noi: pur tenendo sempre fermo che esso è in primo luogo ed essenzialmente in noi e che tutto ciò che è esteriore e non dipende da noi, non ha per la nostra vera vita alcuna essenziale importanza.
La visione teleologica può essere definita la visione religiosa della realtà: per essa noi ci raffiguriamo la natura e la realtà umana come penetrate da quelle stesse finalità assolute che si rivelano in noi come legge morale. Noi apprendiamo sempre ancora la natura e la realtà umana per mezzo dei concetti logici creati dall’esperienza e dalla scienza: ma diamo a questi concetti un ordinamento differente. Laddove nella scienza la realtà è una concatenazione causale in cui ogni effetto è necessario, ma il concorso delle cause è qualche cosa di accidentale che noi non possiamo esplicare a priori, nella visione teleologica la realtà è l’attuazione progressiva di un disegno che preesiste alla realtà stessa nella mente divina come un sistema razionale perfetto: perciò ogni essere, da questo punto di vista, attua un’idea divina e si riattacca, per mezzo di essa, al sistema intelligibile complessivo, così come esso è in Dio. Noi siamo tratti a imporre, per cosi dire alle cose questa visione per un’esigenza a priori, connessa inseparabilmente con l’assoluta esigenza della legge morale: ma troviamo già nelle cose stesse qualche volta realizzata in certo modo questa esigenza del nostro spirito: vi è nella realtà stessa qualche parte in cui la profonda realtà metafìsica è separata da noi da un velo più trasparente e rivela a noi il suo vero ordine, eccitandoci così ad estendere a tutta la realtà questa visione più profonda.
Tuttavia questa rimane sempre, e nei suoi particolari e nel suo insieme, una concezione concettuale, astratta, in cui l’unità è raggiunta per mezzo di una nuova categoria; di una categoria razionale e riflessiva (non intellettiva e costitutiva, come le vere categorie in senso kantiano), cioè per mezzo del concetto di fine. Ora, vi è nello spirito umano la potenza di giungere a questa visione teleologica, religiosa non per via d’una riflessione razionale, ma per una specie d’intuizione immediata connessa inseparabilmente con uno stato particolare del sentimento: e vi sono nella realtà delle cose che presentano alla nostra visione diretta quest’unità interiore, senza che noi sentiamo il bisogno di comprenderla e di dimostrarla: visione che perciò si accompagna ad una specie di esaltazione dell’essere nostro, di gioia disinteressata che ha veramente qualche cosa di religioso. Queste cose sono le cose che diciamo belle: la visione immediata della loro bellezza, che si accompagna ad una emozione di natura particolare, è il giudizio estetico.
Questa finalità interiore delle cose belle è. come vedremo, una vera finalità religiosa, vale a dire un consenso della loro forma con l’unità metafisica profonda; ma essa si rivela a noi immediatamente, secondo Kant sotto un aspetto particolare; e cioè come adattamento alla nostra facoltà di conoscere, come facilità coi cui la materia del conoscere rivestita delle forme sensibili si subordina alla nostra attività concettuale, come accordo dell’immaginazione con l’intelletto. Questo carattere particolare dell’oggetto non costituisce una vera conoscenza; ma è uno stato d’apprensione vaga il quale traduce più uno stato soggettivo che non una proprietà dell’oggetto ed è connesso con un senso particolare di piacere. Non si tratta, nel giudizio estetico, di produrre una conoscenza: ma piuttosto d’esperimentare e godere il libero gioco delle nostre facoltà conoscitive in rapporto ad un oggetto, nel quale ci è già dato, sia pure vagamente, ciò che noi ci sforziamo di esprimere, quando conosciamo, nel concetto; qui abbiamo in certo modo un’attività che trascende la conoscenza concettuale stessa, che ci dà qualche cosa che la stessa conoscenza concettuale non raggiunge mai con le sue astrazioni, ma ce lo dà vagamente, come un presentimento, ed è reso conscio di questo suo risultato dall’attività facile e gradevole delle potenze conoscitive — che sono l’immaginazione e l’intelletto. Il giudizio relativo alla bellezza non decide perciò nulla quanto all'oggetto ed alla sua conoscenza obbiettiva, non è un conoscere; esso verte solo sullo stato che produce in noi.
Nell’atto conoscitivo l’immaginazione è strettamente subordinata all’intelletto, il quale con le sue direttive compone i materiali del senso in un concetto determinato. Qui invece le facoltà conoscitive ci danno di meno e di più ad un tempo: il giudizio estetico non mira ad un concetto determinato, ma è attratto da una unità intelligibile che è al di là del concetto stesso: quindi l'immaginazione costruisce liberamente di mira solo il suo accordo soggettivo con l’intelletto, aspira verso un’unità vivente, che è anche il termine e il fondamento delle astrazioni morte dell’intelletto e sente l’accordo dei suoi ripetuti sforzi solo come accordo formale dell’immaginazione con l’intelletto, come bellezza. Questo termine e fondamento è ciò che Kant chiama l'idea estetica.
L’idea estetica, è dice Kant, una rappresentazione dell’immaginazione a cui nessun concetto è adeguato, in cui l’immaginazione mira a principii che trascendono la natura (Critica del giudizio § 49). Veramente le idee estetiche non sono rappresentazioni, ma piuttosto concetti della ragione, cioè concetti esprimenti il fondamento soprasensibile (e perciò teoreticamente non determinabile) di ciò che noi esprimiamo teoreticamente nei concetti.
Naturalmente essi non esprimono questo fondamento che con uno stato subbiettivo: perciò sono più o meno che i concetti. Sono meno perchè, pur essendo corrispondenti ad un concetto, non ci danno nulla di obbiettivo: sono più perchè adunano in sè tante cose che il concetto non comprende: eccitano lo spirito a pensare in occasione di questo concetto più di quanto possa in esso venir appreso distintamente. Altro sono perciò i caratteri logici, altro i caratteri estetici: l’azione di questi non è rappresentativa, ma suggestiva.
La concezione kantiana si separa perciò nettamente dalla concezione leibniziana, per cui la visione estetica è un’intellezione confusa della perfezione obbiettiva d’una cosa. La finalità obbiettiva, la perfezione di una cosa implica un concetto, il concetto della cosa nella sua perfezione logica, nella completezza dei caratteri che lo rappresentano. La perfezione formale della bellezza astrae invece da qualunque concetto obbiettivo, non ci rende alcun carattere dell’oggetto: essa esprime solo uno stato rappresentativo del soggetto, ci fa sentire un’armonia, una facilità nel giuoco interiore delle facoltà dello spirito. Quindi è un errore credere che il giudizio estetico sia un giudizio logico allo stato confuso, intuitivo: esso è un giudizio d’una natura radicalmente diversa dal giudizio teoretico.
I giudizi estetici, per quanto possono essere di valore universale, non possono mai essere dedotti teoreticamente o dimostrati per mezzo di regole astratte, di principii teorici: sono sempre giudizi soggettivi, immediati, indeducibili. Non vi sono principii obbiettivi di bellezza, da cui si possa dedurre la bellezza da esprimere in una formula universale, ma deve studiare le nostre facoltà e la loro funzione nel giudizio estetico sia per mezzo di esempi (critica come arte), sia mettendo in evidenza i processi psicologici (critica come scienza). Ma essa non si preoccupa mai di stabilire regole astratte che si sostituiscano al giudizio subbiettivo immediato.
La bellezza, dice Kant, è la forma della finalità d’un oggetto, senza la rappresentazione di un fine. Certo il concetto obbiettivo sembra qualche volta entrare nel giudizio estetico, ma è sempre un elemento straniero. I giudizi estetici sono a questo riguardo distinti da Kant in due classi: i veri giudizi estetici (freie Schoenheit) e i giudizi estetici misti (anhaegende Schoenheit). I primi fanno astrazione da qualunque concetto o finalità obbiettiva (per es. la bellezza di un disegno fantastico); gli altri sono invece subordinati ad esigenze dettate dalla perfezione obbiettiva (una bella casa, un bell’uomo).
Qui si mescolano due giudizi: quello relativo all’idea estetica intuitiva e quello relativo alla perfezione concettuale ideale. Prima l’immaginazione raccoglie quasi inconsciamente dalle innumerevoli rappresentazioni il tipo concettuale ideale, che è una specie di tipo medio e costituisce la condizione astratta della bellezza, la regolarità, ma non è ancora bello per sè. Solo poi la potenza dell’immaginazione può incarnarlo in un’ideale estetico. Si ha qui come l’unione di due perfezioni, che però sono sempre cose distinte: nè la perfezione obbiettiva aggiunge qualche cosa alla perfezione estetica, nè questa a quella. La mescolanza di questi due giudizi spiega tante divergenze degli uomini in questi loro giudizi misti: l’uno guarda più alla bellezza, l’altro alla perfezione.
Ma per quale ragione Kant ha creduto trovare la ragione di quel particolare stato che produce in noi la bellezza nell accordo formale delle nostre funzioni conoscitive? L’emozione estetica è un piacere che, senza avere un carattere razionale, tuttavia pretende ad un valore universale. Il piacevole è sempre qualche cosa di subbiettivo (sui gusti non si disputa), ma il bello è considerato come qualche cosa d’universalmente valido. E tuttavia è chiaro che non si tratta qui d'una universalità logica. Questa è obbiettiva, vale a dire è valida per tutti i soggetti perchè incarnata in un concetto. La universalità estetica ha invece per base una rappresentazione sensibile, non mai un concetto: il giudizio estetico è sempre (quanto alla forma) un giudizio particolare come i giudizi sensibili. Possiamo dal giudizio estetico ricavare un giudizio universale (per esempio: tutte le cose sono belle): ma questo è allora un giudizio logico, non estetico. Il giudizio estetico pretende anch’esso all’universalità, ma non l’esprime logicamente per mezzo di concetti e di principii generali: è un’apprensione sensibile che sentiamo dover essere in tutti la stessa, ma che svanisce appena tentiamo di trasfonderla in giudizio astratto. Bello è ciò che piace universalmente, senza concetti.
Ora, dappertutto dove si ha un’universalità necessaria, si ha la presenza d’un elemento a priori: un giudizio estetico, se ha valore obbiettivo, universale e se non può venir derivato da concetti o principii astratti deve fondarsi sopra condizioni formali universali, cioè deve connettersi con la struttura del nostro spirito così come è necessariamente in tutti.
Se il piacere estetico avesse esclusivamente la sua ragion d’essere nell’oggetto, sarebbe allora della stessa natura dei piaceri sensibili e non potrebbe pretendere ad alcuna universalità necessaria. Se è universale, deve sorgere nel soggetto, deve avere le sue origini in processi soggettivi necessariamente, cioè essenziali al soggtto stesso. Ora noi abbiamo veduto che ciò che vi è di universale e di necessario nel soggetto è la ragione (in l. s.) cioè quel complesso di attività che rendono possibile il conoscere obbiettivo, quel complesso di funzioni che condizionano l’obbiettività stessa dell’esperienza.
L’universalità del giudizio estetico deve perciò avere in queste condizioni a priori il suo fondamento. Ma qui non si tratta d’un vero conoscere: come mai le condizioni a priori della nostra attività conoscitiva possono fondare il giudizio estetico? In quanto, risponde Kant, questo riflette l’attività conoscitiva considerata non nei suoi risultati (nel conoscere obbiettivo), ma nel suo meccanismo subbiettivo, nel rapporto e nel giuoco delle singole attività conoscitive fra loro: il giudizio estetico è il risultato del libero giuoco delle attività conoscitive in quanto concorrono al conoscere, ma non hanno di mira alcuna conoscenza determinata (perchè come abbiamo veduto, hanno di mira qualche cosa che è al di là del concetto obbiettivo, hanno cioè di mira l’idea estetica). L’immaginazione e l’intelletto quando s’elevano verso questa meta ideale cooperano in una libera armonia che si rivela alla coscienza come piacere estetico: e perchè questa libera armonia (come la conoscenza obbiettiva) risulta dalla costituzione universale, necessaria dello spirito conoscente, cosi lo stato di coscienza che ne risulta, per quanto sia un sentimento, ha valore obbiettivo. Ecco come è possibile, nel bello, un’universalità subbiettiva, un’universalità completamente distinta e indipendente dall’universalità logica.
SENTIMENTO ESTETICO E DISINTERESSATO
Noi abbiamo delimitato il bello di fronte alla conoscenza: esso ha origine da una disposizione delle attività conoscitive, ma non è, secondo Kant, una conoscenza: il giudizio estetico si traduce per la coscienza nostra in uno stato emotivo di carattere particolare. E come sentimento esso deve venir bene distinto dagli altri sentimenti in quanto è disinteressato, in quanto cioè non dipende dall’interesse che può avere per me l’esistenza reale o non dell’oggetto, ma dipende solo dall’impressione che esso, come rappresentazione, produce in me. Si distingue perciò dal gradevole, dalle sensazioni piacevoli che costituiscono un’emozione interessata, egoistica come dal buono che produce in noi un interesse per mezzo della ragione, sia questo un interesse mediato (l’utile) o immediato (il bene morale). Il bello è dato da una contemplazione disinteressata.
Ogni interesse perciò turba ed offusca la purezza del piacere estetico: tanto l’interesse morale, quanto (e più) l’interesse sensibile. È un errore barbarico il credere di fortificare il bello con l’attraente, il commovente, ecc.; gli ornamenti per esempio non sono elementi di bellezza.
Un’ulteriore conseguenza che Kant deriva dalla sua esplicazione del giudizio estetico è questa: che il bello è sempre qualche cosa di formale, sta nell’adattamento della costituzione formale dell’elemento immaginativo all’elemento intellettivo, all’idea estetica a cui si subordina. Da questo carattere del bello Kant deriva delle conseguenze che possono parere paradossali: per esempio che il bello plastico è tutto nel disegno e (per la musica) nella composizione; i colori e i suoni sono attrattive, non elementi di bellezza (Critica del giudìzio § 14).
Ma come si spiega allora che anche i colori ed i suoni puri possono essere belli? Essi sembrano essere semplice materia di sensazione e niente altro. Kant però giustamente osserva che sono già anch’essi qualche cosa di formale.
L’analisi psicologica che Kant ci dà del bello non esclude così, come abbiamo veduto, un'esplicazione metafisica: il bello è ciò che produce in noi quell’emozione disinteressata che diciamo emozione estetica; la quale risulta da una costituzione formale particolare, per la quale gli elementi rappresentativi dell’oggetto, che diciamo bello, si subordinano con armonica spontaneità all’idea estetica corrispondente, a quell’unità concettuale indeterminata nella quale aspira a tradursi per noi la perfetta sua natura di essere intelligibile. L’esistenza della bellezza è quindi per noi un segno dell’esistenza obbiettiva dell’intelligibile: per il senso del bello noi non vediamo, ma presentiamo nella realtà nna finalità interiore di cui troviamo il senso soltanto nella finalità razionale nostra, nella vita morale. Nel bello lo spirito si sente come liberato dal senso, si sente da una misteriosa intuizione richiamato verso una realtà affine e vicina a quell’essere libero che, come intelligibile, è il principio di tutte le nostre aspirazioni.
Non ci dobbiamo meravigliare perciò se per Kant la vera bellezza risiede soltanto nella natura: non vi è che la natura la cui bellezza presenti un interesse immediato e ci indirizzi così verso il senso segreto delle cose. L’interesse estetico dell’arte è invece soltanto secondario e meditato. Così ancora per Kant vi è necessariamente una segreta affinità fra il più alto senso del bello e il senso morale: quindi, almeno socialmente, la migliore preparazione alla fioritura estetica è la cultura morale. A molti ciò parrà avere una contraddizione nel fatto che vi è così poca moralità negli artisti. Kant osserva giustamente che la sorgente vera della bellezza è la natura : e che l’atto di sentire e ricercare la contemplazione del bello naturale è sempre segno d’animo elevato.
IL SUBLIME
Questo carattere metafisico del bello, secondo Kant, si rivela anche più chiaramente nella sua teoria del sublime. Nel bello lo spirito tende, attraverso l’intelletto, verso l’intelligibile; l’idea estetica è come il tentativo di fissare un’unità intelligibile, un’idea platonica. Nel sublime lo spirito avverte l’impotenza di ogni realtà naturale nel suo sforzo d’adeguarsi alle idee; quest’impotenza dell’immaginazione ci rinvia quasi per una specie di violenza al pensiero della superiorità del nostro spirito e del suo destino, in cui risiede la vera suplimità: ma noi riferiamo all’oggetto stesso che ha provocato in noi questo trapasso, come una specie di finalità soggettiva, l’attitudine a destare in noi il senso del sublime. Nel sublime in altre parole noi sentiamo l’impotenza della nostra immaginazione e la sublimità del nostro destino: sublimità che noi riferiamo all’oggetto che ha destato in noi tale sentimento. Il sublime è ciò che non può essere concepito senza rinviarci ad una facoltà dello spirito che è sopra ogni grandezza dei sensi (Critica del giudizio § 25).
Kant stabilisce tre differenze capitali tra il bello e il sublime. In primo luogo il bello presuppone una forma, è una costituzione formale che ci presenta un’idea indeterminata dell’intelletto; il sublime è invece la negazione del limite e della forma, è la presentazione d’un’idea (negativa) della ragione.
In secondo luogo nel bello abbiamo una specie di armonia, d’accordo delle nostre facoltà: nel sublime abbiamo una specie di contrasto. È sempre un’emozione estetica: anche qui la commozione nasce dal giuoco dell’immaginazione e della ragione: ma ha origine dal senso d’impotenza dell’immaginazione di fronte alla ragione. E perciò, in terzo luogo, mentre nel bello abbiamo come un nobile giuoco dello spirito che implica uno slato di piacere e di calma contemplazione, nel sublime abbiamo una specie di contrasto e di sospensione della nostra attività di esseri sensitivi, quindi una commozione, una serietà, una specie di dedizione reverente come nell’atto morale. Il sublime presuppone in chi lo sente una certa predisposizione a intravvedere le idee, l’infinito, che è affine col sentimento morale. Appunto perciò noi, a chi non lo sente, rimproveriamo una certa mancanza, non di gusto, come nel bello, ma di profondità del sentimento: quasi una mancanza del senso religioso.
Kant distingue il sublime dalla grandezza (s. matematico) e il sublime della potenza (s. dinamico). L’estimazione astratta della grandezza (per mezzo di unità numeriche) può continuare indefinitamente: invece l’estimazione intuitiva sensibile ha un massimo al di là del quale l’immaginazione non può andare: ora è questo massimo intuitivo che genera il sublime. L’urto per cosi dire dell’immaginazione contro il suo limite massimo contrasta con l’esigenza della ragione di cogliere nella sua totalità l’infinito: questo contrasto sconvolge la nostra immaginazione e la rigetta verso la ragione e le sue idee, cioè verso la potenza soprasensibile del nostro spirito e il suo vero oggetto: la realtà intelligibile. Il che non accresce, è vero, la nostra conoscenza, ma ci rende intuitivamente presente la capacità del nostro spirito a trascendere il sensibile: ciò che se ci deprime da una parte per la nostra impotenza di esseri sensibili, ci eleva dall’altra per la sublimità del nostro spirito: che è la vera sublimità, da noi riferita poi alle cose che sono state l’occasione di questo nostro giudizio.
Il sublime dinamico nasce invece dalla considerazione d’una potenza sterminata dinanzi alla quale ci sentiamo annullati come esseri sensibili, ma ci sentiamo superiori per l’altezza del nostro destino e della nostra natura più profonda. Sembra che di fronte alle forze della natura, le quali rivelano la potenza divina, l’unico sentimento adatto dovrebbe essere l’abbattimento: ma anche di fronte a Dio l’uomo giusto sente la sublimità dell’essere suo e non ha alcuna paura servile. L’oggetto vero del sublime è dunque in noi; diciamo sublimi le cose che per la loro sterminata potenza ci elevano, per contrasto, a sentire tutta la grandezza dell’essere nostro e del nostro destino.
Ci resta una domanda. Noi abbiamo finora parlato nel bello e nel sublime dell’elemento sensibile, naturale: ma non vi è anche una bellezza ed una sublimità morale?
Kant nega che ci sia in vero e proprio senso una bellezza morale: la bellezza è sempre connessa con le visioni del senso. Vi può essere invece una sublimità morale: con la morale il sublime ha di comune anzi appunto questo, che entrambi sono una vittoria sul senso. Ma per questo appunto non vi è di sublime nel mondo spirituale se non ciò che è morale o che è con esso in qualche modo in rapporto. L’entusiasmo morale, per esempio, è esteticamente sublime; e più ancora lo è la fermezza fredda, esente da passione. Sublimi possono anche essere le passioni coraggiose e i movimenti appassionati se sono connessi con un’energica disposizione morale: anche la tristezza e la disperazione fondate su ragioni morali possono essere sublimi. Invece le passioni tenere, sentimentali, non hanno nè bellezza, nè sublimità.
L’ARTE
La sede vera ed immediata della bellezza è la natura, la realtà sensibile: l’arte per Kant non è che una funzione secondaria e mediata, la quale si propone per fine di suscitare in noi colle sue creazioni il piacere estetico di riprodurre quella specie di finalità secreta della natura, la quale ha per effetto di destare in noi la cooperazione armonica delle facoltà nostre. Questa potenza creatrice non è naturalmente un meccanismo retto da regole astratte, ma è opera libera e geniale che è come la natura stessa operante nel soggetto umano: il soggetto sotto questo aspetto costituisce il genio. L’uomo geniale non è dotato soltanto della facoltà di cogliere la bellezza delle cose, ma anche della capacità di comunicare ad altri, per l’espressione in un’opera d’arte, la disposizione di spirito che ne risulta. Esso coglie al volo il giuoco rapido dell’immaginazione e lo fissa in un’espressione comunicabile. L’opera del genio non ha quindi e non deve avere un carattere logico: uno scienziato può tracciare riflessivamente la via seguita nelle sue scoperte, un artista non solo non sa e non può, ma non deve saperlo. I grandi esempi dell’arte suscitano, suggeriscono a chi è dotato della facoltà geniale, ma non insegnano: nell’arte si può insegnare solo indirettamente proponendo esempi ed eccitando con la critica il libero svolgimento delle facoltà geniali. In questo senso vale anche l’imitazione dei grandi modelli, i quali sono esempi che svolgono in noi la potenza autonoma del bello: il genio può eccitare altri genii a seguirlo, non ad imitarlo. Sono poi i talenti secondarii che imitano più o meno servilmente: di qui la moda, la maniera, che annunzia sempre la mediocrità dello spirito. Certo vi è nella creazione geniale anche una parte meccanica, insegnabile: ed è fuori di posto voler essere qui geniale, cioè sbarazzarsi delle regole tradizionali. Ciò vale del resto anche della filosofia e di ogni creazione geniale, in cui la tradizione ha la sua parte: qui l’indipendenza è solo la ciarlataneria dei genialoidi. Il genio è potenza veramente creatrice: senza di esso la capacità estetica è ciò che dicesi gusto. Il gusto è la capacità di sentire e d’apprezzare il bello, la facoltà di giudicare, senza ricorrere ad astrazioni, dell’attitudine maggiore o minore d’una rappresentazione a risvegliare in noi l’emozione estetica.
Kant estende questo nome all'attività estetica creatrice quando essa non esercita che una funzione secondaria (come per esempio quando dà forma bella ad un utensile, ad un sermone, ecc.): certo allora il gusto può confinare col genio.
LE DIVERSE ARTI
Kant distingue le arti in tre gruppi: le arti della parola, le arti plastiche, la musica. Le arti della parola sono la poesia e l’eloquenza. Il primo posto nelle arti spetta alla poesia; in essa lo spirito sente la sua libertà e la sua superiorità sulla natura, che è semplice fenomeno e l’attitudine sua a considerarla come simbolo del soprasensibile. Un concetto meno favorevole Kant ha dell’oratoria: l’oratoria onesta non deve cercare di essere arte.
Dal punto di vista della cultura dello spirito vengono in secondo luogo le arti piatiscile, tra cui Kant pone in primo luogo la pittura. L’ultimo posto è da Kant assegnato alla musica; egli sembra averla in poco conto, rileva il carattere passeggero della sua azione, anzi in qualche luogo mette persino in dubbio che sia un’arte.
Bisogna infatti distinguere in ciò che volgarmente è compreso sotto il nome di arte ciò che appartiene veramente al senso estetico e ciò che invece è soltanto un sentimento gradevole.
Il rapido giuoco delle sensazioni dà un senso di svolgimento facile della vita, favorisce il. tono vitale, e quindi è causa di godimento : questo spiega il godimento che danno il giuoco, il comico, la musica. Il giuoco eccita una successione alterna di sentimenti: il comico è un giuoco di rappresentazioni intellettive che ci danno piacere per il loro rapido cambiamento. Si ha nel comico qualche cosa che sostiene l’attenzione dello spirito e poi improvvisamente si dissipa: il riso nasce dall'improvvisa conversione d’una viva attesa in nulla. Lo spirito ripetendo più volte questo movimento provoca un gradevole sentimento vitale. E non altro è, secondo Kant, in fondo anche la musica: che è una rapida ed alterna successione di armonie matematiche, di proporzioni nella coesistenza e nella successione, le quali piacciono per il loro cambiamento. La ragione del godimento è perciò in gran parte fisica: la musica è in gran parte più un’arte gradevole che un’arte bella.
Con eguale severità Kant giudica poi la mescolanza di più arti nella produzione di un’opera (come nella danza, nell’opera musicale, ecc.): la quale in genere mira più al gradevole che al bello e non solo perde di vista l’alto fine dell’arte, ma vi intesse sovente dei motivi dell’ordine inferiore che, dal punto di vista estetico, non riescono che al disgusto.
In una lettera del 1793 Kant riassume l’opera sua in tre punti.
Io ho risposto, egli dice, a tre domande: che cosa posso sapere? (Metafisica). Che cosa debbo fare? (Morale). Che cosa posso sperare? (Filosofia della religione).
La religione non è quindi solo un altro nome della moralità od un semplice complemento della moralità: essa ha una sfera sua propria, alla quale appartengono le speranze e le aspirazioni più alte dell’uomo. Qua-l’è ora precisamente questa sfera, quale il contenuto vero e proprio della religione?
Sebbene Kant non abbia in nessuna parte determinato in modo chiaro e comprensivo il contenuto di questo concetto, è evidente che la religione per quanto fondata sempre sulla coscienza della legge che è veramente il cardine di tutta la parte positiva della filosofia kantiana, si eleva sopra la vita morale come una sfera più vasta, che la corona e la completa. Essa comprende una parte teoretica e una parte pratica.
La parte teoretica è già stata in gran parte da noi esposta: essa è costituita da quella visione ideale della realtà che costituisce un postulato essenziale della legge morale e che può dirsi veramente una visione religiosa. Se la legge ha valore, la realtà in cui io vivo e di cui fo parte non può essere una realtà ad essa straniera od ostile: la stessa volontà buona che vive in me deve anche dirigere, nel suo essere profondo, il corso di tutte le cose.
La realtà sensibile che l’intelletto mi rappresenta come un meccanismo cieco, non è che la parvenza della vera realtà: la quale può tralucere qualche momento alla visione estetica, ma nè in questa, nè in alcun’altra forma può mai essere resa presente in modo adeguato al nostro spirito. Nei postulati fondamentali della ragion pratica Kant ha tratteggiato i punti essenziali della nostra fede morale: cioè di quella concezione delle cose, che pur essendo e sapendo d’essere impari al vero essere assoluto, ce lo rappresenta simbolicamente e praticamente, per mezzo di rappresentazioni inadeguate, così come noi dobbiamo pensarlo in rapporto a noi ed alle nostre supreme esigenze pratiche.
La realtà è un mondo spirituale, un regno perfettissimo di principii spirituali raccolti, ma non perduti, nell’unità divina, retti da leggi di libertà: ciò che per noi qui è un ideale di santità inarrivabile, là è natura. Tutta la realtà naturale ed umana tende, nel suo intimo, verso questo regno perfettissimo: anche la nostra vita non ha altro senso e perciò il vero essere nostro è superiore al mondo sensibile ed alla morte. Questo sapere pratico (che non è vero e proprio sapere, scienza) è per noi la forma più alta sotto cui possiamo pensare la realtà assoluta : esso corona la nostra volontà morale come un completamento necessario. Costituire a sè una fede morale non è più un dovere morale: Kant è imbarazzato quando deve determinare in modo preciso il carattere di questa esigenza. La verità è che essa non è più un dovere morale perchè è già un dovere di altra natura : un dovere religioso. Un dovere che si fonda sempre sul dovere morale, ma che ne trascende la sfera e fa parte di una nuova forma di vita, la vita religiosa.
Però i cosidetti postulati della ragion pratica e la concezione teleologica della natura e della storia che ne discende, non sono che il nucleo di questa visione religiosa. Di essa fanno parte anche altri elementi, che Kant mette in luce specialmente nelle prime due sezioni della «Religione» e che hanno sempre in comune lo stesso carattere dei postulati: cioè d’essere semplici rappresentazioni pratiche, soluzioni pratiche di problemi che noi non possiamo pretendere di risolvere, ma rispetto ai quali dobbiamo pure prendere un’attitudine, quella che è indeclinabilmente richiesta dal fatto della nostra vita morale. Posto il carattere assoluto di questo fatto, noi potremo essere sicuri che queste soluzioni, per quanto teoreticamente inadeguate, sono però la trasposizione, nella sfera del sapere umano, di quello che è in sè la verità assoluta, cioè possono valere per noi come rappresentazioni simboliche, come segni praticamente appropriati di ciò che non ci può essere altrimenti accessibile.
Il primo di questi concetti è quello del male radicale. Per quanto noi dobbiamo pensare la realtà come un ordine divino, dobbiamo anche considerare come condizione della nostra vita morale questo fatto: che vi è in noi una natura che rilutta a quest’ordine, una legge della carne, come dice S. Paolo, che si ribella alla legge dello spirito. Questa natura corrotta non risiede nelle tendenze naturali del senso che per sè non sono un male, ma in una perversione dei rapporti normali fra il senso e la ragione, per cui questa è subordinata al senso: quindi ha la sua origine in un atto libero della volontà razionale, che antecede (metafisicamente) qualunque nostra attività concreta ed è per sè stesso inesplicabile. Questo è in fondo il senso del racconto mitico delle Scritture circa il peccato originale.
Un secondo concetto fondamentale è quello della possibilità della restaurazione del bene per un libero atto della nostra attività. Anche di questa possibilità noi abbiamo nella coscienza del dovere l’assoluta certezza pratica: ma essa è per noi egualmente inesplicabile. Noi non possiamo comprendere come naturalmente abbia potuto svolgersi la buona volontà; ma questa è l’incomprensibilità stessa della libertà morale, che è veramente una rivelazione, in noi, del soprasensibile e dell’incomprensbile (Streit d. Fakultaeten, ed. Vorlaender, pag. 103-105). Senza dubbio la posizione della volontà morale non è ancora la conquista definitiva della santità: essa ci apre un infinito progresso, che è la forma fenomenica di quella disposizione della volontà, la quale è da Dio veduta nella sua unità come santità. Questa possibilità d’una approssimazione infinita alla santità si connette col postulato dell’immortalità, intesa appunto come possibilità d’una approssimazione infinita, attraverso molteplici esistenze, alla perfezione ideale della nostra natura.
Intorno a questi concetti fondamentali si raggruppano altre teorie secondarie; quella della grazia, ossia della possibilità della persistenza, mediante la volontà buona, sulla via del bene; della giustificazione, ossia della redenzione della nostra natura malvagia per mezzo del dolore inseparabilmente connesso con la buona volontà; della predestinazione com’espressione della nostra ignoranza in rapporto al nostro destino spirituale ed alle sue cause; teorie il cui complesso costituisce una teologia morale nel senso d’una concezione teologica fondata essenzialmente sulle esigenze della legge morale e bene conscia della sua natura pratica e simbolica (Die Religion, ecc., ediz. Vorl., pag. 191). Considerata subbiettivamente essa è niente altro che il pieno svolgimento filosofico della fede morale e costituisce l’aspetto teoretico della religione: quello che Kant identifica con la religione stessa quando la definisce «la conoscenza di tutti i nostri doveri come precetti divini» (Die Religion, ecc., ediz. Vorl., pag. 179). Essa non pretende infatti darci conoscenze trascendenti, ma solo tracciare a noi quella visione subbiettiva del mondo sensibile e soprasensibile che noi dobbiamo porre come fondamento e complemento della nostra volontà morale: e che, pur non pretendendo di essere scienza nè conoscenza dell’assoluto, è per noi la verità più alta che possiamo conseguire intorno alle realtà ultime.
A questa parte teoretica si aggiunge una parte pratica che è la costituzione della città di Dio sulla terra, della società delle volontà buone, della chiesa. La lotta che ogni uomo di buona volontà sostiene col principio del male non lo conduce al trionfo definitivo, ma alla libertà: la lotta deve sempre essere continuata. Ora il pericolo maggiore in questa lotta continua non viene all’uomo dalla sua natura primitiva, ma dalla società, dal contatto con gli altri uomini. Non è necessario che questi siano cattivi: ma il contatto con gli altri uomini, sotto questo rapporto è già un male. Come alla società giuridica (lo stato) antecede uno stato di natura giuridico, cosi alla società morale (la chiesa), uno stato di natura morale, in cui ciascuno è giudice a sè e si dirige da sè senza quell’aiuto e quell’orientamento che danno le istituzioni fondate sulla volontà collettiva. Quindi nello stato di natura morale le volontà anche buone si elidono e si deprimono a vicenda, per gli inevitabili contrasti, in mancanza di un principio regolatore e unificatore. Non basta perciò che gli uomini di buona volontà convengano accidentalmente: bisogna che essi si riuniscano in una comunità morale, in una chiesa. La chiesa è una società posta sotto una legge morale comune: e poiché Dio è il legislatore della coscienza morale, Kant dice che è una società posta sotto la legge di Dio. Ora certo l’opera principale in questa costituzione della chiesa viene da Dio, ma viene da Dio attraverso la volontà morale dell’uomo. La costituzione della chiesa è quindi un preciso dovere dell’uomo: che deve fare in questo come se tutto dipendesse da lui.
Anche questo dovere imbarazza singolarmente Kant: che lo definisce «un dovere di sè del genere umano» (Die Religion, ecc., pag. 112).
Il vero è che esso costituisce un dovere religioso, il dovere religioso pratico fondamentale. Con questo dovere religioso si connettono poi i doveri secondari derivati dall’istituzione della chiesa. Certo anche nella chiesa il vero servizio divino è sempre il servizio del cuore, l’osservanza dei doveri morali. Ma la chiesa può aiutare questa osservanza non solo con le sue istituzioni che fissano ciò che per la coscienza individuale può essere incerto, ma anche con le sue istituzioni cerimoniali e simboliche. L’invisibile ha bisogno nell’uomo di essere rappresentato da qualche cosa di visibile e d’intuitivo, specialmente nel rapporto pratico; nel che certo bisogna sempre tenere presente il pericolo di fare dell’elemento simbolico l’elemento essenziale. Da questo punto di vista si possono comprendere come doveri religiosi, benché con le necessarie limitazioni, la preghiera, la frequentazione della chiesa, ecc.
Con la fede morale e la costituzione della chiesa la religione acquista così in Kant una sfera propria, una funzione distinta dalla morale. Certo però non si può misconscere che essa ha solo una funzione formale: essa eleva, sublima la vita morale, le dà un senso più profondo: ma il suo contenuto è sempre dato dalla vita morale.
«La religione non si distingue per la materia dalla morale, perchè essa mira essenzialmente al 'dovere: la sua distinzione da questa è puramente formale perchè essa non è che una legislazione della ragione avente per fine di rafforzare la morale nel compimento di tutti i doveri per mezzo dell’idea di Dio derivata dalla morale stessa» (Streit d. Fakultaeten, ediz. Vorl., pag. 77).
In questa eliminazione di ogni tendenza mistica Kant obbedisce non solo alla tendenza della propria natura, ma anche alla direzione impressagli nella sua educazione religiosa da Francesco Albert Sehultz, il direttore del Fridericianum. Anch’egli considerava la religione come una sorgente di motivi per la volontà morale piuttosto che un pretesto per la contemplazione, e vedeva nella moralità il solo segno certo della vera fede.
Quindi anche nell’insegnamento religioso il primo posto (e nel tempo e secondo l'importanza) deve, secondo Kant, essere dato sempre alla morale (Die religion, ecc., ediz. Vorl., pag. 213 e seg.).
Religione e morale non sono la stessa cosa; quindi l’una deve essere subordinata, come mezzo, all'altra. Ora la moralità può sussistere da sè, anche senza il concetto di Dio: la rappresentazione religiosa di Dio non è invece che in vista della nostra attività morale. Quindi la religione non può costituire un fine della morale; ma soltanto servirla come strumento per rafforzare la disposizione virtuosa. Invece la moralità sorge direttamente dall’anima dell’uomo. Nella purezza della coscienza, nel sentimento della propria forza morale, nel senso della dignità della nostra natura e del nostro destino, vi è qualche cosa che ci eleva e ci indirizza verso il concetto della divinità: la quale è venerabile solo perchè è una volontà santa, legislatrice del bene.
Invece il concetto d’una divinità disgiunta dal concetto morale corre il pericolo di venir posto in modo troppo antropomorfico e così di corrompere la sorgente stessa dei nostri principii morali. Perchè se è pensata come una potenza che dispoticamente comanda, cioè deprime quel giusto senso di coraggio e di orgoglio che entra essenzialmente nella virtù, ci inclina verso una disposizione servile ed adulatoria, trasforma l’uomo in un essere gemebondo e passivo che aspetta dalla divinità il dono della salute: la religione diventa idolatria. La religione deve quindi essere considerata non come il principio ed il surrogato della moralità, ma come il compimento della stessa, che assicura alla volontà buona il definitivo trionfo del bene nel cielo e nella terra.
Senza dubbio è discutibile se con questa concezione Kant abbia dato alla religione tutta la sua parte. Ciò vale anzitutto in rapporto alla conoscenza. Noi abbiamo a suo posto criticato il concetto della fede morale fondata esclusivamente sulla coscienza della legge: pure riconoscendo che in tutto ciò che trascende il mondo dell’esperienza il nostro sapere non può essere che un sapere simbolico, noi abbiamo veduto che non solo la nostra vita morale, ma tutta la nostra attività, anche quella teoretica, ci rinvia in modo positivo verso una unità trascendente: ora in questo tendere, sempre insoddisfatto, che come l’atto estetico raccoglie tutto quanto vi è di più alto nel mondo del tempo per fissare a sè una visione simbolica di ciò che è sopra il tempo, può avere il suo posto anche la contemplazione religiosa, la mistica. Sta bene che noi dobbiamo qui sempre tener presenti i salutari avvertimenti di Kant; e cioè che qui è stolto pretendere di possedere una sorgente di conoscenza: la realtà non ci indirizza che formalmente verso il suo principio trascendente, ed ogni rappresentazione di questo non può essere che una rappresentazione simbolica la quale deve avere nella costituzione formale della realtà empirica il suo fondamento e il suo criterio. Ma nella creazione di questa visione simbolica concorrono tutte le facoltà umane più alte, la morale, l’arte, il pensiero logico; quindi essa rappresenta realmente uno sforzo autonomo della ragione verso l'assoluto, che non può avere per fine di conoscerlo, ma che si propone di esprimere coi simboli più appropriati ciò che esso è per noi, e di renderci così presente per mezzo di questi simboli quello stato dello spirito che noi viviamo quando lo sprito nostro è rivolto verso l’assoluto. Senza dubbio è difficile definire questa attività dello spirito; essa non è un conoscere, ma piuttosto un presentire, una contemplazione della pura forma che fa astrazione della materia, uno sforzo di divinare nel conoscibile l’inconoscibile; noi possiamo chiamarla contemplazione mistica. È chiaro che essa non è colpita da nessuno di quei rimproveri che Kant muove al misticismo dei visionarii : essa non pretende di costituire un conoscere, ha coscienza d’essere uno sforzo della ragione che si fonda su tutta l’opera della ragione ed ha il suo valore non in sè, nel suo risultato, ma in ciò che è lo sforzo supremo, perennemente rinnovato, della ragione per elevarci verso ciò che è sopra la ragione.
Ciò vale in secondo luogo anche riguardo all’attività pratica. Questo sforzo della ragione verso l’unità assoluta che si traduce in una visione religiosa simbolica ed in una contemplazione mistica dell’Unità attraverso i veli della sua manifestazione sensibile, ha anche il suo corrispondente pratico in una sfera d’attività che sono propriamente religiose e che trascendono La semplice sfera morale. Una di queste è la costituzione della chiesa come unità visibile delle coscienze religiose; ed alla chiesa si connettono altre attività istituzionali (come per esempio la frequentazione della chiesa ecc.) e simboliche (per es. la preghiera) che Kant può restringere quanto vuole, ma non eliminare senza eliminare la religione. Anche qui pertanto la religione aggiunge qualche cosa alla morale, non soltanto in quanto dà un senso più profondo all'atto morale, ma - in quanto ha realmente un complesso di attività proprie specificamente religiose. Certo anche qui dobbiamo riconoscere le grandi verità messe in luce da Kant: che queste attività hanno un senso puramente strumentale e simbolico in quanto per una parte hanno il fine di rafforzare e dirigere più sicuramente la volontà morale, dall’altra esprimono puramente in atti simbolici l’esigenza d’un’unità più alta che è l’unità morale fra gli uomini, l’unità con Dio, la quale però non può mai essere data. E che quindi la religione corre da questo lato uno de suoi massimi pericoli : quello di dare un senso proprio ed immediato a questi atti, di credere che essi attuino un reale contatto con l’assoluto: la degenerazione magica. Anche qui l’attività religiosa immediata e concreta è sempre ancora l’attività morale: come nel campo del sapere l’esperienza e la scienza. E perciò il vero criterio della religiosità è sempre ancora in primo luogo la moralità: nessun simbolismo religioso può pretendere di sostituire l’attività morale di cui esso non è che il complemento ed il simbolo.
La religione considerata in questa sua purezza filosofica — cioè come visione religiosa della realtà ed attività diretta a sostenere e completare la nostra vita morale nel senso di questa visione — è quella che Kant chiama religione naturale, che (come il diritto naturale per il diritto) è il fondamento, l’antecedente metafisico (non storico) di tutte le manifestazioni della vita religiosa. Senza dubbio questa religione naturale è un puro ideale: nella sua perfezione essa non presuppone nemmeno una chiesa reale, concreta, che con le sue istituzioni e le sue tradizioni in qualche modo limiti questa perfezione ideale: alla religione naturale nella sua purezza corrisponde la chiesa invisibile, l’unione di tutte le volontà buone che servono Dio in una perfetta comunione spirituale. La chiesa invisibile non ha bisogno d’organizzazione, di capi, di ministri: i suoi ministri sono i maestri che trasmettono nell’umanità la tradizione della ragione.
Ma noi possiamo in un secondo senso chiamare ancora religione naturale quella che, senza pretendere di realizzare l’ideale, aspira almeno a realizzarlo in ciò che d’essenziale la via religiosa: d’essere la creazione della ragione. «Religione naturale è quella dove ciascuno può essere convinto per mezzo della sua propria ragione» (Die Religion, ecc., ed. Vorl., p. 181).
Ad essa corrisponde la vera chiesa, cioè quella forma della chiesa visibile che meglio riconosce il fondamento razionale della religione e meglio l’attua nelle sue istituzioni.
Data la natura umana, noi non possiamo attenderci, dice Kant, che quella unione intima delle volontà buone, in cui consiste la chiesa invisibile, possa attuarsi e conservarsi da sè senza un sussidio d’istituzione e di ordinamenti fondati sull’autorità morale, cioè senza l’unione in una chiesa visibile per opera di determinati fondatori, sotto determinati capi. Certo con questo è già superata la pura sfera razionale: la fondazione di una chiesa (sia pure essa la vera chiesa) è un fatto storico che non è richiesto, come tale, dalle pure esigenze della ragione. Ma esso non lede il carattere razionale della vera chiesa fino a che esso è accolto per una convinzione razionale, liberamente ed inteso come tale, non imposto ciecamente come una fede servile.
La chiesa vera presuppone, in altre parole, un fondamento storico, una comunione di credenze e d’istituzioni (in quanto essa è necessaria) che è liberamente accettata come strumento e simbolo dell’unità delle coscienze, della chiesa invisibile. «Quando, conforme all’inevitabile limitazione della ragione umana, alla religione pura s’aggiunge una fede storica come veicolo, ma con la coscienza che essa è semplicemente un veicolo, e la dottrina ecclesiastica relativa porta con sè il principio che è necessario avvicinarsi sempre più alla fede religiosa pura per potere alla fine fare a meno della fede storica, questa chiesa può essere chiamata la vera chiesa». (Die Religion, ecc., ediz. Vorl., p. 132).
Questo è il posto che hanno dato alla ragione nella religione gli spiriti più illuminati di tutti i tempi. Si confronti per esempio il seguente inno alla ragione di Sebastiano Castillon, il perseguitato da Calvino: «La ragione è per così dire la figlia stessa di Dio, quella che è stata prima delle Scritture, prima dei riti, prima dell’esistenza stessa del mondo, e che sarà dopo le Scritture, dopo i riti, dopo che il mondo stesso sarà stato distrutto o trasformato: perchè essa, come Dio, non può venire abolita. La ragione è un’espressione eterna di Dio, più antica e più sicura che le Scritture e che i riti, per mezzo della quale Dio ci ha ammaestrati prima che vi fossero Scritture e riti e ci ammaestrerà ancora appresso, con un insegnamento veramente divino. È seguendo la ragione che hanno vissuto Abele, Àbramo prima dell’apparizione degli scritti di Mosè e che vivranno dopo la loro disparizione migliaia e migliaia d’uomini. È seguendo la ragione che Cristo figlio del Dio vivente e identificato col Logos ha vissuto e ci ha insegnato a vivere. E’ in suo nome che egli ha confutato le Scritture ed i riti che gli Ebrei mettevano sopra la ragione, che egli ha opposto lo spirito alla lettera della Legge...: che egli ha detto alla Samaritana: si adorerà Dio in ispirilo e verità. Egli conduce gli uomini dalla lettera dei testi alla ragione, come più tardi Paolo li rinvierà alla coscienza, quest’altra forma della ragione. È la ragione infine investigatrice ed interprete della verità, che, se si trova nelle Scritture dei testi oscuri o corrotti dal tempo, li corregge e, se non può, li revoca provvisoriamente in dubbio» (De arte dubitandi et confidendi, ignorandi et sciendi, fol. 91, 92).
Nella vera religione (e come tale Kant considerava il Cristianesimo razionalmente interpretato) la ragione rimane dunque il criterio supremo, e l’elemento statutario è considerato come un mezzo, eccellente del resto, per fondare in concreto la chiesa,, senza di cui essa non potrebbe venir diffusa nè conservata e che perciò dev’essere tenuto in pregio, difeso e perfezionato.
Lo stesso vale anche sotto il rapporto pratico. Anche sotto il rapporto dell’agire i precetti statutarii rimangono sempre qualche cosa di secondario e di subordinato: l’elemento essenziale è dato dalla legislazione morale, cioè dalla ragione: il vero culto è la pratica della ragione.
In ogni chiesa (anche nella vera chiesa) abbiamo quindi sempre la coesistenza di due elementi che sono fra di loro in un secreto contrasto: l'elemento razionale e l’elemento statutario. Entrambi sono necessarii: l’elemento statutario perchè la religione deve incarnarsi in una chiesa storica, deve per così dire ricevere un corpo sensibile; l’elemento razionale perchè è l’elemento essenziale della religione. Con questa introduzione dell’elemento statutario comincia la molteplicità delle chiese. Perchè, secondo Kant, la religione è una sola: non si può parlare di religioni (al plurale). Le cosidette religioni sono le chiese, le confessioni, che sono il portato necessario della debolezza della ragione umana. Ciò che separa gli uomini nelle loro dissenzioni religiose è l’elemento storico, cioè l’elemento non essenziale, per sè stesso non religioso! La religione naturale pura sola può pretendere all’universalità : perchè con essa si connette la necessità che è inseparabile dalla ragione. Esigere l’universalità per una fede storica è invece una contraddizione: l’elemento empirico, storico non può dare necessità. Anzi, poiché in questa materia l’esperienza storica può dar luogo a proposizioni e ad interpretazioni contradditorie, è facile vedere che, quando si assumono gli elementi storici, statutarii come essenziali alla religione, si apre con ciò una ricca sorgente di infinite divergenze settarie. Il che, se è per un lato un bene in quanto dimostra la libertà di cui un popolo gode, è per altro lato un male perchè mostra quanto poco esso sia ancora progredito nella conoscenza della vera religione.
«È bene che vi siano molte chiese in uno stato: anche in quanto ciò è segno che il popolo gode di una grande libertà: ma questo costituisce una lode solo per il governo. In sè invece non è un bene quello stato religioso il cui principio non implica, come il concetto della religione vorrebbe, l’universalità e l’unità dei dogmi essenziali e non sa apprezzare al loro giusto valore le controversie che nascono dall’elemento non essenzia le. La distinzione delle opinioni in riguardo alla maggiore o minore convenienza di un veicolo della religione per il fine ultimo ma di questa (che è di rendere gli uomini migliori) può quindi causare una diversità di confessioni o chiese, non una diversità di religione, ciò che è contro l’unità e l’universalità della religione (e quindi anche della chiesa invisibile). Cattolici e protestanti illuminati possono quindi bene considerarsi come fratelli nella fede senza per questo confondersi, entrambi nell’attesa che il tempo avvicini le formalità rispettive della loro fede alla dignità del loro fine, cioè alla religione» (Disputa delle facoltà, ediz. Vorl., pagina 96).
Ma, bisogna sempre ricordare, per sè l’elemento storico, statutario, non ha un immediato valore religioso: disgiunto dal vero elemento religioso, è qualche cosa d’indifferente, anzi spesso di funesto. «Per proposizione di fede non si intende ciò che deve essere creduto (perchè la fede non ammette imperativi), ma ciò che è possibile ed utile assumere per i fini nostri pratici e che, non potendo essere dimostrato, deve essere creduto. Ma se io accolgo la fede, senza questo appoggio morale, solo come un’opinione teoretica, fondata sulla tradizione storica o come un’ipotesi esplicativa una tale fede che non rende gli uomini migliori, nè testimonia del loro miglioramento morale, non appartiene alla religione: se poi essa è imposta artificiosamente all’anima con paure e speranze, è qualche cosa di contrario alla sincerità, epperciò alla religione» (Disputa, ecc., p. 84).
La vera posizione rispetto all’elemento storico è quindi quella del razionalismo (religioso), che ne riconosce (nei giusti limiti) la legittimità, ma lo fa servire e l’indirizza al vero suo fine che è l’elemento razionale, morale. Laddove il naturalismo ne misconosce il valore e quindi lo nega; il soprannaturalismo lo pone invece al livello dell’elemento razionale e così corrompe la religione e apre la via alla superstizione. Il problema puramente storico dell’origine di questo elemento statutario, storico, non interessa Kant: egli vi accenna solo fugacemente in qualche punto (Die Religion, ecc., ediz. Vorl., pag. 205). Questo è, come osserva il Troeltsch («Das historische in Kant's Religionsplhilosophie 1904» in Kantstudien Bd. IX, pagina 21-154), perfettamente nel carattere della filosofìa kantiana che considera l’attività umana in ciò che ha di essenziale e di necessario; lo svolgimento psicologico e storico è per essa qualche cosa di secondario.
Nella religione vera l’elemento storico deve essere subordinato e indirizzato all’elemento religioso: (piando invece essere è posto com'essenziale accanto o sopra l’elemento razionale, religioso, abbiamo allora le forme superstiziose della religione. Qual’è l’origine di questa degenerazione? Ben si intende che con questa domanda non ci poniamo la questione delle origini storiche. Da questo punto di vista dovremmo anzi riconoscere che la religione comincia storicamente con queste forme degenerate e che la religione ideale si svolge storicamente dal seno di queste. Noi vogliamo invece chiederci: quali sono i fattori spirituali di questa degenerazione? Essi sembrano essere per Kant principalmente due: l’uno teoretico, l’altro pratico. Entrambi però hanno il principio loro in questo: che la religione è costretta a venire ad una specie di compromesso con spiriti non preparati ad accoglierla: che essa deve adattarsi in forme inferiori ed inadeguate per prepararsi in certo modo il terreno al suo svolgimento in forme più perfette. Questa analisi astratta tradotta in un linguaggio più vicino a noi, si risolverebbe in una interpretazione teleologica del divenire storico delle forme religiose. Il fattore teoretico è quello che conduce dall’adesione razionale alla fede servile. La fede razionale è una fede liberamente accolta: anche la fede statutaria nella chiesa vera è, se non razionale, accolta per un atto di libera adesione. Nella tradizione della religione invece si può comprendere come questa distinzione fra l’elemento razionale e lo statutario possa oscurarsi e come ciò che era solo un mezzo umano, contingente, (e perciò razionalmente non dimostrabile) venga successivamente imposto alle menti deboli o venga da queste accolto come un elemento essenziale nel quale bisogna credere ciecamente, come in un elemento d’istituzione divina: allora anche ciò che è vero dinanzi alla ragione viene fondato, non sull’adesione della ragione, ma sulla fede, cioè sull’adesione incondizionata e servile alla tradizione (fìdes imperata, fides servilis). Perchè questa è superstizione, cioè corruzione della religione? Perchè in fondo è men zogna.
Un dogma che è fondato solo su circostanze storiche e non può essere provato che storicamente, non può mai avere un’assoluta certezza, come le certezze razionali. Quando perciò il sacerdote impone ai fedeli la più assoluta fede in un principio di questa natura (per esempio che Dio abbia stabilito un certo giorno per certe periodiche funzioni religiose) impone ad essi una convinzione che egli stesso, se si esamina accuratamente, non può condividere. Se l’autore di un simbolo di fede o il maestro di una chiesa, in quanto deve confessare internamente a sè stesso che certe sue convinzioni sono fondate su rivelazioni divine, si esaminasse con coscienza quanto alla legittimità delle sue affermazioni, io (dice Kant) dovrei avere della natura umana un ben tristo concetto per non credere che anche il dogmatico più indurito dovrebbe, dinanzi a Dio, tremare delle sue affermazioni.
E se così è, come si concilia con una coscienza scrupolosa il fatto d’imporre ad altri una professione di fede come un dovere assoluto? Se questa imposizione è così universalmente possibile, ciò è perchè essa viene fatta ed accolta senza chiara coscienza della gravità dell’atto che con ciò si compie, per una specie di leggerezza e d’ipocrisia convenzionale.
Mancando l’autorità della ragione (la vera autorità divina), l’autorità della tradizione è ricondotta a Dio per via d’una rivelazione immediata: così sorge di fronte alla religione naturale il concetto della religione rivelata, fondata essenzialmente sulla tradizione storica di dottrine, libri ecc. che risalgono in ultima analisi ad una rivelazione divina. Alla religione rivelata è essenziale perciò il concetto di miracolo; anzi essa stessa è già un miracolo. Il fatto della rivelazione è dimostrato in quanto è circondato esso stesso di altri miracoli: che sono, per la ragione infantile, il segno infallibile della presenza del divino. Le tradizioni sacre, che non sono scritte nella ragione, debbono essere piamente conservate per trasmissioni: di qui l’importanza dei libri sacri, i quali esigono alla loro volta interpreti legittimi e danno origine ad una letteratura sacra che chiarisce e perfeziona la rivelazione contenuta nei libri sacri. E naturalmente la rivelazione pone sè stessa come l’unica verità universale ed assoluta; quelli che credono diversamente sono increduli (come per i Greci i barbari erano popolazioni non parlanti): quelli che ardiscono rinnegare la tradizione ricevuta o modificarla, sono eretici, punibili come ribelli.
Ma Kant insiste sopratutto sul fattore pratico: che si connette essenzialmente anch’esso sull’incapacità degli uomini di accogliere e conservare nella sua purezza la fede morale. Dal punto di vista pratico l’uomo si chiede: come debbo io regolare la mia vita per essere un uomo religioso? In altre parole: come vuole essere servito Dio? Nella religione morale è la legge che risponde; l’uomo morale è sempre al servizio di Dio e non vi è altro modo di servirlo. Ma nella religione ecclesiastica la risposta è data dalla rivelazione: nella quale, oltre alla legislazione morale, è contenuto anche un elemento statutario: il quale ha la sua funzione provvidenziale, ma è in sè un’opera puramente umana, uno strumento sussidiario dei veri precetti divini che sono le leggi morali. Invece la debolezza umana fa di queste istituzioni ecclesiastiche il vero fine della religione, anzi pospone ad esse la legge morale (il precetto del Sabbato nel Vangelo). Questa debolezza ha più cause. In primo luogo l’uomo pensa, e non del tutto a torto, che noi dobbiamo cercare di servir sempre Dio e di mostrarci sudditi perfettamente ubbidienti alla sua legge. Certo, finché noi pensiamo Dio come un essere razionale e morale, ci convinciamo facilmente che il modo migliore di guadagnarci la sua benevolenza è la buona condotta, procedente dalla retta volontà. Ma può darsi, pensa l’uomo non senza una certa colorazione antropomorfica, che Dio possa anche voler essere servito in altro modo: e cioè per mezzo di azioni le quali, pur non avendo in sè un carattere morale, hanno per fine di dimostrare la nostra buona volontà di obbedirgli. L’uomo s’illude in questo modo di supplire alla sua debolezza morale col testimoniare la buona volontà per mezzo d’azioni le quali servono solo a rappresentare simbolicamente la disposizione dello spirito, ad accogliere la volontà divina (la devozione).
A ciò servono per esempio: le rinunzie, le mortificazioni del corpo, che sebbene non servono in nulla al perfezionamento morale sembrano dover avere un valore agli occhi di Dio perchè sono un sacrifizio fatto per compiacere alle sue volontà e testimoniare della disposizione nostra a rinunciare alle nostre volontà egoistiche, per adottare la volontà di Dio. Ora è evidente che, pure concedendo a queste azioni simboliche il dovuto posto nel servizio divino, esse dovrebbero venir considerate soltanto come mezzi per il vero servizio divino, che è la vita morale.
Che la condotta morale valga per sè ed immediatatamente non è dubbio: ma se questi uffici simbolici dovessero aver valore per sè, sarebbero frequenti i casi in cui la nostra coscienza si troverebbe dinanzi ad un conflitto insolubile tra un atto morale e un atto cerimoniale (per esempio tra il non violare la legge del sabbato e il compiere un atto di carità). Invece insensibilmente s’opera nella coscienza una sostituzione: il mezzo diventa fine: anzi col tempo lo stesso elemento morale è posto come valido soltanto perchè fondato sulla legge ecclesiastica. L’elemento statutario prevale sull’elemento morale.
«Chi antepone l’osservanza di leggi statutarie, rivelate, come necessaria alla religione e non soltanto come mezzo per la disposizione morale, ma come la condizione obbiettiva per essere immediatamente grati a Dio, e pospone a questa fede storica l’osservanza d’una buona condotta, colui trasforma il servizio di Dio in un puro feticismo, in una pratica superstiziosa che allontana dalla vera religione. Tanto importa, quando si vuol collegare due buone cose, l’ordine cui vengono collegate!» (Die Religion, ecc., ediz. Vorl., p. 209).
Questa inversione di valori è ciò che Kant chiama propriamente superstizione o paganesimo: una corruzione della religione che consiste nel porre come fine ciò che propriamente ha solo valore di mezzo. Una volta che la coscienza religiosa si è messa su questa via, non vi sono più limiti che l’arrestino: qui tutto è arbitrario. E non bisogna credere, avverte Kant, che una superstizione sia più raffinata che l’altra. Il pregare con le labbra o il pregare facendo girare una ruota (come i Tibetani), è una pura distinzione esteriore: il principio è identico. Fra il prelato europeo e lo stregone dei selvaggi c’è una grande differenza nell’esteriorità, ma in fondo appartengono ad una stessa classe, e cioè di coloro che pongono il servizio di Dio nell’osservanza di certe norme statutarie, non nello sforzo di diventare uomini migliori.
Un altro motivo pratico della degenerazione religiosa Kant trova nella dottrina della grazia. Giustamente l’uomo pensa che, per quanto egli si sforzi di operare secondo la legge, l’opera sua non potrà mai soddisfarne pienamente le esigenze: che Dio deve quindi in qualche modo cooperare alla sua salute, senza che l’uomo possa saperne il come: in ciò consiste propriamente la grazia. Il contrapposto della natura e della grazia (Die Religion, ecc., ediz. Vorl., pag. 203-223; Streit der Fakultaeten, ediz. York, pag. 85 ss), significa per Kant questo: che noi dobbiamo fare tutto ciò che sta in noi per osservare fedelmente la legge (in ciò sta la sua natura): ma dobbiamo anche credere e sperare che Dio verrà in nostro aiuto completando l’opera della nostra buona volontà, in modo da renderla (ciò che non possiamo sperare da noi soli) una volontà santa. Ora Kant non nega che noi dobbiamo tener presente questa fede che ci sorregge nel compimento dei nostri doveri, sì che non disperiamo di giungere al nostro fine più alto. Ma in sè essa è una semplice idea che, se noi la vogliamo rappresentare in concreto, cade in contraddizione con la stessa ragione; in quanto questa esige che tutto quanto ci è imputato a merito sia opera nostra. È quindi un’idea del tutto trascendente che noi dobbiamo tenere a una certa distanza perchè non ci trascini nell’illusione di poter conoscere in qual modo Dio così ci aiuta e in qual modo noi possiamo attirare su di noi questo suo aiuto. Invece in generale l’uomo è così fatto che, non appena una chiesa afferma di conoscere per rivelazione soprannaturale, come dobbiamo operare per attirare su di noi la grazia di Dio, l’ignoranza e la paura del mistero spingono l’uomo ad accogliere questa rivelazione, non perchè nell’intimo suo sia convinto della sua verità, ma per acquistare il favore divino e ottenere così per via soprannaturale ciò che sa di non poter meritare da sè con la buona volontà.
Quest’illusione per cui l'uomo crede di poter entrare in rapporto diretto con Dio, è ciò che costituisce il fanatismo mistico (Schwaermerci). Nella superstizione vi può essere ancora un’ombra della ragione: ma il fanatismo è veramente la morte della ragione, senza la quale non ci possono può essere nè morale, nè religione.
Di qui i cosidetti «mezzi di grazia», che sono procedimenti di carattere soprannaturale diretti ad attirare sopra di sè la grazia di Dio: la preghiera, i sacra, menti, ecc. : per mezzo dei quali l’uomo s’illude di essere in possesso di una vera potenza soprannaturale: ciò che costituisce la magia. Quando si crede, per mezzo di formole, d’invocazioni, ecc. di costringere per così dire la divinità a scendere a prestare la sua assistenza, abbiamo un vero atto magico: ciò che è proprio solo dei gradi più bassi della religione. Però in fondo la radice e della superstizione e del fanatismo magico è sempre una sola: l’inferiorità morale, l’egoismo.
«Tutte queste artificiose illusioni in materia di religione hanno una radice comune. Fra le qualità morali divine, la santità, la grazia e la giustizia, l’uomo si rivolge di solito direttamente alla seconda, per scansare la terribile difficoltà di soddisfare alle esigenze della prima. È faticoso essere un buon servo (si sente sempre parlare di doveri): quindi si preferisce cercare di essere un favorito; allora molto si compatisce e, se si è peccato troppo gravemente contro il dovere, tutto si può accomodare di nuovo per l’intromissione di qualche intermediario che è in grande favore; mentre l’uomo rimane sempre quel poco di buono che era prima. E per dare a sè stesso qualche apparenza di realizzabilità a questo suo intento trasferisce il suo concetto ordinario dall'uomo (con tutti i suoi difetti) nella divinità; onde, come anche nei migliori fra i superiori della specie umana la severità legislatrice, la grazia benefattrice e la precisa giustizia non cooperano separatamente, ciascuno per sè, a produrre il loro effetto morale nelle azioni dei soggetti, ma si mescolano nel loro pensiero, in occasione della scelta delle loro decisioni, in modo che basta cercare di far breccia sopra l'una di queste qualità, la mollezza della volontà, per determinare le altre due all'indulgenza; così l'uomo spera di fare la stessa cosa presso Dio volgendosi soltanto alla sua grazia. A questo fine pratica diligentemente tutte le formalità possibili atte a mostrare quanto egli veneri i precetti divini per non aver bisogno di osservarli: e perchè i suoi vani desideri possano servire anche a compensare le loro trasgressioni, grida: Signore, Signore! per non avere bisogno d’eseguire la volontà del Padre celeste; e così trasforma le cerimonie, che dovrebbero servire come mezzo per ravvivare i sentimenti morali, in mezzi di grazia per sè stessi, considera anzi la fede in essi come un punto essenziale della religione e lascia alla provvidenza il compito di fare di lui un uomo moralmente migliore, mettendo la divozione al posto della virtù; laddove soltanto la virtù unita con la divozione può costituire quello che si deve intendere per religiosità. Quando poi l’illusione di questo favorito dal cielo va fino all’immaginazione fanatica di particolari effetti della grazia, anzi fino alla presunzione d’un intimo e secreto commercio con Dio, la virtù finisce per diventare per lui un oggetto di nausea e di disprezzo; onde non fa meraviglia l’universale lamento che la religione contribuisca così poco a migliorare gli uomini e che la luce interiore (sotto il moggio) di questi pieni di grazia non risplenda anche esteriormente in buone opere; sopratutto in paragone degli uomini naturali retti, per cui la religione non serve a sostituire, ma a promuovere la disposizione virtuosa, la quale si manifesta poi nella retta condotta» (Die Religion, ediz. Vorl., pag. 234-236).
A questa azione individuale dell’egoismo s'aggiunge poi Fazione egoistica, corruttrice, dello stato. Nella Critica del Giudizio (ediz. Vorl., pag. 122) Kant mostra come la sublimità delle idee religiose non abbia nulla da guadagnare con le rappresentazioni sensibili e simboliche, che sono una necessità per la debolezza del nostro spirito; ma una necessità che in fondo deprime l’intensità del sentimento religioso. Forse non vi era, dice Kant, nessun precetto più sublime nel codice ebraico di quello che vietava di raffigurare Iddio. «Solo questo precetto può spiegare l’entusiasmo che il popolo ebraico sentiva, nel suo periodo migliore, per la sua religione quando si paragonava con gli altri popoli, oppure quell’orgoglio che l’islamismo ispira ai suoi seguaci». Lo stesso vale anche della rappresentazione della legge morale, che tanto più acquista di potenza sullo spirito, quanto più è liberata dal simbolismo sensibile. «Per questo i governi hanno veduto di buon occhio che la religione venisse sovraccaricata di queste superfluità e per questo mezzo tolto ai sudditi la fatica, ma anche la possibilità d’estendere le proprie energie spirituali al di là di quei limiti che i governi vogliono ad essi imporre e per mezzo dei quali essi vengono più facilmente governati come soggetti passivi».
Con la degenerazione suprestiziosa, la religione invece d’essere l’affermazione più alta della libertà dello spirito, diventa un giogo. Quando l’osservanza delle pratiche religiose non è più qualche cosa di razionalmente accettata in vista del fine più alto, che è la vita morale, siano queste pratiche poche o molte, se esse vengono imposte allo spirito come un dovere assoluto, s’impone allo spirito una schiavitù: nella quale la parte più dolorosa è l’obbligo di credere, contro il quale si ribellano egualmente e la ragione e la coscienza. Questa servitù si traduce esteriormente nell'asservimento ad una casta, depositaria della tradizione, dotata d’autorità divina e che perciò non ha da persuadere, ma solo da comandare. E l’asservimento del popolo diventa a lungo andare anche asservimento dello stato: l’ipocrisia e la mancanza di energia morale si estendono anche al campo della moralità vera e propria e corrodono i fondamenti stessi della vita sociale. La superstizione, nota giustamente Kant, tende ad imprimere anche nel carattere del popolo le sue particolarità caratteristiche; la devozione servile verso Dio genera anche una dispo-sizone d’animo servile, paurosa, che conduce poco per volta alla viltà e alla bassezza (Die Religion, ediz. Vorl., pag. 215-216).
È vero, Kant lo riconosce, che tutte queste superstizioni hanno anche un lato per cui devono essere in certo modo scusate; sono «tentativi di poveri mortali per rendere sensibile sulla terra il regno di Dio» (Die Religion, ediz. Vorl., pag. 205 nota); è giusto che non solo i sapienti siano chiamati alla salute eterna e che anche gli umili e gli ignoranti vi hanno diritto. Ora sembra che questi miti, queste cerimonie, rese venerabili dalla tradizione, siano ciò che vi è di più adatto all'intelligenza comune: toglierli non è togliere la religione? Questo è vero, risponde Kant, ma la religione è fatta anche per i sapienti: e come è possibile mantenere per essi una religione intessuta di tante assurdità, esposta a tanti dubbi, a tante controversie? Vi è invece una verità accessibile a tutti, dotti e ignoranti, che è scritta a lettere indelebili in ogni cuore, che non ha bisogno di storie e di cerimonie: questa è la legge morale. Di qui bisogna dunque cominciare e da essa partire per elevarsi verso la religione, tenendo sempre fermo questo fondamento, in modo da non ammettere nessuna fede storica se non in quanto essa può armonizzare con la fede morale e in quanto può ad essa servire.
Passiamo ora a vedere quanto Kant insegna in riguardo all’applicazione di questa teoria al Cristianesimo. Già si è veduto che per Kant il Cristianesimo è la religione per eccellenza, la religione più vicina, per la sua purezza, alla religione ideale della ragione. Ciò vale però della religione di Cristo, quale è insegnata nel Vangelo. Là abbiamo una religione che fa appello soltanto alla coscienza degli uomini. È vero che in qualche parte si richiama, come per conferma, alla tradizione mosaica: ma è chiaro che questo avviene soltanto per adattarsi alla mentalità degli uditori, attaccati ciecamente a questa tradizione: non si tratta d’un elemento essenziale. Se noi consideriamo la purezza della dottrina, la grandezza dell’esempio che il fondatore diede nella sua persona, l’assenza d’ogni attaccamento superstizioso ai riti, alle cerimonie, che vengono sempre subordinate all’elemento morale, noi possiamo bene chiamare la dottrina di Cristo la vera religione. «Sorse un tempo un saggio maestro che quasi eresse sulla terra questo regno di Dio in opposizione al regno terreno. Egli abbattè la sapienza delle Scritture, la quale conduce solo a dogmi che separano gli uomini ed eresse nei cuori il tempio di Dio ed il trono della virtù. Egli si servì invero delle Scritture, ma solo per abbattere quella fede nella quale gli altri avevano giurato. Fu per un malinteso, fondato su questo difetto accidentale, che sorse nel suo nome una nuova fede scritturale, la quale ostacolò di nuovo il bene che egli aveva avuto di mira. Sebbene questa nuova fede potesse in sè essere buona o almeno nell’essenziale non funesta, essa tuttavia agì nel senso in cui agisce in fatto di religione ogni fede scritturale: e cioè capovolse l’ordine erigendo in cose essenziali i dogmi e le cerimonie, che in sè sono soltanto dottrine sussidiarie. Ma nel corso del mondo mille anni sono un giorno. Noi dobbiamo pazientare, lavorare ed attendere». (Kants Reflexionen, ed. Erdmann, I, p. 213-214).
Kant dà una esposizione sommaria della dottrina di Cristo (Die Religion, ediz. Vorl., p. 183 s.). Quanto alla personalità di Cristo, per quanto Kant ne parli con quel riserbo che il tempo imponeva, è chiaro abbastanza che cosa ne pensi. Escluso è naturalmente ogni elemento soprasensibile: su questo punto Kant non si preoccupa di spiegare questa personificazione del divino in una personalità storica. La legge morale è veramente il divino che è nel mondo umano: l’origine sua non può essere cercata in niente di ciò che è nel mondo: la coscienza della legge è il divino stesso in quanto sceso in terra tra gli uomini. E poiché tutte le cose del mondo sono soltanto per l’uomo che vive sotto la legge, questa coscienza della legge è veramente il logos, il figlio di Dio per cui tutte le altre cose sono. La coscienza dell’umanità ha incarnato in Cristo questo ideale, ha concentrato in lui il carattere divino della legge: perciò lo ha chiamato il figlio di Dio, mandato da Dio sulla terra, ciò che dal punto di vista morale può essere veramente una rappresentazione simbolica legittima e santificante. In questo senso devono anche essere interpretati tutti gli elementi mitici con cui la fantasia popolare ha voluto esprimere questo carattere divino della sua personalità: per esempio la nascita da una vergine che non è, in tutte le religioni popolari, se non l’espressione simbolica e mitica della purezza da ogni basso elemento animale ed istintivo.
Ma sarebbe certo un antropomorfismo superstizioso l’intendere poi questo travestimento simbolico in senso letterale ed obbiettivo: Cristo è stato un eroico riformatore morale e religioso che è stato e sarà ancora per secoli l’incarnazione più pura dell’ideale religioso: se fosse stato veramente un Dio (ciò che non ha del resto alcun senso), esso sarebbe un essere straniero a noi che non potrebbe più servirci d’esempio.
La corruzione del Cristo cominciò però subito dopo Cristo.
I discepoli e gli apostoli di Cristo non furono capaci di mantenere la sua dottrina in tutta la sua purezza: essi trasformarono di nuovo la pura dottrina di Cristo in una dottrina statutaria, ponendo in prima linea quell’elemento dogmatico e cerimoniale che Cristo aveva o combattuto o accolto quasi con indifferenza, come un elemento puramente secondario e sussidiario. Su questo punto Kant si esprime con molta chiarezza nella famosa lettera a Lavater (trad. nell’Antologia kantiana, pag. 266-269).
Questo elemento leggendario e mitico era, secondo Kant, un’eredità dell’ebraismo, dell’ebraismo messianico sopratutto: eredità che era stato in parte necessario accogliere per aprire la via alla nuova dottrina, ma che dopo Cristo ebbe di nuovo il sopravvento e soffocò l’elemento puramente morale. Così è, per esempio, che vennero accolte, o almeno non respinte, superstizioni erronee dominanti, non contrastanti direttamente con la fede morale (per esempio la credenza nei demoniaci) ed anche introdotte positivamente dottrine destinate a servire come introduzione, conciliazione (per esempio la dottrina dell’Antico Testamento come preparazione del Nuovo Testamento). Secondo ogni apparenza già Cristo stesso credette necessario intrecciare con la sua riforma tradizioni ebraiche: ma i suoi successori considerarono questo elemento episodico come essenziale, lo moltiplicarono a dismisura e in modo che, dice Kant, si dovrebbe quasi credere che secondo essi ogni cristiano dovesse semplicemente essere un ebreo, per il quale era venuto il Messia. Così s’ebbe questa strana posizione: che il Cristianesimo non è propriamente legato da nessuna legge dell’ebraismo e tuttavia deve considerare il libro sacro di questo popolo come una rivelazione divina destinata a tutti gli uomini.
Ora, secondo Kant, non solo l’ebraismo non è in nessuna connessione essenziale col Cristianeimo, ma è d’indole opposta: è una religione eminentemente statutaria, che ha potuto dare al Cristianesimo nascente qualche elemento, ma è fondata sopra tutt’altro principio. Anzi Kant, considerando che il Cristianesimo sorse nel seno dell’ebraismo quando questo era già stato fortemente penetrato daH’ellenismo, ritiene che probabilmente questo contribuì, più che l’ebraismo, alla costituzione del Cristianesimo.
La cosidetta religione ebraica è una religione statutaria su cui si fondò uno stato teocratico: ma fu più stato che chiesa. Infatti:
a) tutti i suoi precetti sono puramente esteriori e politici o almeno pongono il loro centro di gravità nell’osservanza esteriore;
b) essi non hanno mai avuto di mira una vita futura (il cui concetto non sorge nell’ebraismo che assai tardi);
c) essi escludono il resto dell’umanità dalla loro fede in quanto il loro Dio resta sempre un Dio nazionaie. Kant non ha nemmeno del resto un concetto molto alto del monoteismo ebraico.
Anche Kant riconosce nella conservazione dell’ebraismo un fatto singolare della storia: ma non è isolato (le comunità parsi nell’India; i maomettani in Cina). Ciò è dovuto, oltreché a fattori etnici, il cui valore non deve essere trascurato, al fatto che essi erano in possesso di una religione fondata sui libri sacri: e in parte anche al fatto che la loro religione essendo un antecedente del Cristianesimo come dell’islamismo, essa fu bensì oggetto di persecuzioni parziali, ma in generale venne tollerata, anzi quasi protetta come un testimonio vivente della loro verità.
Quanto all’avvenire dell’ebraismo Kant enuncia un ben strano pensiero. La religione degli ebrei è stata finora più che altro un fattore d’unità etnica, un sistema cerimoniale senza vera religione, un abito senza l’uomo. Ma d’altra parte non può aversi nemmeno l’uomo senza l’abito: una chiesa, un sistema statutario, sono sempre necessarii. Kant fa sua quindi la previsione (o la proposta) che gli ebrei possano, non farsi cristiani, ma adottare la pura fede di Cristo, diventare i veri cristiani, i seguaci di Cristo riformatore ebraico: proposta messa innanzi da un ebreo seguace di Kant, Lazzaro Bendavid (1762-1832).
Quanto alla storia ulteriore del Cristianesimo, Kant non vede in essa che una successione di superstizioni: come era naturale del resto dovesse giudicare Kant dal suo punto di vista in cui si sente l’ispirazione deistica del secolo XVIII e l’avversione tanto alla superstizione grossolana, quanto allo spiritualismo mistico e sognatore. Noi non sappiamo, egli dice, quale fu l’influenza della dottrina di Cristo nei primi cristiani: non abbiamo documenti sicuri.
Ma dopo che il Cristianesimo entra nella storia questa, in riguardo alla benefica influenza che si potrebbe a buon diritto attendere da una religione morale, non gli torna certamente ad onore. Il misticismo fanatico nella vita cenobitica e monastica e nella celebrazione della santità del celibato rese inutile per il mondo un grande numero d’uomini; la fede nei miracoli compresse con duri vincoli il popolo sotto una cieca superstizione; una gerarchia s’impose alla libertà umana e la voce orribile dell’ortodossia si levò dalla bocca di interpreti i quali pretendevano di essere i soli autorizzati, dividendo il mondo per differenze dogmatiche in fazioni piene di odio. In Oriente, dove lo stato in modo ridicolo si occupava delle dispute dogmatiche dei preti invece di tenerli rigorosamente nei limiti di una casta insegnante, questo stato cadde infine, come era inevitabile, preda dei suoi nemici esterni, che posero fine anche alla sua religione dominante. Così in Occidente, dove la fede si era eretta un proprio trono, indipendente dalla potenze terrene, l’ordine e la cultura vennero rovinati ed abbattuti da un preteso rappresentante di Dio; entrambi gli imperi, simili ad organismi che, malati e vicini alla morte, attirano gli insetti distruttori, furono infine preda dei barbari. In Occidente quel capo spirituale dominò colla minaccia della scomunica i re come bambini, spingendoli a guerre intestine o a guerre di sterminio contro altri popoli (le crociate) ed eccitò i popoli alla rivolta contro le loro autorità e all’odio dei loro simili professanti in generale lo stesso cosidetto Cristianesimo. La radice secreta di questa guerra tirannica, che solo l’interesse politico trattiene da scoppii violenti, sta nel principio del dispotismo ecclesiastico, e lascia legittimamente temete nel futuro una storia simile alla storia passata; — questa storia del Cristianesimo, quando la si veda tutta dinanzi come in un quadro, potrebbe bene giustificare l’esclamazione: tantum religio potuit suadere malorum — se dalla fondazione sua non trasparisse chiaramente che la sua vera e prima intenzione fu d’introdurre una religione pura, la quale non può dare origine a contese; e che tutta quell’agitazione per cui il genere umano venne ed è ancora diviso, deriva solo da ciò, che ciò che all’inizio doveva servire a guadagnare per mezzo dei suoi stessi pregiudizi! alla nuova fede un popolo abituato alla sua vecchia fede storica, venne in appresso posto come fondamento d’una religione universale» (Die Religion, ediz. Vor., pag. 150-152).
SUO VALORE ATTUALE
Il periodo migliore della storia del cristianesimo non deve essere cercato nè nei primi secoli nè dopo; il periodo migliore è il presente, in cui comincia a svolgersi una chiara coscienza del suo vero essere e comincia a formarsi un nucleo di membri della vera chiesa. Kant predice in un passo mirabile della sua «Religione» questo avvento futuro della vera chiesa (Antologia kantiana, pag. 332-333).
Non è necessario per questo distruggere le chiese: basta dare loro una certa unità, orientandole verso l’unità della religione morale, e conciliandole con la libertà individuale: quando esse si saranno messe su questa via, verrà da sè il momento in cui esse troveranno anche la forma esteriore più conveniente. La quale non sarà, se noi consultiamo l’esperienza, quella di una grande, unica chiesa universale: l’unità esteriore è sempre qualche cosa di instabile e d’inadeguato all’unità interiore. L’ideale che Kant sembra aver avuto dinanzi è quello di una confederazione delle singole chiese, di un’unità d’indirizzo piuttosto che di un’unità d’organizzazione: ciò che del resto è ben naturale se si pensa che nella vera chiesa dell’avvenire l’essenziale è l’elemento morale che è unico, e l’elemento statutario, ecclasiastico è soltanto uno strumento sussidiario.
La prima condizione di questa rigenerazione religiosa è la rinascita interiore, la conquista della libertà dello spirito.
Ciò che caratterizza la religione razionale è appunto il fatto che essa è fondata essenzialmente sulla ragione: intendiamo dire sulla ragione morale e sui suoi postulati religiosi. Questo è ciò che distingue il razionalismo religioso kantiano dal razionalismo comune — che in fondo è sempre ancora un dogmatismo. Il razionalismo religioso kantiano è sempre razionalismo critico, opposto perciò tanto al dommatismo quanto allo scetticismo, che è pur esso in fondo una forma di dogmatismo. Esso non respinge da sè la massa morta delle tradizioni dogmatiche per costituire un nuovo dogmatismo, sia pure più povero e più razionale in apparenza, ma per fondare la sua fede sull’unico punto saldo e comune a tutti gli spiriti razionali, che è la coscienza della legge. Vi è nell’intimo nostro, ci dice questa coscienza, una legge assoluta che non ha la sua origine in questo mondo e ci rinvia ad una realtà trascendente, di cui questa realtà in cui viviamo non è che l’apparenza imperfetta ed effimera. Per essa noi ci sentiamo cittadini di questo mondo superiore, collegati con tutti gli altri spiriti razionali in un’unità perfettissima, come momenti di un ordine, che è lo spirito nella sua unità. Noi non abbiamo tuttavia nè parole, nè concetti adeguati per esprimere questa realtà. La ragione (come ragione pratica) ci rinvia bensì verso di essa, ma (come ragione teoretica) non può rappresentarla e designarla a noi altrimenti che per mezzo di simboli imperfetti. Il valore di questa religione razionale è appunto in ciò: che essa s’impone a tutti gli spiriti che partecipano della ragione: è la vera rivelazione dello spirito allo spirito nella sua natura universale e comune. Ma appunto per questo essa deve trovare lo spirito libero da ogni servitù di tradizioni, di abitudini, d’autorità; per quanto ciò possa costare uno sforzo doloroso, lo spirito deve sciogliersi da ogni vincolo e lasciar valere soltanto la ragione e tutto ciò che ha valore dinanzi alla ragione. Bisogna quindi avere il coraggio di deporre tutto il bagaglio teologico, anche se comprende le credenze più care; ed essere risoluti a non accettare nulla come vero se non in quanto è giustificato e fondato dalla ragione. Nella Critica del giudizio (§ 40) Kant riassume in tre regole questa esigenza: pensare da sè, pensare mettendosi al posto degli altri, pensare con rigorosa coerenza con sè stesso. La prima è contro la passività della ragione che è il principio di ogni pregiudizio e di ogni superstizione. La seconda è contro la ristrettezza mentale che deriva dal rimanere chiusi nella mentalità del proprio stato, della propria cerchia di studi, del proprio partito. La terza è la legge stessa interiore della ragione e non può diventare un abito se non per un lungo e rigoroso esercizio. Ma la più importante è per noi la prima che è la liberazione di quella cecità abituale che deriva dai pregiudizi d’ogni specie e dal pregiudizio per eccellenza che è la superstizione, la quale anzi pone com’esigenza la passività, l’obbedienza cieca ad altri, la rinunzia alla propria ragione.
Bisogna qui fare appello alla propria sincerità, discendere in sè stessi, essere senza pietà per quella pigrizia intellettuale, quell’attaccamento ristretto alle credenze abituali, che c’impediscono di guardare in faccia la verità, e che si risolvono poi in una forma d’ipocrisia. «O sincerità (dice Kant in una nota della Religion ediz. Vorl., p. 222) o Astrea che dalla terra sei fuggita in cielo; come richiamarti? Io posso concedere, sebbene a malincuore, che la franchezza (il dire tutta la verità che si sa) non ha posto nella umana natura. Ma la sincerità (il dire con veracità tutto quel che si dice) si può ben esigere da ogni uomo e se non vi fosse nella nostra natura una disposizione alla sincerità — disposizione la cui cultura è troppo trascurata - la razza umana dovrebbe essere ai suoi propri occhi un oggetto del più profondo disprezzo. Ma quella desiderata sincerità è una proprietà che è esposta a molte tentazioni e costa molti sacrifici e perciò esige anche una certa forza morale; perciò deve essere vigilata e coltivata prima di ogni altra: perchè la tendenza contraria, una volta che ha messo radice è difficilissima ad eliminarsi. Ora si tenga presente il nostro modo di educare specialmente in materia di religione, o meglio di catechismo, dove la fedeltà della memoria nel rispondere alle domande, senza tener conto della sincerità della professione di fede, è considerata cosa sufficiente per fare un credente, il quale non capisce nemmeno ciò che egli assevera, come uomo religioso; e allora non si faccia più le meraviglie sulla mancanza di sincerità che crea tanti ipocriti secreti».
La credulità facile e leggera che si crede di assicurarsi con prudenza col credere più anziché meno, non tiene conto dell’orribile degradazione di sè stessi che si compie con l’accettare di credere ciò che non si può in coscienza tener per vero: e che è tanto maggiore poi in chi insegna ed esige da altri questa fede senza aver esaminato col più rigoroso scrupolo se si ha o no dinanzi alla propria coscienza il diritto di insegnare ciò che si insegna. (Die Religion, ecc. ediz. Vorl., p. 220-222; trad. nell’Antologia kantiana, p. 326-327). Kant considera perciò come uno dei doveri essenziali dell’uomo quello di respingere nelle cose della ragione ogni tutela, ogni pressione dispotica, che tenda a farci abdicare all’uso della ragione in pro d’una autorità qualunque: ciò è un rinunciare alla propria dignità di uomo.
Il singolo nasce e vive anche spiritualmente nel seno di tradizioni secolari, che hanno il loro valore e senza di cui noi non saremmo quello che siamo: ma il giudice supremo è sempre in noi ed il rinunziarvi non è nemmeno nell’arbitrio nostro: perchè rinunziarvi in nome della ragione è contraddizione ed il rinunziarvi puramente e semplicemente è un rinunziare alla razionalità, un ridurci ad animale da gregge. Questo diritto non può essere tolto all’uomo dallo stato: che quando impedisce questo progresso per favorire la superstizione e l’intolleranza, si assume una responsabilità terribile e va contro al suo interesse medesimo.
Può lo stato esigere che nell’esercizio delle funzioni del meccanismo statale il cittadino s’attenga alle norme che lo stato prescrive: ma non può con questo impedire il libero esame e la libera ricerca. Può bene per esempio lo stato esigere che il magistrato giudichi secondo le leggi vigenti, qualunque siano le sue convinzioni: ma non può con questo impedire che il magistrato stesso esprima poi, come privato, le sue opinioni scientifiche contro le leggi stesse nell’intento di correggerle e di migliorarle. Così Kant risolve anche il duro caso di coscienza del ministro religioso, che come ministro non è libero, come studioso deve essere libero. Ad ogni modo, comunque si risolva questo caso, è fuori di dubbio che lo stato deve, nel suo interesse medesimo, favorire la libertà del pensiero, dell’esame e della discussione. Questo è l’argomento del notevole articolo pubblicato da Kant nel dicembre 1784 sull’illuminismo (Antologia kantiana pag. 297-301).
Quindi Kant non accetta affatto che sia necessario tenere un popolo in ceppi solo perchè non è maturo per la libertà: bisogna educarlo alla libertà ed educarlo per mezzo della libertà.
«Io confesso (scrive nella Religion, ediz. Vorl., p. 220 nota), che. non convengo nell’espressione di cui si servono anche uomini abili: il tale popolo non è maturo per la libertà : i servi della gleba della tale proprietà non sono ancora maturi per la libertà; e così in genere gli uomini non sono ancora maturi per la libertà religiosa. Ma secondo questa presupposizione la libertà non comincierà mai; perchè non si può maturare per la libertà se non si è già prima posti in libertà. Certo i primi tentativi saranno rozzi e mescolati in generale con condizioni più gravi e pericolose che non quando si stava sotto il comando ma anche sotto la provvidenza di altri: ma non si matura per la ragione altrimenti che con i tentativi proprii. Io non ho niente in contrario a che coloro i quali hanno la forza nelle mani, costretti dalle condizioni dei tempi, rinviino lontano, molto lontano, la liberazione da questi tre vincoli. Ma porre come principio che coloro i quali sono stati ad essi assoggettati non siano nati per la libertà e il considerarsi come autorizzati a privameli per sempre, è un attentato ai privilegi della divinità stessa, che ha creato gli uomini per la libertà. Certo è più comodo dominare nello stato nella casa e nella chiesa quando si riesce a mettere in pratica un tale principio. Ma è anche piu giusto?».
I LIBRI SACRI
Se il primo principio è quello della libertà di fronte all’elemento statutario, il secondo è quello della tolleranza. La vera religiosità non può essere promossa fra gli uomini che per mezzo d’una chiesa, d’una fede statutaria, d’un libro e in questo punto è possibile una graduale modificazione, non una sostituzione arbitraria e violenta. Bisogna essere innovatori, rivoluzionari nella sostanza (non mettere il vino nuovo negli otri vecchi), ma conservatori nelle forme. Questo vale sopratutto, secondo Kant, in riguardo al libro sacro del Cristianesimo, alla Bibbia. Essa comprende due parti, l’Antico e il Nuovo Testamento e comprende tutta la storia dell’umanità, dalla creazione del mondo alla quale nessuno certo era presente fino alla consumazione dei secoli (v. Apocalisse), ciò che certamente (dice Kant ironicamente) presuppone una scrittura divinamente ispirata. Se questo fosse, se cioè nella Scrittura parlasse a noi Dio direttamente, senza dubbio nessun libro sarebbe più adatto a guidare l’umanità alla sua salute temporale ed eterna. Ma quest’autorità non può essere tanto facilmente documentata: e tutti sappiamo le difficoltà innumerevoli che in questo punto incontra l’interpretazione ortodossa. Ma noi dobbiamo considerare la cosa da un punto di vista più alto: Dio non può parlare a noi altrimenti che per la coscienza morale: in questo solo risiede perciò il criterio e il principio dell’acettazione della Scrittura (nota al passo della «Disputa delle facoltà» (ediz. Vorl., pag. 110)*. «Se anche Dio parlasse realmente all’uomo, questo non potrebbe mai sapere che è Dio che gli parla. È assolutamente impossibile che l’uomo possa per il senso comprendere l’infinito, distinguerlo dagli esseri del senso e conoscere di lui qualche cosa. Mentre invece che non sia Dio colui che gli parla, può benissimo in alcuni casi convincersene; perchè se ciò, che allora gli vien comandato, è contro la legge morale, sia l’apparizione maestosa quanto si vuole e superiore alla natura, egli deve ritenerla per un’illusione. «La giustificazione della Bibbia, in quanto deve servire di norma nella dottrina e nell’esempio per la fede, non può quindi derivare dalla sapienza teologica dei suoi autori (che come uomini erano sempre soggetti ad errori), ma dall’azione morale esercitata dal suo contenuto sopra la coscienza popolare per via dell’ammaestramento di maestri popolari, non filosofi per sè stessi, quindi dalla pura sorgente della religione razionale immanente ad ogni uomo; la quale appunto per questa semplicità doveva esercitare sopra la coscienza popolare l’influenza più diffusa e più intensa. La Bibbia fu il veicolo della stessa per mezzo di certi precetti statutarii, con i quali la religione razionale diede all’esercizio della religione nella società civile una forma, una costituzione, e documentò l’autorità di questo codice come di origine divina quasi per autenticarne la parte spirituale, morale: perchè per quanto si riferisce all’elemento statutario, i suoi principii non hanno bisogno di alcuna autenticazione, non appartenendo essi all’essenziale, ma solo all’accessorio della religione. Fondare la origine di questo libro sull’ispirazione dei suoi autori al fine di santificare anche la parte statutaria, non essenziale, deve piuttosto scuotere che fortificare la fede nel suo valore morale. L’autenticazione d’un tale scritto come divino non può quindi venire da alcuna narrazione storica, ma dalla provata sua efficacia nel suscitare la religione nei cuori umani, e, quando questa fosse degenerata per istituzioni nuove, nel potere con la sua semplicità ristabilirla nella sua purezza; con la qual cosa tale opera non cessa perciò di essere un prodotto naturale e un risultato del progresso della cultura morale nell’ordine provvidenzialmente voluto e deve anzi essere così spiegato affinchè l’origine del libro non sia riferita al caso (incredulità) o al miracolo (superstizione): ciò che è ugualmente contrario alla ragione. La conclusione è pertanto questa : La Bibbia contiene in sè una giustificazione praticamente sufficiente della sua divinità (morale) nell’influenza che essa, come testo di una dottrina sistematica, ha da ogni tempo esercitato sul cuore degli uomini, sì da poter essere conservata come organo dell’universale ed interiore religione della ragione e trasmessa come testamento d’una dottrina statutaria, valida ancora per un numero indefinito di secoli; sebbene sotto il rapporto teoretico per i dotti che ne indagano le origini criticamente e storicamente, le sue prove siano insufficientemente la ragione in riguardo al carattere umano della narrazione storica, che, come una vecchia pergamena qua e là illeggibile, deve essere resa intelligibile e conciliata col contesto per mezzo di accomodamenti e di congetture; quindi essa ci autorizza nonostante tutto a dire: che la Bibbia merita di essere conservata, utilizzata moralmente e posta come guida alla religione, come se essa fosse una rivelazione divina» (Disputa delle facoltà, ediz. Vorl., pag. 109-112).
Ma come devono avvenire questi «accomodamenti» per cui l’elemento statutario, storico, deve essere conciliato con l’elemento morale? Ad ogni interpretazione, deve naturalmente antecedere l’interpretazione storica, filologica. Gli scritti sacri hanno per la vita religiosa comune una grande importanza; perciò è indipensabile quell’opera di critica del testo, di commento filologico e storico che si esige per la retta intellezione di ogni testo antico. Anche le indagini storiche circa la loro trasmissione, la loro origine, hanno la più grande importanza: esse non hanno naturalmente però alcun’influenza essenziale sopra l'interpretazione religiosa, dottrinaria. Sopratutto poi non si deve credere che esse costituiscano l’interpretazione religiosa: perchè la pura conservazione d’una dottrina storica non ha alcun valore religioso, è cosa morta. La vera interpretazione religiosa è l’interpretazione morale, che ha per fine di mettere in evidenza quello che la nostra coscienza morale riconosce come appartenente al patrimonio divino dell’umanità Quindi anche quando la verità morale è mescolata con elementi storici, non essenziali, è lecito interpretare anche questi moralmente, cercare di dare ad essi un senso morale. Anche se questo potrà parere forzato, ciò non importa: l’essenziale per noi, in un testo religiose, non d’andarne indagando il senso storico, ma di farlo servire alla nostra edificazione religiosa. Kant ci dà un esempio di questa interpretazione soggettiva (nella «Religion, ecc., ediz. Vorl. p. 126 in nota) dove cerca di dare un senso al Salmo 59 (58 della Volgata), dove il salmista supplica Dio di sterminare nel suo furore i nemici suoi. Tutte le antiche religioni hanno cercato questa conciliazione: già i filosofi antichi (specialmente gli stoici ed i neoplatonici) hanno cercato di dare un senso morale e religioso ai miti della religione popolare. E non dobbiamo stupirci se l’interpretazione morale s’adatta facilmente; anche nelle religioni antiche più rozze vive già sempre una tendenza alla religione razionale. Questo vale sopratutto per l’esplicazione della Bibbia al popolo.
«Non l’erudizione è ciò che si ricava dalla Bibbia per mezzo di conoscenze filologiche, che sono spesso soltanto congetture disgraziate, ma ciò che in essa s’introduce per mezzo dello spirito morale, ciò che non inganna e non può mai essere senza un salutare effetto, ciò deve ispirare l’esposizione che se ne fa al popolo; e così si deve trattare il testo solo come un’occasione per una predicazione morale senza curarsi di ciò che può avere avuto di mira lo scrittore del testo. Una predicazione morale deve svolgere il suo insegnamento dal cuore stesso degli uditori e cioè dalla disposizione morale che è presente anche nell’uomo più indotto, e vuole produrre una disposizione morale pura. Le testimonianze della Scrittura non devono essere prove storiche che confermino la verità di queste dottrine (perchè esse non ne hanno bisogno), ma solo esempi dell’applicazione dei principii razionali pratici ai fatti della storia sacra per renderne la verità più intuitiva». (Disputa delle Facoltà, ediz. Vorl., pag. 116).
Kant stabilisce quattro regole per l’interpretazione morale delle Scrutture (Disputa delle Facoltà p. 80 n.).
«I passi che contengono dottrine teoretiche trasmesse come sacre, ma che trascendono la ragione pos sono, quelli che contengono dottrina contrastanti con la ragione pratica debbono essere interpretati in accordo con questa. La dottrina della trinità presa alla lettera non ci dà niente di pratico, anche se si crede di poterle dare un senso e tanto meno poi se si avverte che trascende ogni nostra facoltà di concepire. Che noi dobbiamo venerare in Dio tre persone o dieci, il giovane discente l’accetterà alla lettera, perchè non ha alcun concetto di un Dio in più persone (ipostasi) e più ancora perchè da queste diversità di dottrine non può derivare alcuna diversità nelle regole della sua condotta. Invece quando s’introduce nei dogmi un senso morale, questo contiene una fede ben chiara relativamente al nostro compito morale».
Kant si è diffuso sul dogma della trinità nell’Osservazione generale sui misteri nell’Appendice alla terza parte della «Religion». Il dogma della trinità simbolizza i tre attributi morali fondamentali di Dio: in quanto cioè è santo legislatore, pietoso reggitore, giusto giudice. Questa in fondo è la ragione che ha ispirato in tante religioni diverse il principio della trinità divina. Lo stesso avviene della dottrina dell’incarnazione d’una persona della divinità. Perchè se questo Dio uomo non è rappresentato come l’idea dell’umanità nella sua assoluta perfezione morale, quale è da tutta l’eternità in Dio, ma come la divinità incarnatasi realmente in un uomo e operante in lui come seconda natura, questo non ci offre niente di praticamente salutare; perchè noi non possiamo pretendere da noi di renderci simili a Dio e quindi egli non può essere per noi un esempio; senza contare anche che noi dovremmo chiederci perchè, se una tale unione è possibile a Dio, egli non ne ha fatto partecipi tutti gli uomini, che allora sarebbero diventati tutti perfetti.
Lo stesso deve dirsi della risurrezione e dell’ascensione. (Vedi anche nella Religion, ediz. Vorl. pag. 155157). L’esplicazione morale dei miti apocalittici, che vengono da Kant intesi come un’espressione simbolica dell’avvento del regno di Dio per mezzo della perfetta religione morale: il quale avvento è cosa del tutto interiore).
Se noi vivremo dopo la morte solo come spiriti, o se la stessa materia del nostro corpo sia necessaria all’identità della nostra persona nell’altro mondo, in modo che anche il corpo debba partecipare alla risurrezione ci può essere nel rapporto pratico assolutamente indifferente: a chi è così caro il proprio corpo che se lo trascinerebbe nell’eternità, se potesse disfarsene?
Quindi il ragionamento dell’Apostolo: «Se Cristo non è risorto (anche secondo il corpo), noi non risorgeremo», non è valido. Ma anche se non sia tale secondo il suo senso letterale, esso vuole in fondo dirci soltanto questo: che noi abbiamo ragione di credere che Cristo sia ancora vivente, perchè la nostra fede sarebbe vana se un uomo cosi perfetto non vivesse ancora al di là della morte corporea: è questa fede suggerita a lui come a tutti gli uomini dalla ragione, che lo condusse a prestare fede alla voce popolare della risurrezione di Cristo, voce da lui ingenuamente accolta e utilizzata come argomento per la credenza della nostra immortalità: egli non s’accorge che senza la fede nell’immortalità non avrebbe prestato fede a questa leggenda; alla verità della quale stanno del resto contro notevoli obbiezioni. L’istituzione della Cena è una triste riunione, più simile ad un addio solenne che ad una promessa di una prossima riunione. Le parole dolorose del morente sulla croce esprimono l’amarezza per il fine mancato, mentre invece si sarebbe atteso un senso di letizia per il compiuto proposito. Infine l’espressione dei discepoli in Luca: «Noi credevamo che dovesse liberare Israele» non mostra ch’essi prevedessero o sapessero qualche cosa della risurrezione.
Ma perchè dovremmo noi avvolgerci in tante dispute e ricerche erudite per un racconto storico che noi dovremmo lasciare da parte come cosa indifferente, dal momento che si tratta di religione, per la quale è sufficiente la fede pratica che la ragione c’ispira?
Nell’esplicazione dei passi il cui contenuto contrasta con il nostro concetto razionale della natura e della volontà divina, i teologi si sono da lungo tempo posto come regola che ciò che è espresso in termini umani debba essere interpretato in modo conveniente a Dio: con il che confessano chiaramente che la ragione è in materia di religione l’interprete supremo.
Ma che, anche quando ai sacri scrittori non si può realmente riferire altro senso se non uno che è in contraddizione con la nostra ragione, questa si senta autorizzata ad interpretare il passo in modo che sia conforme ai suoi principii e non secondo la lettera, per non addossare ai sacri scrittori un errore, sembra essere affatto contro le regole dell’interpretazione; e tuttavia cosi hanno sempre proceduto, con l’approvazione di tutti, i teologi più famosi.
Cosi si è fatto della dottrina della predestinazione di S. Paolo dalla quale appare che sua opinione privata era il predestinazionismo nel senso più rigoroso, dottrina che venne di fatto accolta nel suo simbolo da una delle grandi chiese protestanti, ma che in appresso venne poi abbandonata dalla maggior parte o interpretata altrimenti come meglio si poteva, perchè la ragione la trova inconciliabile con la dottrina della libertà, della responsabilità e con la morale in genere.
II. — La fede in dottrine che non possono essere conosciute altrimenti che per la rivelazione non ha in sè alcun merito, e la mancanza della stessa o il dubbio non sono colpa, perchè nella religione tutto deve mirare all’azione e tutte le dottrine bibliche devono poter ricevere un senso riferentesi all’azione.
Per dogmi di fede s’intende non ciò che deve essere creduto, (perchè il credere non permette imperativi) ma ciò che è possibile e utile (sotto il rapporto morale) accettare sebbene non dimostrabile, quindi ciò che può essere creduto.
Se invece prendo per principio la fede senza questo rapporto morale, nel senso di un opinare teoretico su cose fondate sopra una tradizione storica o che io non posso spiegarmi altrimenti se non per mezzo di questo o di quel presupposto, una tal fede, in quanto nè rende un uomo migliore, nè è segno di bontà, non è parte della religione: e se poi è stata imposta artificiosamente allo spirito per la paura o per la speranza è contro la sincerità, quindi contro la religione.
Se vi sono perciò dei passi in cui la fede in una dottrina rivelata è considerata come per sè meritoria, o posta al disopra delle stesse azioni morali, essi debbono venire spiegati come se in essi si parli della fede morale, che eleva e purifica l’anima per mezzo della ragione; anche se il senso letterale suoni in contrario.
III. — L’agire dev’essere considerato come procedente dalle forze morali dell’uomo stesso e non dall’influenza d’un potere superiore in riguardo al quale l’uomo si comporti passivamente: i passi che s’esprimono letteralmente in questo senso devono essere intesi in accordo con il principio sopra espresso.
Se per natura s’intende il principio che dirige l’uomo verso la sua felicità, e per grazia l’incomprensibile disposizione morale che è in noi, cioè il principio della pura moralità, natura e grazia non solo sono fra loro distinte, ma spesso anche in contraddizione. Ma se per natura s’intende la facoltà di giungere con le proprie forze a certi fini, la grazia non è altro che la natura dell’uomo in quanto per il suo principio interiore sovrasensibile viene determinato ad azioni che, in quanto noi vogliamo spiegarle e tuttavia non troviamo alcuna causa a cui riferirle, vengono da noi rappresentate come l’effetto d’un impulso al bene posto in noi da Dio, quindi come grazia.
I passi perciò che sembrano insegnare una dedizione passiva ad una potenza esteriore che genera in noi la santità, devono essere interpretati in questo senso: che noi stessi dobbiamo lavorare in noi allo svolgimento di quella disposizione morale, sebbene essa riveli un’origine divina, superiore alla ragione (in senso teoretico) e perciò il possesso suo non sia merito, ma grazia.
IV. — Dove il proprio agire non basta per la giustificazione dell’uomo dinanzi alla sua rigorosa coscienza, la ragione è autorizzata ad assumere un completamento morale della sua debolezza, ma non a determinare in che cosa esso consista. Questa fede nell’aiuto soprannaturale di Dio solo può dare coraggio e sicurezza nella vita retta, perchè permette di non disperare del risultato. Ma il voler dire in che cosa esso consista non solo non è necessario, ma anzi il solo pretendere di conoscerlo, è mia vana presunzione. I passi quindi che sembrano contenere una tale rivelazione debbono essere interpretati nel senso che contengono solo un veicolo della fede morale per il popolo, come concessione alle dottrine fin’allora in esso dominanti e non come elementi costitutivi della religione universale.
Questi canoni, che diedero poi origine ad una vasta letteratura teologica in questo senso, che valicò spesso i confini del ragionevole e del conveniente, testimoniano più che altro dell’attaccamento di Kant al vecchio libro della Cristianità per il quale invoca anzi, insieme con la facoltà di libera interpretazione, una specie di protezione del governo contro le sette che credono l’umanità sia ormai in grado di far senza della Bibbia (Disputa delle Facoltà, ediz. Vorl., p. 112).
La stessa artificiosità dell’interpretazione kantiana ci mostra tuttavia che egli è stato forse qui ancor troppo conservatore. Vi è certo nella Bibbia dei testi che possono essere ancora oggi per noi senza troppe torture d’interpretazione testi della vita religiosa (i Salmi, i Profeti, i Vangeli sinottici, una parte delle Epistole Paoline): ma perchè volere trascinare con sè tutta la zavorra tradizionale? Un testo sacro non è in fondo che l’esempio e la testimonianza del passato: ora a questo riguardo ci sono documenti della vita religiosa che possono essere preziosi per noi e che la Bibbia non contiene: vi è per contro una parte grandissima della Bibbia che non parla più al nostro senso religioso. Noi dobbiamo quindi sbarazzarci di questa superstizione e costituire a noi liberamente il testo e il documento della nostra vita religiosa.
Lo stesso senso di tolleranza intelligente Kant porta anche verso l’elemento esteriore, cerimoniale della chiesa. Il vero servizio di Dio consiste, come noi sappiamo, nel servizio del cuore, nell’osservanza dei propri doveri. Ma è nella natura dell’uomo di rendere per mezzo di elementi sensibili il soprasensibile, di circondare la disposizione morale di forme simboliche dirette a rafforzarla e disciplinarla: queste forme simboliche sono gli elementi rituali e cerimoniali della chiesa. Ricondotti al loro vero senso questi elementi possono dividersi in quattro osservanze fondamentali : I) in primo luogo quelli diretti a fondare e tenere presente in noi stessi la disposizione morale (la preghiera); II) quelli diretti alla diffusione esteriore della stessa, per mezzo di pubbliche riunioni in giorni determinati e di professioni collettive per via di preghiere collettive, canti, ecc. (la frequentazione della chiesa); III) la propagazione della stessa nella generazione per mezzo di cerimonie iniziatrici nei nuovi membri della comunità (il battesimo); IV) la conservazione di questa comunità religiosa per una cerimonia simbolica che esprima l’unione dei suoi membri in un corpo morale (la comunione).
LA PREGHIERA
1. — Quanto alla preghiera Kant distingue tra la preghiera letterale per mezzo della quale l’uomo vuol agire sopra Dio, e la preghiera secondo lo spirito con la quale l’uomo vuol agire soltanto sopra di sè. La preghiera letterale è superstizione. La preghiera secondo lo spirito è l'affermazione interiore della disposizione di essere sempre al servizio di Dio: è un atto interiore di dedizione, d’elevazione e di fortificazione: una promessa fatta solennemente a sè medesimo. Ma appunto perciò la preghiera è essenzialmente interiore: la preghiera verbale, esteriore è solo un mezzo; un mezzo che col tempo deve diventare inutile. E per questo bisogna abituare i bambini a comprendere che pregando non parlano a Dio, ma alla propria coscienza dinanzi a Dio. Kant trova nel «Padre nostro» il modello di una preghiera spirituale. «Il maestro del Vangelo ha eccellentemente espresso lo spirito della preghiera in una formula che riesce in fondo a rendere inutile la preghiera stessa e quindi anche sè come formula. In essa noi non troviamo altro che il proposito di una buona condotta, il quale, collegato con la coscienza della nostra fragilità, contiene il costante desiderio d’essere un degno membro del regno di Dio: quindi nessuna vera e propria domanda di qualche cosa che Dio nella sua sapienza potrebbe anche ricusarci, ma solo un’aspirazione che quando è seriamente nutrita, realizza da sè il suo proprio oggetto (l’essere un uomo grato a Dio). Anche il desiderio del pane quotidiano necessario alla vita, poiché non è espressamente diretto a chiedere la vita del domani, ma è solo l’espressione del bisogno della nostra vita animale, è più la confessione di ciò che la natura vuole in noi che non un’espressa preghiera di ciò che l’uomo vuole: come sarebbe «e si chiedesse il pane del domani». (Religion, ediz. Vorl. pag. 229 nota).
Una preghiera è perciò anche secondo Kant la contemplazione muta delle opere di Dio. San Francesco pregava nelle selve (Bonaventura, Vita di Franc., cap. 10): Cristo «recedebat in desertum et orabat» (Luca, V, 10): S. Domenico, S. Francesco Saverio si recavano a notte alta, nelle chiese deserte.
Una particolare considerazione ha Kant per la preghiera rituale collettiva. «La preghiera collettiva, non è un mezzo di grazia, ma una solennità morale, avvenga essa per il canto degli inni o per l’orazione rivolta dal pastore in nome di tutta la comunità a Dio; la quale, in quanto rende presente l’elevazione morale come un atto collettivo, in cui l’aspirazione di ciascuno deve confondersi con l’aspirazione di tutti verso un fine comune — l’avvento del regno di Dio — non solo può intensificare la commozione fino all’entusiasmo morale, (laddove la preghiera individuale perde poco per volta per l’abitudine la sua influenza sullo spirito) ma ha anche in sè un fondamento razionale più comprensibile per rivestire l’aspirazione morale, che costituisce la essenza della preghiera, della forma d’un’allocuzione, senza dover pensare alla presenza dell’essere supremo o ad una forza particolare di questa figura oratoria, come mezzo di grazia. Perchè l’intenzione sua è d’eccitare sempre più il sentimento morale d’ogni singolo per mezzo di una solennità esteriore rappresentante l’unione di tutti gli uomini nel comune desiderio del regno di Dio; ciò che non può avvenire meglio che col rivolgersi con la parola a Colui che ne è il capo, come se fosse là particolarmente presente» (Die Religion, ecc. pag. 230-231 nota).
LA FREQUENTAZIONE DELLA CHIESA
2. — La frequentazione della chiesa come servizio esteriore solenne di Dio, in quanto costituisce una rappresentazione sensibile della comunione dei fedeli, non solo è un mezzo d’edificazione raccomandabile a tutti, ma è un dovere immediato dei singoli verso la comunità, in quanto essi sono come i cittadini dello stato divino così come può essere rappresentato qui sulla terra; presupposto che questo servizio non contenga cerimonie che conducano all’idolatria e così possano urtare la coscienza, come sarebbero per esempio l’invocazione di Dio nella persona della sua infinita bontà sotto il nome di un uomo: ciò che è contrario al precetto: «Tu non devi farti nessuna immagine sensibile di Dio». Ma il considerare questa frequentazione come mezzo di grazia, come se con ciò si facesse cosa grata a Dio e questi avesse collegato con la celebrazione di queste cerimonie grazie speciali, è un’illusione che s’accorda bensì con la mentalità del buon cittadino nella repubblica civile e con le convenienze esteriori, ma che non solo non conferisce per nulla alla sua qualità come cittadino del regno di Dio, anzi la falsa e serve solo a coprire con l’ipocrisia la sua mala coscienza agli occhi altrui e anche ai proprii.
IL BATTESIMO
3. — L’iniziazione alla comunione ecclesiastica, la cerimonia solenne con cui il singolo è accolto come membro di una chiesa (cioè che avviene nella chiesa cristiana per il battesimo) è una solennità significativa che impone gravi obblighi o all’iniziato quando è in grado di fare egli stesso la sua professione di fede, o ai testimoni che si impegnano di curarne l’educazione spirituale ed esprime un atto sacro; ma per sè non è niente di sacro, non è un atto che conferisce a chi lo riceve un carattere speciale ed un particolare titolo alla grazia divina, ossia non è un mezzo di grazia: per quanto già nella prima chiesa greca gli si connetteva l’alto privilegio di mondare da tutti i peccati, un’illusione che già mostrava con ciò d’essere connessa con una superstizione più che pagana.
LA COMUNIONE
4. — La solennità più volte ripetuta d’un rinnovamento e d’una perpetuazione di questa comunione religiosa secondo le leggi dell’uguaglianza (la comunione), che, secondo l’esempio dato dal fondatore di essa, può anche avvenire per la cerimonia di un pasto comune alla stessa tavola, contiene in sè un pensiero grande che toglie l’uomo dalla sua mentalità ristretta, egoistica, repellente, specialmente in materia di religione, lo eleva all’idea d’una comunione morale umana ed è un mezzo eccellente per vivificare in una comunità il sentimento in essa simboleggiato della fraternità. Ma il credere che Dio abbia collegato grazie speciali con la celebrazione di questa cerimonia e l’accogliere come un articolo di fede che essa, la quale non è che un atto ecclesiastico, sia un mezzo di fede, è un’illusione che va direttamente contro lo spirito della religione (Die Religion, ediz. Vorl., pag. 234). Con questi accessorii pratici si chiude la filosofìa religiosa di Kant. Che però il suo sguardo andasse oltre, e considerasse come una conseguenza della sua filosofia la costituzione d’un cristianesimo puro, profondamente spirituale, inspirato agli insegnamenti genuini del Cristo, appare tuttavia abbastanza chiaramente da una lettera di un suo discepolo, Carlo Arnoldo Willmann, autore d’una dissertazione: «De similitudine inter mysticismum purum et kantianam religionis doctrinam», pubblicata nel 1797; lettera che Kant pubblicò con qualche riserva, ma con evidente compiacenza, in appendice alla prima parte della sua «Disputa delle Facoltà» (1798).
In essa l’autore espone la mirabile concordanza che egli ha riscontrato fra alcune sette separatiste e i principii del kantismo: con questa sola differenza che ciò che Kant riferisce alla ragione, esse lo riferiscono ad una specie d’illuminazione mistica.
È naturale che Kant lasciasse nell’ombra molte conseguenze della sua filosofìa: in ogni modo anche da questo traspare quel carattere pratico e religioso che ispira tutta la sua filosofìa: la quale è stata ed è ancora uno dei più meravigliosi tentativi dello spirito umano di penetrare, per quanto a noi uomini è possibile, il mistero delle cose e nello stesso tempo di volgere la volontà degli uomini verso la conquista dei beni eterni.
*. Può servire di esempio il mito del sacrificio che Abramo voleva offrire per comando divino con l’uccidere ed abbruciare suo figlio, il quale poveretto, portava anche senza saperlo la legna necessaria. Abramo avrebbe dovuto rispondere a questa pretesa voce divina: «Che io non debba uccidere il mio figlio è assolutamente sicuro: ma che tu, che mi parli, sia Dio, non posso saperlo con certezza e non potrei saperlo in alcun modo».. ↩
Ultima modifica 2024.03