Kant

Piero Martinetti (1943)


PARTE II
LA FILOSOFIA PRATICA DI KANT

CAPITOLO XII.
INTRODUZIONE

Tutta la costruzione gnoseologica di Kant nella Critica della Ragion Pura conclude, come abbiamo veduto, ad una netta separazione del sapere empirico e scientifico dal preteso sapere metafisico.

L’attività formatrice dello spirito riesce, nell’esperienza e nella scienza, ad una costruzione obbiettivamente valida; ma essa resta sempre nel campo fenomenico e non tocca mai le ultime realtà. D’altra parte questa medesima attività, che costruisce l’esperienza e la scienza, è condotta dalle sue intime esigenze dinanzi ai problemi ultimi: e qui si illude di poter ottenere, come nell’esperienza, un sistema di conoscenze obbiettive; soltanto le contraddizioni e la rovina delle sue temerarie costruzioni la fanno avvertita che il compito suo è qui infinitamente più arduo di quello che essa, nei suoi primi e ingenui tentativi, s’immagini.

E l’analisi dei suoi processi, intrapresa nella critica della ragione, mentre conferma e sancisce la validità obbiettiva delle sue costruzioni empiriche, l’avverte che la capacità sua di conoscere obbiettivamente cessa là dove il materiale empirico l’abbandona; le costruzioni trascendenti o sono pure costruzioni formali (e perciò vuote di contenuto reale) o sono mescolanze contraddittorie di esigenze trascendenti e di elementi empirici. Tuttavia queste costruzioni (le idee della ragione) non sono pura illusione: esse sono procedimenti che unificano l’esperienza, permettono di abbracciarne l’insufficienza di fronte alle esigenze formali dello spirito e perciò ci rinviano, pur senza farcele conosce-scere obbiettivamente, ad una realtà trascendentale, il vero e proprio termine di tutto il nostro conoscere, che, come un sole invisibile, lo orienta verso di sè, e con questo orientamento si annunzia, senza mai farsi direttamente apprendere.

Possiamo perciò bene concedere che il punto di vista kantiano è il più dichiarato scetticismo in riguardo alle conclusioni della metafisica, ma in sè stesso è ben lungi dall’essere una vera e propria posizione scettica.

Kant è allora un metafisico?

Certamente, ma un metafisico trascendentale. Condannata da lui è la metafisica volgare che, con un insieme sconnesso di concetti logici, ingiustificati quanto alla loro origine, pretende dar fondo all’universo: ma la metafisica platonica, nel suo senso più profondo, è da Kant rinnovata, non distrutta. Le conclusioni supreme della ragione teoretica e pratica coincidono in Kant con quella che è l’affermazione essenziale della metafisica: io credo in una realtà intelligibile.

Chiamare scettica la filosofia kantiana solo perchè non accetta le concezioni banali per mezzo di cui la filosofia tradizionale crede di apprendere questa realtà intelligibile, è come chiamare ateo colui che non accetta i dogmi dell’immacolata concezione o dell’infallibilità papale.

In fondo anche Kant conferma le concezioni dell’idealismo tradizionale di Platone e di Leibniz, ma con riserve e distinzioni fondate su d’una profonda analisi dei processi conoscitivi.

Egli è partito bensì da un’attitudine recisamente scettica di fronte a qualsiasi affermazione metafisica (nei «Sogni d’un visionario»): in questa rovina di ogni sapere sta ferma e salda soltanto la fede morale. Ma questo scetticismo provvisorio si chiarisce ben presto nell’anno della «grande luce» (1769) con la distinzione del sensibile fenomenico dall’intelligibile: ciò che permette questa distinzione è il concetto della costruzione formale, che appare la prima volta nella Dissertazione latina del 1770.

. Il processo della conoscenza non è un quadro unico, tutto disteso su di uno stesso piano, ma una serie di piani, ciascuno dei quali ha nelle sue forme specifiche il suo limite insuperabile. Allora è possibile stabilire un criterio sicuro per la distinzione dei concetti ed uscire dalle contraddizioni della metafisica volgare: vi è una realtà per il senso, caratterizzata dalle forme dello spazio e del tempo; e vi è una realtà per l’intelletto, alla quale non devono naturalmente applicarsi i concetti di origine sensibile, cioè spaziale e temporale: allora in esse abbiamo una conoscenza reale degli esseri e dei loro rapporti.

Questo punto di vista si chiarisce e si purifica da ogni avanzo di dogmatismo nei lunghi anni di elaborazione della critica (1770-1781): mentre è mantenuto nelle sue linee generali il concetto della conoscenza sensibile per mezzo delle forme dello spazio e del tempo, è profondamente elaborato e mutato il concetto del conoscere intellettivo: la distinzione, semplicemente abbozzata, fra intelletto e ragione è ampiamente svolta e ricondotta, alla sua volta, alla distinzione di due piani conoscitivi di carattere e di valore ben diverso. Egli chiama intelletto l’attività del logos interiore in quanto accoglie i dati del senso e li ordina nel sistema obbiettivo dell’esperienza e della scienza per mezzo delle forme (categorie), che caratterizzano e costituiscono l’intelletto umano in genere.

Ma poiché è inerente al concetto stesso di dato sensibile il carattere della subbiettività, anche la conoscenza che risulta dalla disposizione logica secondo un ordine universalmente valido, è sempre ancora subbiettività umana, relativa alla natura umana sensibile in generale. Ed anche l’attività formale dell’intelletto, sebbene non sia per sè legata alla condizione subbiettiva del dato sensibile, in quanto è ordine del dato sensibile, è pur essa affetta da questo medesimo carattere, sì che il mondo da essa costituito è bensì un mondo obbiettivo, ma un mondo obbiettivo umano cioè fenomenico.

D’altra parte Kant chiama ragione l’attività del logos interiore in quanto si sforza d’astrarre dal dato sensibile e di produrre dal suo seno un sistema di conoscenze pure che soddisfacciano all’indeclinabile esigenza dello spirito di affermare il mondo dell’esperienza nella sua totalità ed unità: ma qui egli deve riconoscere che l’attività della ragione non è più un sapere, non ci dà un mondo di oggetti reali che siano per la ragione ciò che è per l’intelletto il mondo obbiettivo dell’esperienza. Questa negazione della possibilità di conoscere adeguatamente quella realtà che nell’esperienza umana ci è data inadeguatamente come realtà empirica, è il vero aspetto scettico del pensiero kantiano. Ma la ragione non può essere una semplice facoltà d’illusione; essa deve avere una funzione positiva ed un fine suo proprio nella costituzione del nostro spirito. Questa funzione positiva sta in ciò che per mezzo delle idee ci rinvia al di là dell’esperienza, stabilisce il carattere fenomenico e relativo del mondo empirico - e, specialmente come ragione pratica fonda, almeno praticamente, per noi l’esistenza di una realtà trascendente con la quale sono intimamente connessi la nostra natura ed il nostro destino. Quest’associazione di

un aspetto scettico e di un aspetto metafisico e religioso non è del resto particolare alla dottrina kantiana: ogni filosofia di carattere religioso ha un elemento scettico: senza ciò non vi è religione.

È il razionalismo superficiale che crede di poter spiegare tutte le cose senza lasciare nessuna ombra: il razionalismo profondo di Spinoza, di Fichte e di Schopenhauer costruisce, bensì, razionalmente il mondo; ma questa costruzione razionale culmina poi nella posizione di una realtà inconoscibile che ne è la negazione. Quindi ogni filosofìa di carattere religioso considera la ragione come uno strumento che. deve condurla dinanzi a quella realtà che supera ogni ragione: l’ultima affermazione sua è l’affermazione che la costruzione è soltanto uno sforzo, il più alto sforzo umano verso l’inaccessibile, e che il fine suo non è l’arresto in una concezione assoluta e definitiva, ma la conversione pratica di tutta la nostra natura verso un’ascensione senza fine. Il che è ben lungi, come è facile capire, dal coincidere con una negazione della ragione in favore di ciò che è al di sotto della ragione: ciò che è sopra la ragione è sopra la conoscenza e perciò non può essere oggetto nè di tradizione nè di fede storica, nè di sapere vero e proprio: che anzi questa corruzione dell’opera della ragione non può condurre che alla corruzione del suo risultato definitivo e cioè a rappresentazioni inadeguate e superstiziose dell’assoluto.

Se questo elemento scettico riceve nella dottrina kantiana un particolare rilievo, ciò è dovuto a più ragioni. La prima è che, laddove i sistemi dogmatici arrivano solo gradualmente al riconoscimento dell’insufficienza dei loro concetti e relegano perciò in una specie d’appendice mistica la loro confessione scettica, Kant pone e fonda sistematicamente questa riserva fin da principio: in modo che essa è anche più radicale e completa.

Schopenhauer, per esempio, crede di superare l'apparente scetticismo kantiano circa la cosa in sè con la sua teoria della volontà e costruisce il inondo come volontà: nella sua epifìlosofìa riconosce che questa costruzione medesima ci conduce poi in ultimo a porre il mondo come noluntas cioè come la negazione della volontà in ogni suo punto: vale a dire come un trascendente inconoscibile, rispetto a cui lo stesso mondo dei gradi di obbiettivazione della volontà (il mondo delle idee) non è ancora se non un intelligibile fenomenico.

Kant pone fin da principio l’incapacità nostra di dare, sia coi sensi, sia con l’intelletto un’espressione adeguata alla natura assoluta dell’essere: il che non vuol dire che noi dobbiamo arrestarci dinanzi al limite della ragione come dinanzi a qualche cosa di definitivo e di insuperabile, e non possiamo avvicinare sempre più la natura nostra a questo ideale: che anzi in questo egli fa consistere il compito più alto dell’uomo.

La seconda ragione è che questa approsimazio-ne che segue e completa lo sforzo più alto del conoscere nostro, è da Kant fondata, non sopra l’esigen-ze stesse del conoscere in genere, ma sopra una categoria particolarissima di conoscenza, sulla conoscenza che noi abbiamo di noi stessi in quanto operiamo moralmente, in breve sulla nostra coscienza morale. Qui è necessario intendere bene il pensiero kantiano. Abitualmente esso è interpretato come se concludesse, con la Critica della Ragion Pura, ad un completo scetticismo metafisico: fondasse nella sua teoria della ragione pratica un sistema di precetti morali assoluti e poi da questo ricavasse una fede morale da sostituire alla metafisica. Ciò è radicalmente falso.

La morale di Kant è anzitutto una metafisica della morale. Cioè un capitolo di metafisica: e solo in via secondaria una morale. Laddove, per esempio, Spinoza parte dalla considerazione del nostro conoscere in genere e dalle sue esigenze per elevarsi al concetto (simbolico) della sostanza e da questo punto di vista ricostruisce poi dinanzi ai nostri occhi il mondo, Kant respinge (a torto od a ragione, non dobbiamo qui decidere) ogni possibilità di questo genere: il conoscere in genere non riesce ad alcun risultato obbiettivo, in riguardo alla realtà assoluta, e perciò non potrebbe da sè solo condurci al di là di una sterile negazione.

Noi saremmo, secondo Kant, se fossimo abbandonati alla sola nostra conoscenza generica del mondo, come anime immerse in una tenebra impenetrabile e dotate della reminiscenza d’un perduto mondo della luce: ma così vaga che non condurrebbe ad altro risultato se non alla coscienza che esse non appartengono e non sono nate per questa realtà tenebrosa.

Secondo la metafisica invece, anche questa sola reminiscenza basta all’anima per ricostruirsi almeno in modo approssimativo una pallida immagine del mondo perduto che le serve per dirigersi e fare ad esso ritorno.

Ma secondo Kant noi non siamo limitati alla conoscenza della realtà esteriore, che è per Kant la conoscenza in genere, oggetto delle scienze e della metafisica (nel senso che egli dà a queste parole); noi abbiamo in mezzo a queste tenebre un punto luminoso: un punto solo, ma che ci basta per dirigerci e per ricostruirci anche il mondo in cui viviamo, così almeno come è necessario per dirigerci. Questo punto luminoso è la conoscenza del nostro essere come operante moralmente. Qui, e qui soltanto, discende un raggio della realtà divina: questo è il punto che dobbiamo chiarire a noi medesimi come il solo e vero sapere che abbiamo della realtà assoluta: non tanto per conoscere alla luce sua il mondo (che ciò non sarebbe un’estensione del conoscere), quanto per poterci guidare nella vita in modo da elevarci verso questa realtà divina nella misura in cui ci è possibile qui, nella nostra condizione presente.

La morale di Kant è quindi la sua vera metafisica.

La metafìsica di Kant, potremo dire, è divisa in due parti.

La prima ci mostra che tutta la realtà data alla nostra conoscenza non è la vera realtà: ma non va oltre al punto limite di questa negazione.

La seconda ci mostra che la vera realtà ci traluce in un punto solo, nella nostra attività morale: ed anche qui ci è data non come conoscenza, ma come direzione; vale a dire (per servirci di un’immagine) come un vero punto, che non ha estensione alcuna la quale si presti ad un conoscere obbiettivo, ma che ci serve almeno per riconoscere la realtà positiva di ciò che è al di là di quella negazione e per servircene come orientamento.

La ragione pratica di Kant è quindi in realtà anche ragione teoretica: non certo però nel senso in cui questa è presa abitualmente da Kant, che anzi in questo senso ne è il contrapposto. La ragione teoretica è un costruire alla luce dell’unità: ma poi le manca in fine la visione intuitiva di questa unità che sola sarebbe realtà.

La ragion pratica è invece questa visione intuitiva: ma non è visione di alcunché che sia da essere obbiettivamente conosciuto, bensì solo visione di ciò che dobbiamo fare noi quando ci illumina la luce di ciò che veramente è, e perciò appare a noi come il dover essere; però in questo senso è anche in certo modo visione di ciò che è; ed infatti costruisce poi, sia pure in modo puramente simbolico, questo mondo che veramente è.

Questo privilegio attribuito da Kant all’autoconoscenza morale (superiorità della ragione pratica) appare a primo aspetto come un privilegio attribuito alla morale in paragone della conoscenza e quindi come una forma di moralismo unito con uno scetticismo teorico: esso è invece solo una forma di idealismo etico.

La terza ragione dell’apparenza scettica della dottrina kantiana sta nella sua diffidenza di fronte ad ogni conoscenza che pretenda di superare i limiti della ragione. La stessa visione della realtà morale non è la visione d’una realtà soprasensibile, ma la visione d’una forma, perchè tale è la legge: quindi la visione di un ordine razionale pratico che ci rinvia bensì verso una realtà soprasensibile, ma l’esprime soltanto in un ordine sensibile concreto, di cui essa è il principio formale. Quindi la condotta che ci è dettata dalla legge, è ancora sempre una condotta razionale, non un misticismo pratico. Il soprasensibile, anche dopo riconosciuto come tale, rimane sempre nella sua sfera inaccessibile, non entra nella vita : esso agisce sempre solo come principio formale, introducendo nella vita la più alta unità razionale possibile. Anche in quella comunione morale perfetta che è la vita religiosa, gli atti religiosi rituali non hanno valore che come simboli di realtà morale, di attività razionale.

E quando la vita morale esige la rappresentazione concreta del soprasensibile, questa non avviene per via di visioni mistiche, ma di rappresentazioni razionali imperfette, nelle quali si fa astrazione della necessaria loro imperfezione (rappresentazioni simboliche). Quindi Kant è un vero mistico, se con questo vogliamo dire che egli pone al di là della sfera del conoscere una realtà inaccessibile che è come il silenzio impenetrabile degli gnostici: realtà che noi afferriamo soltanto in simboli e traduciamo in noi soltanto per mezzo dell’attività morale. Ma se per misticismo s’intende quello che Kant sempre intende, cioè la pretesa di conoscere, descrivere praticare il soprasensibile, Kant è il più risoluto avversario del misticismo, verso il quale egli in ogni occasione dimostra il più grande disprezzo.

Ciò che si chiama scetticismo in Kant non è dunque altro che un più rigoroso rispetto delle esigenze critiche della ragione, una più chiara coscienza del carattere severamente scientifico che deve avere la filosofia. Di questo nome si è in passato abusato per designare una delle meno scientifiche forme della filosofia: il materialismo fisico e biologico. Ma se qualche cosa esso significa, esso deve venir riferito a quella filosofia che mira a eliminare con cura attenta e rigorosa ogni interpolazione dogmatica, ogni contraddizione a quelle stesse esigenze razionali che conducono il pensiero umano a porsi il problema filosofico. Come ogni severa filosofia essa riduce certamente di molto le pretese della nostra conoscenza, e ci conduce a vedere che ogni nostro preteso sapere è umano e fenomenico, e perciò non ha sostanzialmente che un valore pratico. Il solo risultato teoretico di tutto il nostro sapere è soltanto il riconoscimento della sua vanità : e per esso il rinvio del nostro pensiero verso una realtà che, pur essendo in sè inconoscibile, è il principio verso cui si orientano le nostre attività teoretiche e pratiche. Solo questo severo riconoscimento della verità più alta può assicurare all’uomo la vita morale in tutta la sua purezza e fondare definitivamente il principio di una vita religiosa universalmente umana.

CAPITOLO XIII.
LA LEGGE MORALE

La filosofìa morale di Kant non costituisce quindi un inizio ex novo, una posizione dogmatica eretta arbitrariamente sulle rovine della metafìsica: ma è essa stessa un capitolo della metafìsica kantiana, nel quale Kant svolge la sua visione profonda del fatto morale e delle esigenze della sua esplicazione per mostrare come su di esso solamente possiamo fondare la nostra concezione della realtà, perchè esso solo è il punto nel quale possiamo cogliere — e questo anche imperfettamente, dal punto di vista pratico — la vera essenza della realtà: e quindi il punto sul quale possiamo fondarci per dare a noi stessi una spiegazione della nostra vita, che sia la più vicina possibile alla verità assoluta e che perciò, se anche non è un sapere assoluto, è un indirizzo della nostra vita verso l’ordine assoluto, nel quale è anche il sapere assoluto. Essa è pertanto nel tempo stesso una profonda interpretazione della filosofia del fatto morale che ci serve a comprendere questo nella sua intima natura, ed una posizione metafisica che ad esso — così interpretato — assegna un posto centrale nell’esplicazione filosofica delle cose.

Di qui il doppio carattere della Critica della ragione pratica e della Fondazione: che se per un lato sembrano essere una diffusa interpretazione filosofica del fatto morale, dall’altro completano la Ortica della ragion pura, in quanto da (presta interpretazione filosofica partono per completare la visione delle cose che la Critica della ragion pura lascia come interrotta a metà e svolge sotto l’aspetto prevalentemente negativo.

Ciò posto si capisce il carattere filosofico dell’etica kantiana, che non ha e non vuol avere nulla d’empirico. Essa non nega punto la legittimità d’una trattazione scientifica della morale, d’una scienza descrittiva e genetica dell’umanità, del costume, ecc.: la quale metta in luce le leggi dei processi, il loro divenire storico; ma questo è un lavoro preparatorio che non deve essere confuso con la filosofia della morale. Un esempio di questo lavoro è l’opera del Westermarck sulla «Ursprung und Entwicklung der Moralbegriffe» (1901, 2 vol.), dove appunto è esaminato lo svolgersi della vita morale in tutti i suoi aspetti, ove sono indagati i fattori culturali e naturali della vita morale, i rapporti della moralità col diritto, con la religione, col costume.

Lo stesso lavoro esige il diritto: e anche qui altro è una trattazione genetico-storica del diritto, altro una trattazione filosofica: le giuste considerazioni che svolge lo Stammler nella sua «Die Lehre von dem Richtigen Rechte» (1902) valgono anche per la morale.

Se per molti la trattazione genetico-storica sembra essenziale e sufficiente, ciò avviene per la stessa ragione per cui la maggior parte degli scienziati non sente alcun bisogno delle ricerche della logica e della teoria della conoscenza: manca il bisogno d’una ricerca sistematica intorno a ciò che costituisce propriamente il valore morale. La filosofia morale di Kant è e vuol essere una teoria filosofica della morale: quindi lascia da parte come irrilevanti per il suo compito tutte le ricerche storicogenetiche e si chiede: qual posto occupa nella scala dei valori e perciò della realtà il valore morale?

Questo carattere filosofico dell’etica kantiana ne esplica anche l’alto valore pratico. Una filosofìa della morale non ha inai direttamente nulla di pratico; ma nell’atto medesimo che essa determina in che consiste propriamente il valore morale, essa determina anche la gradazione dei valori concreti della vita: e perciò è anche praticamente una legislazione ed un indirizzo: i quali però non sono esortazioni dirette ciecamente alla volontà, ma ammaestramenti della ragione diretti a farle comprendere un ordine di valori: la necessità di realizzarlo è intrinseca alla ragione stessa.

L’alto posto che nella sua costruzione filosofica Kant assegna al fatto morale, la recisa separazione di questo fatto da ogni tendenza affettiva ed egoistica, il carattere assoluto, religioso che Kant riferisce al mondo dei valori morali in contrapposizione ad ogni realtà empirica, spiegano l’alta e singolare efficacia pratica che la sua dottrina ha sempre esercitato.

Anche nella concezione filosofica del fatto morale il punto di vista della Critica della ragione pratica e della Fondazione è un risultato lentamente e faticosamente acquisito per una lunga evoluzione attraverso punti di vista diversi.

Il punto di partenza è stato il razionalismo dogmatico dei wolfiani: la vita morale è fondata sui precetti della ragione i quali hanno per compito di tener in freno gli stimoli mutevoli ed incomposti del senso. Ma non appena, verso il 1760, il suo interesse si volge più direttamente ai problemi morali, noi vediamo il suo pensiero volgere in una direzione quasi opposta ed accogliere l’influenza dei filosofi inglesi del sentimento, in particolare Hutcheson, Shaftesbury, Hume.

Il metodo di quei filosofi si riduce ad una specie di analisi psicologica dei fatti della vita morale. Essi respingevano la conclusione di Hobbes che l’egoismo sia alla base di ogni attività umana e che anche l’atto morale sia semplicemente un egoismo travestito: essi ritenevano che vi sia nell’uomo un sentimento morale immediato che ci determini ad approvare o riprovare certi atti in noi o negli altri, senza alcun riferimento al nostro vantaggio o svantaggio.

Ora, anche Kant nei suoi scritti dopo il 1760 (Ricerche sull’evidenza dei principii della metafisica e della morale, 1762) pone come principio della vita morale il sentimento: questo ci fa conoscere il bene, come l’intelletto il vero.

Se risaliamo alle ultime sorgenti delle volontà morali, noi vi troviamo un certo numero di sentimenti irreduttibili, ciascuno dei quali pone un’azione come buona. Non è difficile vedere l’ordine d’idee che aveva condotto Kant verso questo indirizzo: è in fondo lo stesso scetticismo che lo faceva dubitare sempre più della possibilità d’una metafìsica che avesse valore di scienza: egli riconosceva l’impossibilità di costruire con assoluta certezza un sistema di principii teorici tale che si potesse derivare poi un sistema di precetti morali. Però vi è un punto nel quale Kant dissente dal sentimentalismo inglese: un punto essenziale, che è quello che determina anche l’ulteriore evoluzione del pensiero kantiano. Presso i sentimentalisti inglesi è lasciato nell’ombra un carattere essenziale dell’atto morale: quello della sua obbligatorietà. La concezione di questi inglesi è una concezione ottimistica; la loro morale è come una specie di estetica.

Vi sono dei sentimenti naturali in noi che ci portano verso ciò che gli uomini dicono il bene: si tratta di comporli insieme in una bella unità armonica, in una vita bella e serena: la morale è anche l’arte della gioia di vivere.

La concezione kantiana è invece, e quanto alle origini religiose del suo pensiero, e quanto alla sua tendenza, una concezione più severa, oscura, quasi ascetica; il dovere morale è essenzialmente dovere, cioè qualche cosa che si impone a noi dall’alto, che noi non possiamo realizzare se non vincendo in noi aspre resistenze. Accanto ai sentimenti egli pone perciò ancora una legge razionale: fa quello che ti rende più perfetto.

Questa legge è in fondo ancora la legge morale come è enunciata in Wolff: ma con questa differenza che mentre Wolff deriva questa legge da principii metafisici e pretende derivarne i precetti morali, Kant la considera come analoga ai principii formali della logica: che si impongono senz’altro da sè al nostro pensiero come vere leggi a priori, e sono pure leggi formali che nulla ci dicono quanto al contenuto. Il contenuto positivo che deve subordinarsi a questa legge è dato dai varii sentimenti morali, i quali ricevono dalla legge quel carattere di obbligatorietà che originariamente non avrebbero.

La stessa influenza dei moralisti inglesi si rivela nelle sue Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764) che è una vera psicologia morale, nella quale Kant cerca di emulare gli inglesi nell'analisi dei fatti interiori e che è in fondo anche un testo di morale in quanto Kant vi analizza i sentimenti morali fondamentali: libro pieno di osservazioni brillanti e fini sulla vita e sul carattere umano. Però anche qui Kant pone al sentimento, perchè possa dirsi veramente morale, condizioni tali che dovranno poi condurlo a cercare la morale altrove che nel sentimento.

Egli distingue fra il sentimento morale vero è proprio e i sentimenti morali improprii che sono o ausiliarii o sostituti provvidenziali della moralità mancante. Per esempio la tenerezza di cuore, la benevolenza del sentimento naturale è una qualità bella ed amabile che conduce l’uomo a comportarsi verso il prossimo come la moralità lo esige (se qualche impulso contrario non lo vince): ma non è ancora moralità perchè instabile, debole e cieca. Invece se questo sentimento è elevato all'universalità, cioè diventa un sentimento uguale e costante, sussiste sempre la pietà, ma non più come un sentimento disordinato ed accidentale, bensì conte qualche cosa di regolare e di sicuro.

Così il sentimento d’onore che ci spinge ad agire in modo da non meritare il biasimo altrui ci fa agire come la moralità, anzi è efficacissimo a scuoterci e farci mirare in alto; ma non è ancora che un’apparenza della moralità.

Il sentimento morale è quindi un sentimento universale e costante: Kant lo determina più precisamente come il sentimento della bellezza e della dignità della ragione umana, che genera un rispetto ed una benevolenza universale, subordina a sè tutte le inclinazioni particolari e così genera una condotta uguale coerente, veramente morale.

Questo concetto della dignità umana ci richiama un’altra potente influenza che Kant subì verso quest’epoca, quella di Rousseau: influenza che pure prendendo il suo punto di partenza nella preponderanza del sentimento, contribuì anch’essa a superare la morale sentimentale.

Anche Rousseau fonda la vita morale sul sentimento; ma mentre per gli inglesi il sentimento morale era un sentimento di bellezza e di armonia della vita, per Rousseau è il sentimento della dignità della natura umana. E, mentre gli inglesi si accostavano al senso morale come all’ultimo elemento indagabile, Rousseau è convinto che in esso si riveli qualche cosa di divino, che esso ci mette in qualche modo in rapporto col divino. Di qui anche il carattere imperativo che assume la morale in Rousseau a differenza dal carattere esplicativo, teoretico, del sentimentalismo inglese.

Ed infine di qui deriva un’altra importante conseguenza. Se il sentimento morale è qualche cosa che ci mette in relazione col divino, esso non può dipendere dalla cultura raffinata che è accessibile a pochi.

Anche Kant riferiva prima il valore dell’uomo alla sua capacità teoretica; considerava la scienza come la virtù per eccellenza, perchè tutte le altre virtù dovevano in essa avere la loro giustificazione teoretica. Sotto l’influenza di Rousseau, Kant si persuade sempre più che la bontà morale e il sapere sono due cose diverse, che la bontà, nella quale risiede il vero valore dell’uomo, è indipendente dalla sapienza, anzi si accompagna il più delle volte colla semplicità e con l’umiltà; e che la semplice cultura il più delle volte corrompe l’uomo, certo non ne fa un essere morale.

«Io sono (dice Kant) uno studioso e sento tutta la sete di conoscere che può sentire un uomo. Vi fu un tempo nel quale io credetti che questo costituisse tutto il valore dell’umanità; allora io sprezzavo il popolo che è ignorante. È Rousseau che mi ha disingannato. Quella superiorità illusoria è svanita; ho imparato che la scienza per sè è inutile se non serve a mettere in valore l’umanità». (Fragmente aus dem Nachlass. VIII, pag. 642).

Le stesse tendenze verso una morale indipendente dalla ragione e nello stesso tempo fondata su qualche cosa di più profondo che il mobile sentimento, troviamo anche nei Sogni di un visionario (1766). I precetti morali vengono dal cuore: non hanno bisognò d’essere fondati su costruzioni trascendenti. Non è la speranza del premio futuro che muove l’anima bennata ad operare il bene; perchè chi opera il bene così egoisticamente è un malvagio. Anzi è la presenza in noi del sentimento morale che ci induce a sperar bene dell’avvenire e fonda in noi le speranze d’una vita immortale.

Ma anche qui appare già la tendenza a considerare le nostre tendenze morali come procedenti dall’azione d’una volontà universale, che egli paragona all'azione della gravitazione sui corpi: d’una volontà risultante dall’unione intima di tutti gli spiriti in un sistema di perfezione spirituale.

Kant è ben conscio d’introdurre qui una semplice ipotesi, un’immagine, un simbolo, che non deve essere preso letteralmente: ciò che egli vuol esprimere è che le volontà morali in noi risultano dall’azione d’un’unità a noi non più accessibile: azione che più tardi egli esprimerà per mezzo del concetto della forma.

Più accentuate ancora sono queste tendenze nel famoso frammento pubblicato dal Reicke, nei suoi «Lose Blaettern aus Kants Nachlass.», 1889, I, pag. 9-16. Da una parte il principio della morale è ricercato ancora nella sfera del sentimento, nella felicità. Ma Kant intende già qui la felicità in un modo affatto particolare e la subordina all’intervento d’un fattore intellettuale a priori, che egli stesso paragona all’appercezione e chiama apperceptio jucunda primitiva.

La felicità non consiste infatti nella semplice soddisfazione degli impulsi, che non dipende da noi e non ha per sè un vero valore. Queste soddisfazioni costituiscono solo la materia della felicità: perchè esse costituiscano la felicità è necessario intervenga un principio regolativo a priori il quale introduce negli impulsi una unità, un’armonia interiore onde nasce la contentezza di sè, la soddisfazione interiore, che è la vera felicità.

Questo fattore proviene da noi, dalla nostra ragione; è un sapere a priori che possediamo ed è necessariamente connesso con la nostra felicità; perciò è il più utile strumento del nostro benessere. Esso costituisce anche la dignità della persona e la vera moralità.

Qui abbiamo già la distinzione tra forma e materia della condotta: ma a differenza della teoria posteriore e definitiva, la forma non è che un’unità ausiliaria, che serve ad introdurre una disposizione sentimentale, a conciliare i sentimenti piacevoli in un'unità stabile e necessaria, nella quale è posta la felicità: quindi abbiamo una morale che non esce ancora dall’eudemonismo sentimentale.

In tutti questi sforzi però noi abbiamo una tendenza continua verso una concezione superiore che rinnoverà, ma in una forma più alta, il razionalismo dal quale era primitivamente partito.

Abbandonato il concetto suo primitivo che la morale scaturisce come una conseguenza da premesse metafisiche assolutamente valide, Kant si era arrestato da principio alla conclusione che, anche oggi, è la più ovvia che si presenti all’analisi della coscienza, e che anch’es-sa, fino ad un certo punto, è vera: la morale scaturisce dal sentimento.

È lo svolgimento stesso della nostra natura normale, è un’attività diretta da un senso particolare, dal senso morale, che è come un principio primitivo e diretto di estimazione degli atti umani: e che, per una specie di armonia segreta, fa si che il nostro agire, da esso regolato, si componga in un tutto coerente ed armonico con l’agire altrui. È un istinto che non è fondato sulla religione nè su altre conoscenze: noi per esso apprezziamo la bontà di un’azione buona come apprezziamo le armonie di un concerto pur senza conoscere i rapporti matematici dei suoni.

D’altra parte però la morale del sentimento non soddisfaceva ad un’esigenza che per Kant è fondamentale: il precetto morale non può essere solo una sollecitazione piacevole, ma deve essere una legge, che comanda e che si impone, come qualche cosa di superiore, alla nostra natura. La morale del sentimento in fondo è una morale ottimistica: la virtù è come la fioritura naturale della natura umana: è il grado più alto della natura dell’uomo, ma è sempre ancora «natura».

Per Kant invece la virtù è sforzo, negazione, aspro contrasto fra due nature diverse: è vittoria su d’un principio ostile da parte di un altro principio, che non può essere, come il primo, un semplice sentimento, ma deve essere qualche cosa di più alto. La morale rigida, pietistica del dovere, così immedesimata da Kant col suo carattere, non poteva arrestarsi nella morale del sentimento. E questa esigenza si connetteva in Kant con un’altra esigenza più profonda. Il sentimento, qualunque esso sia, è sempre qualche cosa di subbiettivo, di vario, di instabile: come può esso allora dare origine ad una legge universale ed obbiettiva? Kant sentiva di dover porre la moralità come un imperio non per altro che per questo: che essa deve essere un imperio, una legge che sta inesorabilmente sopra tutti gli uomini. Per questo, anche quando egli pone ancora la moralità nel sentimento, considera questo sentimento come la rivelazione subbiettiva di una legge universale e necessaria, cioè di una legge razionale.

In una riflessione che data da questo periodo egli mette chiaramente in evidenza questo carattere razionale del sentimento morale. «Il sentimento spirituale è fondato su ciò che ci sentiamo partecipi di un tutto ideale. Per esempio l’ingiustizia che colpisce qualcuno tocca anche mè nel tutto ideale. Questo tutto è l’idea fondamentale della ragione così come della sensibilità che vi è unita. È il concetto a priori da cui deve essere derivato il giudizio giusto per tutti. Il sentimento morale anche nei doveri verso di sè considera sè stesso nell’umanità e si giudica in quanto facente parte dell’umanità. La facoltà che l’uomo ha di non poter giudicare il particolare che nell’universale, è il sentimento morale. La simpatia è qualche cosa di totalmente diverso: essa non si riferisce che al particolare anche avendo altri per oggetto: l’uomo allora non si mette nell’idea del tutto, ma solo al posto d’un altro» (Frammento VI).

Del resto, in fondo, anche Rousseau già così intendeva il sentimento morale: questo è solo il riflesso nella coscienza d’una legge universale di giustizia e d’ordine. Però in questo modo Kant veniva a confondere nel sentimento morale due caratteri opposti: l’esigenza della razionalità (cioè universalità e necessità) e la accidentalità subbiettiva che è essenziale al sentimento.

Un primo tentativo di soluzione di queste contraddizioni fu quello accennato nel Frammento VI in cui la moralità è ricondotta a due fattori: la tendenza sentimentale alla felicità e il principio razionale, aprioristico, dell’ordine e dell’unità. Tuttavia ragione e sentimento erano qui ancora confusi: anzi la ragione subordinata al sentimento.

Un vero passo decisivo verso la soluzione definitiva non si ebbe se non dopo che Kant ebbe chiarito i suoi concetti sulla conoscenza e stabilito in questi la netta distinzione dei due piani di vita spirituale: il senso e l’intelletto da una parte, la ragione dall’altra. Il sentimento allora è relegato nel senso: la moralità deve avere la sua origine esclusivamente nella ragione: la filosofia morale sentimentale è definitivamente condannata. Non che con questo Kant torni al suo punto di partenza e faccia della morale una conseguenza razionale di pretese conoscenze metafisiche: essa è per lui una rivelazione immediata della ragione. La ragione, che non vale nel campo teoretico a farci conoscere nulla che sia sopra il senso, si rivela a noi se non come conoscente, almeno come operante: nella nostra attività morale la ragione si rivela a sè stessa almeno nella sua natura pratica: noi abbiamo in essa come un lampo solo che non ci rivela nulla di distinto, ma ci fa assistere ad un atto della nostra natura che trascende ogni realtà ed attività sensibile, e per questa via ci rende certi della nostra natura di esseri intelligibili.

Noi non abbiamo bisogno pertanto di partire da premesse metafisiche: noi non abbiamo che da considerare con sagacia e con rigore l’atto morale per riconoscere in esso un’attività che la natura non può esplicare e che ha in sè i caratteri assoluti della ragione: per esso si rivela, nella nostra vita sensibile, un’attività ed una natura che non sono sensibili: esso è secondo l’espressione kantiana un fatto primordiale della ragione.

La concezione morale definitiva di Kant si trova già delineata nei suoi tratti essenziali nella Critica della ragion pura. In questa è già recisamente condannata ogni fondazione empirica della morale, stabilita la distinzione fra gli imperativi ipotetici, regole empiriche di abilità e di prudenza, e gli imperativi assoluti, categorici che astraggono da tutta la natura nostra empirica per metterne dinanzi le leggi che determinano la condotta degli esseri razionali e che perciò debbono determinare la nostra. Vi sono certamente differenze nei particolari: la legge morale suprema è fondata diversamente; ma sono differenze che non hanno se non un interesse storico.

Le due opere essenziali per la nostra esposizione sono: La Critica della ragion pratica (1788) e La fondazione delta metafìsica dei costumi (1785). Generalmente si considera le due opere come un completamento l’u-na dell’altra: ma ciò non è esatto. La Critica non continua la Fondazione, ma riprende ex novo il problema e lo tratta in un ordine diverso. La Fondazione doveva anzi (vedi la prefazione) riempire il posto della Critica della ragion pratica: in questa egli ha quindi ripreso la trattazione da un altro punto di vista e con qualche leggera divergenza nei particolari.

Questa doppia trattazione non fa che accrescere la difficoltà di esporre nel suo giusto ordine il pensiero kantiano. Questo ordine è ben lungi da essere quello da lui tracciato nelle due opere: queste risentono ancor più che la Critica della ragion pura della riluttanza di Kant ad affrontare i problemi in modo chiaro e risolutivo, della sua tendenza ad avvicinarli con mille giri e rigiri, a cominciare una ricerca per interromperla subito dopo e riprenderla da un altro punto: e più delle sue manie di rinserrare le sue ricerche in uno schema sistematico poco conciliabile con il libero svolgimento del suo pensiero.

La simmetria della Critica della ragion pratica ricalcata sul modello della Critica della ragion pura, è certo un raro lavoro di abilità dialettica: ma se noi vogliamo comprendere il suo pensiero, dobbiamo liberarlo da questa sintemazione falsa e forzata. Nonostante la loro apparente chiarezza la Fondazione e la Critica della ragion pratica sono forse fra le parti più difficili e più oscure dell’opera kantiana, come lo mostrano con evidenza i loro espositori pedestri che ricalcano con facilità le sue orme, ma ci lasciano, quanto all’ordine essenziale dei suoi pensieri, nell’oscurità più completa.

Un primo carattere che noi dobbiamo rilevare nella moralità è che essa ci pone dinanzi non ad un essere, a ad un dover essere, ad una necessitazione interiore che è ben diversa dalla necessità che ricorre in tutta la natura. Questa necessitazione non è caratteristica della moralità sola: la troviamo nell’abitudine, nell’istinto ecc. Anche qui però essa mette in evidenza una specie di dualità interiore della natura: nell’atto stesso che essa è, si svolge come a lato di essa una natura ideale che deve essere. Giustamente Kant osserva che se la realtà fosse puramente e semplicemente ciò che empiricamente è, il dovere essere non avrebbe alcun senso.

Non serve qui osservare che il dover essere è psicologicamente una aspirazione. Ciò che noi rileviamo è il senso metafisico appunto di questa realtà psicologica che non avrebbe senso, se tutto fosse, nel rigoroso senso della parola, «natura».

Supponiamo la realtà nota e concatenata come un sistema di verità matematiche: l’aspirazione, l’ideale avrebbero in essa cosi poco senso come nella matematica: noi ci chiediamo quali proprietà il circolo ha, non quali dovrebbe avere.

Un secondo e più essenziale carattere è che questo dover essere ha nella moralità un valore assoluto. Anche qui questa proposizione non deve essere interpretata psicologicamente nel senso che si presenti come una coazione irresistibile: essa vuol dire che quando noi ci poniamo di fronte alla coazione morale che sentiamo in noi, dobbiamo riconoscere che essa non è una coazione esercitata su di noi per effetto di circostanze accidentali e personali: ma una coazione che s’impone a noi come una legge, vale a dire come qualche cosa che vale assolutamente per noi e per tutti gli esseri simili a noi, qualche cosa che vale in modo necessario per tutti gli esseri ragionevoli.

Kant fa qui appello ad una esperienza profonda della coscienza umana: la quale, ove proceda nel suo esame senza preconcetti, distingue subito e recisamente fra qualunque norma anche universale, ma fondata su convenienze, interessi ecc. e la norma avente valore morale, cioè la legge che ha un valore assoluto perchè vale per sè, senza dipendere da circostanze, condizioni, ecc. È questa distinzione recisa che ha sempre reso impossibile la derivazione dal piacere, dall’utile, che possono dare norme universali quanto si vuole, ma non leggi. Cerca la tua felicità — è la norma che tutti gli esseri naturalmente seguono per un impulso quasi irresistibile: non commettere ingiustizia, non essere crudele — sono leggi che quasi nessuno rigorosamente segue e che pure ciascuno riconosce come leggi assolute: basta avvicinare questi due enunciati per riconoscerne subito la radicale differenza.

Anzi: come Kant giustamente osserva, tanto è vero che queste leggi sono leggi assolute, valide a priori, ossia valide in modo universale e necessario, indipendentemente da qualsiasi condizione empirica, che noi riconosciamo questo loro valore anche se non fossero mai state osservate e non potessero venir pienamente osservate da nessuno: le leggi della lealtà nell’amicizia valgono anche se non ci fosse mai stato un amico leale e se noi disperassimo di poter mai essere amici perfettamente leali.

Notiamo però subito che quando diciamo che la legge morale è una legge assoluta, non intendiamo con questo investire di tale carattere i singoli precetti concreti: diciamo che vi è in essi un elemento razionale, assoluto, che ogni particolare precetto realizza in circostanze diverse.

«Sacrificati per i tuoi figli» è un precetto che vale assolutamente: ma naturalmente solo per chi ha figli. Vi è come una legge che ci impone di agire sempre, in tutte le circostanze, secondo un certo ordine ed un certo indirizzo: di operare sempre come una «volontà buona». Le circostanze per sè non contano: come non contano quindi i risultati materiali che possiamo raggiungere col nostro agire. Questo è quanto Kant esprime nelle memorabili parole con cui comincia la sua «Fondazione» (ediz. Vorl., pag. 16): «Non si può pensare nulla nel mondo, anzi anche fuori di esso, che possa venir tenuto per incondizionamento buono, se non una buona volontà».

Con queste parole Kant pone due affermazioni egualmente importanti: in primo luogo che il valore morale è un valore assoluto: in secondo luogo che questo valore morale non consiste nei fini esteriori che la nostra volontà si può proporre, bensì in una certa disposizione della volontà che noi dovremo meglio indagare in appresso, ma che fin d’ora possiamo con la coscienza comune designare come «buona volontà».

Non soltanto i doni della fortuna, ma anche le qualità dello spirito più desiderabili, non sono beni per sè, perchè possono anche essere volti al male: ciò che li fa essere beni è la volontà buona. Così tutte le azioni esteriori, anche se apparentemente buone, non sono moralmente buone per sè, perchè possono essere il frutto di motivi interessati: come per esempio l’onestà del mercante che è onesto per convenienza o la virtù del virtuoso che è virtuoso per paura delle pene infernali. Ciò che rende buoni gli atti è l’intenzione morale, la volontà buona: i risultati esterni sono soltanto circostanze accessorie che la determinano in questo o in quel modo.

Quindi anche l’indifferenza dei risultati: il successo della volontà buona non ha importanza per il carattere morale dell’azione.

Nel sentimento dell’obbligazione morale noi ci troviamo perciò dinanzi ad una realtà che trascende la realtà empirica data dai sensi e costituita dall’intelletto, la realtà dell’esperienza e della scienza: una realtà per cui ci si impone a priori in modo assoluto, indipendente e inderivabile da ogni condizione empirica, una direzione della condotta.

È una semplice direzione, è come un lampo in una notte oscura: ma un lampo che ci rivela l’esistenza di un mondo luminoso della ragione ,al quale in fondo anche noi apparteniamo. Perciò, Kant chiama questo sentimento un fatto della ragione: un atto originario della ragione, che è nella sfera della ragione ciò che sono nell’esperienza i fatti empirici.

Ma perchè Kant trova questo «fatto» della ragion pura soltanto nella legge morale e non per esempio nella constatazione dei principii teoretici a priori? Noi lo abbiamo già veduto: i principii teoretici a priori sono relativi all’esperienza umana : ed una visione intuitiva dell’unità delle idee ci manca. Invece noi abbiamo almeno praticamente la visione di quest’unità nella visione della legge che è l’operazione conforme a queste idee.

La constatazione della legge morale come qualche cosa di assoluto, cioè di razionale e perciò di trascendente la sfera sensibile, non è quindi la constatazione psicologica d’una necessità interiore, ma la constatazione d’una necessità razionale : è una specie di autoconstatazione della ragione, non una constatazione empirica. Quindi non ha senso la difficoltà che le si oppone: che cioè noi troviamo altri esempi di una analoga coazione assoluta della coscienza : quella che - induce l’abitudine, l’istinto, l’educazione.

La difficoltà confonde la constatazione psicologica con la constatazione razionale. È facile vederne la differenza nel campo teoretico. L’illusione subbiettiva crea la stessa coazione teoretica che crea la conoscenza razionale d’un sistema di verità — dal punto di vista psicologico: ma forse che ciò decide quanto al valore? Anzi non è il non valore dell’illusione che si estende alla visione razionale: ma il valore di questa che si partecipa in minimo grado alla prima e ne fa una nar-ziale verità.

Così vedremo essere della ragione sotto l’aspetto pratico. Dappertutto dove vi è un dover essere vi è già una scintilla di ragione: ma la ragione si rivela nella constatazione razionale del dovere: che non è solo l’obbligazione soggettiva sentita come assoluto, ma l’obbligazione compresa come assolutamente valida per ogni essere razionale. Nè avrebbe senso la stessa difficoltà se si volesse obbiettare che tuttavia anche l’obbligazione morale è un fatto psicologico e perciò rientra nella concatenazione necessaria dei fattori. Essa si risolve ponendola sotto l’aspetto teoretico: il fatto che la conoscenza è un processo psicologico non distrugge il valore della verità.

Questo è un punto della più alta importanza: la constatazione dell’esistenza di un imperativo categorico non è la constatazione di una legge cieca e misteriosa che a sè ci piega, è la constatazione che ciò che diciamo in senso assoluto verità, cioè valore universale e necessario, è sotto un altro senso dovere: e che mentre la nostra conoscenza è sempre solo un adattamento graduale alla verità assoluta, noi abbiamo sotto l’aspetto pratico nel dovere un contatto diretto con questa realtà assoluta che è verità e dover essere ad un tempo. È quindi una posizione metafìsica in primo luogo: ed anche secondariamente un’esplicazione trascendente, religiosa, del fatto morale. È la posizione della legislazione morale come d’un a priori: d’un qualche cosa che ha la sua ragione e il suo fondamento in un’altra realtà.

Kant esprime talora questa verità col chiamare questa legge un principio sintetico a priori. Abbiamo qui un non troppo felice parallelismo con la ragione teoretica che tuttavia è facile comprendere. Le azioni impulsive possono essere assimilate ai giudizi sintetici a posteriori: la mia volontà è congiunta con il suo oggetto in questo caso da un rapporto psicologico dato dalla natura stessa della mia sensibilità: l’impulso cieco è ciò che li collega. Le azioni invece dettate dalla ragione, ma per fini egoistici, (gli imperativi ipotetici) sono analoghe ai giudizii analitici: sta dinanzi alla mente una regola: se tu vuoi diventar ricco, devi agire in un determinato modo; la mia volontà afferma (o nega) la premessa: come conclusione è dato analiticamente il suo atteggiamento. Invece nell’atto morale la mia volontà è congiunta con il suo oggetto da una necessità trascendente, che è bensì la rivelazione d’un’unità: ma che a me s’impone solo come un vincolo assoluto, la cui ragione non sta nè in un impulso, nè in una regola concreta, bensì in una forma, in un’unità a priori: perciò Kant lo assimila ad una sintesi a priori. L’estensione analoga è giustificata: ma è una complicazione inutile.

Con questa posizione della legge morale come fatto originario della ragione in noi, Kant poneva un problema che egli non ha risolto: in che rapporto stanno la ragione teoretica e la pratica? Come mai la ragione che nel campo teoretico aspira verso l’unità della visione delle cose, determina nel campo pratico la legge? È la stessa attività? E se non è la stessa, quale rapporto vi è fra queste due esplicazioni di una stessa ragione?

Noi non vedremo chiaramente in questo problema se non quando avremo penetrato a fondo il fatto morale: ma possiamo già qui indicare la via della soluzione.

La parola ragione ha, come è noto, in Kant un senso ben preciso: designa nel campo teoretico la facoltà dei principii a priori. Essa ha per funzione di coordinare il materiale empirico dato dai sensi ed in questo l’attività sua ha due gradi. Come intelletto (Verstand ) è la facoltà delle categorie che collegano i dati in un’esperienza universale valida. Come ragione in stretto senso ( Vernunft è la facoltà delle idee che aspirano a collegare tutta l’esperienza in una totalità assoluta e per questo mezzo non solo ci pongono dinanzi il fondamento trascendente, ma nell’uso regolativo danno all’esperienza la più alta verità sistematica possibile.

Nel campo pratico designa la facoltà di sottomettere il proprio agire a leggi aventi valore universale e necessario, cioè alle leggi morali. Il carattere comune, in ambo i campi è quindi in primo luogo questo : l’ob-biettività. Essa introduce l’unità nel nostro conoscere come nel nostro agire, e non solo l’unità nel senso del l’individuo, ma l’unità nella comunità spirituale degli esseri razionali.

Una coscienza è conforme a ragione obbiettiva non solo quando crea in me la persuasione, (l’unità subbiettiva) ma quando crea la persuasione in tutti gli esseri razionali. Lo stesso si dica dell’agire buono. Si capisce che questa comunità spirituale può essere tutta ideale.

Socrate era in disaccordo col popolo di Atene, ma d'accordo con un’umanità ideale superiore. Copernico non era in armonia col suo tempo: ma l’obbiettività era ugualmente dalla parte sua. Ragione è quindi il nome collettivo di quelle funzioni spirituali superiori che elevano l’uomo verso una comunità spirituale con gli altri uomini, anzi verso una comunità spirituale ideale, che è il presentimento di un’unità.

Ora la questione non è se la ragione sia anche una facoltà pratica, perchè noi lo abbiamo già affermato: ma come la ragione può essere teoretica e pratica? Kant non fa che porre queste due attività l’una accanto all'altra. La ragione teoretica stabilisce ciò che è, il vero; la ragione pratica ciò che deve essere, il bene. Con la ragione teoretica determina a priori che l’Uno è; con la ragione pratica lo realizza. Questa è la distinzione che Kant prende sempre a punto di partenza. La ragione teoretica conosce; la ragione pratica è causa della realizzazione dei suoi oggetti. E questo è anche il modo con cui esso pone normalmente il problema.

La questione si riattacca, come è facile vedere, alla questione del rapporto del vero e del buono, della verità e del valore, e in un senso più vasto, del conoscere e dell’operare. In generale Kant è interpretato nel senso di una recisa separazione dei due campi: vi è da una parte la ragione teoretica con il regno della verità, dall’altra la ragion pratica col regno dei valori. Questo dualismo sarebbe per sè stesso inesplicabile, e per più rispetti mostra d'essere insostenibile. Forse la verità non è essa stessa un valore e non entra nell’ordine dei valori? E se l’ordine dei valori è riconosciuto e stabilito dall’intelligenza, non è esso altresì vero?

D’altra parte se la ragion pratica fosse qualche cosa d’indipendente dalla ragione teoretica, come potrebbero i suoi imperativi essere razionali?

La parola ragione vale originariamente solo pel campo teoretico, e l’applicazione al campo pratico è solo un’applicazione: anche Kant riconosce che ciò che de ve essere ci appare tale solo perchè veramente è, e non potrebbe sussistere se non fosse anche la verità suprema. Vi deve quindi essere un’unità essenziale di ragione teoretica e di ragione pratica: noi possiamo scoprirla partendo dai gradi inferiori del conoscere e dell’operare.

Bisogna ricordare che ogni conoscenza è per sè anche un impulso: ma non perciò si realizza senz’altro; è l’inizio di una azione, non un’azione. Così ogni conoscenza razionale è l’inizio di una condotta razionale ma non la condotta stessa. Perchè la conoscenza razionale diventi anche condotta che cosa si esige? Che si ripeta, si imprima, diventi una cosa sola con la nostra natura.

Quando si dice che l’anima è un essere razionale non si dice che sia un quid altro che riceva in sè dei principii razionali, essa non è che l’insieme di questi principi nella sua unità vivente. Quando perciò un principio razionale, una visione razionale delle cose è talmente immedesimata con noi, da essere diventata il nostro modo d’agire, la nostra condotta è razionale, obbedisce alla ragion pratica. Il conoscere fonda perciò la nostra condotta, ma in modo diverso da quello che comunemente si crede.

Essa non è derivata dalla nostra conoscenza come un sillogismo, ma è la conoscenza stessa diventata vita, personalità, attività. Tutto il nostro conoscere razionale ha per compito appunto di creare lentamente in noi questa personalità.

Le nostre sensazioni e rappresentazioni sensibili creano la nostra individualità e la nostra condotta sensibile, che risulta dai nostri impulsi. Naturalmente esse non la creano ab initio: noi portiamo già con noi tendenze ereditarie che sono la somma delle esperienze sensibili della specie. Ma le nostre rappresentazioni sensibili mettono in moto, come stimoli, queste tendenze: di più le modificano, ne creano lentamente delle nuove: in modo che la nostra condotta d’essere sensibile esprime praticamente la nostra rappresentazione sensibile delle cose. Ma come nella conoscenza sensibile si esige il sapere razionale (intellettivo e razionale) che è sapere universalmente valido, così nella condotta impulsiva si esige la condotta razionale, che ci dirige verso norme impersonali. Però qui dobbiamo distinguere due gradi, che corrispondono all’intelletto ed alla ragione.

L’intelletto non è che un’unificazione parziale dell’esperienza: solo entro questi limiti è universalmente valido; come per esempio quando si procede ad una sistemazione d’esperienze — che poi un punto di vista più comprensivo muta radicalmente. Ogni concezione intellettiva è posizione d’una realtà e perciò d’un valore: perciò inizialmente è attitudine pratica. Vi può essere quindi una condotta razionale condizionata ancora da un punto di vista subbiettivo: essa corrisponde agli imperativi ipotetici. La sistemazione della ragione è invece l’espressione più alta possibile d’una sistemazione assoluta: essa si è spogliata della soggettività: ad essa corrisponde una condotta obbiettiva, razionale: è la condotta veramente razionale, morale.

Prendiamo per esempio la considerazione della vita che un uomo può proporsi: può essere la visione di tutta la propria vita e dell’ambiente da un punto di vista razionale, ma concentrato intorno al proprio io, che può dare una linea di condotta ben concatenata razionale, ma egoistica: per es. Napoleone. Ma generalmente la considerazione di questa vita nel suo tutto tende a sopprimere il punto di vista egoistico, a vederla sub specie aeternitatis: allora si ha una visione razionale d’altra natura, filosofica, che ispirerà una condotta filosoficamente fondata, impersonalmente yalida e perciò (in qualunque senso si volga) morale. Anche qui non è l’individuo che crea con la sua riflessione la sua personalità: egli porta con sè nella sua mentalità una tradizione: la riflessione personale lo eleva a comprendere questa tradizione, a parteciparvi, a far sua questa vita: indi ad elevarla, a modificarla, trasmetterla. Ed ancora: come l’inizio della partecipazione alla vita razionale non è che il primo passo in una progressione infinita, così è della stessa sotto l’aspetto pratico: quando la vita razionale si è fissata incarnata nella personalità d’un individuo, allora comincia per lui la vita morale, che gli apre dinanzi un compito infinito. Ogni essere che partecipa alla vita morale, ha partecipato e partecipa quindi, sia pure sotto un aspetto limitatissimo ancora, ad una visione impersonale della realtà: o quanto meno porta in sè le impronte di questa partecipazione da parte della specie cui appartiene e la possibilità di farla anche attualmente propria. Non è certamente necessario costruire per questo un sistema filosofico!

Vi sono intuizioni razionali profonde, visioni che difficilmente troverebbero la strada ad una sistemazione astratta: ciò che del resto poco importa perchè questa sistemazione astratta non è che il mezzo di partecipare, approfondire questa potenza di visione razionale. È una visione che può essere negata a dei filosofi e aperta a delle creature umilissime: il vero segno della partecipazione della razionalità non è l’ostentazione esteriore delle sue manifestazioni, ma la sua rivelazione naturale nella vita razionale pratica, nella vita morale. Naturalmente bisogna qui fissare nettamente il senso della parola «morale» : non confondere l’azione moralmente buona con l’azione istintivamente buona, sentimentale. Sono queste, gradi verso la moralità (come esprime la caratterizzazione di «buono»), ma non ancora vera moralità e perciò non ancora vera ragione.

Ora qual è in concreto questa visione razionale iniziale con cui incomincia la vita morale? Se noi prendiamo per es. uno Spinoza, non vi è imbarazzo nella risposta; ma in un uomo semplice e tuttavia veramente morale, qual è la visione concreta che si esprime in questa sua condotta?

Non bisogna naturalmente cercarla in alcune delle sue concezioni astratte, formazioni superficiali e in gran parte puramente verbali: non è necessario nemmeno che egli l’abbia mai portata a chiara coscienza riflessiva. Questa visione razionale è quella che Schopenhauer riconosce come corrispondente al sentimento della pietà: il senso della nostra identità con gli altri uomini, anzi in genere (in un grado più alto della moralità) con gli altri esseri viventi.

La prima idea accolta e vissuta dall’uomo è l’idea dell'uomo ma non l’idea astratta intorno a cui possono disputare i filosofi, bensì l’idea vivente a cui partecipiamo tutte le volte che leggiamo nell’essere altro da noi l’essere stesso del nostro io. Quest’idea non è che l’inizio della vita morale: e da questo inizio alla moralità del sermone sulla montagna è certamente ben lungo il cammino. Ma in ogni modo essa segna l’inizio della ragione teoretica, della visione teoretica, e della ragione pratica come realizzazione pratica: le quali ci appariscono così, dai loro inizii, come i due aspetti paralleli d’una attività in se stessa unica.

Per cogliere questo svolgimento unico della ragione nei suoi due aspetti paralleli bisogna naturalmente considerare l’individuo, non come isolato — perchè come essere razionale non può essere tale —, ma nella totalità spirituale di cui fa parte. Allora vedremo chiaramente come ciò che si dice la ragione pratica non sia che la realizzazione costante della ragione teoretica: ossia la ragione teoretica diventata natura, immedesimata, diventata viva ed operante.

E la ragione teoretica ci apparisce come l’attività che inizia, crea le vie della ragion pratica. Certamente il processo di autorealizzazione è un processo graduale: ai suoi inizii ha un minimo di realtà: è ancora sapere verbale o sapere esteriore, che può anche non realizzarsi e restare allo stato di attività tecnica: ma allora non è ancora vera e propria visione, conoscenza viva. Così può accadere anche nell’arte.

Questo concetto del rapporto fra ragione teoretica e ragion pratica, ci conduce a divergere sensibilmente in qualche punto dalla dottrina kantiana quanto al loro rispettivo valore e quanto al cosidetto primato della ragion pratica.

Noi non possiamo ammettere quella specie di carattere negativo riferito all’attività teoretica per cui essa giungerebbe solo, nel suo più alto apice, a riconoscere il carattere relativo del sapere empirico: mentre l’attività pratica ci metterebbe in contatto con l’assoluto.

Abbiamo già visto trattando della ragione, che essa in realtà ci conduce anche nel sapere ad un risultato positivo: all’affermazione d’una realtà trascendente, alla quale non possiamo riferire le categorie dell’esistenza, ma di cui in un più alto senso possiamo dire che solo veramente è. E vedremo che col sussidio della considerazione dell’attività morale, essa può costruirci una concezione di questa realtà trascendente: concezione simbolica ed inadeguata, ma che permette un’approssimazione che non raggiungerà mai il limite, che resterà sempre una distanza infinita tra la realtà assoluta e la sua espressione simbolica.

Ma lo stésso vale anche della ragion pratica. Essa è una costruzione simbolica parallela della nostra attività sotto una legge formale: vale a dire, è un compromesso, un’approssimazione. Noi non raggiungeremo mai la perfezione intelligibile. Nell’uno e nell’altro aspetto quindi la ragione è una costruzione della nostra conoscenza e della nostra attività che aspira a rendere simbolicamente la nostra natura di esseri intelligibili.

In un senso continua certo a valere il concetto del primato della ragion pratica: nel senso che la conoscenza pura e semplice, che non si traduce in vita ed in azione, non ha alcun valore. Questa è la conoscenza che «gonfia»; la cultura superficiale e vana che può sussistere senza la moralità. Tutto il sapere esteriore, tutte le più sottili speculazioni restano puramente un sapere tecnico, che ha un valore solo quando è tradotto in valori di attività e di vita. Quindi un’umile coscienza può, quanto al sapere esteriore, essere infinitamente inferiore e nello stesso tempo essere ben più alta quanto al sapere essenziale e vitale: quel sapere che è negato all’orgoglio del mondo ed è concesso agli umili ed ai semplici di cuore.

E perciò la misura del valore di una personalità, anche da questo punto di vista, non ci è dato da ciò che sa, ma da ciò che è e fa: questo è la vera traduzione del suo sapere interiore. E perciò ancora non vi è sapere, filosofìa, grandezza intellettuale senza moralità: questa è il segno esteriore di quel fondamento interiore senza del quale non vi è sapienza. Tutte le curiosità intellettuali, tutte le ostentazioni dottrinali, non hanno nessun valore; il timor di Dio è il principio della sapienza in questo vero senso — che la profonda e vera rettitudine nell’operare è l’unico e necessario segno di quella potenza d'intuizione interiore che, anche se non tradotta ancora in pensieri concreti e in parole, è l’indeclinabile condizione di ogni vera sapienza più alta.

Il dualismo tra ragion pratica e ragion teoretica si risolve perciò in una concezione più profonda, in una unica linea di svolgimento. Le prime e più universali sintesi della ragione sono quelle che hanno dato origine alla vita morale e che operano ancora in noi come ragion l’ulteriore svolgimento della stessa attività e tende anch’essa a diventare pratica. La ragione pratica realizza un valore assoluto perchè la ragione teoretica è anche essa nello stesso senso una facoltà dell’assoluto.

Kant assegna tuttavia alla ragione anche un’attività inferiore e preparatoria. Quando noi vogliamo un fine, noi dobbiamo volere anche i mezzi ad esso adatti: la regola la quale prescrive che se si vuole un certo fine, si deve volere anche certi mezzi, è una regola che vale obbiettivamente, ma sempre in dipendenza del fine: questo fine può essere anche solo un fine presentato dall'impulso e non è quindi necessariamente voluto. L’attività della ragione si esplica perciò qui in modo puramente condizionato, ipotetico, cioè subordinato ad un fine sensibile: la ragione è ancora qui l'ancella del senso.

Kant attribuisce alla ragione quest’attività perchè secondo lui ogni regola esprimente una necessità deriva sempre dalla ragione. Vero è però che la necessità qui dipende dall’arbitrio del soggetto dal quale dipende se debba essere posto o non il fine. Quando si dice ad alcuno che deve lavorare e risparmiare per non soffrire nella vecchiaia, questo è un giusto precetto pratico. Ma è in mia balìa il pensare alla vecchiaia: io posso anche pensare di non invecchiare o prevedere con altre risorse, Perciò, posto che io voglio provvedere alla mia vecchiaia è ragionevole che io debba lavorare.

Mentre invece il precetto razionale puro, cioè il precetto morale, vale incondizionatamente. Che io non debba mentire è una regola che non dipende da alcun mio fine, ma vale per sè, per tutti, sempre.

Questa è la famosa distinzione degli imperativi ipotetici dagli imperativi categorici. I primi sono gli imperativi della ragione condizionata ancora dal senso, non sono vere leggi: l’imperativo categorico è una legge.

Si potrebbe contestare che all’attività esplicitantesi negli imperativi ipotetici si debba dare il nome di ragione. In verità essa abbraccia tutte le sfere dell’attività pratica e tecnica che antecede la vita morale: ed è il parallelo pratico dell’attività teoretica dell’intelletto.

Come l’intelletto stabilisce dei sistemi limitati di concetti, determinati essenzialmente dal materiale empirico, e la forma che esso vi aggiunge non ne muta sostanzialmente la natura empirica; così la volontà intellettiva stabilisce dei sistemi limitati di fini, diretti sempre essenzialmente verso una finalità prima empirica, alla quale essa subordina, come mezzi, gli altri fini.

È questo il regno — teoreticamente — della conoscenza scientifica del mondo — e praticamente — del dominio intelligente, dell’attività concatenata e intelligentemente diretta.

Ma se per ragione s’intende la facoltà dell’assoluto, non vi è qui ancora niente che richiami la ragione: il valore obbiettivo dei precetti ipotetici è analogo al valore obbiettivo dell’esperienza e dei suoi concetti.

Teoreticamente la ragione comincia solo con l’intuizione inadeguata e simbolica quanto si vuole di un principio assoluto: ad essa è parallela l’attività incondizionata, la legge morale.

CAPITOLO XIV.
L’AUTONOMIA

Arrestiamoci ora a determinare alcune conseguenze di questo principio: che l’imperativo morale è un imperativo assoluto della ragione. Questo imperativo deve allora essere un imperativo autonomo, cioè fondato esclusivamente sulla natura della ragione stessa; non deve dipendere da un interesse, vale a dire da un piacere, da un’inclinazione, ecc.; perchè allora cesserebbe, come ogni volontà empiricamente determinata, di avere quel valore assoluto che noi gli abbiamo riconosciuto. Di questo vedremo in altro momento. Ma non deve nemmeno dipendere da una volontà estranea, da un essere esterno alla ragione stessa, poiché dovremmo chiederci: perchè la ragione si piega a questa volontà? Se vi si piega razionalmente, ciò è perchè essa la giudica e la trova conforme alla sua legge: la vera legge è allora nella ragione, non nella autorità esterna.

Il dovere è per noi certo una servitù, una dipendenza, ma della nostra parte sensibile: la legge, ciò che ci sottomette al dovere, deve essere una legge immedesimantesi con la ragione; vale a dire la nostra volontà morale è essenzialmente autonoma: è qualche cosa in noi che impone la legge alla natura sensibile, ma non la riceve perchè è essa stessa la legge. Ciò ha per noi una gravissima conseguenza; che, se anche noi non siamo la ragione perfetta, noi non possiamo elevarci ad essa che per mezzo della nostra ragione e coi mezzi della ragione: e che qualunque pretesa d’una autorità esteriore non riconosciuta dalla nostra ragione come ad essa conforme, è contraria alla morale stessa. È la condanna della morale dell’autorità sotto qualsiasi forma: la proclamazione che noi dobbiamo cercare la legge in noi stessi; certamente non nel nostro individuo in quanto isolato nella sua soggettività ma nel nostro essere razionale, che come la verità è creazione personale e tuttavia nel tempo stesso riconoscimento d’una legge obbiettiva.

Questo problema è ben antico nella storia della filosofia: basta ricordare l’Eutifrone di Platone e il suo problema: il bene è tale perchè è voluto dagli Dei od è voluto dagli Dei perchè è bene? Kant risponde: se il bene morale è qualche cosa di assoluto, cioè di universalmente e necessariamente valido esso è qualche cosa di razionale: se è qualche cosa di razionale non può dipendere da una volontà ad esso esteriore, perchè allora non sarebbe più ragione. Anche se fosse un imperio razionale, ma accettato perchè imperio e non perchè ragione, cesserebbe di essere essenzialmente ragione, cesserebbe di essere bene morale. (Dato quindi che vi fosse ragione di distinguere gli Dei dal bene, dovremmo dire che gli Dei vogliono il bene perchè è bene, cioè ragione, e non inversamente). Ed anche noi dobbiamo volere il bene come bene, cioè come qualche cosa di razionale, che è voluto appunto perchè da noi è riconosciuto come razionale, non come qualche cosa che ci è imposto e che solo in via secondaria riconosciamo essere anche razionale. Colui che opera moralmente per ubbidienza verso un essere altro da sè, o opera per ubbidire ad altri, ma in realtà ubbidisce alla propria legge, od opera puramente per autorità ed allora opera per spirito servile, per paura o per speranza, cioè non opera moralmente.

Questa affermazione della necessaria autonomia della coscienza morale è vera e profonda. Tuttavia l’antitesi che essa stabilisce fra la morale dell’autonomia della ragione e la morale teologica, non è così recisa come a prima vista appare.

Certo se per Dio intendiamo un essere mitologico di cui vale il sic volo, sic jubeo, stat pro ratione voluntas, l’opposizione sussiste nel suo pieno. Ma se per Dio intendiamo l’unità trascendente che è anche il principio di ogni unità e d’ogni legge, è chiaro che la legge morale è una cosa sola con la legge divina. Quella specie di esigenza interiore o, se vogliamo, d’aspirazione a realizzare un ordine, una legge, che noi diciamo legge morale, è l’aspirazione a realizzare un ordine che ha il suo fondamento in Dio e che perciò appunto si rivela a noi come ragione: ma noi non abbiamo altro fondamento per conoscere quest’ordine divino che la ragione e seguiamo la ragione sapendo di seguire con ciò la volontà divina.

La ragione non è infatti qualche cosa di subbiettivo, di arbitrario: essa ha il suo ordine obbiettivo e superindividuale come lo ha la verità. Quindi la morale dell’autonomia nega solo l’arbitrio divino legato a certe prescrizioni, a certe rivelazioni non fondate sulle leggi essenziali della nostra ragione: ma è ben lungi dall’opporre la ragione a Dio. D’altra parte la morale teologica in genere, quando abbia veramente carattere filosofico, fonda la legge sopra un ordine divino delle cose che non dipende dall’arbitrio di alcun essere e che perciò si rivela infallibilmente all’anima umana senza bisogno d’alcuna rivelazione esteriore, d’alcun codice. Wolff scrive: «Le azioni libere degli uomini sono buone o cattive in se stesse e per se stesse: non è dalla volontà di Dio che ricevono questo carattere. Se fosse possibile che non vi fosse alcun Dio e che la concatenazione attuale delle cose potesse sussistere senza di lui, le azioni libere degli uomini resterebbero così buone o cattive come sono» (Gedanken v. d. Meschen Thun und Lassen, 1720, p. 6).

L’assurdo nasce solo quando l’ordinamento divino delle cose non è fatto noto all’uomo solo per la coscienza morale naturale, ma anche e in un grado più alto per una rivelazione soprannaturale che può essere in contrasto con la stessa legge della coscienza morale: il caso di Abramo nel sacrificio d’Isacco. Ossia quando si dice: la legge universale è ragione: ma è una ragione che può essere altro da ciò che si svela a noi nell’universale ragione umana: e si rivela a noi per mezzi meravigliosi, straordinarii che non hanno nulla a vedere con la ragione. Ma una volta che si è abbandonato il terreno della nostra ragione, che senso ha ancora il dire che la volontà di Dio è ragione? Con quale autorità si vuole imporre a noi questa rivelazione superiore se è abbandonato il mezzo solo per cui gli uomini possono acquistare una convinzione comune, la ragione?

In fondo bisogna abbandonare il terreno della ragione e fondare la morale sulla tradizione o sul sentimento: che se non sono accolti per virtù di ragione, non hanno valore razionale e perciò non hanno nemmeno valore morale, non costituiscono una legge. Questo è il principio che già C. Wolff difende nel suo discorso sulla morale dei Cinesi, che gli costò la cattedra di Halle: nel quale sostiene che la morale ha per noi il fondamento suo nelle leggi essenziali della nostra ragione e non su alcuna rivelazione positiva.

Come alla morale autoritaria teologica, la morale autonoma si oppone per la stessa ragione, ma in altro indirizzo, contro la morale edonistica in genere, che pone il principio della morale nella soddisfazione d'un impulso o d’un sentimento che ci attira verso un oggetto piacevole. Nella sua forma più comune la morale edonistica pone come principio la felicità: la moralità è una specie d’arte, di saggezza pratica, d’abilità, che ci fa evitare le attrazioni pericolose del senso, ci fa qualche volta rinunziare per avere più e meglio in appresso, ma che in fondo riesce ad una soddisfazione dei nostri impulsi tale da farci conseguire il massimo del piacere col minimo dolore. Il fine della vita morale in questo caso, anche se la ragione interviene a regolare e dirigere, è sempre in un qualche cosa di sensibile, in un oggetto che appreso per mezzo dei sensi produce in noi uno stato di piacere o di soddisfazione: perchè questo stato di piacere dipende non da noi, ma dall’oggetto.

La prima considerazione che Kant oppone all’edonismo nelle sue varie forme è questa: che la coscienza morale distingue nettamente la moralità dall’abilità pratica, sia pure la più raffinata. L’attività della ragione messa a servizio dell’egoismo sia pure il più delicato e lungimirante (come nell’utilitarismo collettivo) è sempre in fondo ancora un’attività egoista: è, qualunque ne siano i risultati, perciò separata da un abisso dalla vera attività morale. Si confronti la condotta d’un padre verso i figli dall’uno e dall’altro punto di vista. Ciò risulta chiaramente dalla diversità del sentimento che produce in noi l’aver agito immoralmente da quello che proviamo quando ci accorgiamo d’aver agito contro il nostro interesse, contro il nostro prestigio.

Una seconda considerazione è che il principio della felicità non può dare origine a leggi di valore assoluto: ciò che, secondo il testimonio della coscienza, è un carattere inseparabile dalla legge morale.

Anzitutto la felicità, il piacere, sono soltanto nomi generici d’uno stato sentimentale che nei diversi individui è prodotto da diversissimi oggetti: quindi poiché ciò che determina in modo essenziale il detto stato di piacere sono precisamente questi oggetti, una legge in questo caso è impossibile. Si avrebbe un’infinità di precetti pratici varii per ogni individuo secondo la diversità dei suoi bisogni, dei suoi gusti e della sua particolare sensibilità. Ma anche dato che vi fosse tra gli uomini una certa concordia circa ciò che in essi produce piacere o dolore e quindi circa i mezzi di conseguire il primo e di evitare il secondo, un simile complesso di leggi pratiche sarebbe sempre ancora un complesso di consigli fondati sull’esperienza: i quali, non solo dovrebbero continuamente concedere a ciascuno un’infinità di eccezioni per adattarsi alle sue inclinazioni particolari, ma non potrebbero mai costituire leggi a priori, perchè fondati interamente sull’esperienza anche se questa sia l’esperienza secolare dell’umanità. La legge morale invece comanda a tutti senza eccezione e senza riguardo a ciò che avviene od è avvenuto: essa è un principio razionale che si concreta poi in un senso o nell’altro secondo le condizioni empiriche, ma che trae il suo valore come legge da sè e non ha nulla da vedere, sotto questo riguardo, con alcuna condizione empirica.

Una terza considerazione è che se la legge morale fosse una legge d’abilità, essa sarebbe inconciliabile con l’esigenza che essa impone a ciascuno: perchè il sapere che cosa si esige per la prudenza, la felicità, è spesso cosa oscurissima; ed il realizzarlo non è spesso in potere nostro. La legge morale presuppone invece che ciascuno conosca in modo immediato qual è il suo dovere e possa compierlo: il che vuol dire che è indipendente dall’abilità, dalla sagacia e dalla potenza esteriore dell’individuo.

La teoria precedente rappresenta l’edonismo nella sua forma più grossolana: la felicità è fatta consistere nel piacere che causa in noi l’acquisizione o il possesso di determinati oggetti sensibili e perciò in fondo identificato con essi, quasi essi fossero il piacere materiato e sempre presente in potenza: il denaro, gli oggetti di lusso, i cibi delicati, ecc. Ma una coscienza raffinata non può non avvertire subito che questa identificazione è del tutto subbiettiva : che il piacere non inerisce necessariamente agli oggetti che il volgo considera come i beni della vita: che piaceri più delicati e intensi possono inerire ad oggetti che il volgare considera con indifferenza: per esempio i libri, le cose d’arte, ecc.: anzi anche ad oggetti ed atti che per il volgare sarebbero il contrario del piacere, per es. alle azioni morali, alle rinunzie. La felicità è quindi trasportata dagli oggetti nel soggetto: il bene supremo è sempre quello stato sentimentale di piacere o di soddisfazione interiore in cui la nostra volontà trova come il suo riposo, ma questo è fatto dipendere più dal soggetto che dalla presenza di determinati oggetti: è già riconosciuta in certo modo l’indipendenza del soggetto e il suo diritto a servirsi del mondo delle cose esterne solo come di uno strumento per creare in sè quello stato di serenità, in cui risiede la vera felicità.

Questa forma più elevata di edonismo che noi possiamo chiamare eudemonismo per il fatto stesso che non fa più dipendere necessariamente il piacere dai beni esterni, ma lo trova nel soggetto e nelle sue attività, è naturalmente tratto a distinguere dai piaceri che vengono per via dei beni esterni, i piaceri più elevati e più rari che ci vengono dalle attività superiori del soggetto, per es. dall’arte, dalla moralità, ed anzi a far consistere la felicità in una dedizione esclusiva o almeno prevalente a questi piaceri più delicati.

Supponiamo un epicureo così raffinato da porre il piacere solo nei piaceri morali: in che differisce la sua morale dalla morale di Kant? Che l’uomo morale secondo Kant segue in primo luogo la legge perchè ragione, e solo in via secondaria gode della serenità dell’uomo giusto; che l’epicureo invece ricerca questa serenità e solo in via secondaria seguirà la legge per conseguirla sempre.

Ora Kant oppone a questa teoria che essa si aggira abitualmente in un circolo vizioso. Generalmente si parla del piacere della virtù rivestendo già questi piaceri più delicati dell’aureola che hanno la moralità, la virtù, per dire poi: sta bene che questi sono i valori supremi, ma essi sono praticati non per sè, bensì per la soddisfazione che danno.

Ora bisogna avvertire che una virtù praticata non per sè, ma per la soddisfazione che dà, non è più virtù, non è più niente indipendentemente da questa soddisfazione. Bisogna allora dire: vi sono delle linee di condotta, le quali danno origine a piaceri più delicati, intensi, sicuri, durevoli che non ogni altro: perciò questi modi di condotta sono considerati come doverosi e detti virtù. Ma allora sotto questa forma la virtù è negata: la coscienza morale si ribella a questa equiparazione della virtù e del piacere, sia pure questo il più delicato e il più nobile. Non è vero che l’uomo virtuoso opera per il piacere o per la serenità che accompagna la virtù: nell’attrazione che potesse su di lui esercitare questo stato egli non può riconoscere una legge razionale assoluta. Per quanto più il piacere sia come epurato e sublimato nei più nobili sentimenti, vi è sempre un abisso tra la vita del senso e la ragione.

L’apparire della vita razionale nella moralità crea anche un’orientamento del senso che si traduce in un sentimento di riverenza, di serenità e di soddisfazione interiore: ma questo sentimento non è più che una concomitante dell’atto morale: la sostanzialità essenziale dell’atto morale non è più nel senso. In questa contrapposizione della morale autonomica kantiana alle varie forme di morale eteronomica e in particolare a quelle che subordinano la legge dell’agire ad oggetti o condizioni dell’esistenza sensibile, noi possiamo pertanto fare astrazione dalla questione psicologica del rapporto del piacere con la volontà: questione che non potremmo qui risolvere senza addentrarci in complicati problemi psicologici. Il punto essenziale è per noi questo: che l’origine della legge morale non può essere cercata in nessuna determinazione empirica, in nessun fine dell’essere sensibile come tale.

Nelle prime pagine della Fondazione (ediz. Vorl. pag. 12) Kant aggiunge anche questa osservazione: che se la moralità avesse per fine nell’uomo la conserva zione e il perfezionamento dell’essere empirico noi dovremmo vedere in essa qualche cosa di inutile, anzi di contrario all’economia della natura: a ciò la natura avrebbe provveduto assai meglio per mezzo dell’istinto.

La riflessione della ragione toglie anzi all’uomo la facoltà di godere serenamente: e coloro che seguono l’istinto ed amano il benessere naturale hanno una specie di odio istintivo per la ragione, ciò vuol dire che la ragione deve servire a qualche cosa d’altro, introduce nella vita un valore nuovo e autonomo, la volontà morale che è sopra la natura.

D’altra parte nessun fine sensibile, nessuna esperienza individuale o collettiva potrebbe fondare il valore assoluto della legge morale. L’idea del dovere si presenta a noi come una necessità ideale, universale ed obbiettiva : ora nessuna esperienza potrebbe fondare un’esigenza di questo genere.

Non possiamo nemmeno dire che essa si fondi sull’esperienza delle azioni morali che vediamo compiere: perchè mai forse una vera azione morale fu compiuta così perfettamente come la legge lo esige. E d’altra parte noi non potremmo accogliere in noi l’efficacia dell’esempio dei fatti empirici, se non ci fosse già in noi un principio d’apprezzamento che non viene dall’esempio.

La legge morale ha pertanto un’origine del tutto a priori: è un atto della ragione, una rivelazione della natura razionale in noi che asservisce a sè la nostra natura sensibile, ma che in sè non può essere asservita da alcunché d’altro. Da questo carattere della legge discende una conseguenza paradossale in apparenza: che il concetto fondamentale sulla morale non è quello di bene, ma quello di legge.

Senza dubbio quando la legge razionale della volontà ci prescrive una data linea di condotta, questa ha sempre di mira un atto concreto e perciò (in lato senso) un oggetto: che è pertanto un bene. Però in quanto oggetto è sempre qualche cosa di sensibile: quindi non è qualche cosa di puramente razionale, non è qualche cosa che possa determinare una legge. Un’azione morale è senza dubbio, diretta sempre verso un oggetto, ma questo non è che l’occasione e il fine prossimo e relativo dell’azione morale; il suo fine ultimo, la sua legge trascende l’oggetto.

Se si commette l’errore di fissare in un oggetto esteriore all’io nostro il fondamento della legge, non è possibile fissarne il rapporto con noi altrimenti che per mezzo della sensibilità: perciò in ultimo il fondamento della legge è posto nel piacere o nel dolore. Nè la cosa muta sostanzialmente d’aspetto anche se l’oggetto non è un bene sensibile immediato ma un bene razionale, nel senso che è qualche cosa di utile, di conveniente per la nostra felicità (cioè ancora per i nostri fini sensibili). In fondo la ragione qui serve solo come strumento: il fine ultimo è sempre lo stesso.

Non è possibile perciò determinare la legge per mezzo di principii materiali, di oggetti, di «beni»: è anzi la legge che determina i beni. Questo significa in fondo che nessuna realtà concreta può essere il fine nostro ultimo: questo giace al di là del sensibile e si rivela a noi solo per la sua azione formale nella legge della ragione: la ragione è la forma per eccellenza, è la più alta immagine di Dio.

CAPITOLO XV.
IL CARATTERE FORMALE

Questo ci conduce a comprendere perchè la legge morale non può essere, secondo Kant, che una legge puramente formale. Un punto di partenza è dato a noi, come si è veduto, dal riconoscimento del dovere come valore pratico assoluto, come esigenza che si impone alla coscienza nostra praticamente con quella medesima necessità ideale con cui si impongono teoreticamente le verità supreme della ragione.

Questo carattere del dovere ne fa un a priori pratico e quindi esclude che possa dipendere da condizioni sensibili esterne poste fuori del nostro arbitrio e dal rapporto di queste condizioni con la nostra volontà, che è dipendente dal senso e perciò subbiettivo ed accidentale. Questo è ciò che Kant esprime quando afferma l'autonomia della coscienza morale.

Si ponga per esempio come oggetto del dovere l’osservanza (servile) della volontà di Dio o la perfezione spirituale dell'umanità. In questo caso il dovere presupporrebbe in primo luogo che io possa avere notizia della legge divina rivelata (dalla quale non possono escludere circostanze invincibili di tempo o di luogo) o possa cooperare alla perfezione spirituale collettiva (ciò che non è, almeno egualmente, nella possibilità di tutti). Presupporrebbe in secondo luogo che io avessi un interesse a seguire la volontà di Dio od a promuovere questa perfezione: interesse che nel caso migliore sarà interesse a seguire la volontà di Dio od a promuovere una inclinazione soggettiva. Come può allora proporsi a noi col carattere di legge assoluta, di ordine razionale necessario un’attività condizionata da circostanze così accidentali ed irrazionali? Il carattere razionale della legge esclude perciò che ad essa sia essenziale alcun fine esteriore, alcun oggetto: la bontà morale dell’azione diretta verso un certo fine non dipende dal realizzare o non questo fine, ma da un carattere inerente all’azione stessa, ed è quello appunto per cui la diciamo buona. Ma se noi facciamo astrazione dagli oggetti materiali del dovere, in quanto non concorrenti essenzialmente nella determinazione della volontà morale, che cosa ci resta? Ci resta una data modalità interiore, una disposizione particolare del volere, applicabile ai più varii oggetti, una forma della volontà. Il che vuol dire che laddove le tendenze sensibili sono determinate ed essenzialmente caratterizzate dal loro oggetto materiale, le volontà morali non sono determinate e caratterizzate essenzialmente dai loro oggetti materiali e dall’azione che esse esercitano sugli stessi ma dalla loro forma, da ciò che esse, in rapporto a qualunque oggetto aspirano a realizzare un carattere della volontà, la volontà morale.

Kant formula questa conseguenza nelle tre tesi fondamentali con le quali si apre la sua Critica della ragion pratica.

I) Tutti i principii pratici che presuppongono un oggetto dell’appetizione come determinante della volontà, sono empirici e non possono dare una legge pratica. (Parag. 2).

II) Tutti i principii materiali cadono sotto il principio della felicità, ossia dell’egoismo (Parag. 3).

III) Perchè un essere razionale possa pensare le sue massime come leggi pratiche universali, bisogna che per esse la volontà sia determinata non materialmente, ma formalmente (Parag. 4).

Il dire che la legge morale non può essere che un principio formale, ha esposto in ogni tempo la morale kantiana ad una obbiezione in apparenza invincibile: che essa pone la legge come qualche cosa di vuoto e di inafferrabile, come una astrazione formale di cui sarebbe incomprensibile l’efficacia.

È una vecchia obbiezione opposta già dai primi recensenti avversari e ripetuta da Schleiermacher, Hegel, Schopenhauer, Herbart, fino ai più recenti. «Qual è il contenuto di questa legge? Qui siamo nuovamente dinanzi all’assenza di ogni contenuto. Perchè la legge non dovrebbe essere altro che l’identità, l’accordo con sè stessa, l’universalità... Ora l’universalità che non si contraddice è qualche cosa di vuoto, che nè nel campo pratico, nè nel teoretico, non arriva mai a costituire una realtà» (Hegel, W. XV, 591, n.).

In realtà, si dice, la legge morale implica sempre un fine materiale. Essa presuppone una società di esseri razionali, ciò che è evidentemente dato dall’esperienza.

Di più presuppone nello spirito la presenza di finalità concrete, d’aspirazioni positive verso dei fini evidentemente non contenuti nella pura forma della razionalità. Come si può dire allora che la legge morale abbia un carattere puramente formale? Bisogna ricordare qui la distinzione che si è già posta fra i precetti morali concreti e la legge morale nella sua purezza. Certo un precetto morale è sempre un precetto morale Concreto: cioè consta di materia e di forma: noi diciamo appunto che l’elemento essenziale di ogni precetto è questa forma. Ed è un dimenticare l’importanza che ha nella filosofia kantiana la forma, l’opporre che un precetto puramente formale è vacuo ed inconsistente.

Certo la legge morale non si pone mai come pura forma: anche i concetti a priori senza le intuizioni sono vuoti. Ma come nella conoscenza ciò che dà ordine e consistenza al conoscere è l’elemento formale, che pure per sè solo è vuoto, così nell’agire è la forma che dà il valore e il carattere alla massima secondo cui si agisce. Quindi l’elemento materiale, concreto è necessario all’estrinsecazione della volontà morale, ma non entra in ciò che essenzialmente la costituisce, che è la pura forma.

È anzi appunto questa distinzione tra l’elemento materiale e il formale, è questa posizione dell’elemento formale come solo essenziale, che permette di considerare la varietà delle leggi morali concrete nei variii popoli e nei varii tempi senza vedervi una contraddizione al carattere assoluto della morale. Un uomo, si è detto, allevato in un covo di ladroni, in mezzo alle leggi della società cui ha sempre appartenuto potrebbe trovar morale il rubare per la propria collettività: non è dunque la morale qualche cosa di puramente relativo?

Senza dubbio l’idea del dovere si realizza per tutti gli uomini in circostanze diverse: in questo senso è relativa. Ma questa realizzazione relativa risulta dall’attuazione di una legge in sè assoluta, puramente formale, in circostanze diverse e relative: onde essa è bensì relativa alle circostanze, ma implica un criterio assoluto più o meno esplicito e si dispone in una gradazione di valore che è assoluto. Cosi come per la verità nel campo teoretico ogni uomo ha la sua verità : ma l’ideale di questa verità relativa è la verità assoluta della ragione che è il loro limite ed il loro criterio ad un tempo.

Ma d’altra parte sarebbe vano voler formulare questa legge formale come il riassunto dei nostri doveri e volerne derivare il sistema dei doveri concreti. È vero che Kant in molti passi si esprime come se realmente, trovata la formula che esprime questo carattere formale della legge, se ne dovesse dedurre i fini concreti della moralità: ed in altri contrappone agli impulsi ed alle volontà sensibilmente determinate la volontà morale come assolutamente pura da ogni elemento empirico. Ma si tratta anche qui d’inesattezza d’espressione: Kant confonde l’imperativo categorico puro con gli imperativi categorici concreti. Anche qui soccorre il confronto con l’attività teoretica.

Il principio di causa ordina le rappresentazioni nella connessione causale scientifica: e ad esso è dovuta questa connessione, base dell’esperienza: ciò non vuol dire tuttavia che dal principio puramente formale della causa debbono essere derivati i collegamenti causali particolari.

Le leggi particolari della natura concernenti fenomeni empiricamente determinati non possono venire derivate integralmente dalle categorie, benché nel loro insieme siano subordinate ad esse.

Del resto basta richiamare la dottrina di Kant circa la volontà: ogni volontà ha sempre un oggetto, un fine materiale: quindi anche il valore morale è sempre l’applicazione della legge formale ad una materia del volere. Perciò volendo nella morale applicata tracciare genericamente i doveri dell’uomo, bisogna presupporre la vita sensibile dell’uomo con i suoi fini sensibili in modo generico, ed applicare in ogni campo la legge formale: la risultante è il dovere concreto.

Onde nella Metafisica dei costumi «Dottrina del diritto», ediz. Vorl., pag. 18) Kant scrive: «Noi dovremo spesso prendere per oggetto la natura particolare dell’uomo che è nota solo per esperienza, per mostrare in essa le conseguenze che si possono trarre dai principii morali generali: senza che perciò si detragga alla purezza di questi ultimi o se ne metta in questione l’origine a priori».

Il fatto, che la materia sensibile della legge morale è tolta, come è inevitabile, dall’esperienza, non detrae perciò punto alla sua purezza formale. Nell’atto non morale questo elemento materiale è il vero determinante: la ragione è asservita al senso. Nell'atto morale invece, sebbene sia diretto anche esso verso un oggetto, il vero determinante è il momento formale della volontà: l’oggetto che ne è il fine concreto non fa che esprimere in condizioni empiriche particolari quell’unica legge in sè indipendente da ogni condizione empirica, che è la legge formale del dovere.

CAPITOLO XVI.
IL CARATTERE FORMALE COME UNIVERSALITᾸ

Ora, quale è questa forma che costituisce la buona volontà; che, qualunque sia l’oggetto materiale, caratterizza la volontà morale? La risposta di Kant non è tanto lontana, quanto appare, dalla soluzione generalmente adottata: la volontà è morale quando si accorda con le volontà degli altri uomini e costituisce con esse una specie di volontà universale unica. Vi è una specie di costituzione sistematica delle nature pensanti secondo leggi puramente spirituali, in modo che ne risulta un’unità morale comune: come vi è una costituzione dell’universo materiale per virtù dell’attrazione in modo che ne risulta un’unità, un ordine: il senso della nostra dipendenza da questa volontà universale sarebbe il sentimento morale. Questa è anche la concezione che Kant volge in breve nei suoi «Sogni di un visionario». La sua concezione definitiva non fa che determinare meglio questa soluzione in un indirizzo razionalistico e trascendente.

Ed ancora: la ricerca che Kant qui intraprende non ha per fine di sostituirsi alla coscienza morale comune che ha sempre dinanzi agli occhi in concreto questo criterio, anche se è incapace di formularlo in astratto. Essa ha per fine di metterlo in evidenza dinanzi alla riflessione critica: così essa compie l’opera propria della filosofia che è di penetrare ogni fatto nella sua più profonda realtà mettendolo in relazione con il complesso di tutto il reale; il che non toglie che con ciò essa concorra anche a fortificare, chiarire, precisare la ragion pratica comune, difendendola contro i sofismi del senso e contro le illusioni compiacenti con le quali spesso noi immaginiamo noi stessi.

La legge morale, abbiamo veduto, è una legge assolutamente razionale e perciò a priori, indipendentemente da qualunque condizione empirica, sebbene realizzantesi necessariamente nelle più diverse condizioni empiriche: quindi puramente formale, cioè esprimentesi in una determinata forma, in un’atteggiamento della volontà, che è quello per cui diciamo che essa è una volontà buona. Ma la razionalità, anche se non può venir da noi determinata nel suo essere ultimo, è per noi caratterizzata da questo: che essa vale in modo necessario per tutti gli spiriti razionali. Qualunque sia perciò il fine verso cui la nostra volontà è indirizzata, esso è buono quando ha il carattere dell’universalità razionale (universalità di diritto, non solo di fatto): in altre parole quando la norma che essa segue ha il carattere di una volontà della ragione universale.

Il carattere della bontà non dipende dai suoi effetti esteriori che potrebbero essere anche prodotti da altre cause e potrebbero anche mancare: è un carattere interiore, formale che noi non possiamo determinare altrimenti che col dire che essa è una vera legge, cioè ha il carattere di una volontà razionale, universale.

La domanda che noi ci muoviamo quando ci chiediamo se la nostra volontà è moralmente buona può anche essere tradotta in questa: traducendo la mia azione in una massima, in una norma generale, potrebbe essa venire approvata da una ragione universale che unificasse in sè tutte le volontà umane in quanto volontà buone ?

Con questa traduzione noi abbiamo senza dubbio fatto un gran passo innanzi: ma le difficoltà sono ben lungi dall’essere scomparse: come possiamo noi riconoscere se una nostra massima può o non può conciliarsi con la volontà razionale universale? Le spiegazioni di Kant in questo punto non sono chiare ed hanno dato luogo ad obiezioni numerose e fondate.

Perchè, dice Kant, la massima del nostro agire possa venire riconosciuta razionale, noi dobbiamo poter volere che essa diventi una legge generale. Ora, vi sono delle azioni, la cui massima così elevata a legge generale, condurrebbe già per sè sola ad una contraddizione interiore. Kant dà come esempio il mentire e l’appropriazione d’un deposito. Evidentemente se il mentire, il mancare alla promessa fosse elevato a legge generale, ciò toglierebbe ogni senso al promettere: il promettere sarebbe un atto logicamente contradditorio perchè implicherebbe da una parte la fede altrui nella nostra promessa (senza di che sarebbe un atto senza senso), dall’altra implicherebbe (per la norma che lo regge) l’assoluta mancanza di questa fede. In altre parole l’immoralità dell’atto si rivela qui in ciò che esso implica una contraddizione logica. Vi sono altre azioni che non implicano questa contraddizione interiore, ma sono in contraddizione necessaria con altre mie volontà, che non solo sono legittime, ma essenziali all’essere nostro. Per esempio il mancare di carità o l’abbrutirsi.

Io posso per egoismo mancare di carità : ma posso sinceramente volere che tutti manchino di carità anche con me? Posso abbrutirmi per ignavia: posso sinceramente desiderare che la società diventi una società di esseri abbrutiti?

Contro il primo criterio sono state mosse osservazioni.

Il Simmel (Kant, IV ediz., pag. 117): per esempio ne riconosce la verità : noi non possiamo volere se non ciò che non si contraddice logicamente: questo è il primo criterio negativo di una retta condotta. Ma è insufficiente: perchè presuppone sempre un conceto, posto il quale non vi si deve contraddire. Per esempio contraddice al concetto di proprietà il rubare, il ladro afferma in sè la proprietà la nega negli altri. Ma il rubare è immorale solo in base al concetto di proprietà: tolto questo concetto sparisce la contraddizione. Il mentire alla promessa è contradditorio al concetto di promessa: ma l’atto singolo per sè non è affatto contradditorio. La risposta qui è facile: l’atto non deve essere conside rato isolato in sè, ma nel complesso delle attività umane.

La volontà morale è forma: cioè introduce unità e coerenza in un complesso di atti e di tendenze che ne costituiscono l’elemento materiale. Il precetto «non mentire» presuppone appunto la reciproca comunicazione dei pensieri come fatto; il mentire eretto a legge annullerebbe questo fatto perchè vi introdurrebbe una contraddizione. Senza dubbio potremmo pensare uno stato di cose in cui non ci fossero nè promesse, nè comunicazione di pensiero, allora il «non mentire» non avrebbe senso, come il «non rubare» in uno stato di comuniSmo perfetto. Ma allora verrebbe a mancare solo un particolare precetto concreto: la legge formale resterebbe come prima.

Più grave è la difficoltà relativa al secondo critèrio. Sembra che con esso si ricada nella morale dell’utile. Io non posso approvare come legge che tutti manchino di carità perchè anch’io ne risentirei un danno. Io giudico della moralità d’una azione col giudicare se, generalizzandola, il mio egoismo ne risentirebbe danno. Qui vi è veramente una grossolana inconseguenza che non possiamo attribuire a Kant: il torto è solo nella sua espressione trascurata.

Kant non dice qui che il criterio stia nel vantaggio che io posso trarre dalla massima: perchè se si ponesse come criterio il vantaggio, sarebbe inutile riflettere sulla generalizzazione della massima che può anche non avvenire: onde la decisione cadrebbe in senso contrario all’egoismo (come per es. se si decide di non mentire in una società dove la menzogna è diffusa). Anche qui Kant prende come presupposto il desiderio naturale della felicità che non è per sè affatto immorale, ma non è ancora la moralità, che è la materia della volontà morale, il presupposto materiale: ora una massima che neghi per principio questo presupposto non è morale perchè nega sè stessa. Kant tocca in questo punto un problema grave che in nessuna parte egli ha sviscerato. All'atto morale è essenziale la forma razionale che lo costituisce, ma è essenziale anche la materia senza di cui la forma non avrebbe realtà concreta. Ricorriamo anche qui al parallelo teoretico. La conoscenza razionale è radicalmente diversa dalla sensibile e la forma sua non deriva da questa: ma senza il materiale sensibile essa non avrebbe realtà alcuna. Essa è come una trasformazione della conoscenza sensibile secondo un principio formale di un grado qualitativamente più alto, ma appunto perciò non può essere una negazione per principio del conoscere sensibile. Per noi non può essere tale: una conoscenza razionale che fosse tale, sarebbe anche una negazione della ragione. Così è anche dell’attività morale.

La nostra attività impulsiva, sensibile (il tendere verso la felicità) è la materia necessaria per noi dell’attività morale che può contenerla, inibirla in parte, ma non negarla in principio; nella moralità si continua, in ciò che ha di più vero e di più alto, la vita. Ora, una massima che negasse per principio la carità, negherebbe non la mia volontà egoistica, ma la volontà egoistica di tutti; negherebbe cioè per principio la vita. Perciò sarebbe in contraddizione anche con la ragione, in quanto questa non è, praticamente, che il principio formale che erige la vita in attività morale e non potrebbe, senza questo fondamento materiale, esplicarsi in modo concreto.

Qui deve essere richiamata, per chiarire il vero senso del suo pensiero, quella che egli chiama la «Tipica del giudizio pratico» (Critica ragion pratica, parte I, I Libro, II capit.): nella quale Kant viene essenzialmente a dire che non possiamo mai avere dinanzi a noi la ragione, l’elemento razionale nella sua purezza: la ragione ci è sempre data solo come sistemazione razionale di elementi sensibili, in cui l’elemento razionale è pura forma. Per decidere se un principio (teoretico o pratico) è razionale noi non possiamo perciò considerarlo in sè, ma metterlo in rapporto con questo complesso così sistemato e vedere se esso non vi contraddice.

Per giudicare se un’azione è morale, non basta che io consideri astrattamente la massima corrispondente e mi chieda se potrebbe essere voluta da mè e da tutti gli spiriti razionali: certo la formula kantiana intesa in questo senso è assolutamente insufficiente. Bisogna invece che io mi trasporti dal punto di vista della totalità della vita razionale, che io consideri la massima nel suo rapporto col complesso dei fini degli esseri razionali (fini sensibili razionalmente ordinati in unità) e mi chieda se possa venir conciliata in questo complesso che costituisce un unico e identico volere. Nè è necessaria per questo una considerazione teoretica di questo complesso di fini: nella pratica questo confronto è opera di una specie di tatto morale, di dono di natura che può essere esercitato, ma non appreso. La stessa cosa avviene nel campo della conoscenza. Il valore della verità nasce, per noi, dall’organizzazione delle conoscenze: una conoscenza isolatamente considerata non è nè vera nè falsa. Ma sebbene nessuna delle conoscenze concrete abbia un valore assoluto, tuttavia il sistema loro costituisce un ordine formale nel quale vengono ad inserirsi le conoscenze successive e che ci dà un sicuro criterio della loro verità: una conoscenza è caratterizzata come vera dal suo accordo con il sistema formale del sapere. Così il complesso dei fini morali concreti, pur non contenendo nessun fine assoluto, esprime nel suo ordine formale una specie d’unità che è il criterio del valore di tutti i nostri atti.

Ora, l’ordine formale pratico risulta da due ordini di leggi: leggi logiche e leggi teleologiche. Per le prime si esige che le massime debbano potersi inserire nella volontà universale senza che esse costituiscano una contraddizione con sè stesse: ciò che avviene se la massima contraddice alle attività che essa regola. Per la seconda si esige che la massima si possa inserire nella volontà universale senza venire in contrasto con le altre tendenze fondamentali di questa (che sono poi nella loro unità la massima stessa): ciò che può già constatarsi se per es. la massima è in diretta contraddizione con quella volontà generale della felicità che la legge ha per compito di regolare, non di sopprimere, perchè allora sopprimerebbe la sua attività stessa. A questi due ordini di leggi si riferiscono le due categorie di esempi adottati da Kant, i quali quando vengono intesi da questo punto di vista non vanno incontro ad alcuna delle difficoltà sovraesposte.

Da questa spiegazione risulta anche con chiarezza ora come noi dobbiamo concepire la legge morale. Bisogna distinguere tra i precetti morali concreti e la legge morale formale. Questa nella sua assoluta purezza sarebbe l’assoluta unità della ragione, la quale escluderebbe l’opposizione dell’io e del tu e perciò la base del rapporto morale tra gli uomini. Essa non ci è quindi mai data, nè può esserci data come tale: ma ci è data come complesso di precetti morali che sono l’incarnazione della legge formale in date condizioni materiali. Noi possiamo astrarre da questi precetti concreti l’unità della legge: ma allora è una pura forma, che presa in sè stessa è vuota.

Quando una massima può dirsi morale? Quando può venir compresa sotto l’unità della forma nel sistema dei precetti concreti: e noi decidiamo di questo non per un raffronto con la nuda forma, ma per un rapporto con il sistema complessivo, nel quale soltanto ci è data la forma vivente. L’importante è distinguere tra la forma e i precetti concreti: non bisogna prendere il precetto concreto per la legge stessa. Quando si confondono, si erige il precetto concreto che è solo un compromesso relativo in una legge assoluta : ciò che tende in primo luogo a snaturare il valore del precetto. Per esempio: il cooperare al benessere materiale degli altri è un precetto morale, ma che s’inquadra in un sistema onde riceve senso e limiti: preso in senso assoluto pone come ideale un popolo di negri beati. Ed in secondo luogo, quando si constata la varietà e variabilità dei precetti, si cade nello scetticismo; mentre ciò che muta è solo il precetto: la legge è l’elemento eterno ed immutabile.

La formula dataci da Kant per caratterizzare la legge morale (la razionalità) e fornirci il criterio per distinguere le massime ad essa conformi (sono morali le massime razionali tali che possono venire erette in leggi di valore universale), vuol dire in fondo questo: tutte le volontà umane, per quanto procedenti da impulsi e condizioni diverse, debbono poter comporsi in una sola volontà complessiva, che le armonizzi in una attività unica: una volontà è razionale (e perciò morale) quando è conforme a questa unica volontà. Certo questo è un sistema, un equilibrio sempre mutevole che non ha di assoluto se non l’unità formale verso cui tende e che in ogni momento imperfettamente realizza: ma per noi è il solo rappresentante dell’assoluta legge della ragione che è per noi trascendente. Ciò che diciamo convinzione morale è quella specie di tatto per cui giudichiamo della convenienza o non di un nostro atto con questa volontà complessiva.

Se noi, come filosofi, vogliamo mettere in luce con la riflessione questo processo, possiamo esprimerlo così: basta considerare il nostro atto dal punto di vista generale, giudicare se noi, dal punto di vista della pura ragione, lo approveremmo ugualmente in noi e perciò in qualunque altro.

Questo già risponde alla stolta accusa di subbiettivismo mossa alla morale kantiana: come se l'uomo facendo ricorso alla sua coscienza morale ed erigendola in giudice supremo, ponesse come giudice supremo la sua individualità in ciò che ha di subbiettivo. Certo la decisione è sempre presa dal l’individuo (e come può essere diversamente?): ina facendo appello a ciò che vi è in lui di universale, non accettando come morale se non ciò che può valere come una norma fissa ed universale. Così avviene del resto, sotto l’aspetto teoretico per la verità, ciò che decide, in ultima istanza, è sempre la ragione dell’individuo, ma facendo appello a ciò che ha in sè di non individuale: su ciò si fonda la sua pretesa ad una obbiettività ed universale validità.

E tuttavia questo appello all’universalità, questa esigenza che la massima seguita sia in armonia con la volontà universale della ragione è tale che si concilia benissimo con il rispetto dell’individualità. Sarebbe una assurdità grossolana l’intendere la formula kantiana nel senso che essa imponga di agire nello stesso modo a tutti, senza tener conto delle circostanze individuali: è facile allora rilevare le assurde conseguenze che ne nascerebbero. Nessun precetto può essere universalizzato; per cui può essere non solo lecito, ma morale il rubare, l’uccidere, ecc. Ma vi sono degli atti che universalizzati perderebbero il loro senso; come è per esempio la ribellione isolata contro la legge che, come tale può essere un alto dovere, e che universalizzata sarebbe una colpevole stoltezza.

L’universalità della condotta non si misura dalla sua possibile ripetizione in altri, ma dal suo completamento con la condotta degli altri in un’unità razionale, cioè universalmente voluta perchè la più conforme all’unità ideale della ragione. Questo sarebbe anzi in, contrasto con il senso della legge morale come forma: che, come tale, si realizza diversamente nelle circostanze più diverse pure conservando attraverso tutte queste realizzazioni la sua unità.

L’universalità insomma non è rozza uniformità: si capisce che la legge si attua diversamente in ogni individuo secondo le sue circostanze personali, il suo ambiente, i suoi antecedenti. Vi sono azioni morali per un individuo che sono immorali per un altro: ogni individuo, si può dire, ha la sua legge. Ma come è possibile ancora, se così è, volere che la massima diventi legge universale, cioè porre come criterio della moralità la condizione che la massima seguita possa venir eretta in legge di valore universale?

Come può un atto strettamente individuale ed unico essere universalizzato, diventare oggetto di una volontà universale? In questo senso i critici di Kant (per es. il Simmel) fanno appunto valere che ogni atto in fondo è unico nel suo genere e non generalizzabile: da un punto di vista preciso tutte le circostanze di un atto sono importanti; nessuna è veramente indifferente. Ed allora come è possibile generalizzare? Questa obbiezione mette in troppo esclusivo rilievo un aspetto del fatto morale: cioè la diversità delle condizioni in cui sempre si realizza la legge e che ne costituiscono l’elemento materiale. Ma se è giusto tener conto di questa diversità che permette di aver riguardo alle differenze individuali e non concede che a tutte le personalità ed a tutti i casi s’imponga letteralmente un’identica legge, è però anche giusto ricordare che la legge vuol ricondurre tutte queste condizioni sotto l’unità di un’unica volontà e che le diverse realizzazioni sue non sono assolutamente eterogenee l'una all’altra, sono pure realizzazioni di una stessa legge formale. È questo che rende possibile il ricondurre i varii casi sotto punti di vista generali, che sono le leggi morali concrete, e perciò di giudicare se un dato atto si conformi o rilutti all’unità della legge.

Anche qui il parallelo teoretico può servirci di chiarimento. Anche sotto l’aspetto teoretico sta di fatto che ciascuno ha la sua verità e che tutti gli elementi anche imponderabili dell’esperienza di un individuo concorrono a crearla e la giustificano. Perciò bisogna anche qui rispettare l’individualità nel senso che non si può imporre senz’altro a tutti la stessa verità, tagliata sullo stesso modello. Ma questo non distrugge l’unità della verità anche se questa, assolutamente intessa, non si trova in nessuna parte.

Quest’unità si trova nella gradazione di valore per cui ogni singola esperienza tanto più vale quanto più è ricca e coerente: e la tradizione culturale, sommando queste esperienze individuali del più alto valore, crea come un’esperienza tradizionale collettiva che, pur mutando anch’essa lentamente, è il criterio della verità delle singole esperienze individuali. Non è negato perciò il valore delle verità individuali: ma a base di esse sta come criterio generico una verità collettiva che fa astragione delle particolarità individuali e traccia la linea ideale del loro svolgimento. Vi sono esperienze individuali vere in contrasto con essa (per es. Copernico)? Certamente: ma allora esse partecipano, spesso per geniale anticipazione, ad una tradizione culturale più vasta e profonda, che esse concorrono validamente a creare: la loro rivolta non è la rivolta dell’individuale e del capriccioso contro l’universale: anzi è il contrario: è l’affermazione dell’universale umano contro il particolare di una scuola o d’un secolo.

Trasportiamoci ora dal punto di vista pratico: anche qui ogni azione, morale o non, scaturisce da fattori individuali, che non si possono lasciar fuori di considerazione quando la si giudica: questi fattori sono come l’elemento materiale in cui la legge s’incarna e concorrono a determinare in un senso o nell’altra la stessa norma morale concreta che ogni atto morale esprime. Perciò sarebbe assurdo imporre a tutti le stesse norme morali senza tener conto di questi fattori individuali. Ma non è in questi fattori strettamente individuali che risiede il carattere essenziale dell’azione.

L’unità della legge suscita dalla molteplicità delle circostanze materiali una specie di volontà comune che si traduce in linee generiche di condotta che fanno astrazione dai particolari strettamente individuali, e costituiscono i valori morali obbiettivi considerati come universalmente validi, le leggi morali concrete. Per esempio la legge morale del «non rubare» contiene un certo numero di rapporti universalmente validi, che si realizzano poi in circostanze diversissime; però essi solo sono essenziali, queste sono trascurabili.

Certo queste concorrono poi a individuare l’atto e a determinare il suo maggiore o minore valore morale: per la decisione se l’atto sia o non sia morale possono essere lasciate da parte.

Si dirà che vi sono dei casi nei quali appunto queste circostanze individuali, che diciamo trascurabili, diventano invece essenziali e annullano quel complesso di rapporti essenziali in cui consiste la legge? Che per esempio vi sono dei casi in cui, date le circostanze individuali, diventa morale per es. l’uccidere? Ciò vuol dire allora che si ha solo in apparenza un caso che rientra sotto le categorie dell’uccidere o non uccidere ed è in contrasto con la legge concreta a ciò relativa: in realtà si ha un altro caso generale, che rientra sotto un’altra legge e che appare come un’eccezione individuale, ma in realtà non è: e veduto nella totalità della volontà universale apparirebbe come perfettamente coordinato a quelle stesse leggi morali concrete, alle quali sembra fare eccezione. L’estensione anche a queste apparenti eccezioni della legge comune è in realtà una cecità ed una irrazionalità. Anche il riformatore ohe innova ed insorge contro una legislazione morale esistente, in realtà non fa che mettere a nudo una contraddizione della morale comune, annullare una legge morale (apparente) col mettere in rilievo altre e più profonde direttive della volontà comune, dalla mente comune o non vedute od appena intravvedute, con le quali essa è inconciliabile.

Tutti gli atti veramente morali sono sempre riducibili quindi a leggi generali, nelle quali si fa astrazione dalle circostanze individuali irrilevanti che possono modificare lievemente il valore dell’atto, ma non possono entrare in esso come determinanti essenziali.

Quando perciò io sono dinanzi ad una decisione diffìcile, ad un caso di coscienza complicato, è giusto che io dica: non basta qui applicare i luoghi comuni della morale generica e farne delle norme che debbono valere per tutti in tutte le circostanze: questo vale della legge formale, non delle leggi morali pratiche prese in sè, astrattamente dalle circostanze in cui si realizzano.

Applicare in modo così superficiale le leggi, vuol dire applicarle a sproposito, là dove esse in realtà non valgono, là dove non concorrono tutti i rapporti essenziali che le costituiscono. Così per esempio se io applicassi il precetto di prender moglie e di crearsi una famiglia ad un monaco. Ma io non debbo mai credere che il caso che giudico sia una eccezione, che esso sia un caso strettamente individuale: non vi sono casi strettamente individuali dinanzi alla legge. Anch’esso, sia pure nella realtà concreta unico quanto si vuole, è un caso generico ed ha i suoi rapporti essenziali: io devo metterlo a nudo e farne una legge: ciò che praticamente si ha col fare astrazione da sè, col considerare il caso in astratto e giudicarne come si trattasse d’un altro: posso io volere che si agisca così? Il tatto morale confronta allora questa legge con il complesso delle leggi morali concrete, esplicite o non, in cui si attua la volontà universale, e decide.

La legge morale non esclude perciò l’individuale quando esso ha valore universale: esclude l’individuale come tale, non riducibile ad una direttiva della volontà universale, e perciò immorale.

La legge morale ci mette così (come attività razionale) dinanzi alla realtà assoluta nello stesso rapporto in cui ci mette la ragione nel campo teoretico: essa ci indirizza verso l’unità pratica della ragione assoluta: ma questa unità pratica assoluta non è accessibile a noi che come forma. Perciò la nostra attività morale riesce ad un compromesso: è un sistema di norme regolanti la nostra attività sensibile, delle quali norme nessuna è assoluta e tuttavia tutte nel loro insieme aspirano a renderci un’unità assoluta.

In ogni momento della nostra coscienza vi è la presenza inafferrabile dell’unità assoluta che ci orienta verso la più alta unità possibile: ma noi non possiamo coglierla, per servircene come criterio, che nel sistema più alto delle sue unificazioni concrete.

La formula con cui Kant esprime la legge non è dunque solo una legge pratica, ma è l’espressione del momento essenziale della legge, caratterizza in ciò che ha di essenziale la nostra attività morale. Essa riesce in fondo alle antiche formule stoiche: vivi secondo la ragione: vivi secondo la natura (che è la natura razionale, ideale). Ma vi aggiunge la confessione del carattere trascendente di questo ideale, il quale si traduce per noi per mezzo d’una forma, la forma della vita razionale (secondo leggi generali).

Kant passa da questa prima ad una seconda formula che però noi dobbiamo considerare come una semplice conseguenza pratica, un corollario che traduce la legge in una forma più atta a servire di norma per la condotta, cogliendola sotto l’aspetto negativo.

Quando diciamo che l’uomo deve sempre agire in modo razionale, escludiamo con questo ogni attività avente per fine l’essere particolare sensibile, egocentrica, escludiamo che a quest’attività egoistica possa essere fatta servire la ragione, sia in noi, sia negli altri. Cioè la ragione dev’essere sempre fine, non mai mezzo: perchè quando la facciamo servire come mezzo rendiamo impossibile il suo libero svolgimento, la sua autonomia: in fondo l'annulliamo perchè la ragione asservita è una ragione condannata a scomparire. Perciò il nostro io, in quanto razionale, deve sempre essere fine, non mezzo: noi dobbiamo far servire tutta la nostr’attività sensibile al miglior svolgimento della nostra natura razionale. E poiché questa è essenzialmente una cosa sola con la natura razionale che è negli altri ed ha gli stessi fini e le stesse leggi (nel senso che sopra si è detto), così la stessa limitazione vale dell’io altrui: io non devo mai asservire il mio io razionale all’egoismo altrui, ma non devo nemmeno asservire l’altrui natura razionale al mio egoismo.

Questi sono tutti in fondo giudizii identici: perchè chi asservisce sè all’egoismo altrui lo fa per qualche motivo egoistico e perciò lo asservisce in fondo al proprio: e chi asservisce altri al proprio egoismo, asservisce in fondo anche sè stesso. Questa formula non dice perciò nulla di nuovo: soltanto è un’eccellente formula pratica: al rispetto astratto della ragione (si deve agire solo secondo principii) si sostituisce qui il rispetto degli esseri razionali concreti, nei quali si svolgono volontà ed aspirazioni che non possiamo negare senza negarle contemporaneamente in noi stessi.

Questo concetto del rispetto della personalità è un concetto alto e praticamente fecondo, ma irto di problemi. Esso equivale a dire che solo la personalità morale è degna di rispetto: il resto può essere sacrificato senza misericordia. Tutto ciò che è sotto l’uomo non ha dunque nessun diritto? Ciò sarebbe assurdo. Noi dobbiamo qui richiamarci al concetto superiormente svolto riguardo alla ragione. Questa non è la ragione esplicita come attività raziocinante che spesso non è che un’imitazione sociale: vi è una ragione insita, profonda nelle cose stesse che l’uomo morale sente e con cui si sente unito: è il divino nelle cose.

Distruggere la bellezza, incrudelire contro un animale è un andare contro la ragione: contro una ragione profonda che va al di là di quella dell’uomo. E d’altra parte questa formula ha forse per conseguenza di porre tutti gli uomini sullo stesso piano? Questa è una conseguenza che sembra indeclinabile e tuttavia non è tale. Non è l’uomo che è degno di riverenza, ma la ragione nell’uomo e perciò l’uomo in quanto è partecipe della ragione od è possibilità di ragione. Quanto all’umanità reale noi sappiamo bene che cosa Kant ne pensasse. La sua corruzione è tale che noi dovremmo volgersene con disgusto, se nella nostra imperfezione non brillasse un raggio che non è essere, ma dovere.

L’uomo perciò in tanto ha diritto al rispetto, in quanto ha diritto che sia rispettato il suo dovere. Ora questo non è ancora un affermare che tutti gli uomini partecipino a questo dover essere: vi sono uomini amorali ed essi sono forse la maggioranza: dobbiamo noi rispettare in essi la possibilità astratta? E anche là dove la ragione si rivela almeno inizialmente, non è possibile una comunione razionale se non in grado relativo, il precetto negativo — non ledere, nè asservire la personalità razionale in altri — non implica ancora necessariamente una cooperazione positiva. Il precetto perciò è veramente alto e fecondo: però la sua applicazione non è così semplice come può sembrare. Ma questi sono problemi che appartengono ad un altro ordine di ricerche.

CAPITOLO XVII.
LA LEGGE MORALE E IL SENTIMENTO

L’azione morale è quella che è determinata dalla pura legge della ragione e che non è condizionata da alcun impulso od inclinazione sensibile. Ossia, poiché l’azione di un impulso o di un’inclinazione si traduce in un sentimento, l’azione morale è quella che è determinata da un atto razionale di volontà e non dal sentimento. Questo è stato spesso inteso nel senso che la legge morale, secondo Kant, esclude ogni azione del sentimento: che la moralità consiste in una specie di rigidità geometrica, arida, pedantesca: onde l’accusa di eccessivo rigorismo, incompatibile con la realtà della natura umana. Quest’accusa non è in fondo giustificata.

Ciò che Kant rigidamente sostiene è questo: che il sentimento non può fondare un’azione morale, che anche i sentimenti migliori, della pietà, ecc. non bastano ancora a caratterizzare moralmente un atto. Anche Kant ammette che vi sono sentimenti nobili nel senso che favoriscono l’azione morale, che esplicano un’azione simile a quella della moralità: essi sono sorgente di belle azioni, ma non d’azioni morali. Kant paragona l’atto di un uomo pietoso, procedente da motivi passionali, con l’atto, fatto per puro dovere, d’un uomo in fondo insensibile e freddo: questo solo è veramente morale. «Una certa dolcezza d’animo che passa facilmente in un caldo senso di pietà, è cosa bella ed amabile: perchè rivela una benevole partecipazione alle vicende altrui, al che i principii della virtù egualmente conducono. Ma questo sentimento bonario è debole e cieco...». La pietà, ed altri sentimenti, si possono considerare come delle preformazioni sentimentali della virtù, che eccitano gli uomini, anche senza la ragione, a compiere belle azioni e fortificano negli uomini virtuosi la disposizione a compierle: ma non sono vere virtù. L’uomo che le possiede può essere un uomo buono, ma solo chi opera secondo la ragione può dirsi nobile e retto.

L’azione morale si ha quando, in qualunque senso ci volga il sentimento, essa è compiuta solo per la volontà razionale del bene. In qesto punto essenziale concorda anche Schiller, (che pure si vuole contrapporre in questo punto a Kant) il quale scrive: «Io confesso che sul punto fondamentale della morale, sono perfettamente d’accordo con Kant. Io credo cioè, e sono convinto che possono dirsi morali soltanto quelle azioni a cui siamo stati determinati dal rispetto della legge della ragione, e non da un impulso per quanto raffinato esso sia e qualunque nome rispettabile esso porti. Io assumo coi più rigidi moralisti che la virtù deve posare solo sopra sè stessa e non dev’essere riferita ad alcuna finalità estranea. Buono è ciò che avviene solo perchè è buono».

Certo si può dire che questo restringe singolarmente la cerchia delle azioni morali: può anche essere messo in dubbio se l’uomo sia capace di un vero atto morale. Ma qui Kant ci pone un ideale: e sebbene il linguaggio comune chiama indistintamente buone le azioni compiute in un certo senso, anche se il movente ne è un sentimento, certo è che anche la coscienza comune, richiamata ad un’analisi sagace, non può non accordarsi con Kant nel ritenere che l’elemento da cui viene la bontà dell’azione, è solo la volontà buona.

La questione del rigorismo kantiano non è in questo: sta piuttosto nel vedere se l’atto morale determinato dalla ragione possa ammettere o non un impulso concomitante nello stesso senso. La legge della ragione è una legge formale che ordina e dirige la nostra vita sentimentale: quindi è sempre accompagnata da sentimenti che ne costituiscono il materiale come le sensazioni sono il materiale dell’intelletto. Ora vi è una necessaria opposizione tra questi sentimenti e la volontà razionale, oppure ci può anche essere un accordo in modo che la volontà razionale ci conduca nello stesso senso in cui ci avrebbero tratto i sentimenti?

Per principio Kant non vuole punto che la legge si trovi in necessaria opposizione con le nostre aspirazioni sensibili : anzi ammette che in certi casi necessariamente il dovere conicide con l’oggetto delle nostre aspirazioni; come quando ci impone di curare la salute, di tendere verso un certo benessere economico, ecc. Certo anche in questi casi l’atto, perchè sia morale, deve essere compiuto per rispetto alla legge, non per inclinazione.

È falsa l’accusa che Kant ponga l’uomo al bivio tra la morale e la felicità: Kant non ha punto stabilito una opposizione tra di esse; si può fare un’azione con piacere pur seguendo la legge morale. Vero è solo che in questi casi è facile illudersi: laddove i sentimenti ci trascinano in senso opposto alla legge, allora si è veramente sicuri che l’azione è morale. Così è morale il coltivare i sensi di pietà, simpatia, ecc. sebbene per sè non morali, perchè coadiuvano la legge morale.

Kant stesso mette in guardia contro il preconcetto che la virtù debba avere un aspetto accigliato e triste. «Se si chiede quale è la disposizione sensibile o per così dire il temperamento della virtù, se l’umore lieto e coraggioso o la depressione angosciosa e triste, la risposta non può essere dubbia. Quest’ultima disposizione servile non può aver luogo senza un secreto odio della legge e il cuore lieto nell’ampimento del suo dovere è il vero segno della genuina disposizione virtuosa anche nella religiosità, che non consiste nel dimostrare il proprio pentimento col tormentarsi, ma nello stabilire in sè il fermo proposito di diventar migliore: il qual proposito incoraggiato dal successo deve produrre una specie di letizia interiore, senza di cui non si è mai certi di aver preso ad amare il bene, cioè d’averlo accolto come massima».

E nella Metafisica dei costumi «Dottrina della virtù», ediz. Vorl., pag. 356), Kant contrappone la serenità imperturbabile del virtuoso epicureo all’ascetica monacale nella cui tristezza egli vede una specie di secreto odio contro la virtù.

Di più, noi vedremo che anche Kant riconosce come l’esistenza ideale, perfetta, esige l’accordo della felicità e della virtù: la virtù non è che l’essere degni della felicità. La moralità deve essere indipendente dalla felicità: e nell’ordine presente è vano sognare di un loro collegamento necessario. Ma in un ordine puramente ideale si esige l’accordo fra di esse: essi sono due elementi autonomi che tuttavia si ricercano e si completano.

Senza indagare per ora qual senso possa avere la felicità in un ordine intelligibile, certo è che Kant, ben lungi dallo stabilire fra di esse una necessaria opposizione, vede anzi come un'imperfezione dell’ordine presente che esse non siano necessariamente collegate.

Quello che Kant nega è che l’uomo possa venire mai ad accordare talmente la sua natura sensibile con la legge, che possa costituire una «bell’anima» la quale fa naturalmente il bene, e che converte il rispetto della legge in amore.

Egli inclinava, come è noto, verso un giudizio pessimistico della natura umana: l’uomo può conseguire la virtù, non la santità: il dovere resta sempre per lui qualche cosa che non si compie, almeno del tutto, con inclinazione. Questo è il punto in cui discorda da Schiller, per il quale la moralità può diventare «natura».

E in questo punto noi dobbiamo dare ragione a Kant: perchè la legge del dovere è un ideale che permette solo un’approssimazione indefinita: la legge è sempre qualche cosa d’irrealizzabile: non è essa una legge formale, e perciò di origine trascendente?

A ragione obbietta Kant, che una legge così perfettamente realizzata sarebbe una legge sempre ancora imperfetta e perciò costituirebbe una pericolosa illusione, ed un arresto. «Noi stiamo sotto una disciplina della ragione e non dobbiamo dimenticarci della nostra subordinazione ad essa, in nulla diminuire per una presunzione egoistica, la maestà della legge... Dovere ed obbligazione sono i nomi che noi dobbiamo dare al rapporto nostro con la legge morale. Noi siamo invero membri legislatori di un regno morale, possibile per la libertà, imposto dalla ragione al nostro rispetto: ma noi ne siamo i soggetti, non il sovrano: ed il misconoscere la nostra posizione come creature, rifiutando presuntuosamente il nostro omaggio alla santità della legge, è già un mancare ad essa secondo lo spirito anche se se ne adempie la lettera».

Così sappiamo che cosa dobbiamo pensare del-co'-sidetto «rigorismo» kantiano. Nei principii la morale kantiana è austera come ogni morale razionalistica (stoici, Spinoza): essa giudica assai più severamente che il giudizio comune e che la nostra coscienza stessa ordinaria. Ma in ciò è perfettamente giustificata.

Kant non vuole che la decisione razionale escluda ogni sentimento favorevole e piacevole: solo mette in guardia contro la prevalenza di esso, che annullerebbe il valore morale dell’azione: e di più nega che l’uomo possa mai pervenire a operare moralmente in perfetta conformità con i propri sentimenti. Anche in questo possiamo essere in perfetto accordo con Kant.

L’unico punto che avrebbe forse bisogno di essere messo più in rilievo, è la distinzione qualitativa dei piaceri: nessuno dei quali certo può sostituire la ragione (e in questo senso vale la loro condanna), ma che non si possono tuttavia mettere tutti su d’una linea sola come sembra che Kant faccia qualche volta (Critica rag. prat, parag. 3, Osserv. prima).

Vi sono indubbiamente impulsi inferiori e superiori e questi hanno una parte essenziale nella preparazione della vita morale. Del resto anche questo apparente rigorismo di Kant contro ogni specie d’impulso deve essere giudicato in rapporto al suo tempo come una sana reazione alle sdolcinature sentimentali, che predicano la virtù come qualche cosa di facile, anzi di piacevole, e contro di esse egli mette giustamente in rilievo la sublimità e la severità del dovere. Questo è infatti il concetto che mette massimamente in rilievo nelle sue osservazioni circa l’educazione morale.

L’insegnamento morale è efficace solo quando mette lo spirito in presenza del dovere nella sua purezza: tutti i tentativi di commuovere, d’incitare col sentimento, di suscitare per esso inclinazioni, ecc. sono una retorica che lascia l’anima fredda (onde anche l’inefficacia dell’esempio).

Le mollezze sentimentali non hanno efficacia perchè in fondo esse implicano sempre qualche cosa di egoistico, di personale; laddove la pura moralità esige la rinunzia ad ogni movente egoistico. Di più esse agiscono tumultuariamente nel momento che sorgono: ma altro è l’eccitazione, altro la forza.

La condotta morale invece, se deve essere una disposizione stabile e sicura, deve essere fondata sulla ragione. Perciò Kant esclude dall’educazione morale tutte le glorificazioni che presentano il dovere come qualche cosa che desta piacere entusiasmo: bisogna risvegliare freddamente il senso del dovere, anche preponendo esempi di pura moralità, destare nell’animo il naturale senso di riverenza per il dovere, che sarà seguito dal proposito calmo di una completa dedizione.

Il carattere rigidamente razionalistico della morale kantiana ci pone però dinanzi ad un problema psicologico-metafisico, che è importante per sè e perchè ci rinvia ad un altro più essenziale problema : il problema della libertà.

Il problema è questo: ogni atto nostro deve essere empiricamente determinato, vale a dire deve inserirsi nel meccanismo psicologico interiore, nel quale ogni impulso procede da uno stimolo sensibile, che nel caso di un atto impulsivo è una rappresentazione immediata, nel caso d’un atto razionale è una rappresentazione generale (per mezzo della rappresentazione simbolica), ma è in ogni caso qualche cosa di sensibile: onde l’atto deve accompagnarsi ad un sentimento sempre. Ma noi abbiamo detto che nell’atto morale l’uomo obbidisce ad una legge, è mosso da una forma razionale che non ha più nulla di sensibile. È vero che l’atto morale è diretto sempre verso un oggetto: ma la determinazione deve procedere dalla legge formale, non dall’oggetto.

II sentimento che desta l’oggetto può cooperare, ma non in modo essenziale: la determinazione essenziale deve procedere dalla legge formale. Ora, come può qualche cosa di razionale muovere la nostra natura sensibile?

Secondo Kant ciò avviene per l’intermediario di un sentimento che è un sentimento improprio, unico nel suo genere, il sentimento di reverenza. La legge formale esercita un’azione selettiva e critica sulle nostre passioni e tendenze sensibili, annulla le tendenze contrarie alla legge, limita le altre: la sua azione è in ogni caso negativa. Ora, la negazione e limitazione dei nostri sentimenti si traduce essa stessa in un sentimento che è nel suo inizio deprimente e doloroso.

La coscienza della legge reprime l'egoismo e lo riduce ad essere un amore ragionevole di sè, annulla poi del tutto la vanità, ogni pretesa di valere qualche cosa indipendentemente dalla legge. Questo richiamo alla vera coscienza di sè è perciò inizialmente doloroso. Ma poi, in quanto l’uomo riconosce che questa depressione del proprio io sensibile avviene solo in pro del proprio io razionale, che è l’io più vero, esso sente anche una specie d’elevazione, di gioia, di soddisfazione di sè: questo sentimento complesso che contiene in sè l'umiliazione e l’orgoglio è il senso di reverenza morale, che è il vero sentimento morale. Esso è, si può dire, l’eco sentimentale destata nella nostra natura sensibile dalla coscienza della legge.

Il determinismo psicologico è così salvo: le passioni egoistiche sono destate in noi dagli oggetti sensibili in quanto agiscono su di noi come puri esseri sensibili; quando in noi si è destata la coscienza della legge, l'azione degli oggetti — appresi alla luce della ragione — desta in noi uno stato sentimentale più alto e più complesso, in cui l’elemento essenziale è il sentimento di reverenza morale per la ragione operante. Così dal punto di vista del puro empirismo psicologico anche l’atto morale è causalmente determinato (almeno in apparenza) da un sentimento. Ma noi sappiamo che in realtà esso non è tale: il soggetto operante moralmente si è elevato, per così dire, sopra la sfera delle azioni e reazioni sensibili e si muove nella sfera puramente intelligibile, in cui la determinazione non ha più senso e perciò il soggetto opera liberamente.

Questa teoria kantiana del sentimento morale come movente psicologico della volontà umana nell’atto morale merita certamente, sotto l'aspetto psicologico, una radicale revisione: non è il caso perciò d’insistere.

Interessante è solo per noi l’affermazione di Kant che anche l’atto morale è, sotto l’aspetto psicologico, perfettamente determinato: ma con la differenza che, mentre nell’atto impulsivo ed egoistico la volontà del soggetto si identifica e si esaurisce nel meccanismo psicologico, nell’atto morale il soggetto si è come levato sopra questo meccanismo e, mentre l’azione sua appare sensibilmente concatenata, la volontà sua ne è indipendente, opera secondo fini puramente intelligibili. Del resto questa affermazione di Kant, che ogni atto umano è psicologicamente determinato, è una conseguenza della sua concezione della «natura», che è tale solo perchè concatenata dalle leggi intellettive: tale anche perciò la «natura» interiore, l’io empirico. Ma qui sorge allora il gravissimo problema: come può ancora l’uomo allora dirsi libero? Come può aversi un’azione sensibilmente determinata ed una volontà libera?

CAPITOLO XVIII.
IL PROBLEMA DELLA LIBERTᾸ

La teoria della libertà è resa singolarmente diffìcile in Kant oltre che dalla difficoltà intrinseca della questione, da due circostanze. La prima è il fatto che Kant, pur avendo dato un vigoroso impulso alla questione verso la sua soluzione ed avendo tracciato con chiarezza la direzione nella quale questa deve essere ricercata, non è giunto in questo punto a conclusioni chiare e decisive.

Un'esposizione di Kant, che fosse esclusivamente storica, avrebbe qui il dovere di prendere in esame le sue successive oscillazioni, le sue formulazioni spesso diverse anzi inconciliabili, e cercare di ricostruire, se non una concezione unitaria, una storia dell'atteggiamento del pensiero kantiano rispetto a questo problema. È questa una ricerca che non è ancora stata fatta se non in parte: ma noi dobbiamo qui lasciar da parte queste minuzie più filologiche che filosofiche e cercare invece di delineare con chiarezza le linee fondamentali della soluzione kantiana, sia in ciò che ha di valido e di definitivo, sia in ciò che ha di oscuro e d’incompleto.

La seconda circostanza è l’incertezza della terminologia. Arbitrio, volontà, libertà, ecc. sono parole che spesso Kant usa in sensi diversi: ed anche qui, sebbene possediamo più dizionarii dell’uso kantiano, una chiara esposizione di queste oscillazioni terminologiche non è stata ancora data.

La distinzione fondamentale che deve essere subito posta è quella fra libertà nel senso d’indipendenza da coazioni esteriori, e libertà morale.

Kant denomina Willkür la libertà nel primo senso (arbitrio), Wille (volere) la libertà nel secondo. Ancora nell’arbitrio possiamo distinguere due gradi. L’animale è libero nel senso che è determinato da elementi interiori, che sono gli stimoli sensibili: l’uomo può resistere a questi stimoli ed essere determinato da concetti generali, da momenti astratti: cioè può essere determinato (la terminologia di Kant non è qui del tutto propria) dalla ragione, pur non essendo ancora moralmente libero.

Kant chiama l’arbitrio nel primo caso arbitrio sensitivo, patologico (determinato dalle affezioni sensibili, pathos), arbitrium brutum. L’arbitrio nel secondo caso, la facoltà cioè di determinarsi in base ad elementi interiori, indipendentemente dagli impulsi immediati della sensibilità, è l'arbitrium liberum, freie Willkür, la libertà che potremmo dire pratica. Questa libertà che caratterizza l’uomo in genere non è che la facoltà di dominare i propri impulsi ed agire secondo principii generali: ma è per sè moralmente indifferente, perchè può essere ed è generamente al servizio di tendenze sensibili costanti. Questa è la libertà con cui ha da fare il diritto: che non è se non il complesso delle condizioni sotto cui il libero arbitrio dell’uno può coesistere con quello dell’altro secondo norme generali, le quali, appunto perchè tali, superano la determinazione empirica dell’arbitrio individuale, e sono l’educazione alla vera libertà, che è la libertà morale. La vera libertà è la libertà morale che sta nel determinarsi esclusivamente secondo la legge, ossia secondo principii razionali puri (non più subordinati ad alcuna tendenza empirica). È chiaro che la libertà in questo senso è qualche cosa di tutt’altro.

La libertà dell'arbitrio libero è libertà di fronte all’impulso: ed in ciò ha già qualche cosa di umano e di nobile: ma è pur sempre, di fronte alla condotta morale razionale, determinazione empirica. La libertà morale invece è determinazione razionale pura. Perciò in un passo della Metafisica dei costumi «Dottrina del diritto» (ediz. Vorl., pag. 29-30) Kant dice che la volontà morale non può dirsi libera nè non libera: il che è vero prendendo la parola libero nel senso che si dice libero arbitrio dell’uomo.

Ancora bisogna, rispetto alla libertà morale, distinguere il concetto speculativo della libertà (la libertà trascendentale) dal concetto pratico. Il primo è quel concetto del tutto negativo ed astratto della libertà a cui ci ha condotti la critica della ragione teoretica: il secondo è il conceto concreto e vivente della libertà che troviamo in noi quando operiamo moralmente, sebbene esso non sia teoreticamente determinabile nell’esperienza. L’uno corregge e completa l’altro.

Il punto fondamentale dal quale Kant parte nella trattazione di questo gravissimo problema, che appartiene già più alla metafìsica che non alla morale, è questo: che esso ci pone inizialmente dinanzi ad un dilemma al quale non sembra possibile sfuggire. Da una parte infatti la legge della causalità naturale non soffre eccezione alcuna, non soltanto nel mondo fìsico (al quale appartengono le nostre azioni esterne), ma anche nel mondo interiore, che è pur esso natura, cioè successione di fenomeni collegati causalmente: un oggetto che non fosse sottomesso a questa legge sarebbe un oggetto immaginario, una chimera (Critica rag. pura, ed. Valent., p. 476). Quindi anche le azioni del soggetto umano debbono essere concatenate causalmente: su questo non cade alcun dubbio.

D’altra parte vi sono fatti della coscienza che esigono imperiosamente la libertà umana: la moralità non è possibile senza libertà: continuamente Kant insiste sul fatto che la sua filosofia critica, eliminando il determinismo meccanico e il fatalismo, salva la possibilità della vita morale.

«Si non est Dei gratia, quomodo salvat mundum? Et si non est liberum arbitrium quamodo judicat mun~ dum? (Agostino). Anzi noi abbiamo veduto che la volontà morale consiste appunto nell’autonomia della ragione, nel fatto che per essa il soggetto non è più determinato da alcun movente sensibile. Ora, come si conciliano queste due esigenze?

La filosofìa anteriore a Kant accettava il dilemma e lo risolveva nell’un senso o nell’altro: in ogni caso l’una esigenza era sempre sacrificata all’altra. Kant invece lo risolve col mostrare che l’una e l’altra esigenza sono vere, ma ciascuna sotto un punto di vista diverso.

La critica della ragione teoretica ci apprende che il mondo in cui viviamo (esterno come interno) non ha un carattere assoluto, non è una cosa in sè, ma è una parvenza fenomenica collegata dalle forme a priori del nostro intelletto: e che questo mondo di fenomeni non è che la traduzione nostra, umana d’una realtà a noi inconoscibile.

La legge di causalità è una legge a priori dell’intelletto, costitutiva dell’esperienza, perciò condizione d’ogni realtà fenomenica: perciò nel mondo fenomenico tutto è concatenato causalmente e non vi è posto per la libertà. Ma nella dialettica Kant ci mostra che questa concatenazione causale, se applicata alle cose in sè, conduce a conseguenze assurde: essa non è se non la forma umana per mezzo della quale il nostro intelletto apprende l’unità universale del divenire e la sua identità perenne. Portata al limite, intesa come causalità assoluta, la causalità non è perciò più dipendenza necessaria, ma identità costante con se stessa, negazione d’ogni dipendenza estranea, libertà. La cosa in sè (e noi come appartenenti alla cosa in sè) non cade perciò sotto la legge causale, ma è spontaneità assoluta, libertà.

Quindi anche il nostro io è nel suo essere assoluto qualche cosa di autonomo e di libero, sebbene l’attività sua come essere fenomenico sia causalmente concatenato: il fondamento intelligibile del nostro essere è libero. Questo concetto però è un puro concetto limite, un’idea della ragione, non una conoscenza concreta: è quello che Kant chiama il concetto trascendentale della libertà. Esso ha lo stesso valore del concetto del noumeno: è la pura e semplice negazione che la concatenazione causale della nosta attività sia qualche cosa che tocca il nostro essere assoluto.

Tale affermazione però non avrebbe per sè che un semplice valore limitativo e la libertà rimarrebbe una pura astrazione filosofica se le esigenze morali non ci costringessero a fare appello a questa mera possibilità, e non la traducessero per noi in una realtà vivente. Questo non vuol dire che la libertà ci sia data, o possa esserci data, nella vita morale come un’esperienza psicologica interiore: anche la nostra attività morale, sotto l’aspetto obbiettivo, è così concatenata causalmente come lo sono tutti i fatti dell’esperienza in generale. L’esperienza della libertà ci è data in questo senso, che noi abbiamo coscienza della nostra subordinazione alla legge morale: ora questa ha per condizione necessaria la libertà. L’uomo che si risolve, per dovere, ad una decisione che la legge gli impone, sa che, per quanto questa decisione si riattacchi a cause psicologiche naturali (la reverenza alla legge, ecc.), il vero momento sostanziale dell’atto suo non risiede più in questa concatenazione, ma in una spontaneità agente dal più profondo essere suo; la quale si traduce bensì per una concatenazione causale, ma non è diretta e determinata da questa, che anzi la dirige e la determina nel senso da essa richiesto.

L’uomo è un essere che appartiene a due mondi: è un essere intelligibile, la cui vita si solge nell’ordine sensibile. Considerato neH’ordine sensibile l’uomo è un essere naturale come qualunque altro, soggetto alla legge di causalità: anche quando la sua volontà si subordina alla ragione, essa è determinata, sotto questo aspetto, da inclinazioni e tendenze empiriche: anche nell’atto morale non vi è la minima interruzione del determinismo naturale. Ma questa concatenazione determinata non è un ordine assoluto, è una traduzione: il testo, la volontà operante in sè, fuori delle forme del tempo e delle cause, è una spontaneità assoluta: perciò quando l’uomo intravvede, per così dire, attraverso la propria natura sensibile la legge dell’unità intelligibile e con essa identifica l’essere proprio, egli cessa di riconoscersi nell’attività operante causalmente e si riconosce nella sua spontaneità assoluta; pure seguitando ad apprendersi per esperienza come una specie di meccanismo fisico, si riconosce (non si apprende) come volontà libera. Le sue azioni nel loro significato razionale vengono da lui ricondotte a questa volontà come al loro principio, alla loro causa libera.

In questo modo Kant crede di poter conciliare le esigenze intellettive della determinazione universale, con le esigenze morali. La libertà non è quindi per Kant (almeno nell’ordine fenomenico) libertà d'indifferenza fra i contrarii, della quale egli aveva già mostrato gli assurdi nella Diluciatio nova del 1755. Ma nemmeno essa è determinazione di motivi interni dell’ordine intellettuale (freie Wilkür): ciò sarebbe come chiamare libero un orologio perchè va da sè, senza urti esterni. La libertà è secondo Kant attività conforme alla ragione: attività libera ed attività razionale sono la stessa cosa. Libera in vero e proprio senso dovrebbe essere perciò soltanto l’attività degli esseri intelligibili puri: la libertà è invece per noi un ideale che noi realizziamo solo più o meno perfettamente quando diamo alla concatenazione dei nostri atti sensibili la forma di un ordine intelligibile, la forma dell’universalità razionale.

Ma allora soltanto gli atti morali dovrebbero essere liberi. Kant non ha certo derivato questa conclusione: ma essa discende dalle premesse poste nella sua «Fondazione» ed è anche conforme al suo modo di esprimersi nei Prolegomeni (trad. ital. Bocca, 1913, pag. 120). Kant anzi ha indietreggiato dinanzi a questa conclusione. Se la libertà è la legge dell’intelligibile e in questo regna la necessità di un ordine divino, l’uomo nell’operare moralmente non fa che obbedire alla neces, sita divina del bene. Ora, questa conseguenza ha un colore panteistico che Kant non poteva approvare. Inoltre: donde vengono allora le azioni non morali?

Qualcuno dei primi discepoli di Kant, che cercò di sistematizzare in questo punto la sua dottrina, riconobbe che allora dobbiamo riconoscere un’altra causa agente nell’uomo. Quale è questa causa che offusca la ragione ed assoggetta le sue leggi agli impulsi irrazionali del senso? E. Schmidt nel suo «Saggio d’una filosofia morale» (3ª ed., 1795) in cui segue fedelmente Kant, attribuisce l’azione non morale all’influenza dell'intelligibile che è a fondamento della realtà sensibile. Egli introduce cioè nell’intelligibile una specie di dualismo: vi è un intelligibile che è ragione ed un intelligibile che non è ragione (l’in sè delle cose materiali) e l’uomo soggiace nella sua condotta, noi non sappiamo perchè, all’azione ora dell’uno, ora dell’altro. Non è il caso di arrestarsi ad interpretazioni così superficiali della teoria kantiana dell’intelligibile: esse ci mostrano però perchè Kant dovesse scostarsi da questa dottrina che pure è la diretta conseguenza dei suoi principii: se per l’operare morale essi conducono ad un fatalismo intelligibile, per l’operare non morale conducono a cercarne l’origine in un principio estraneo al nostro io: il che non potrebbe conciliarsi con l’imputabilità. Perchè «moralmente cattivo (e perciò imputabile) è soltanto ciò che è nostra opera» (Die Religion, ecc., ediz. Vorländer, pag. 31).

È comprensibile perciò che Kant abbia volto verso un’altra teoria che è svolta specialmente nella Critica della ragion pratica e nella «Religione nei limiti della ragione»: teoria che in realtà è una deviazione dai suoi principii ed una concessione al concetto volgare della libertà e dell’imputabilità. La libertà è ragione: ma la ragione può essere ragione autonoma, principio della moralità o ragione pervertita, subordinata contro la sua natura al senso: l’atto umano può quindi essere razionale e libero senza essere morale.

La libertà che sta a fondamento dell’attività sensibile non è una ragione necessariamente conforme alla ragione ideale, ma è un atto intelligibile con cui l’essere nostro intelligibile dà a sè stesso la sua legge, con cui elegge un sistema di massime, buone o cattive, che saranno il fondamento della sua vita sensibile. Vi sono, dice Kant, degli uomini che mostrano sin dall’infanzia un carattere così perverso che esso si rivela come una loro natura, impossibile a spiegarsi o correggersi: e tuttavia noi li riteniamo responsabili ed essi stessi hanno coscienza di questa loro responsabilità.

«Ora, ciò non sarebbe possibile senza presupporre che tutto ciò che deriva dalla loro volontà ha per fondamento una causalità libera, la quale esprime il suo carattere nei suoi fenomeni (nelle azioni); questi ci rivelano, per la omogeneità della condotta, una connessione naturale, senza che perciò questa renda necessaria la disposizione malvagia del volere: essendo questa connessione niente altro che la conseguenza dei principii malvagi ed immutabili che sono stati adottati liberamente e che la rendono altrettanto più detestabile e meritevole di pena» (Crit. rag. prat., ediz. Vorl., pagina 128-129).

A questo concetto della libertà Kant conforma la sua teoria del carattere intelligibile che è già abbozzata nella Critica della ragion pura, ediz. Valent., pag. 473 e seg.).

Kant chiama carattere la legge secondo la quale una causa agisce: quindi poiché nell'uomo si esplica nella serie delle sue azioni causalmente concatenate una legge costante (la costanza delle reazioni agli stimoli, ecc.), abbiamo in lui un carattere sensibile: poiché in questa concatenazione si traduce l’azione costante della natura intelligibile operante secondo le sue leggi, abbiamo in lui un carattere intelligibile, di cui il primo è la manifestazione fenomenica.

Questo non vuol dire che l’uomo abbia un duplice carattere: è un unico carattere da due punti di vista diversi. L’uomo come essere intelligibile vuole la sua condotta nella sua totalità e la fissa nelle sue massime: ecco il carattere intelligibile. Nel mondo fenomenico poi questa volontà così determinata si esplica in una serie di atti per i quali l’uomo reagisce causalmente alle sue massime, secondo quell’indirizzo costante che è fissato nelle sue massime: ecco il carattere empirico. La volontà che si esprime nel carattere intelligibile è dunque una affermazione originaria e libera che si traduce poi, attraverso alla concatenazione degli atti fenomenici, in quella disposizione costante, in quella attitudine personale caratteristica, che costituisce il carattere empirico. Per questo atto di libertà originaria l’uomo è responsabile delle sue azioni, per quanto esse formino un tutto concatenato: perchè una diversa posizione intelligibile avrebbe dato una diversa serie empirica.

Non è però opinione di Kant che questo carattere intelligibile sia immutabile: perchè altrimenti qual senso avrebbe la voce del dovere? Egli riconosce che questo mutamento è per noi inesplicabile: ma se il dovere ci impone di renderci sempre migliori, questo deve essere possibile (Die Religion, ediz. Vorl., pag. 48).

Tale mutamento infatti non deve solo essere un mutamento dell’abito esteriore, ma una rivoluzione, una rinascita interiore per effetto della quale il principio supremo delle massime, che costituiscono la volontà malvagia, dev’essere radicalmente mutato. È mutato nel senso che la ragione, la quale prima era schiava del senso, deve essere restituita nella sua prima autonomia, in modo anzi da poter imporre la sua legge agli appetiti del senso.

Con questa teoria del carattere intelligibile e della sua decisione inesplicabile, Kant ha fatto una concessione notevole alla libertà d’indifferenza, che pure egli nega nell’ordine empirico. È superfluo osservare che questa teoria, così come egli la enuncia, è inconciliabile con i suoi principii. Di più essa non serve nemmeno ad evitare quegli scogli che Kant voleva con essa evitare. Egli temeva, identificando la libertà e la moralità, di cadere in una specie di fatalismo intelligibile: nella volontà buona opera non l’uomo, ma Dio; come per converso nella volontà malvagia opera non l’uomo, ma il principio oscuro da cui nasce la vita nel senso. Ora, a questa stessa conclusione è costretto a giungere se si pensa che anche l’unità intelligibile fa parte d’un ordine che dipende essenzialmente dalla natura divina.

Nè Kant è così cieco da illudersi che un essere creato possa essere libero. L’attività umana non sembra così davvero condannata al fatalismo teologico?

Kant dà a questa difficoltà una risposta della quale egli stesso non si nasconde l’intrinseca debolezza (Crit. rag. prat., ediz. Vorl., pag. 129 e seg.). La creazione, egli dice, riguarda i noumeni, non i fenomeni. Se riguardasse anche i fenomeni l’ordine spaziale e temporale sarebbe una creazione di Dio: il fatalismo sarebbe inevitabile.

Sembra invece a Kant che la libertà sia salvata in quanto l’ordine spaziale e temporale, come parvenza fenomenica, riceve dai principii intelligibili il loro contenuto, è la loro creazione libera: in quanto, pur restando inalterata la connessione causale, questa può mutar carattere in dipendenza della conversione del principio intelligibile. Ma questo vuol dire dotare di libertà i principii intelligibili creati: cioè lasciare sussisere la difficoltà in tutta la sua forza: Kant non la risolve meglio dei teologi. E questo perchè anche qui il pensiero di Kant, che pure aveva introdotto un mutamento cosi profondo rispetto alla concezione fondamentale, è ancora troppo imbarazzato dal rispetto della tradizione per affrontare e risolvere radicalmente le difficoltà che gli provenivano nel campo teologico e metafisico.

Comunque del resto si debba determinare il principio della soluzione kantiana, resta a sciogliere ancora una seconda difficoltà; la cui soluzione è pure da Kant vagamente accennata, non esplicitamente proposta. I no. stri atti sono determinati dalle loro cause empiriche in modo invariabile: come possiamo allora ammettere ancora che a fianco e per così dire al di là esse operi in noi il principio noumenico, la ragione?

Io opero moralmente in un determinato caso : allora in me agisce la volontà razionale, cioè un principio intelligibile, noumenico. Ma come può dirsi allora che operi la concatenazione sensibile? E supposto che la concatenazione sensibile esiga da me in un dato caso un atto impulsivo, che cosa vi può la ragione? E se nulla può, dove va la libertà?

Certo non bisogna anzitutto concepire Fazione dell'intelligibile come un fattore che s’inserisca nella concatenazione empirica. Kant ripete spesso con chiarezza ed energia che tutte le azioni dell’uomo sono predeterminate dal suo carattere empirico e dalle cause naturali esterne, in modo che se avessimo una sufficiente conoscenza di questi fattori, noi potremmo predirne il risultato con matematica precisione e sicurezza. Anche i mutamenti del carattere empirico devono essere, dal punto di vista empirico, perfettamente predeterminati dalle loro cause naturali.

L'azione dell’intelligibile deve concepirsi come una azione immanente alla concatenazione empirica, che è presente nella sua unità a tutta la serie. Quando perciò Kant definisce la libertà come la facoltà d’iniziare da sè una serie causale, dobbiamo vedere anche qui una disgraziata concessione al linguaggio convenzionale. L’azione intelligibile è fuori del tempo e non può essere pensata come l’antecedente nel tempo d’una serie causale qualunque. In secondo luogo bisogna pure ammettere che nella conversione dal male al bene deve aver luogo non solo un atto intelligibile, ma anche un corrispondente mutamento nella connessione degli atti empirici. Sotto questo aspetto perciò s’inizia qui qualche cosa di nuovo, si ha un inizio assoluto: mentre pure sappiamo che la serie causale non deve presentare alcuna lacuna, alcun fattore che sorga come per incanto dal nulla. Ora come è possibile questo?

Nella Critica della ragion pratica (ed. Vorl., p. 123) Kant pone esplicitamente il problema. Un ladro sta per commettere un furto: e ciò è predeterminato. Può non commetterlo? Se può, che cosa resta della concatenazione causale necessaria? E se non può che resta della sua libertà? Ora, risponde Kant, se con la domanda si chiede se, restando immutato tutto il resto, il ladro avrebbe potuto omettere quel solo atto, la domanda è assurda. Il ladro potrebbe omettere non quell’azione sola, ma tutta la condotta sua nel suo complesso.

La coscienza morale ci offre delle considerazioni che confortano questo modo di vedere. Anche quando noi siamo riusciti a spiegarci qualche nostro fallo per via dell’abitudine o d’altri antecedenti che lo rendevano necessario, non per questo ci sentiamo liberi dal rimorso. E qual senso avrebbe del resto il rimorso se ciò che è stato è immutabile?

Noi sentiamo nel rimorso il passato come qualche cosa di presente: ciò che il rimorso vorrebbe mutare è la posizione fondamentale da cui dipende tutta la concatenazione della nostra vita.

Ma può allora questa concatenazione diventare un altra ? Kant non risponde esplicitamente a questa domanda: ma la risposta discende chiaramente dai presupposti. La concatenazione causale empirica non è una realtà assoluta: è una parvenza, necessariamente concatenata sempre, che ha il suo fondamento nello spirito. Quando agisce in noi la volontà buona, questa non implica che la concatenazione dei momenti empirici subisca un’interruzione: anche l’interesse morale, il senso della reverenza s’inserisce in questa concatenazione. Ma gli elementi di questa concatenazione non sono realtà assolute: lo spirito crea in ogni momento a sè il suo mondo con la sua necessità ed il suo infinito passato.

La volontà morale porta con sè il suo nuovo mondo: il presente con tutti i suoi antecedenti diventa un altro. Questo è in breve, l’unica soluzione possibile del problema della libertà nel senso dell’idealismo critico.

CAPITOLO XIX.
IL VALORE METAFISICO DEL FATTO MORALE

Il problema della libertà ha nel sistema kantiano una posizione singolare: esso segna la conclusione della sua filosofìa morale ed il passaggio dalla morale alla metafisica. Laddove in generale, nella morale metafìsica, si parte da premesse metafisiche cioè da credute conoscenze intorno a Dio, alla nostra natura, ed al nostro posto nel mondo per derivarne teoreticamente come una conseguenza il fatto morale, Kant avendo escluso che noi possiamo avere una conoscenza qualunque delle realtà metafìsiche, considera la coscienza del dovere come l’unica e vera rivelazione metafisica, come la sola conoscenza (però di carattere pratico) che noi abbiamo dell’intelligibile. Determinate poi, partendo da questo punto di vista, la natura ed il contenuto della legge, Kant riconosce che essa presuppone la libertà e si propone così il problema della conciliazione della libertà (che è una esigenza della legge morale) e della concatenazione causale (che è un’esigenza del pensiero scientifico).

La soluzione è data a Kant dal richiamo alle conclusioni ultime della sua storia della conoscenza secondo le quali il mondo dell’esperienza è solo una realtà fenomenica, la quale deve avere il suo fondamento in un regno d’esseri spirituali puri, liberi e raccolti in una unità perfettissima: regno che però noi non possiamo conoscere se non per queste designazioni negative che lo stesso esame della realtà empirica ci impone. Il fondamento della nostra vita morale sta dunque veramente nella nostra vita come esseri intelligibili che vi partecipa come forma alle nostre attività sensibili: questa atti-vita formale che s’impone alla nostra vita sensibile e la plasma senza lederne la concatenazione causale, è anche il regno della nostra libertà.

Con questo è assolto il compito della filosofìa morale. La nostra vita morale (e per questa bisogna intendere tutto il regno delle attività spirituali superiori) è l’apice della nostra vita, la rivelazione iniziale in noi di una natura superiore alla quale per il nostro vero essere apparteniamo. Si capisce da qui come in fondo morale e religione per Kant coincidono: la vera religiosità non ha altro contenuto che la vita morale nella sua purezza, e l’atto morale considerato nella sua realtà vera di partecipazione all’intelligibile ha un carattere religioso.

Ma appunto per questo che l’atto morale è l’apice della vita e la partecipazione iniziale all’intelligibile, esso ha anche un profondo significato metafìsico: è quel punto della realtà (e il solo) nel quale noi riusciamo a penetrare, confusamente quanto si vuole, al di là di questa rete di apparenze ed a venire in qualche modo a contatto con la realtà vera delle cose. La sua soluzione del problema morale diventa perciò per Kant il fondamento della sua metafisica: la quale, come ben è naturale, non potrà pretendere di essere vera conoscenza assoluta, ma avrà chiara coscienza di essere solo un’immagine umana del mondo, la più alta immagine possibile, fondata su quella imperfettissima rivelazione dell’intelligibile che noi abbiamo nella coscienza della legge, cioè sarà una fede morale.

Kant non confessa di avere una metafisica e considera questa fede come stabilita unicamente in servizio della pratica morale: in realtà egli lascia volontariamente nell’ombra questo aspetto metafisico del suo pensiero, che deve invece venir messo in luce come una conseguenza indeclinabile delle sue premesse.

Il concetto kantiano della forma a priori ha in realtà anche un senso metafìsico, che lo connette con l’antico concetto aristotelico. La distinzione di materia e forma è inséparable dalla distinzione di gradi nella realtà: la partecipazione d’una forma non è che la partecipazione iniziale d’una realtà più alta: la realtà superiore penetra nella realtà inferiore come principio d’unità di dover essere, come forma e vi introduce una necessità alla quale la realtà inferiore non può ribellarsi senza contraddire se stessa, perchè la forma non è se non la manifestazione iniziale della sua vera realtà. La forma rappresenta inizialmente una realtà che trascende quella realtà la quale serve ad essa di materia, ossia raccoglie in una forma superiore di realtà tutte le possibili manifestazioni della realtà inferiore, è la totalità assoluta di questa realtà. I principii formali dell'intelletto e della ragione esprimono la natura più profonda dell’esperienza stessa: perciò l’esperienza appare per essi verità di fronte al caos delle impressioni; e perciò la loro negazione è la negazione dell’esperienza stessa nella sua costituzione più essenziale e viene subito alla luce per mezzo d’una contraddizione logica, che è un’autonegazione dell’esperienza. E cosi i principii formali della volontà esprimono la legge essenziale della attività umana, costituiscono dalla dispersione dell’agire impulsivo una linea di condotta, una subordinazione di valori: la loro negazione esplicita è la negazione dell’unità in virtù dell’unità stessa, è la negazione razionale della razionalità: ossia una contraddizione.

Ma appunto per questo la forma è anche conoscenza, inadeguata quanto si vuole, di quella realtà trascendente la quale si rivela a noi appunto per la sua azione formale. Certo la forma per sè sola è vuota ed acquista un senso solo per l’addizione del materiale empirico: quindi non può mai essere per sè una vera e propria conoscenza. Ma essa ci rinvia quanto meno ad un’altra realtà, è quanto meno una conoscenza simbolica: in particolare la legge morale come forma ci rinvia ad un mondo superiore al mondo sensibile nel quale ciò che qui è legge è natura: questo è quel mondo che Kant chiama il mondo noumenico, intelligibile e che in qualche parte assimila al mondo delle idee platoniche (Crit. rag. pura, ediz. Valent., pag, 495). L’attività morale ha quindi un senso immanente e cioè quello di dare una forma razionale, coerente alla nostra vita : ma ha anche un altro compito che è quello di introdurci in una realtà superiore alla quale patecipiamo, pur senza essere in grado di determinarla più precisamente. In questo senso Kant può dire che la morale è una «metafisica oscuramente pensata».

Il senso del dovere scaturisce appunto dal valore metafisico di questa realtà superiore nella quale sentiamo consistere il nostro vero io e di fronte a cui tutta la realtà sensibile, che ne è solo il fenomeno, cioè la rivelazione inadeguata, perde ogni consistenza ed ogni valore. Certo questa realtà superiore si rivela a noi solo formalmente : in quanto cioè impone ad una realtà inferiore un principio superiore verso il quale questa si orienta senza alcun turbamento dei suoi rapporti interni. Per sè essa non ha alcun contenuto teoretico concreto: essa ci è rivelata solo come una legge: ma in ogni modo basta anche questa semplice rivelazione pratica per dare a tutto il mondo un tutt’altro senso, per darci la sicurezza di una realtà spirituale pura, rispetto alla quale tutta la realtà empirica è determinata nel suo valore. Noi acquistiamo allora la coscienza di essere destinati per un mondo del tutto diverso dal presente: la ragione è precisamente in noi la rivelazione iniziale di questo mondo soprasensibile.

Questa specie di platonismo secreto è lo sfondo di tutto il pensiero kantiano. Esso traspare già nell’operetta «I sogni d'un visionario» dove è abbastanza evidente che la condanna da Kant pronunziata contro Swedenborg colpisce più la forma che la sostanza. Kant non vuole che la conoscenza di questa realtà soprasensibile sia introdotta come scienza, come sapere obbiettivo: è questa pretesa che provoca la sua ironia cosi contro il visionario svedese, come contro i metafisici.

Ma le stesse teorie sono altamente rispettabili quando sono presentate come una fede pratica, vale a dire come una concezione che discende come un corollario dalla posizione della legge morale e che perciò esprime una verità, ma nello stesso tempo sa di esprimerla in una veste che, come tale, non può essere letteralmente considerata come vera. Di qui anche in Kant, come in Platone, quel misto di ironia e di pathos, il quale esprime come in dette rappresentazioni siano inscindibilmente mescolate la verità in sè e l’elemento soggettivo: in modo che resta impossibile determinare dove l’una finisca e l’altro cominci.

Nella Fondazione Kant chiama questo mondo intelligibile il regno dei fini: perchè esso è il regno della ragione nella sua purezza: dove ogni essere ha una natura razionale pura e perciò è fine a sè, in contrapposizione al regno della natura.

Altrove lo chiama il mondo morale, il regno della grazia: ma si tratta sempre di determinazioni negative che implicano il concetto d’un altro ordine e d’un’altra realtà, che esiste solo per la ragione e che la nostra ragione deve necessariamente porre senza però poter pretendere di conoscerlo obbiettivamente. L’uomo appartiene, come essere morale, simultaneamente ai due mondi: al mondo empirico per il senso e l'intelligenza, al mondo intelligibile per la ragione.

Il mondo empirico è, come sappiamo, una costruzione dell’intelletto umano che stringendo il molteplice delle intuizioni in rapporti necessarii validi per tutte le intelligenze, crea un mondo comune a tutte le intelligenze: che è il mondo dell'esperienza e della scienza. Questa attività teoretica ha il suo parallelo pratico nell’attività svolgentesi come libertà pratica, che persegue sempre ancora fini empirici, ma secondo massime generali, sottratte all’impero brutale degli impulsi; questa è l’attività umana che ha dato origine a tutte le arti le quali servono al raffinamento dell’esistenza sensibile, che ha dato all’uomo il dominio della realtà e così ha reso possibile lo svolgimento della coltura spirituale. Questa è la fase che potremmo dire intellettiva o (secondo Kant) dello spirito teoretico: perchè in essa lo spirito crea un sapere obbiettivo che vale certamente solo della realtà fenomenica, ma è il solo sapere obbiettivo a noi accessibile. Se l’uomo non fosse che intelletto, egli starebbe pago della realtà dell’esperienza e non avrebbe aspirazioni che la trascendono. Ma in lui all’intelletto si aggiunge la ragione, che è aspirazione a trascendere il dato fenomenico, a penetrare fino alla realtà assoluta. Questo progresso però non avviene, secondo Kant, per mezzo del conoscere; il quale nel suo più alto sforzo non giunge che a mettere in luce l’insufficienza della realtà empirica ed a giustificare così negativamente l’esigenza di trascenderla.

Il progresso avviene per la vita morale che è subordinazione delle attività sensibili ad una forma intelligibile : la moralità realizza nel campo pratico quell’aspirazione che la ragione teoretica vanamente persegue nelle idee. Certo non può dirsi che la moralità introduca l’uomo nell’intelligibile: ma mentre nella conoscenza l’esperienza non si trascende mai che negativamente (secondo Kant), nella moralità abbiamo un contatto positivo con l’intelligibile. Perciò la fase razionale può anche essere detta fase dello spirito pratico (primato della ragion pratica).

Nonostante questa dualità la vita dello spirito non cessa però di costituire una totalità unica e continua; in ambo le fasi essa è sempre essenzialmente attività formatrice diretta verso l’intelligibile. L’attività teoretica deirintelletto, in quanto subordina le impressioni alle forme intellettive, ci rinvia già essa stessa indirettamente verso la realtà intelligibile: essa segna una specie di compromesso fra l’originaria natura sensibile dell’uomo e quella natura intelligibile pura che è come il limite ideale dell’intelletto.

Creando il mondo dell’esperienza essa non assoggetta soltanto all'uomo la realtà sensibile, ma prepara, per mezzo di questo dominio tutto materiale, la possibilità dela cultura razionale e della vita morale. E così la ragione pur rinunciando ad estendere le sue conoscenze sull’intelligibile, conferma positivamente quei risultati negativi della critica che sono come il limite dell’azione intellettiva: e nella moralità compie quel processo di razionalizzazione della vita che già s'inizia nella libertà pratica.

La filosofìa di Kant acquista così un carattere metafisico, religioso, che ravvicina al platonismo. Il criticismo nel suo complesso (scrive il Paulsen «Immanuel Kant», 6“ ediz., pag. 300) si pone anche qui come un nuovo metodo per fondare una metafìsica platonica.

La novità ed il merito di Kant di fronte alle forme antiche del platonismo sta in questo: nell’avere ripudiato tutte le dubbie speculazioni trascendenti, tutte penetrate ancora in fondo da preoccupazioni e concezioni teologiche, nell’aver posto in tutto il suo rigore l’esigenza critica di una eliminazione di tutti gli elementi empirici del trascendente, e nell’avere mostrato che solo in noi, nelle attività più alte dello spirito, possiamo avere non una rivelazione immediata dell’intelligibile (che è sopra le facoltà nostre), ma un riflesso, una rivelazione formale di questo mondo superiore. Così egli liberava definitivamente la filosofia dall’empirismo, il quale non vede come la realtà data non abbia altro compito che di rinviarci ad una realtà più profonda e dal sopranaturalismo che con le sue concezioni inadeguate di questa realtà superiore, ne travolge il concetto in speculazioni fantastiche ed arbitrarie, ed è così il più sicuro alleato dell’empirismo più grossolano, del materialismo teorico e pratico.

CAPITOLO XX.
LA FEDE MORALE

Per questo valore metafisico delle affermazioni della ragion pratica, questa si trova per un lato in accordo, per un lato in dissidio con la ragion teoretica. Si trova in accordo in quanto essa conferma le conclusioni della ragion teoretica circa l’esistenza d’una realtà noume-nica; in disaccordo in quanto essa conduce inevitabilmente la nostra mente a posizioni ed affermazioni che la ragion teoretica dichiara illegittime.

Questo disaccordo non è, nè può essere però una opposizione: perchè in fondo la ragione è una sola e la distinzione fra ragion pratica e teoretica è una distinzione delle sue applicazioni, non una distinzione fra ragione e ragione.

Non vi è opposizione infatti perchè le conclusioni alle quali la ragion pratica ci conduce sotto l’aspetto metafisico, non contraddicono alle conclusioni della ragion teoretica, ma sono soltanto per essa ingiustificate.

Dobbiamo ora noi stare fedeli alle limitazioni della ragion teoretica od accogliere le conclusioni metafisiche della ragion pratica e cercare di conciliarle con le prime?

Il dissidio deve evidentemente essere composto nel senso favorevole alla ragion pratica. Se la coscienza della legge implica la realtà pratica della libertà, questa cessa di essere una pura limitazione negativa del meccanismo empirico e deve essere posta come una realtà positiva e vivente. Così si dica delle altre idee che cessano di essere pure negazioni e diventano affermazioni positive relative al soprasensibile. Se la realtà loro è una condizione indeclinabile del valore della legge e questa è un fatto della ragione, è chiaro che la ragion teoretica non può respingere i principii relativi alla realtà delle idee e soltanto cercare di conciliarli con le sue affermazioni, egualmente indeclinabili, dei limiti del nostro conoscere.

La questione è quindi questa: come è possibile questa conciliazione? Da un lato sta fermo il principio che nessun’estensione del nostro conoscere nel trascendente è possibile: quindi nessun’esigenza della ragion pratica può condurci a negare od a dimenticare questa conclusione della ragion teoretica. D’altro lato è, dal punto di vista pratico, assolutamente necessario che noi assumiamo la realtà obbiettiva della libertà e delle altre condizioni della possibilità della legge, e che noi le esprimiamo in qualche modo per mezzo di concetti i quali ci rendono possibile di pensarle; senza di che non avrebbero nemmeno quel valore e quell’efficacia pratica che esse debbono avere. Come è possibile assicurar loro questa realtà obbiettiva senza estendere i confini della speculazione al di là dell’esperienza?

Noi dobbiamo assumerne la realtà solo nel rispetto nostro, secondo ciò che è per noi ed esprimerla per mezzo di concetti i quali esprimono appunto ciò che è nel rapporto pratico con noi, senza aver la pretesa di determinarla teoreticamente così come in sè. Questo è il conoscere che Kant chiama analogico (o simbolico): il complesso delle nostre conoscenze analogiche relative al mondo trascendente e delle conoscenze che ne derivano, costituisce la fede morale. Queste affermazioni pratiche le quali condizionano per noi la legge morale (non nel senso che la legge morale dipenda da esse, ma nel senso che essa le implica logicamente come necessarie) sono fatte corrispondere da Kant alle tre idee della ragione e sono: l’affermazione dell’anima come essere immortale, dell’esistenza d’un mondo di esseri spirituali liberi, dell’esistenza d’un principio spirituale supremo che è il principio di ogni realtà, cioè Dio.

Considerate sotto l'aspetto di esigenze necessarie della legge costituiscono ciò che Kant denomina i tre postulati della ragion pratica.

Questi sono dunque presupposti dettati da una necessità pratica della ragione; che pur riconoscendo di non essere nel vero e proprio senso conoscenze speculative, costituiscono altrettante affermazioni della realtà obbiettiva dei loro oggetti trascendenti: ma li esprimono per mezzo di concetti inadeguati, coi quali vogliono solo rendere il rapporto pratico con noi, non la realtà metafisica come è in sè.

Cosi noi possiamo pensare la nostra anima come immortale esprimendo simbolicamente questa realtà con l’inadeguato concetto di un persistere dopo la morte: concetto che è evidentemente attinto dalla realtà empirica, e tuttavia è per noi la migliore rappresentazione simbolica dell’eternità dell’essere nostro, in quanto noi dobbiamo in qualche modo pensare positivamente quest’eternità per i nostri fini pratici.

Così pure possiamo simbolicamente pensare la realtà come un regno spirituale di esseri liberi, come di esseri capaci di iniziare da sè un’attività non predeterminata dai suoi antecedenti: per quanto un simile concetto della libertà non sia evidentemente che il concetto stesso dell’attività empirica, ma pensata come indipendente dai suoi antecedenti che la rendono necessaria. E così infine possiamo pensare la ragione suprema, nella quale hanno il loro fondamento e il loro compimento sicuro tutte le volontà buone, come un essere quasi personale, dotato di intelligenza e di volontà: sebbene sappiamo che queste qualità (e ciò vale di tutte le qualità) non possono venirgli applicate in senso proprio: perchè con ciò noi non facciamo che affermarne la obbiettiva realtà e rappresentarla sotto l'aspetto che essa ha per noi e per il mondo di cui siamo parte.

Il sapere analogico e simbolico non è evidentemente un conoscere vero e proprio: perchè non ci dà il minimo concetto speculativo dell’oggetto a cui si riferisce. Esso è una trascrizione in simboli in questo senso: che noi assumiamo un rapporto meramente subbiettivo, cioè quello che l’oggetto è per noi, come una rappresentazione imperfetta bensì, ma in certo modo approssimativa di ciò che l’oggetto è in sè, indipendentemente dal detto rapporto. Questa rappresentazione imperfetta ci è necessaria, se vogliamo avere un concetto positivo qualunque dell’oggetto: ma noi ne conosciamo l’insufficienza e la teniamo solo come un segno che ci rinvia a qualche cosa che non può entrare nel campo della nostra conoscenza come oggetto conoscibile. Però, sebbene il sapere analogico non sia un sapere, è evidente che rispetto al trascendente noi non potremo mai avere un sapere d’altra natura: quindi noi dobbiamo considerarlo come un completamento del nostro sapere, necessario sotto il punto di vista pratico, che non contraddice alle leggi della nostra ragione (nel qual caso non potrebbe assolutamente essere giustificato), ma non ha nemmeno in esse il suo fondamento e che non potrà sperare mai di essere trasformato in un vero sapere.

Questo complesso di convinzioni intorno al problema trascendente, razionalmente fondate (sotto l’aspetto pratico) ma teoricamente indimostrabili anzi riconosciute come iuadeguate ad una soluzione speculativa, che la ragione stessa riconosce, sotto l’aspetto teoretico, come puri simboli di una realtà in sè stessa inaccessibile e perciò abbandona, entro i limiti delle esigenze pratiche, all'arbitrio soggettivo ed all'immaginazione, costituisce la fede morale.

La fede in genere si distingue, secondo Kant, dal sapere in quanto entrambi sono un'adesione soggettivamente sicura di sè, ma il sapere è anche oggettivamente valido, mentre la fede è, sotto l'aspetto oggettivo, insufficiente. Questa sicurezza soggettiva non essendo fondata su motivi teoretici (chè altrimenti avremmo un sapere), non può essere giustificata che da esigenze pratiche, cioè dalla necessità di tener per ferma questa o quella opinione sopra un punto (che non è noto secondo oggettiva sicurezza) per essere in grado di agire. Quasi sempre noi, quando operiamo, presupponiamo come vere circostanze delle quali non siamo certi in modo assoluto: chi non volesse agire se non a certezza veduta in ogni punto, si condannerebbe a non agire mai: tanto più che vi sono dei campi nei quali la certezza obbiettiva può essere pensata in astratto, ma praticamente non ottenibile mai (per esempio il tempo che farà domani).

Questo tener per vero, per esigenze pratiche, ciò che non si può riconoscere obbiettivamente, è fede: quando le esigenze pratiche sono i fini arbitrarii ed accidentali dell'attività empirica, questa fede dicesi pragmatica.

Un medico, per esempio, che cura un ammalato, non potrà spesso sapere obbiettivamente che si tratta di questa o di quella malattia : ma quando si è formata una convinzione, per quanto malsicura, della natura di questa, la stabilisce come certezza e su di essa regola il suo agire: questa è fede pragmatica. Quando invece le esigenze pratiche sono i fini morali — che sono universalmente necessarii — allora ciò che noi dobbiamo tener per vero come condizione indeclinabile del nostro operare, è oggetto di una fede che è anch’essa universalmente necessaria : questa è la fede morale.

Se la mia libertà e la vita futura sono per me condizioni necessarie della mia vita morale, è chiaro che io debbo credere in esse, perchè altrimenti tutta la mia vita morale ne sarebbe sconvolta.

Io non posso dire di sapere che sono libero e che vi è una vita futura, come nessuno può saperlo: «È lungo tempo (dice Kant ironicamente) che io cerco l’uomo che è in possesso di un tale sapere». La mia certezza è morale non logica, è una fede morale.

Senza questa fede la nostra ragione oscillerebbe continuamente fra il dubbio teoretico e la legge pratica e questa ne sarebbe scossa: la fede pratica non contraddice alle esigenze rigorose della ragione teoretica e soltanto pone là, in quel campo che la ragione teoretica giudica inaccessibile, le sue costruzioni: le quali non sono opinioni senza fondamento, ma opinioni fondate sull’esigenza della ragion pratica, che noi, dal punto di vista teoretico, ben sappiamo essere solo immagini inadeguate e non verificabili.

La fede morale è quindi perfettamente razionale perchè si fonda esclusivamente sopra i dati contenuti nella ragione (sia teoretica, sia pratica). Da questo procede la sua necessità. E siccome l’esigenza necessaria della nostra vita morale è la posizione di una realtà trascendente (i tre postulati non fanno che esprimere successivamente questa esigenza), così la fede morale non sarà mai convertibile in sapere: di qui la sua certezza nonostante il suo semplice carattere simbolico. Essa differisce perciò radicalmente dalla fede religiosa nel senso comune che possiamo dire fede storica in più d’un rispetto.

In primo luogo perchè sa di non essere sapere. In secondo luogo perchè è pura e semplice posizione del soprasensibile ed esclude da sè ogni elemento spurio fondato su rivelazioni storiche, che non è oggetto di vera fede, ma di credulità. In terzo luogo perchè, appunto per questo, esclude ogni controversia, ogni verificazione, ed è una certezza immutabile. In quarto luogo, appunto in quanto sa di non essere sapere, concede una ragionevole libertà all’espressione, alla forma simbolica, la quale libertà è diretta però sempre dalla unica e necessaria legge che è di servire nel miglior modo all’espressione dell’esigenza razionale del trascendente.

Sotto questo riguardo la fede morale è anche l’unico criterio, la guida di ogni fede storica, di ogni rivelazione, la quale non è se non un’espressione simbolica della fede morale, e ignora di esserlo: essa è tanto più perfetta quanto più riproduce nella sua purezza la fede morale.



Ultima modifica 2024.03