Il tentativo di dare veste umanistica al marxismo è almeno altrettanto vecchio quanto il movimento operaio, anche se periodicamente c’è chi pretende farne la scoperta. Quando Bernstein lanciava la sua formula: “il fine è nulla, il movimento è tutto”, non faceva che sintetizzare lo sforzo comune ai revisionisti di tutti i tempi e di tutti i paesi di svuotare il marxismo delle sue ragioni storiche e del suo contenuto di classe per farne uno dei tanti essenziali contributi alla soluzione dei problemi sociali che travagliano il mondo moderno: un contributo accanto ad altri, buono per quel tanto che può dare alla cosiddetta “storia dello spirito umano”.
In sostanza, il revisionismo, quando non è stato una critica economica, si è sempre risolto nel tentativo di dare al movimento proletario una giustificazione non storica, ma morale, e di trasformare il partito di classe in un’agenzia di propaganda redentrice in nome dell’idealismo o addirittura della religione. E aveva, per ironia della storia, una sua ragione di classe, l’insofferenza degli “intellettuali comunisti” per la liquidazione della retorica della “personalità”, dell’“individuo” e del “cittadino” essendo l’espressione della resistenza disperata di quei ceti che, nella società capitalistica, sono storicamente votati a rappresentare un ruolo riflesso entro il quadro generale della lotta fra il capitale e lavoro. Salvare la persona; i cosiddetti valori morali e spirituali, il “caro io”, ha sempre voluto dire ottenere un qualunque posto al sole ai ceti medi e, sopratutto, al ceto molto genericamente chiamato degli “intellettuali”, e presentare la lotta proletaria per il potere politico come un innocuo e beneducato sviluppo (questione di gradi) della democrazia.
È pertanto naturale che l’ambiente sociale americano, tanto variegato e composito, in cui la classe operaia è scissa in mille compartimenti stagni che vanno da una potente aristocrazia operaia ad una gigantesca massa grigia fluttuante e continuamente rinnovata, e in cui d’altra parte l’enorme sviluppo della concentrazione capitalistica crea e distrugge di continuo zone neutre di tecnici, impiegati, “managers”, ecc., abbia dato vita alternativamente a correnti rivoluzionarie e a correnti revisioniste, quest’ultime derivate da quelle in fasi storiche di declino della lotta di classe e di relativa stabilità ed equilibrio delle classi. Se il 1935-40 è stato il periodo d’oro (nelle illusioni di quelli che corrono dietro alle promesse) del trotskismo, il 1940-46 è stato il periodo d’oro del suo frazionamento, da una parte, in aggregati politici minori in aspra lotta gli uni con gli altri e in inquieta ricerca di un “ubi consistam”, e, dall’altra, in correnti ideologiche a tipo revisionista, di quelle che scambiano per “crisi del marxismo” la crisi dei partiti pseudomarxisti e cercano una soluzione a questa crisi non in una liquidazione delle superfetazioni idealistiche e democratiche generatesi sul tronco del vecchio movimento operaio, ma nell’opposta liquidazione dei valori classisti, rivoluzionari, antiidealistici del marxismo.
Una di queste correnti ha fatto centro intorno alla rivista Politics [1], sulla quale ex-marxisti, ex-trotskisti, filomarxisti, antimarxisti, paramarxisti, idealisti, anarchici e isolati torneano in dotte giostre ideologiche cercando una “nuova via”, che è poi, tutto sommato, la vecchia via del revisionismo. Vi si trova perciò, accanto a qualche articolo di vecchi militanti rivoluzionari rimasti tuttavia isolati dal processo internazionale e nazionale delle lotte di classe (Korsch, Ruth Fisher) il tentativo di distruggere le basi scientifiche del marxismo (Helene Constas spezza una lancia a favore di un marxismo iperstorico, buono per oggi come — per i tempi di… Carlomagno, in quanto esigenza morale), quello di creare una filosofia personalistica del socialismo, quello di scindere il concetto di rivoluzione da quello di violenza (Don Calhoun), quello di reintrodurre nella ideologia rivoluzionaria, come surrogato alle troppo taglienti armi del materialismo storico, il proudhoniano concetto di “Giustizia”, e infine, negli scrittori che sentono i problemi più strettamente politici, la ricerca di una scappatoia alla morsa di ferro del Partito di classe (nel senso leninista della parola) e di formule giuridiche per conciliare dittatura proletaria e tradizione democratica (decentramento delle unità produttive, federalismo, democrazia diretta, diritto di frazione, e altri specifici per chi voglia sfuggire almeno in ispirito alle realtà della storia).
Ma il gruppo di Politics ci interessa, ai fini dell’analisi storica, per un particolare aspetto che in esso si riflette della crisi della società capitalistica e della sua evoluzione verso forme sempre più rigide di controllo totalitario di tutta la vita sociale, economica e politica. Il nucleo dirigente di Politics, il quale proviene dal trotskismo, ha scoperto che la dialettica della storia non genera necessariamente dai fianchi della società borghese il socialismo [2], ma che esiste una “terza via” la quale non è né capitalismo né socialismo, e rappresenta una nuova e decisiva variante nel quadro tradizionale della concezione marxista della storia. Questa terza via sarebbe quella che Dwight MacDonald chiama il “collettivismo burocratico”, termine con cui s’intende alludere all’accentramento della produzione in senso monopolistico e statalista e alla formazione di un’economia controllata sul tipo tedesco (nazista) e russo (staliniano), verso la quale tutto il mondo borghese si orienta e che è caratterizzata dall’assurgere dello Stato a capitalista-unico e dal costituirsi di una classe o ceto di funzionari-esecutori come la nuova forza di guida della storia. Assunte le leve di comando dell’economia, lo Stato capitalista è oggi davvero il Leviatano: esso ha soppresso il capitalista singolo e la proprietà privata (o, dove non l’ha ancora fatto, tende necessariamente a farlo) sostituendo al primo un esercito di “managers” e di burocrati, e alla seconda la proprietà statale. E poiché il proletariato si è lasciato prendere nell’ingranaggio di questa spaventosa macchina e non rappresenta più una forza di attrito in seno alla società collettivistico-burocratica, quest’ultima non è più una società di classi e la rivolta all’oppressione ed allo sfruttamento non può venire se non dalla reazione individuale di tutte quelle monadi umane che solo la comune soggezione al Moloch tiene unite in un unico interesse di vita. Per usare le parole di D. Macdonald:
Bisogna ridurre l’azione politica ad un livello umile, senza pretese, personale — un livello reale nel senso che soddisfi, qui ed ora, le esigenze psicologiche e i valori etici delle persone singole che vi prendono parte. Dobbiamo cominciare dalla base, da piccoli gruppi di individui in diversi paesi, raccolti intorno a certi principii e sentimenti ad essi comuni… Lo scopo di questi gruppi dovrebbe essere duplice: all’interno, il gruppo esisterebbe in modo tale che i suoi membri riescano a conoscersi nel modo più pieno come esseri umani…, scambino idee e discutano il più possibile su “ciò che è nella loro mente…” e, in genere, imparino l’arte difficile di vivere; verso l’esterno, dovrebbe compiere in comune alcune azioni in appoggio a individui, facenti o meno parte del gruppo, che lottino per gli stessi ideali, e predicare questi ideali a voce o con l’azione nei diversi contatti quotidiani coi loro compagni.
Come per il capitalismo c’è dunque anche una terza via per le classi oppresse: contro l’oppressiva bardatura dello Stato burocratico-collettivista non vale né la tattica delle riforme né la strategia della rivoluzione: non c’è che un’azione da quacqueri o il bel gesto romantico ed eroico dei dinamitardi.
Come si vede, il revisionismo tende a giustificarsi con la “novità” di una situazione che il marxismo ha previsto e analizzato da tempo. Monopolismo, statalismo, accentramento dell’economia e dell’attività politica, totalitarismo, sono tutti fenomeni che rientrano nello sviluppo della società borghese così come i marxisti l’hanno teorizzato. E il grande bluff del Burnham e di Dwight Macdonald consiste nel presentare il fenomeno dello Stato-padrone, con relativo codazzo di “managers”, come qualcosa di staccato dalla storia che vada al di là del capitalismo e rappresenti perciò una “terza via” alla dialettica delle classi. Ma il rapporto fra le classi non solo rimane (e non lo si cambia appiccicando al capitalismo monopolistico ed accentratore il termine di “collettivismo”!), ma si fa più duro, e dà un carattere di ancor più palpitante attualità all’azione di massa e al compatto intervento del suo strumento-guida, il Partito. In tutte le grandi crisi sociali che imponevano il riconoscimento freddo e non velato da passione della realtà di fatto, ed una risposta che le equivalesse in potenza, c’è sempre stato chi ha preferito rifugiarsi in un mitico mondo fuori della storia, in una manifestazione di protesta non rivolta all’avvenire, ma ad un passato impossibile a risuscitare. È quello che gli americani chiamano “escapisme”, il rifiuto a guardare la realtà faccia a faccia e ad agire in essa, contro di essa, coi mezzi che la realtà storica medesima offre. Inutile cercar di girare indietro la ruota degli avvenimenti. Il capitalismo è oggi quel mostro, e nessuno potrà dire che al suo timone non ci sia, non continui ad esserci, la stessa classe del primo capitalismo. Krupp ha bisogno di Goering, se non altro per farsene schermo: ma la realtà della società borghese è, anche in regime di… “collettivismo burocratico”, la potenza occulta o palese del grande capitale finanziario.
Dalla soffocante pressione esercitata dal Moloch del capitalismo di stato, solo la forza organizzata della classe opposta può aprire una via di uscita, e questa forza organizzata presuppone l’accentramento di tutte le energie rivoluzionarie nel Partito e, in seno a questo, la stessa inflessibile intransigenza che la disperata volontà di resistere del nemico ha avuto nello spezzare le reni al proletariato rivoluzionario: presuppone insomma esattamente l’inverso di quello che gli ideologhi di “Politics” vanno fantasticando, di tutto il ciarpame democratico, federalistico, idealistico, che ingombra la mente e l’azione dei sognatori dell’età dell’oro.
Giacché il capitalismo accentratore può allegramente sorridere delle conventicole degli “obiettori di coscienza”, così come delle complesse elucubrazioni sul modo di conciliare accentramento e decentramento, totalitarismo e democrazia, il lavoro associato con la dissociazione degli individui. La “terza via” è un fenomeno psicologico che serve ottimamente a lasciare in piedi lo status quo. Il capitalismo monopolistico non ne sorride soltanto: se ne rallegra. È uno dei suoi puntelli.
[1] Diretta da Dwight MacDonald, Politics Publishing Co., 45 Astor Place, New York 3.
[2] Per il neo-revisionismo, la generazione del socialismo “dai fianchi della società borghese” avrebbe dovuto avvenire, sembra, senza intervento chirurgico del proletariato!
Ultima modifica 28.12.2009