Il diritto all'ozio

Paul Lafargue (1880)


Pubblicato sul periodico parigino «L’Égalité» in forma di articoli dal 23 giugno al 4 agosto 1880.

Fonte: Paul Lafargue, Il diritto all’ozio. La religione del Capitale, a cura di Lanfranco Binni, Firenze, Il Ponte Editore, 2015.

Trascritto da Leonardo Maria Battisti su licenza concessa dal Fondo Walter Binni, febbraio 2019.


DEDICA

Ai miei collaboratori dell’«Égalité»

Cari compagni,

con occhi attenti e la passione in cuore siamo partiti in guerra contro la società capitalista che schiaccia l’operaio come la mola il grano. I borghesi, nostri padroni, questi figli degeneri dei Rabelais e dei Diderot, predicano l’astinenza. La loro morale capitalista, penosa parodia della morale divina, ha sommerso di anatemi le passioni umane; il loro ideale è la trasformazione del produttore in una macchina che fornisca lavoro senza tregua né pietà. Rialziamo la bandiera dei materialisti del Rinascimento e del XVIII secolo, proclamiamo alla faccia di tutti i bigotti, di tutti i collitorti della chiesa economica e della chiesa cristiana, che la terra non deve essere più una valle di lacrime per la classe operaia, che nella società che costruiremo, «pacificamente se sarà possibile, altrimenti con la violenza», ogni passione umana sarà libera di esprimersi perché «tutte sono buone per loro natura, dobbiamo solo evitarne il cattivo uso e gli eccessi» (Descartes, Le passioni dell’anima). E per evitarne il cattivo uso e gli eccessi bisogna che trovino un reciproco equilibrio liberandosi tutte.

I Gambetta, i Galliffet, i Bonnet, i Rothschild1, questi grandi esempi di virtú, sbraiteranno: «È immorale!».

Tanto meglio: quando avremo noi il potere, applicheremo a loro i piaceri dell’astinenza e del lavoro forzato che impongono a tutti i produttori.

Coraggio, amici miei, andiamo all’assalto della morale e delle teorie sociali del capitalismo; che la nostra critica demolisca i pregiudizi borghesi, nell’attesa che la nostra azione rivoluzionaria rovesci la proprietà borghese.

Alla guerra! Alla guerra! Compagni, abbiamo un compito di lunga durata e il tempo incalza!

23 giugno 18802

PREMESSA

Nel 1849 Thiers3, alla commissione per l’istruzione primaria, diceva: «voglio rendere onnipotente l’influenza del clero; è sul clero che conto per diffondere quella buona filosofia che insegna all’uomo che si trova in questo mondo per soffrire, e non l’altra che al contrario gli dice: “Godi!”». Con queste parole Thiers formulava la morale della classe borghese, di cui incarnò l’egoismo feroce e l’intelligenza ristretta.

La borghesia, nella sua lotta contro la nobiltà sostenuta dal clero, innalzò i vessilli del libero esame e dell’ateismo; poi, una volta al potere, cambiò tono e atteggiamento, e oggi intende fare della religione un cardine della propria supremazia economica e politica. Nel XV e nel XVI secolo aveva allegramente ripreso la tradizione pagana e glorificava la carne e le sue passioni, condannate dal cristianesimo; oggi, strafogata di beni e di piaceri, rinnega gli insegnamenti dei suoi pensatori, dei Rabelais, dei Diderot, e predica l’astinenza ai salariati.

La morale capitalista, miserabile parodia di quella cristiana, lancia anatemi contro la carne del lavoratore; il suo ideale è la riduzione al minimo dei bisogni del produttore, la soppressione delle sue gioie e delle sue passioni, condannandolo al ruolo di macchina che fornisce lavoro senza tregua né pietà.

I socialisti rivoluzionari devono riprendere la lotta già combattuta dai philosophes e dai polemisti della borghesia, devono andare all’assalto della morale e delle teorie sociali del capitalismo; devono demolire, nelle teste della classe chiamata all’azione, i pregiudizi inculcati dalla classe dominante; devono proclamare, alla faccia dei bigotti di tutte le morali, che la terra non sarà più la valle di lacrime del lavoratore; che nella società comunista dell’avvenire, che noi costruiremo «pacificamente se sarà possibile, altrimenti con la violenza», le passioni umane potranno esprimersi liberamente, perché «tutte sono buone per loro natura, dobbiamo solo evitarne il cattivo uso e gli eccessi»*1 che si potranno evitare solo attraverso un reciproco equilibrio, solo attraverso lo sviluppo armonico dell’organismo umano, perché, come dice il dottor Beddoe, «solo quando raggiunge il suo massimo sviluppo fisico, una razza raggiunge il suo livello piú alto di energia e vigore morale». Questa era anche l’opinione del grande naturalista Charles Darwin*2.

La confutazione del Diritto al lavoro, che ripubblico con qualche nota aggiunta, apparve sul settimanale

«L’Égalité», seconda serie, nel 1880.

P.L.

Carcere di Sainte-Pélagie, 1883

I. UN DOGMA DISASTROSO

Diamoci all’ozio in tutto,
tranne che nell’amore e nel bere,
tranne che nell’ozio.

Lessing 4

Una strana follia possiede le classi operaie delle nazioni in cui regna la civiltà capitalista. È una follia che porta con sé miserie individuali e sociali che da due secoli torturano la triste umanità. Questa follia è l’amore per il lavoro, la passione mortale per il lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie. Invece di reagire contro quest’aberrazione mentale, i preti, gli economisti, i moralisti hanno santificato il lavoro, lo hanno sacralizzato. Uomini ciechi e ottusi, hanno voluto essere più saggi del loro Dio; uomini deboli e spregevoli, hanno voluto riabilitare ciò che il loro Dio aveva maledetto. Io, che non mi dichiaro cristiano, economo e morale, contro il loro giudizio mi appello a quello del loro Dio; alle prediche della loro morale religiosa, economica, di liberi pensatori, oppongo le spaventose conseguenze del lavoro nella società capitalista. Nella società capitalista il lavoro è la causa di ogni degenerazione intellettuale, di ogni deformazione fisica. Confrontate il purosangue delle scuderie Rothschild, servito da uno stuolo di bimani, con la pesante e rozza bestia delle fattorie normanne che ara la terra, trasporta il letame, il raccolto nel granaio. Osservate il nobile selvaggio che i missionari del commercio e i commercianti della religione non hanno ancora corrotto con il cristianesimo, la sifilide e il dogma del lavoro, e osservate poi i nostri miserabili servi delle macchine*3.

Quando, nella nostra Europa civilizzata, vogliamo ritrovare una traccia della bellezza originaria dell’uomo, dobbiamo andare a cercarla in quelle nazioni dove i pregiudizi economici non hanno ancora sradicato l’odio per il lavoro. La Spagna, che purtroppo sta degenerando, può ancora vantarsi di avere meno fabbriche delle nostre carceri e caserme; ma l’artista ammira estasiato il fiero Andaluso, bruno come una castagna, dritto e flessibile come un’asta d’acciaio; e il cuore dell’uomo sussulta udendo il mendicante, superbamente ammantato nella sua capa stracciata, dare dell’amigo a un duca di Ossuna. Per lo spagnolo, nel quale l’animale primitivo non è atrofizzato, il lavoro è la peggiore delle schiavitù*4. I greci nell’epoca del loro splendore disprezzavano, anche loro, il lavoro; solo agli schiavi era permesso di lavorare; l’uomo libero si dedicava esclusivamente agli esercizi fisici e ai giochi dell’intelligenza. Era l’epoca in cui si viveva e si respirava in mezzo a un popolo di Aristoteli, Fidia, Aristofani; era il tempo in cui un pugno di coraggiosi distruggeva a Maratona le orde di quell’Asia che Alessandro avrebbe presto conquistato. I filosofi dell’antichità insegnavano il disprezzo per il lavoro, degradazione dell’uomo libero; i poeti cantavano l’ozio, dono degli dèi:

O Meliboe, deus nobis haec otia fecit*5.

Cristo, nel suo discorso della montagna, predicò l’ozio: «Guardate i gigli dei campi: non lavorano né filano, eppure io vi dico che Salomone in tutta la sua gloria non è mai stato vestito più splendidamente*6».

Geova, il dio barbuto e arcigno, diede ai suoi adoratori il supremo esempio dell’ozio ideale: lavorò per sei giorni, e poi si riposò per l’eternità.

Quali sono invece le razze per cui il lavoro è una necessità organica? Gli alverniati6; gli scozzesi, questi alverniati delle isole britanniche; i galiziani, questi alverniati della Spagna; i pomerani, questi alverniati della Germania; i cinesi, questi alverniati dell’Asia. Nella nostra società quali sono le classi che amano il lavoro per il lavoro? I contadini proprietari e i piccoli borghesi: curvi i primi sulle loro terre, incollati i secondi alle loro botteghe, si agitano come la talpa nella sua galleria sotterranea, e non sollevano mai la testa per guardare a loro agio la natura.

Eppure il proletariato, la grande classe che comprende tutti i produttori delle nazioni civilizzate, la classe che emancipandosi emanciperà l’umanità dal lavoro servile e farà dell’animale umano un essere libero, il proletariato – tradendo i suoi istinti, misconoscendo la sua missione storica – si è lasciato pervertire dal dogma del lavoro. Duro e terribile è stato il suo castigo. Tutte le miserie individuali e sociali sono nate dalla sua passione per il lavoro.

II. BENEDIZIONI DEL LAVORO

Nel 1770 comparve a Londra uno scritto anonimo intitolato An Essay on trade and commerce*7. All’epoca suscitò un certo scalpore. Il suo autore, grande filantropo, si indignava per il fatto che

la plebe manifatturiera d’Inghilterra si è messa in testa l’idea fissa che, in quanto inglesi, tutti gli individui che ne fanno parte hanno per diritto di nascita il privilegio di essere piú liberi e piú indipendenti degli operai di qualsiasi altro paese d’Europa. Questa idea può avere una sua utilità per i soldati di cui stimola il valore; ma meno gli operai delle manifatture ne sono imbevuti, meglio è per loro stessi e per lo Stato. Gli operai non dovrebbero mai ritenersi indipendenti dai loro superiori. È estremamente pericoloso incoraggiare simili infatuazioni in uno Stato commerciale come il nostro nel quale forse i sette ottavi della popolazione non sono proprietari di niente o quasi. La cura sarà completa solo quando i nostri poveri dell’industria si rassegneranno a lavorare sei giorni per la stessa somma che ora guadagnano in quattro.

Così, quasi un secolo prima di Guizot7, a Londra si predicava apertamente il lavoro come freno alle nobili passioni dell’uomo.

«Piú i miei popoli lavoreranno, meno ci saranno vizi – scriveva Napoleone da Osterode il 5 maggio 1807. – Io sono l’autorità […] e sarei disposto a ordinare che la domenica, dopo le funzioni religiose, si riaprano le botteghe e le fabbriche, e gli operai tornino al loro lavoro».

Per estirpare l’ozio e piegare i sentimenti di fierezza e indipendenza che esso genera, l’autore dell’Essay on trade proponeva di incarcerare i poveri in «case ideali del lavoro» (ideal workhouses) che sarebbero diventate «case del terrore, in cui si sarebbe costretti a lavorare per quattordici ore al giorno, in modo che, tolto il tempo dei pasti, resterebbero dodici ore di lavoro, piene e nette».

Dodici ore di lavoro al giorno, ecco l’ideale dei filantropi e dei moralisti del XVIII secolo. Come siamo andati ben oltre questo nec plus ultra! Le fabbriche moderne sono diventate delle prigioni ideali dove si incarcerano le masse operaie, dove si condannano ai lavori forzati per dodici, quattordici ore, non solo gli uomini ma anche le donne e i bambini*8! E pensare che i figli degli eroi del Terrore si sono lasciati degradare dalla religione del lavoro fino al punto di accettare, dopo il 1848, come si trattasse di una conquista rivoluzionaria, la legge che limitava a dodici ore il lavoro nelle fabbriche, proclamando come un principio rivoluzionario il diritto al lavoro9. Vergogna, proletariato francese! Soltanto degli schiavi sarebbero stati capaci di una simile bassezza. Ci vorrebbero venti anni di civiltà capitalista a un greco dei tempi eroici per riuscire a concepire una simile abiezione.

E se le sofferenze del lavoro forzato, se le torture della fame si sono abbattute sul proletariato piú numerose delle cavallette della Bibbia, è stato lui a invocarle.

Questo lavoro che nel giugno 1848 gli operai reclamavano con le armi in pugno, lo hanno imposto alle loro famiglie, e hanno consegnato mogli e figli ai baroni dell’industria. Con le loro stesse mani hanno distrutto il focolare domestico, hanno fatto perdere il latte alle loro donne: le sventurate, incinte e mentre ancora allattavano i figli, sono dovute andare nelle miniere e nelle fabbriche a piegarsi la schiena, a logorarsi i nervi. Con le loro stesse mani hanno spezzato la vita e la forza dei loro figli. Vergogna, proletari! Dove sono le comari di cui parlano i nostri fabliaux10 e gli antichi racconti, ardite nel parlare, di robusti appetiti, amanti della divina bottiglia11? Dove sono quelle gagliarde sempre in movimento, intorno ai fornelli, sempre a cantare, sempre fonti di vita e di gioia, mettendo al mondo senza dolore figli sani e forti?... Oggi vediamo le ragazze e le donne di fabbrica, fiori gracili e pallidi, esangui, lo stomaco malandato, le membra spossate!... Non hanno mai conosciuto il piacere vigoroso, non saprebbero raccontare con ardita disinvoltura come furono penetrate la prima volta. E i bambini? Dodici ore di lavoro per i bambini. Oh, miseria! Ma tutti i Jules Simon12 dell’Académie des Sciences morales et politiques, tutti i Germiny13 della gesuiteria non avrebbero potuto inventare un vizio più abbrutente per l’intelligenza dei bambini, più corruttore dei loro istinti, più distruttivo del loro organismo, del lavoro nell’atmosfera insana della fabbrica capitalista.

La nostra epoca, si dice, è il secolo del lavoro; in effetti è il secolo del dolore, della miseria e della corruzione.

E tuttavia i filosofi, gli economisti borghesi dal penosamente confuso Auguste Comte al ridicolmente banale Leroy-Beaulieu, i letterati borghesi dal romantico ciarlatano victor Hugo all’ingenuamente grottesco Paul de Kock14, tutti hanno intonato i loro canti nauseabondi in onore del dio Progresso, figlio primogenito del Lavoro. A sentire loro, la felicità stava per regnare sulla terra, già se ne sentiva l’avvento. Andavano nei secoli passati a frugare nella polvere e nelle miserie feudali per confrontare quelle oscurità ripugnanti con le delizie dei nostri giorni. Non ne possiamo più di questi pasciuti soddisfatti, fino a ieri nella servitù dei grandi signori e oggi pennivendoli della borghesia, lautamente mantenuti. Ci hanno scocciato con il contadino del retore La Bruyère15? Ebbene, eccolo il brillante quadro delle delizie proletarie nell’anno del progresso capitalistico 1840, dipinto da uno di loro, dal Dr. Villermé 16, membro dell’Institut 17, lo stesso che nel 1848 fece parte di quella società di saggi (insieme ai vari Thiers, Cousin, Passy, Blanqui l’accademico 18) che propagò nelle masse le sciocchezze dell’economia e della morale borghesi.

È dell’Alsazia manifatturiera che parla il Dr. Villermé, dell’Alsazia dei Kestner, dei Dollfus 19, questi fiori della filantropia e del repubblicanesimo industriale. Ma prima che il dottore ci presenti il quadro delle miserie proletarie, ascoltiamo un industriale manifatturiero alsaziano, Th. Mieg, della ditta Dollfus, Mieg e C., che descrive la situazione dell’artigiano della vecchia industria:

A Mulhouse, cinquant’anni fa (nel 1813, quando la moderna industria meccanica stava nascendo), gli operai venivano tutti dalla campagna, abitavano in città e nei villaggi dei dintorni e possedevano quasi tutti una casa e spesso un piccolo campo20.

Era l’età dell’oro del lavoratore. Ma in quel tempo l’industria alsaziana non inondava ancora il mondo con le sue tele di cotone e non riempiva di milioni le tasche dei suoi Dollfus e dei suoi Koechlin. Ma venticinque anni dopo, quando villermé visitò l’Alsazia, il Minotauro moderno, la fabbrica capitalista, aveva strappato gli operai ai loro focolari per strizzarli meglio e spremere il lavoro che contenevano. A migliaia gli operai accorrevano al fischio della macchina.

Un gran numero di loro – dice Villermé – , cinquemila su diciassettemila, erano costretti, a causa degli affitti troppo alti, a stabilirsi nei villaggi vicini. Alcuni abitavano a oltre due leghe dalla fabbrica dove lavoravano.
A Mulhouse, a Dornach, il lavoro iniziava alle cinque del mattino e finiva alle cinque di sera, sia d’estate che d’inverno. […] Bisogna vederli arrivare in città ogni mattina, e ripartire la sera. Tra loro un grande numero di donne pallide, magre, che camminano nel fango a piedi nudi; quando piove o nevica, senza ombrello, si rovesciano sulla testa i grembiuli o le sottogonne per proteggersi il volto e il collo. E un numero ancora maggiore di fanciulli non meno sporchi, non meno smunti, coperti di stracci, inzuppati dell’olio delle macchine che sgocciola addosso mentre lavorano. Questi ultimi, meglio riparati dalla pioggia grazie all’impermeabilità dei loro vestiti, non portano neppure al braccio, come le donne, un paniere con le provviste della giornata, ma tengono in mano o nascondono sotto la giubba o come possono il pezzo di pane che deve nutrirli fino all’ora del ritorno a casa.
Così alla fatica di una giornata smisuratamente lunga, di almeno quindici ore, si aggiunge per questi sventurati quella dei viaggi di andata e ritorno, così frequenti, così penosi. Ne consegue che la sera arrivano a casa stremati dal bisogno di dormire e l’indomani escono prima ancora di essere riusciti a riposarsi, per essere in fabbrica all’orario di apertura.

Ed ecco ora i tuguri dove si ammucchiavano coloro che alloggiavano in città:

Ho visto a Mulhouse, a Dornach e nei dintorni alcuni di questi miserabili alloggi dove due famiglie dormivano ognuna in un angolo, per terra, sulla paglia stesa sul pavimento, tenuta insieme da due tavole […]. La miseria in cui vivono gli operai dell’industria del cotone nella regione dell’Alto Reno è talmente profonda da produrre un triste risultato: mentre nelle famiglie degli industriali, dei negozianti, dei commercianti di tessuti, dei direttori di fabbrica la metà dei figli raggiunge il ventunesimo anno di età, nelle famiglie dei tessitori e degli operai delle filature di cotone questa stessa metà cessa di esistere prima del secondo anno di vita.

Parlando del lavoro di fabbrica, villermé aggiunge:

Non è un lavoro, una mansione: è una tortura, che viene inflitta a bambini dai sei agli otto anni. […] È questo lungo supplizio quotidiano a minare principalmente gli operai delle filature di cotone.

E a proposito della durata del lavoro villermé osserva che i forzati dei bagni penali lavorano solo dieci ore, e gli schiavi delle Antille nove ore in media, mentre nella Francia che aveva fatto la Rivoluzione dell’89, che aveva proclamato i pomposi Diritti dell’uomo, esistevano «manifatture dove la giornata di lavoro era di sedici ore, accordando agli operai un’ora e mezzo per i pasti *9.

Oh, miserabile aborto dei principî rivoluzionari della borghesia! Oh, lugubre dono del suo dio Progresso! I filantropi acclamano benefattori dell’umanità coloro che, per arricchirsi da nullafacenti, danno del lavoro ai poveri; meglio seminare la peste, meglio avvelenare le sorgenti, piuttosto che erigere una fabbrica in mezzo a una popolazione rurale. Introducete il lavoro di fabbrica e addio gioia, salute, libertà; addio tutto ciò che rende la vita bella e degna di essere vissuta*10. E gli economisti continuano a ripetere agli operai: «Lavorate per la crescita della ricchezza sociale!». Eppure un economista, Destutt de Tracy22, risponde loro:

È nelle nazioni povere che il popolo sta bene; nelle nazioni ricche, di regola è povero.

E il suo discepolo Cherbuliez23 continua:

I lavoratori stessi, cooperando all’accumulazione dei capitali produttivi, contribuiscono a una situazione che prima o poi li priverà di una parte del loro salario.

Ma, assordati e rimbecilliti dai loro stessi schiamazzi, gli economisti rispondono: «Lavorate, lavorate sempre, per crearvi il vostro benessere!». E in nome della mansuetudine cristiana un prete della chiesa anglicana, il reverendo Townschend24, salmodia: lavorate, lavorate giorno e notte; lavorando accrescete la vostra miseria, e la vostra miseria ci dispensa dall’imporvi il lavoro con la forza della legge. La costrizione legale al lavoro «comporta troppi problemi, richiede troppa violenza e fa troppo rumore; la fame invece, non solo esercita una pressione pacifica, silenziosa e incessante ma, essendo il movente più naturale del lavoro e dell’industria, provoca gli sforzi più efficaci».

Lavorate, lavorate proletari, per accrescere la ricchezza sociale e le vostre miserie individuali, lavorate, lavorate: diventando più poveri, avrete più ragioni per lavorare ed essere miserabili. Questa è la legge inesorabile della produzione capitalista.

Dal momento che, dando credito alle parole menzognere degli economisti, i proletari si sono dati anima e corpo al vizio del lavoro, non fanno che precipitare la società intera in quelle crisi industriali di sovrapproduzione che sconvolgono l’organismo sociale. Allora, per eccesso di merci e penuria di compratori, le fabbriche chiudono e la fame sferza la popolazione operaia con la sua frusta dalle mille code. I proletari, abbrutiti dal dogma del lavoro, non comprendendo che il superlavoro che si sono inflitti nei periodi di pretesa prosperità è la causa della loro miseria presente, invece di correre ai granai gridando: «Abbiamo fame e vogliamo mangiare!... È vero, non abbiamo il becco di un quattrino ma, per quanto pezzenti, siamo stati noi a mietere il grano e a vendemmiare l’uva…»; invece di assediare i magazzini di Bonnet a Jujurieux, l’inventore dei conventi industriali, gridando: «Signor Bonnet, ecco le vostre operaie, ovaliste*11, torcitrici, filatrici, tessitrici, che battono i denti sotto i loro vestiti di cotone rammendati da intristire perfino un ebreo, eppure sono proprio loro che hanno filato e tessuto gli abiti di seta delle cocottes dell’intera cristianità. Le poverette, lavorando tredici ore al giorno, non avevano il tempo di pensare alla loro toilette ma adesso che sono senza lavoro possono far frusciare le sete che hanno lavorato. Da quando hanno perso i denti da latte, si sono dedicate al vostro arricchimento e hanno vissuto in povertà; adesso che hanno del tempo libero, vogliono godersi un po’ i frutti del loro lavoro. Andiamo, Bonnet, distribuite le vostre sete, Harmel25 fornirà le sue mussoline, Pouyer-Quertier26 i suoi calicò, Pinet i suoi stivaletti per i loro piedini freddi e umidi… Rivestite da capo a piedi e tutte in ghingheri, sarà un piacere per voi ammirarle. Su, nessuna incertezza, non siete l’amico dell’umanità, e cristiano per soprammercato? Bene, mettete a disposizione delle vostre operaie la fortuna che vi hanno edificato con la carne della loro carne. Siete amico del commercio? Facilitate la circolazione delle merci. Eccovi qua dei consumatori: aprite loro dei crediti illimitati. Siete obbligato a farlo con negozianti che non conoscete affatto, che non vi hanno mai dato nulla, neppure un bicchiere d’acqua. Le vostre operaie vi pagheranno come meglio potranno: se il giorno della scadenza fanno finta di nulla e lasciano andare in protesto la loro firma, dichiarerete il loro fallimento, e se non hanno niente da poter pignorare, esigerete che vi paghino in preghiere: vi manderanno in paradiso, meglio delle vostre tonache nere dal naso impregnato di tabacco».

Invece di approfittare dei momenti di crisi per una distribuzione generale dei prodotti e un benessere universale, gli operai, con i crampi della fame, vanno a sbattere la testa contro i cancelli della fabbrica. Con le facce smunte, i corpi smagriti e discorsi pietosi, assediano i padroni: «Buon signor Chagot, gentile signor Schneider27, dateci del lavoro, non è la fame, ma la passione del lavoro che ci tormenta!». E questi miserabili, che hanno appena la forza di reggersi in piedi, vendono dodici o quattordici ore di lavoro a un prezzo due volte inferiore di quando avevano del pane sulla tavola. E i filantropi dell’industria approfittano della disoccupazione per produrre a miglior mercato. Se le crisi industriali seguono inevitabilmente ai periodi di sovrapproduzione, come la notte al giorno, provocando la disoccupazione forzata e la miseria più nera, portano anche all’inesorabile bancarotta. Finché l’imprenditore ha del credito allenta la briglia al furore del lavoro, si indebita e si indebita ancora per procurare la materia prima agli operai. Continua a far produrre senza pensare che il mercato si satura e che, se le sue merci non vengono vendute, le sue cambiali arriveranno alla scadenza. Messo alle strette, va a implorare l’ebreo, gli si getta ai piedi, gli offre il suo sangue, il suo onore. «Un po’ d’oro andrebbe meglio», risponde Rothschild, «ma avete 20.000 paia di calze in magazzino, valgono 20 soldi, le prendo a 4». Avute le calze, l’ebreo le vende a 6 o 8 soldi e si mette in tasca sonanti monete da 100 soldi che non devono niente a nessuno; ma l’imprenditore ha fatto solo un passo indietro per poter saltare meglio. Alla fine arriva la disfatta e i magazzini straboccano; allora si gettano tante merci dalla finestra, da non sapere come siano entrate dalla porta. A centinaia di milioni ammonta il valore delle merci distrutte; nel secolo scorso venivano bruciate o gettate in acqua*12. Ma prima di arrivare a questa conclusione gli industriali percorrono il mondo alla ricerca di sbocchi per le merci che si ammassano; spingono il loro governo ad annettersi i vari Congo, a impadronirsi dei vari Tonchino, ad abbattere a cannonate le muraglie della Cina per smerciarvi i loro tessuti di cotone. Nei secoli scorsi era un duello a morte tra Francia e Inghilterra per assicurarsi il privilegio esclusivo di vendere in America e nelle Indie. Migliaia di uomini giovani e vigorosi hanno arrossato i mari col loro sangue durante le guerre coloniali dei secoli XV, XVI e XVII.

I capitali abbondano come le merci. I finanzieri non sanno più dove piazzarli; allora vanno nelle nazioni felici che se la spassano al sole fumando sigarette, a costruire ferrovie, a erigere fabbriche e importare la maledizione del lavoro. E questa esportazione di capitali francesi termina un bel giorno a causa di complicazioni diplomatiche: in Egitto, Francia, Inghilterra e Germania stavano per prendesi per i capelli per sapere quali usurai sarebbero stati pagati per primi; o nelle guerre del Messico, dove si mandano soldati francesi a fare il mestiere dell’ufficiale giudiziario per riscuotere debiti insolvibili*13.

Queste miserie individuali e sociali, per grandi e innumerevoli che possano essere, per eterne che possano sembrare, spariranno come le jene e gli sciacalli all’avvicinarsi del leone quando il proletariato dirà: «Io lo voglio». Ma perché giunga alla coscienza della propria forza è necessario che il proletariato si metta sotto i piedi i pregiudizi della morale cristiana, economica, libero-pensatrice; è necessario che ritorni ai suoi istinti naturali, che proclami i Diritti dell’ozio, mille e mille volte piú sacri e nobili degli asfitici Diritti dell’uomo escogitati dagli avvocati metafisici della rivoluzione borghese; che si costringa a non lavorare piú di tre ore al giorno, a non fare niente e a bisbocciare per il resto del giorno e della notte.

Fin qui il mio compito è stato facile, dovevo solo descrivere mali reali purtroppo ben noti a tutti noi. Ma convincere il proletariato che la parola d’ordine che gli è stata inculcata è perversa, che il lavoro sfrenato al quale si è dato dall’inizio del secolo è il piú terribile flagello che abbia mai colpito l’umanità, che il lavoro diventerà un condimento di piacere dell’ozio, un benefico esercizio per l’organismo umano, una passione utile all’organismo sociale solo quando sarà regolamentato e limitato a un massimo di tre ore al giorno, questo è un compito arduo al di sopra delle mie forze; solo dei fisiologi, degli igienisti, degli economisti comunisti potrebbero affrontarlo. Nelle pagine seguenti mi limiterò a dimostrare che, dati i moderni mezzi di produzione e la loro illimitata capacità produttiva, è necessario reprimere la stravagante passione degli operai per il lavoro e obbligarli a consumare le merci che producono.

III. CHE COSA SEGUE ALLA SOVRAPPRODUZIONE

Un poeta greco del tempo di Cicerone, Antipatro, così cantava l’invenzione del mulino ad acqua (per la macina del grano): avrebbe emancipato le donne schiave e riportato l’età dell’oro:

Risparmiate il braccio che fa girare la macina, o mugnaie, e dormite tranquille! Invano il gallo vi annunci l’alba! Demetra ha imposto alle ninfe il lavoro delle schiave ed eccole che saltellano allegramente sulla ruota, mentre l’asse tremante gira con i suoi raggi e fa ruotare la pesante pietra. Viviamo la vita dei nostri padri e godiamo oziosi dei doni che la dea ci accorda.

Ahimé! Gli svaghi annunciati dal poeta pagano non sono arrivati: la passione cieca, perversa e omicida del lavoro trasforma la macchina liberatrice in strumento di schiavitú degli uomini liberi: la sua produttività li impoverisce.

Una brava operaia fa con il fuso non più di cinque maglie al minuto, quando certi telai circolari ne fanno trentamila nello stesso tempo. Ogni minuto della macchina equivale dunque a cento ore di lavoro dell’operaia; cioè ogni minuto di lavoro della macchina lascia all’operaia dieci giorni di riposo. Questo vale per l’industria della maglieria, e più o meno per tutte le industrie rinnovate dalla meccanica moderna. Ma che cosa vediamo? Più la macchina si perfeziona e supera il lavoro dell’uomo con una sempre maggiore velocità e perfezione, e più l’operaio, invece di prolungare altrettanto il suo riposo, raddoppia d’ardore, come se volesse gareggiare con la macchina. Concorrenza assurda e omicida! Per lasciare via libera alla concorrenza tra l’uomo e la macchina, i proletari hanno abolito le sagge leggi che limitavano il lavoro degli artigiani delle antiche corporazioni; hanno soppresso i giorni festivi*14. Credono forse che i produttori di una volta, lavorando solo cinque giorni su sette, vivessero solo d’aria e d’acqua fresca? Ma via! Avevano il tempo per godersi le gioie della terra, per fare l’amore e scherzare, per banchettare allegramente in onore del gaudente dio del Nonfarniente. La tetra Inghilterra, ingabbiata nel protestantesimo, a quei tempi si chiamava la «gioiosa Inghilterra» (Merry England). Rabelais, Quevedo, Cervantes, gli autori sconosciuti dei romanzi picareschi, ci fanno venire l’acquolina in bocca con le loro descrizioni di quelle gozzoviglie favolose*15 che ci si concedevano allora tra una battaglia e l’altra, tra una devastazione e l’altra, e in cui tutto «finiva in enormi abbuffate». Jordaens e la scuola fiamminga le hanno descritte sulle loro tele piene di vita. Sublimi stomaci gargantueschi, dove siete finiti? Sublimi cervelli che abbracciavate l’intero pensiero umano, che ne è di voi? Siamo ridotti a ben misera cosa, siamo degenerati. La carne infetta, la patata, il vino adulterato e l’acquavite prussiana, sapientemente combinati con il lavoro forzato, hanno indebolito i nostri corpi e immiserito i nostri spiriti. E proprio quando lo stomaco dell’uomo si restringe e la macchina dilata la nostra produttività, è a questo punto che gli economisti vengono a predicarci la teoria malthusiana, la religione dell’astinenza e il dogma del lavoro? Bisognerebbe strappar loro la lingua e gettarla ai cani.

Poiché la classe operaia, con la sua ingenua buona fede, si è lasciata indottrinare, poiché, con il suo impeto istintivo, si è gettata ciecamente nel lavoro e nell’astinenza, la classe capitalista si è trovata condannata all’ozio e al piacere forzato, all’improduttività e al superconsumo. Ma se il superlavoro dell’operaio strazia la sua carne e attanaglia i suoi nervi, è altrettanto fecondo di dolori per i borghesi.

L’astinenza alla quale la classe produttiva si condanna costringe i borghesi a consacrarsi al superconsumo dei beni che essa produce in maniera sregolata. All’inizio della produzione capitalista, uno o due secoli fa, il borghese era un uomo perbene, di costumi ragionevoli e pacifici; si accontentava della propria moglie e poco piú, beveva solo quando aveva sete, mangiava quando aveva fame. Lasciava ai cortigiani e alle cortigiane le nobili virtú della vita dissoluta. Ai nostri giorni non c’è figlio di arricchito che non si ritenga in dovere di incentivare la prostituzione e di mercurializzare29 il proprio corpo per dare uno scopo al lavoro che si impongono gli operai delle miniere di mercurio. Non c’è borghese che non si strafoghi di capponi farciti e di Lafitte di prima scelta per incoraggiare gli allevatori di La Flèche e i viticoltori del Bordolais. A vivere in questo modo l’organismo si guasta rapidamente, cadono i capelli, i denti si scalzano, il tronco si deforma, il ventre s’intrippa, la respirazione diventa faticosa, i movimenti appesantiti, le articolazioni anchilosate, le falangi nodose. Altri, troppo deboli per sopportare le fatiche dell’orgia, ma dotati del bernoccolo dell’erudito, inaridiscono i loro cervelli, come i vari Garnier30 dell’economia politica, gli Acollas della filosofia giuridica, nell’elucubrazione di grossi libri soporiferi per dilettare i compositori e i tipografi.

Le donne della buona società vivono una vita da martiri. Per provare e mettere in mostra i favolosi abbigliamenti che le sarte si uccidono a cucire per loro, passano da un abito all’altro dalla mattina alla sera, per ore e ore lasciano la loro testa vuota nelle mani degli artisti dei capelli che a qualsiasi prezzo vogliono soddisfare la loro passione per le impalcature di falsi chignons. Ingabbiate nei loro busti, strette nei loro stivaletti, scollate da far arrossire un pompiere, volteggiano per notti intere nei loro balli di beneficenza per raccogliere qualche soldo per i poveri. Anime sante!

Per adempiere la sua duplice funzione di sociale di non-produttore e di super-consumatore, il borghese non solo dovette fare violenza ai suoi gusti modesti, perdere le abitudini laboriose di due secoli fa e abbandonarsi al lusso sfrenato, alle indigestioni tartufate e alle dissolutezze sifilitiche, ma per di più fu costretto a sottrarre al lavoro produttivo una massa enorme di persone da mettere al suo servizio.

Ecco qualche cifra che prova l’ampiezza di questa colossale perdita di forze produttive. Secondo il censimento del 1861, la popolazione dell’Inghilterra e del Galles comprendeva 20.066.244 persone, di cui 9.776.259 di sesso maschile e 10.289.965 di sesso femminile. Se si detraggono i troppo vecchi o troppo giovani per lavorare, le donne, gli adolescenti e i bambini improduttivi, e le professioni ideologiche come i governanti, la polizia, il clero, la magistratura, l’esercito, la prostituzione, le arti, le scienze ecc., e infine le persone occupate esclusivamente a mangiare il lavoro altrui sotto forma di rendita fondiaria, interessi, dividendi ecc., restano circa otto milioni di individui dei due sessi e di ogni età, compresi i capitalisti attivi nella produzione, nel commercio, nella finanza ecc. Tra questi otto milioni si contano: lavoratori agricoli (inclusi pastori, garzoni e serve che vivono in fattoria): 1.098.261; operai delle fabbriche di cotone, lana, canapa, lino, seta, maglieria: 642.607; operai delle miniere di carbone e di metalli: 565.835; operai metallurgici (altiforni, laminatoi ecc.): 396.998; classe dei domestici: 1.208.648.

Se sommiamo i lavoratori delle fabbriche tessili e quelli delle miniere di carbone e metalli, abbiamo un totale di 1.208.442; se sommiamo i primi e quelli delle fabbriche metallurgiche, abbiamo un totale di 1.039.605 persone; cioè in entrambi i casi la somma è minore del numero degli schiavi domestici moderni. Ecco il magnifico risultato dello sfruttamento capitalistico delle macchine.*16

A tutta questa classe di domestici, la cui dimensione indica il grado raggiunto dalla civiltà capitalista, dobbiamo aggiungere la numerosa classe degli infelici dediti esclusivamente alla soddisfazione dei gusti lussuosi e frivoli delle classi ricche: tagliatori di diamanti, merlettaie, ricamatrici, rilegatori di lusso, sarte di lusso, decoratori delle case di piacere, ecc.*17

Una volta sprofondata nell’ozio assoluto e depravata dal piacere forzato, la borghesia, nonostante tutto il male che gliene venne, si adattò al suo nuovo genere di vita aborrendo ogni cambiamento. Lo spettacolo delle miserabili condizioni accettate da una classe operaia rassegnata e quello del degrado organico generato dalla morbosa passione per il lavoro, aumentarono ancora di più la sua ripugnanza per qualsiasi imposizione di lavoro e per ogni restrizione di piaceri.

Fu proprio a questo punto che, senza tenere conto della depravazione che la borghesia si era imposta come dovere sociale, i proletari si misero in testa di infliggere il lavoro ai capitalisti. Nella loro ingenuità presero sul serio le teorie degli economisti e dei moralisti sul lavoro, e si spezzarono le reni per infliggerne la pratica ai capitalisti. Il proletariato inalberò la parola d’ordine Chi non lavora non mangia; Lione nel 1831 si sollevò per piombo o lavoro; i federati del marzo 1871 proclamarono la loro insurrezione la Rivoluzione del lavoro31.

A questo scatenarsi di barbaro furore, distruttivo di ogni piacere e ozio borghesi, i capitalisti non potevano non rispondere con la repressione feroce; ma sapevano che, anche se era stato possibile reprimere queste espolosioni rivoluzionarie, non avevano tuttavia annegato nel sangue dei loro giganteschi massacri l’assurda idea del proletariato di voler infliggere il lavoro alle classi oziose e sazie, e appunto per scongiurare questa sciagura si circondarono di pretoriani, di poliziotti, di magistrati, di carcerieri, mantenuti tutti in uno stato di improduttività affaccendata. Non si possono piú avere illusioni sulla natura degli eserciti moderni, mantenuti in permanenza solo per combattere «il nemico interno»; cosí le fortezze di Parigi e di Lione sono state costruite non per difendere la città dallo straniero, ma per distruggere il nemico interno in caso di rivolta. E per fare un esempio inequivocabile citiamo il caso dell’esercito belga, questo paese della cuccagna del capitalismo; la sua neutralità è garantita dalle potenze europee, eppure il suo esercito è uno dei piú forti in proporzione alla popolazione. I gloriosi campi di battaglia del valoroso esercito belga sono le pianure del Borinage e di Charleroi; è nel sangue dei minatori e degli operai disarmati che gli ufficiali belgi temprano le loro spade e si guadagnano le spalline. Le nazione europee non hanno eserciti nazionali ma eserciti mercenari che proteggono i capitalisti dal furore popolare che vorrebbe condannarli a dieci ore di miniera o di filanda.

Dunque, restringendo il proprio ventre, la classe operaia ha sviluppato a dismisura il ventre della borghesia condannata al superconsumo.

Per essere alleviata nel suo penoso lavoro, la borghesia ha sottratto alla classe operaia una massa di uomini ben superiore a quella consacrata alla produzione utile, e l’ha condannata a sua volta all’improduttività e al superconsumo. Ma questo branco di bocche inutili, malgrado la sua voracità insaziabile, non basta a consumare tutte le merci che gli operai, abbrutiti dal dogma del lavoro, producono come maniaci senza volerle consumare e senza nemmeno pensare se si troveranno dei consumatori.

Di fronte a questa duplice follia dei lavoratori, di ammazzarsi di superlavoro e vegetare nell’astinenza, il grande problema della produzione capitalista non è più quello di trovare dei produttori e moltiplicare le loro forze, ma quello di scoprire dei consumatori, di eccitare i loro appetiti e di creare in loro dei falsi bisogni. Poiché gli operai europei, tremanti per il freddo e per la fame, rifiutano di indossare le stoffe che tessono, di bere i vini che producono, i poveri imprenditori devono correre agli antipodi, a rotta di collo, per cercare chi se le metta addosso e chi se li beva: sono centinaia di milioni e di miliardi che l’Europa esporta ogni anno ai quattro angoli del mondo a popolazioni che non sanno che cosa farsene *18. Ma i continenti esplorati non bastano piú, servono paesi vergini. Gli imprenditori europei sognano notte e giorno l’Africa, il lago del Sahara, la ferrovia del Sudan; seguono con ansia i progressi dei Livingstone, degli Stanley, dei Du Chaillu, dei de Brazza32; ascoltano a bocca aperta le mirabolanti avventure di questi coraggiosi viaggiatori. Quante meraviglie sconosciute racchiude il «continente nero»! Campi interi sono coltivati a zanne d’elefante, fiumi di olio di cocco trasportano pagliuzze d’oro, milioni di culi neri, nudi come la faccia di Dufaure e di Girardin33, sono in attesa dei tessuti di cotone per imparare la decenza, di bottiglie di acquavite e bibbie per conoscere le virtù della civiltà. Ma tutto è inutile: borghesi che si rimpinzano, classe domestica che diventa più numerosa della classe produttiva, nazioni straniere e barbare che vengono riempite di merci europee; niente, niente riesce a smaltire le montagne di prodotti che si ammucchiano più alte e più enormi delle piramidi d’Egitto: la produttività degli operai europei sfida ogni consumo, ogni spreco. Gli imprenditori, impazziti, non sanno più dove sbattere la testa, non sanno più dove trovare la materia prima per soddisfare la passione sregolata e depravata dei loro operai per il lavoro. Nei nostri distretti lanieri si sfilacciano gli stracci sudici e quasi marci e se ne fanno delle stoffe cosiddette rigenerate, che durano quanto le promesse elettorali; a Lione, invece di lasciare alla fibra serica la sua semplicità e la sua naturale morbidezza, la si carica di sali minerali che aumentandone il peso la rendono friabile e di breve durata. Tutti i nostri prodotti sono adulterati per facilitarne il logoramento e abbreviarne l’esistenza. La nostra epoca sarà chiamata l’età della falsificazione, proprio come le prime epoche dell’umanità sono state chiamate età della pietra, età del bronzo, dal carattere della loro produzione. Degli ignoranti accusano di frode i nostri pii industriali, quando in realtà l’intento che li anima è di dare lavoro agli operai, che non sanno rassegnarsi a vivere con le braccia incrociate. Queste falsificazioni, che hanno come unico movente un sentimento umanitario ma procurano superbi profitti agli imprenditori che le praticano, se sono disastrose per la qualità delle merci, se sono una fonte inesauribile di spreco del lavoro umano, testimoniano la filantropica ingegnosità dei borghesi e l’orribile perversione degli operai che, per appagare il loro vizio del lavoro, obbligano gli industriali a soffocare le proteste della loro coscienza e perfino a violare le leggi dell’onestà commerciale.

Eppure, nonostante la sovrapproduzione di merci, nonostante le falsificazioni industriali, gli operai ingombrano innumerevoli il mercato implorando: «lavoro! lavoro!». La loro sovrabbondanza dovrebbe costringerli a frenare la loro passione, e invece la porta al parossismo. Appena si presenta una possibilità di lavoro, ci si avventano sopra; e allora eccoli reclamare dodici, quattordici ore di fatica per sentirsi sazi, per poi essere gettati sul lastrico il giorno dopo, senza piú niente per alimentare il loro vizio. Ogni anno, in tutte le industrie, la disoccupazione ritorna con la regolarità delle stagioni. Al superlavoro che strazia l’organismo segue il riposo assoluto per due mesi o quattro; e niente lavoro, niente brodaglia. Poiché il vizio del lavoro è diabolicamente radicato nel cuore degli operai, poiché le sue esigenze soffocano ogni altro istinto naturale, poiché la quantità di lavoro richiesta dalla società è necessariamente limitata dal consumo e dalla disponibilità di materie prime, perché divorare in sei mesi il lavoro di tutto un anno? Perché non distribuirlo uniformemente nei dodici mesi e obbligare ogni operaio ad accontentarsi di sei o cinque ore al giorno nel corso dell’anno, invece di prendere indigestioni di dodici ore in sei mesi? Rassicurati sulla loro parte quotidiana di lavoro, gli operai non saranno più prigionieri delle gelosie reciproche, non si combatteranno più per strapparsi il lavoro di mano e il pane di bocca. Allora, non più sfiniti nel corpo e nello spirito, cominceranno a praticare le virtù dell’ozio.

Inebetiti dal loro vizio, gli operai non hanno saputo capire che per avere lavoro per tutti bisognava razionarlo come l’acqua su una nave in difficoltà. Tuttavia gli industriali, in nome dello sfruttamento capitalistico, hanno da tempo richiesto una limitazione legale della giornata di lavoro. Di fronte alla Commissione del 1860 sull’insegnamento professionale, uno dei più grandi industriali manifatturieri dell’Alsazia, Bourcart, di Guebwiller, dichiarava che

la giornata di dodici ore era eccessiva e doveva essere riportata a undici ore, e si doveva sospendere il lavoro alle due del sabato. Posso consigliare l’adozione di questa misura che a prima vista può sembrare onerosa; l’abbiamo sperimentata nei nostri stabilimenti industriali da quattro anni e ci troviamo bene: la produzione media, invece di diminuire, è aumentata.

Nel suo studio sulle macchine, F. Passy34 cita la seguente lettera di un grande industriale belga, Ottavaere:

Le nostre macchine, anche se sono le stesse delle filature inglesi, non producono quanto dovrebbero produrre, e neppure quanto producono le stesse macchine in Inghilterra, nonostante le filature inglesi lavorino due ore in meno al giorno […] Noi lavoriamo due ore intere di troppo; sono convinto che se si lavorasse undici ore invece di tredici, avremmo la stessa produzione e produrremmo dunque più economicamente.

D’altra parte Leroy-Beaulieu35 afferma che

un grande industriale manifatturiero belga ha osservato che le settimane in cui cade un giorno festivo non danno una produzione inferiore a quella delle settimane ordinarie.

Quello che il popolo, imbrogliato nella sua ingenuità dai moralisti, non ha mai osato, l’ha osato un governo aristocratico. Ignorando le alte considerazioni morali e industriali degli economisti, che come gli uccelli del malaugurio gracchiavano che la diminuzione di un’ora di lavoro nelle fabbriche avrebbe comportato la rovina dell’industria inglese, il governo d’Inghilterra ha proibito, con una legge rigorosamente rispettata, di lavorare piú di dieci ore al giorno; e oggi come ieri l’Inghilterra resta la prima nazione industriale del mondo.

La grande esperienza inglese, l’esperienza di qualche capitalista intelligente, è lí a dimostrare inequivocabilmente che per potenziare la produttività umana bisogna ridurre le ore di lavoro e moltiplicare i giorni di paga e di festa, ma il popolo francese non se ne convince. Ma se una miserabile riduzione di due ore ha aumentato in dieci anni di piú di un terzo la produzione inglese*19, quale ritmo vertiginoso imprimerà alla produzione francese una riduzione legale della giornata di lavoro a tre ore? Non riescono dunque a capire gli operai che sovraccaricandosi di lavoro esauriscono le loro forze e quelle dei loro figli? che, spremuti, diventano prematuramente incapaci di ogni lavoro? che, assorbiti, abbrutiti da un unico vizio non sono piú uomini ma tronchi umani? che uccidono in se stessi ogni bella facoltà per lasciare in piedi soltanto, e quanto rigogliosa, la furiosa follia del lavoro?

Ah, come pappagalli d’Arcadia ripetono la lezione degli economisti: «Lavoriamo, lavoriamo per accrescere la ricchezza nazionale». Che idioti! È perché lavorate troppo che l’apparato industriale si sviluppa lentamente. Smettetela di ragliare e ascoltate un economista: non è un’aquila, è soltanto L. Reybaud*20, che abbiamo avuto la fortuna di perdere qualche mese fa:

In generale, è sulle condizioni della manodopera che si regola la rivoluzione nei metodi di lavoro. Finché la manodopera si offre a basso costo, se ne fa spreco; si cerca di risparmiarla quando i suoi servizi diventano piú costosi.

Per costringere i capitalisti a perfezionare le loro macchine di legno e di ferro, bisogna aumentare i salari e diminuire le ore di lavoro delle macchine di carne e ossa.  Ne volete le prove? Se ne possono dare a centinaia. Nella filatura, il telaio intermittente (self acting mule) fu inventato e messo in funzione a Manchester perché i filatori si rifiutavano di lavorare allo stesso ritmo di prima.

In America la macchina invade ogni settore della produzione agricola, dalla fabbricazione del burro alla sarchiatura del grano: perché? Perché l’americano, libero e ozioso, preferirebbe morire mille volte piuttosto che condurre l’esistenza bovina dei contadini francese. L’aratura, così faticosa nella nostra gloriosa Francia, così generosa di lombaggini, nell’ovest americano è un piacevole passatempo all’aria aperta che ci si prende stando seduti e fumando con noncuranza la propria pipa.

IV. A NUOVA MUSICA, NUOVA CANZONE

Se diminuendo le ore di lavoro si conquistano alla produzione sociale nuove forze meccaniche, obbligando gli operai a consumare i loro prodotti, si otterrà un immenso esercito di forza-lavoro. Allora la borghesia, esonerata dal suo compito di consumatore universale, si affretterà a licenziare la schiera di soldati, magistrati, giornalisti, ruffiani ecc. che ha sottratto al lavoro utile per farsi aiutare nel consumo e nello spreco. Allora il mercato del lavoro strariperà, e si renderà necessaria una legge ferrea per proibire il lavoro: sarà impossibile trovare qualcosa da fare per questa folla di ex-improduttivi, più numerosi dei tarli. E dopo costoro bisognerà pensare a tutti quelli che provvedevano ai loro bisogni, ai loro gusti futili e dispendiosi. Quando non ci saranno più lacchè e generali da gallonare, prostitute libere e maritate da coprire di merletti, cannoni da fondere, palazzi da costruire, bisognerà imporre con leggi severe alle operaie e agli operai delle passamanerie, dei pizzi, della siderurgia, dell’edilizia, di dedicarsi al canottaggio igienico e agli esercizi coreografici per ristabilire la loro salute e migliorare la razza. Poiché i prodotti europei, consumati sul posto, non saranno più trasportati a casa del diavolo, sarà necessario che i marinai, i manovali, i trasportatori si mettano finalmente a sedere e imparino a girarsi i pollici. I felici polinesiani potranno allora dedicarsi all’amore libero senza temere i calci della venere civilizzata e le prediche della morale europea.

C’è di più. Per trovare lavoro per tutti gli improduttivi della società attuale, e permettere all’apparato industriale di svilupparsi senza limiti, la classe operaia dovrà, come la borghesia, violentare il proprio gusto per l’astinenza e sviluppare senza limiti le sue capacità di consumo. Invece di mangiare, quando ne mangia, una o due once di carne coriacea al giorno, mangerà splendide bistecche di una o due libbre; invece di bere moderatamente del pessimo vino, più cattolica del papa si berrà bicchieri colmi di bordeaux e di bourgogne, senza battesimo industriale, e lascerà l’acqua alle bestie.

I proletari si sono messi in testa di infliggere ai capitalisti dieci ore di fonderia e di raffineria: è questo il grande errore, la causa degli antagonismi sociali e delle guerre civili. Bisognerà proibire, non imporre il lavoro. Ai Rothschild, ai Say36 sarà concesso di dimostrare di essere stati per tutta la vita dei perfetti farabutti; e se giureranno di voler continuare a vivere da perfetti farabutti nonostante le generali pulsioni al lavoro, saranno messi in lista e dai loro rispettivi municipi riceveranno ogni mattina una moneta da venti franchi per i piccoli piaceri. Le discordie sociali svaniranno. I possidenti, i capitalisti, tutti i maggiorenti, aderiranno al partito popolare una volta convinti che non si vuole far loro del male, e si vuole al contrario liberarli dal lavoro del superconsumo e dello spreco che li ha oppressi fin dalla nascita. Quanto ai borghesi incapaci di ammettere i loro titoli di farabutti, saranno lasciati liberi di seguire i loro istinti; ce ne sono di mestieri disgustosi per sistemarli: Dufaure a pulire le latrine pubbliche, Galliffet a sgozzare i maiali rognosi e i cavalli idropici, i membri della commissione di grazia, a Poissy37, a marchiare i buoi e i montoni da abbattere, i senatori a fare i becchini delle pompe funebri. Per altri si potrebbero trovare mestieri all’altezza della loro intelligenza. Lorgeril, Broglie38 potrebbero mettere i tappi alle bottiglie di champagne, ma con la museruola per impedire che si sbronzino. Ferry, Freycinet, Tirard39 si occuperebbero dello sterminio delle cimici e dei parassiti dei ministeri e di altri edifici pubblici. Bisognerà tuttavia tenere il denaro pubblico alla larga dalla portata dei borghesi, temendo le loro abitudini inveterate.

Ma ci prenderemo una dura e lunga e lunga vendetta dei moralisti che hanno pervertito la natura umana, dei bacchettoni, dei bigotti, degli ipocriti

e simili genie di individui che si sono cammuffati per imbrogliare il mondo. Perché, dando a intendere alla gente comune di non essere dediti ad altro che a contemplazioni, devozioni, digiuni e macerazioni dei sensi, tranne quel minimo indispensabile per sostenere e alimentare la misera fragilità della loro natura umana, in realtà fanno baldoria come Dio solo sa, et Curios simulant sed Bacchanalia vivunt40. Lo potete leggere a grandi lettere e in miniatura sui loro faccioni tutti rossi e sulle loro pance putride, quando non si profumano di zolfo41.

Nei giorni delle grandi feste popolari, quando invece di ingoiare polvere come nel 15 agosto e nel 14 luglio del borghesismo i comunisti e i collettivisti faranno girare le bottiglie, trottare i prosciutti e volare i bicchieri, i membri dell’Accademia delle scienze morali e politiche, i preti a tonaca corta e lunga della chiesa economica, cattolica, protestante, ebraica, positivista e libero-pensatrice, i predicatori del malthusianesimo e della morale cristiana, altruista, indipendente o sottomessa, vestiti di giallo reggeranno il moccolo fino a bruciarsi le dita, e soffriranno la fame accanto a donne gallesi e a tavole imbandite di carni, frutta e fiori, e moriranno di sete accanto a barili scoperchiati. Quattro volte all’anno, al mutare delle stagioni, come i cani degli arrotini saranno rinchiusi dentro le grandi ruote e condannati a macinare il vento. Gli avvocati e i giudici subiranno la stessa pena. In regime di ozio, per ammazzare il tempo che ci uccide secondo per secondo, ci saranno in continuazione spettacoli e rappresentazioni teatrali; è un lavoro già trovato per i nostri borghesi legislatori: saranno organizzati in compagnie di giro, a dare rappresentazioni legislative per fiere e villaggi. I generali, in stivali alla scudiera, il petto gallonato di stringhe, patacche e croci della Legion d’onore, andranno per strade e piazze a raccogliere il pubblico. Gambetta e Cassagnac42, suo compare, faranno gli imbonitori all’ingresso. Cassagnac, in gran tenuta da ammazzasette, roteando gli occhi, torcendo i baffi, sputando stoppa infuocata, minaccerà il pubblico con la pistola del padre e scomparirà in una botola appena gli verrà mostrato il ritratto di Lullier43. Gambetta farà discorsi sulla politica estera, sulla piccola Grecia che tanto lo preoccupa e metterà l’Europa a ferro e fuoco pur di fottere la Turchia; sulla grande Russia che lo fa impazzire con il pateracchio che minaccia di concludere con la Prussia e che si augura sciagure a catena sull’Europa occidentale per aver mano libera a est e stroncare il nichilismo all’interno; su Bismarck44 che è stato così buono da permettergli di pronunciarsi sull’amnistia… poi, denudandosi il pancione dipinto col tricolore, vi batterà sopra l’adunata ed elencherà le deliziose bestiole, le pernici, i tartufi, i bicchieri di margaux e di yquem, che si è ingoiato per incoraggiare l’agricoltura e intrattenere in festa gli elettori di Belleville45.

All’interno del baraccone si comincerà con la Farsa elettorale. Di fronte agli elettori con teste di legno e orecchie d’asino, i candidati borghesi vestiti da pagliacci balleranno la danza delle libertà politiche, pulendosi la faccia e il culo con i loro programmi elettorali dalle mille promesse, e parlando con le lacrime agli occhi delle glorie della Francia; e le teste degli elettori a ragliare in coro: hihò hihò…

Poi avrà inizio la grande opera teatrale Il furto dei beni della nazione.

La Francia capitalista, femmina enorme, dalla faccia pelosa, calva, sformata, le carni flaccide, gonfie, giallastre, gli occhi spenti e assonnati, se ne sta sdraiata su un divano di velluto; ai suoi piedi il Capitalismo industriale, gigantesco organismo di ferro con maschera scimmiesca, divora meccanicamente uomini, donne, bambini le cui grida lugubri e strazianti riempiono l’aria; la Banca, muso di faina, corpo di iena e grinfie d’arpia, gli sfila di tasca con abilità le monete da cento soldi. Orde di miserabili proletari, macilenti, stracciati, scortati da gendarmi con la spada sguainata, incalzati da furie che li sferzano con la frusta della fame, portano ai piedi della Francia capitalista montagne di merci, barili di vino, sacchi d’oro e di grano. Langlois46, con le mutande in una mano e il testamento di Proudhon nell’altra, il libro del bilancio tra i denti, si piazza alla testa dei difensori dei beni della nazione e monta la guardia. Deposti i fardelli, coi calci dei fucili e le baionette fanno scacciare gli operai e aprono la porta agli industriali, ai commercianti e ai banchieri che si precipitano sul cumulo di merci ingoiando tessuti di cotone, sacchi di grano, lingotti d’oro, vuotando barili; quando non ne possono più, luridi, disgustosi, si accasciano sulle loro lordure e i loro vomiti… Allora il tuono esplode, la terra trema e si spalanca, si erge il Destino storico; con il suo piede di ferro schiaccia le teste di quelli che singhiozzano, esitano, cadono e non riescono a fuggire, e con la sua grande mano rovescia la Francia capitalista, attonita e madida di sudore per la paura.

Se, sradicando dal proprio cuore il vizio che la domina e ne avvilisce la natura, la classe operaia si sollevasse con la sua forza terribile, non per reclamare i Diritti dell’uomo, che non sono altro che i diritti dello sfruttamento capitalistico, non per reclamare il Diritto al lavoro, che non è altro che il diritto alla miseria, ma per forgiare una legge inderogabile che proibisca a ognuno di lavorare più di tre ore al giorno, la Terra, la vecchia Terra, fremente di gioia sentirebbe nascere in sé un nuovo universo… Ma come chiedere a un proletariato corrotto dalla morale capitalista una risoluzione virile?

Come il Cristo, dolente personificazione della schiavitù antica, gli uomini, le donne, i bambini del proletariato ascendono penosamente da un secolo il duro calvario del dolore: da un secolo il lavoro forzato spezza le loro ossa, strazia le loro carni, attanaglia i loro nervi; da un secolo la fame torce le loro viscere e rende allucinati i loro cervelli!... Ozio, abbi pietà della nostra lunga miseria! Ozio, padre delle arti e delle nobili virtù, sii il balsamo delle angosce umane!

APPENDICE

I nostri moralisti sono davvero modesti; se hanno inventato il dogma del lavoro, dubitano della sua efficacia per la tranquillità dell’anima, per il benessere dello spirito e il buon funzionamento dei reni e di altri organi. Vogliono sperimentarne l’impiego sul popolo, in anima vili, prima di ritorcerlo contro i capitalisti dei quali hanno la missione di scusare e autorizzare i vizi.

Ma, filosofi da quattro soldi la dozzina, perché spremervi così il cervello per elucubrare una morale di cui non osate consigliare la pratica ai vostri padroni? Il vostro dogma del lavoro, di cui andate tanto fieri, volete vederlo schernito, vituperato? Apriamo la storia dei popoli antichi e gli scritti dei loro filosofi, dei loro legislatori.

Non saprei affermare – dice il padre della storia, Erodoto – se i Greci abbiano ripreso dagli Egiziani il disprezzo del lavoro, perché trovo lo stesso disprezzo presso i Traci, gli Sciti, i Persiani, i Lidi; in una parola, perché presso la maggior parte dei barbari coloro che apprendono le arti meccaniche, e anche i loro figli, sono considerati gli ultimi dei cittadini […]. Tutti i Greci sono stati educati secondo questi principi, gli Spartani*21 in particolare. Ad Atene, i cittadini erano dei veri nobili che dovevano occuparsi solo della difesa e dell’amministrazione della comunità, come i fieri guerrieri da cui discendevano. Dovendo dunque impiegare tutto il loro tempo per vegliare, con la forza della loro intelligenza e del loro corpo, sugli interessi della Repubblica, scaricavano ogni lavoro sugli schiavi. Ugualmente a Sparta, le donne stesse non dovevano né filare né tessere per non contravvenire alla loro nobiltà*22.

I Romani riconoscevano come nobili e liberi due soli mestieri: l’agricoltura e le armi; tutti i cittadini vivevano di diritto a spese del Tesoro, senza poter essere costretti a provvedere alla propria sopravvivenza con alcuna delle sordidae artes (così indicavano i mestieri) riservate per legge agli schiavi. Bruto il vecchio, per sollevare il popolo, soprattutto accusò Tarquinio il Superbo di aver fatto di cittadini liberi degli artigiani e dei muratori*23.

I filosofi antichi disputavano sull’origine delle idee, ma si trovavano subito d’accordo se si trattava di aborrire il lavoro.

La natura – dice Platone nella sua utopia sociale, nella sua Repubblica modello – non ha creato né calzolai né fabbri; simili occupazioni sono degradanti per chi le esercita: vili mercenari, miserabili senza nome che a causa della loro condizione sono privati anche dei diritti politici. Quanto ai commercianti abituati a mentire e a imbrogliare, nella città saranno sopportati solo come un male necessario. Il cittadino che si sarà degradato con il commercio di bottega, per questo delitto sarà perseguito. Se convinto della sua colpa, sarà condannato a un anno di prigione. La punizione sarà doppia a ogni recidiva*24.

Nel suo Economico, Senofonte scrive:

Coloro che si dedicano ai lavori manuali non vengono mai eletti alle cariche pubbliche, e giustamente. La maggior parte di loro, condannati a restare seduti tutto il giorno, alcuni anche esposti a un fuoco continuamente acceso, non possono evitare di averne il corpo alterato, ed è molto difficile che lo spirito non ne risenta.

Cosa può mai uscire di onorevole da una bottega? – dichiara Cicerone, – cosa può produrre di onesto il commercio? Tutto ciò che si chiama bottega è indegno di un uomo perbene […]. I commercianti non possono guadagnare senza mentire, e niente è più vergognoso della menzogna! Si deve dunque considerare basso e vile il mestiere di tutti coloro che vendono la loro fatica e la loro abilità, perché chiunque offra il suo lavoro in cambio di denaro vende sé stesso e si mette al livello degli schiavi*25.

Proletari, abbrutiti dal dogma del lavoro, ascoltate il linguaggio di questi filosofi che con tanta cura vi è tenuto nascosto: un cittadino che offre il proprio lavoro in cambio di denaro si mette al livello degli schiavi, commette un crimine che merita anni di prigione.

L’ipocrisia cristiana e l’utilitarismo capitalista non avevano pervertito questi filosofi delle antiche Repubbliche; rivolgendosi a uomini liberi, esponevano apertamente le proprie idee. Platone, Aristotele, questi giganti del pensiero, di cui i nostri Cousin, Caro47, Simon non possono arrivare alla caviglia se non alzandosi sulla punta dei piedi, volevano che i cittadini delle loro Repubbliche ideali fossero padroni del proprio tempo perché, aggiungeva Senofonte: «il lavoro si porta via tutto il tempo, e non ne resta piú per lo Stato e per gli amici». Secondo Plutarco, il grande merito di Licurgo, «il piú saggio degli uomini», indicato cosí all’ammirazione dei posteri, era quello di aver accordato tempo libero ai cittadini della Repubblica, proibendo loro qualsiasi mestiere*26.

Ma, replicheranno i Bastiat, Dupanloup, Beaulieu48 e tutta la compagnia della morale cristiana e capitalista, questi pensatori, questi filosofi erano fautori della schiavitú. È vero, ma poteva essere altrimenti date le condizioni economiche e politiche della loro epoca? La guerra era la condizione normale delle società antiche; l’uomo libero doveva dedicare il suo tempo alla discussione degli affari dello Stato e a vegliare sulla sua difesa; i mestieri erano troppo primitivi e troppo rozzi perché, praticandoli, fosse possibile esercitare il proprio mestiere di soldato e di cittadino; per avere dei guerrieri e dei cittadini, i filosofi e i legislatori dovevano tollerare gli schiavi nelle eroiche Repubbliche. Ma i moralisti e gli economisti del capitalismo non sono forse fautori della schiavitú moderna del lavoro salariato? E a quali uomini la schiavitú moderna concede gli svaghi del tempo libero? A dei Rothschild, a degli Schneider, a delle signore Boucicaut49, inutili e nocivi, schiavi dei loro vizi e dei loro domestici.

«Il pregiudizio della schiavitú dominava lo spirito di Pitagora e di Aristotele», è stato scritto sdegnosamente; e tuttavia Aristotele prevedeva che «se ogni strumento potesse eseguire su comando, o meglio da solo, la propria funzione, come da soli si muovevano i capolavori di Dedalo, o come i treppiedi di vulcano si mettevano spontaneamente al loro sacro lavoro, se per esempio le spole dei tessitori tessessero da sole, il maestro d’arte non avrebbe piú bisogno di aiuti, né il padrone di schiavi».

Il sogno di Aristotele è la nostra realtà. Le nostre macchine dal respiro di fuoco, dalle membra d’acciaio, instancabili, dalla fecondità meravigliosa, inesauribile, compiono docilmente da sole il loro sacro lavoro, e tuttavia il genio dei grandi filosofi del capitalismo resta dominato dal pregiudizio del lavoro salariato, la peggiore delle schiavitù. Costoro ancora non comprendono che la macchina è il redentore dell’umanità, il Dio che riscatterà l’uomo dalle sordidae artes e dal lavoro salariato, il Dio che gli darà tempo liberato, ozio e libertà.


Note

*1. Descartes, Les Passions de l’âme [N.d.A.].

*2. J. Beddoe, Memois of the Anthropological Society; Ch. Darwin, Descent of man [N.d.A.].

*3. Gli esploratori europei restano stupiti di fronte alla bellezza fisica e al portamento fiero degli uomini delle popolazioni primitive, non contaminati da quello che Pœppig5 definiva l’«alito avvelenato della civiltà». Parlando degli aborigeni delle isole oceaniche, lord George Campbell scrive: «Non c’è popolo al mondo che colpisca di più al primo sguardo. La pelle liscia e di un colore leggermente ramato, i capelli dorati e ricci, il bel volto gioioso, in una parola tutta la loro persona formava un nuovo e splendido esemplare del genus homo; il loro aspetto fisico dava l’impressione di una razza superiore alla nostra». I civilizzati dell’antica Roma, i Cesare, i Tacito, contemplavano con la stessa ammirazione i Germani delle tribù comuniste che invadevano l’impero romano. Come Tacito, Salviano, il prete del v secolo soprannominato il maestro del vescovi, indicava come esempio i barbari ai civilizzati e ai cristiani: «Siamo degli impudichi in mezzo ai barbari, più casti di noi. E per di più i barbari sono offesi dalle nostre impudicizie, i Goti non tollerano che ci siano tra loro dei dissoluti della loro nazione; tra loro solo i romani, per il triste privilegio della loro nazionalità e del loro nome, hanno il diritto di essere impuri. (La pederastia era allora di gran moda tra i pagani e i cristiani…). Gli oppressi se ne vanno tra i barbari in cerca di un rifugio e di umanità» (De Gubernatione Dei). La vecchia civiltà e il cristianesimo nascente corruppero i barbari del mondo antico, cosí come il cristianesimo invecchiato e la moderna civiltà capitalista corrompono i selvaggi del nuovo mondo.

F. L. Play, di cui dobbiamo riconoscere le doti di osservatore, anche se ne rifiutiamo le conclusioni sociologiche intrise di ciarpame filantropico e cristiano, dice nel suo libro Gli operai europei (1855): «La propensione dei Baschiri per l’ozio [i Baschiri sono pastori semi-nomadi del versante asiatico degli Urali], gli svaghi della vita nomade, le pratiche abituali di meditazione che sono coltivate negli individui piú dotati, conferiscono spesso a costoro una distinzione di modi, una finezza d’intelligenza e di giudizio che si notano raramente allo stesso livello sociale in una civiltà piú sviluppata… Ciò che loro ripugna maggiormente sono i lavori agricoli: fanno di tutto piuttosto che accettare il mestiere di agricoltore». In effetti l’agricoltura è la prima manifestazione del lavoro servile nella storia dell’umanità. Secondo la tradizione biblica il primo criminale, Caino, è un agricoltore [N.d.A.].

*4. Dice un proverbio spagnolo: Descansar es salud (riposarsi è salute) [N.d.A.].

*5. «O Melibeo, quest’ozio è il dono di un dio» (virgilio, Bucoliche) [N.d.A.].

*6. Vangelo secondo Matteo, cap.VI [N.d.A.].

*7. Un saggio sugli affari e il commercio [N.d.A.].

*8. Al primo congresso di beneficenza che si tenne a Bruxelles nel 1857, Scrive, uno  dei piú ricchi imprenditori manifatturieri di Marquette, nei dintorni di Lille, raccontava, tra gli applausi dei membri del congresso e con la piú nobile soddisfazione di un dovere compiuto: «Abbiamo introdotto qualche distrazione per i bambini. Insegniamo loro a cantare durante il lavoro, e anche a contare lavorando: ciò li distrae e fa loro accettare con coraggio queste dodici ore di lavoro che sono necessarie per procurarsi i mezzi di sopravvivenza». Dodici ore di lavoro, e quale lavoro!, imposte a dei bambini che non hanno neppure dodici anni! I materialisti rimpiangeranno sempre che non esista un inferno per inchiodarci questi cristiani, questi filantropi, carnefici dell’infanzia!8 [N.d.A.].

*9. L.-R. Villermé, Tableau de l’état physique et moral des ouvriers dans les fabriques de coton, de laine et de soie, 1840. Non certo perché erano dei repubblicani, dei patrioti e dei filantropi protestanti, i Dollfus, i Koechlin e gli altri industriali alsaziani trattavano in quel modo i loro operai, perché Blanqui l’accademico, Reybaud il prototipo di Jérôme Paturot, e Jules Simon, il maître Jacques della politica, hanno constatato le stesse amenità per la classe operaia impiegata dagli industriali cattolicissimi e ultramonarchici di Lille e di Lione. Si tratta di virtú capitalistiche che si armonizzano magnificamente con tutte le convinzioni politiche e religiose  [N.d.A.]21.

*10. Gli indiani delle bellicose tribú del Brasile uccidono i loro malati e i loro vecchi; testimoniano cosí il loro affetto, mettendo fine a una vita non piú rallegrata da combattimenti, feste e danze.  Tutti i popoli primitivi hanno riservato ai loro congiunti queste prove d’affetto: i Massageti del mar Caspio (Erodoto), cosí come i Wens della Germania e i Celti della Gallia. Nelle chiese della Svezia ancora recentemente si conservavano delle mazze, dette «mazze familiari», che servivano a liberare i genitori dalle tristezze della vecchiaia. Quanto sono degenerati i proletari moderni per accettare pazientemente le spaventose miserie del lavoro di fabbrica! [N.d.A.].

*11. Lavorazione particolare delle sete in forme ovali [N.d.A.].

*12. Al Congresso degli industriali che si tenne a Berlino il 21 gennaio 1879 si stimava in 568 milioni di franchi la perdita subita dall’industria del ferro in Germania durante l’ultima crisi [N.d.A.].28.

*13. La «Justice» di Clemenceau, nella sua parte finanziaria, il 6 aprile diceva: «Abbiamo sentito sostenere questa opinione: che, anche senza la Prussia, i miliardi della guerra del 1870 sarebbero andati ugualmente persi per la Francia, anche sotto forma di prestiti periodicamente emessi per l’equilibrio dei bilanci esteri; è anche la nostra opinione». Si calcola in 5 miliardi la perdita dei capitali inglesi nei prestiti alle repubbliche del Sudamerica. I lavoratori francesi non solo hanno prodotto i 5 miliardi pagati a Bismark, ma continuano a servire gli interessi delle indennità di guerra agli Ollivier, ai Girardin, ai Bazaine e agli altri portatori di titoli di rendita che hanno causato la guerra e la catastrofe. Tuttavia resta loro un premio di consolazione: questi miliardi non causeranno guerre per il loro recupero [N.d.A.].

*14. Sotto l’Ancien Régime le leggi della Chiesa garantivano al lavoratore 90 giorni di riposo (52 domeniche e 38 giorni feriali) durante i quali era rigorosamente proibito lavorare. Era il grande crimine del cattolicesimo, la causa principale dell’irreligiosità della borghesia industriale e commerciale. Sotto la Rivoluzione, appena fu al potere, la borghesia abolí i giorni di ferie e sostituí la settimana di sette giorni con quella di dieci. Affrancò gli operai dal giogo della Chiesa per meglio sottometterli a quello del lavoro. 
  L’odio per i giorni festivi si manifesta solo quando la moderna borghesia industriale e commerciale prende corpo, tra il XV e il XVI secolo. Enrico IV ne chiese la riduzione al papa, che rifiutò perché «una delle eresie oggi diffuse riguarda i giorni festivi» (lettera del cardinale d’Ossat). Ma nel 1666 Péréfixe, arcivescovo di Parigi, ne soppresse diciassette nella sua diocesi. Il protestantesimo, che era la religione cristiana adattata ai nuovi bisogni industriali e commerciali della borghesia, fu ancora meno interessato al riposo popolare: detronizzò dal cielo i santi per abolire sulla terra le loro feste. La riforma religiosa e il libero pensiero filosofico erano solo pretesti che permisero alla borghesia gesuitica e rapace di eliminare i giorni di festa del popolo [N.d.A.].

*15. Queste feste pantagrueliche duravano settimane. Don Rodrigo de Lara conquista la sua fidanzata scacciando i Mori da Calatrava la vecchia, e il Romancero narra che: «Las bodas fueron en Burgos  / Las tornabodas en Salas: / En bodas y tornabodas / Pasaron siete semanas. / Tantas vienen de las gentes / Que no caben por las plazas  […]» (Le nozze avvennero a Burgos, / il ritorno dalle nozze a Salas:  / tra nozze e ritorno dalle nozze / passarono sette settimane. / Tanta gente accorse / che le piazze non potevano contenerla […]). Gli uomini che parteciparono a queste nozze di sette settimane erano gli eroici soldati delle guerre d’indipendenza [N.d.A.].

*16. Karl Marx,  Il Capitale I, 13, 7 [N.d.A.].

*17. «La proporzione secondo la quale la popolazione di un paese è impiegata come domestica al servizio delle classi agiate, indica il suo progresso in ricchezza nazionale e civiltà» (R. M. Martin, Ireland before and after the Union, 1818). Gambetta, che negava la questione sociale da quando non era piú l’avvocato spiantato del Café Procope, senza dubbio intendeva riferirsi a questa classe di servitori in continuo aumento quando reclamava l’avvento dei nuovi strati sociali [N.d.A.].

*18. Due esempi: il governo inglese, per compiacere i paesi indiani che, nonostante le periodiche carestie che affliggono il paese, si ostinano a coltivare il papavero invece del riso o del grano, ha dovuto intraprendere guerre sanguinose per imporre al governo cinese la libera circolazione dell’oppio indiano. I selvaggi della Polinesia, nonostante la mortalità che ne conseguí, dovettero vestirsi e ubriacarsi all’inglese per consumare i prodotti delle distillerie scozzesi e delle fabbriche tessili di Manchester [N.d.A.]

*19. Ecco, secondo il celebre statistico R. Giffen dell’Ufficio di Statistica di Londra, la progressione crescente della ricchezza nazionale dell’Inghilterra e dell’Irlanda: nel 1814 era di 55 miliardi di franchi, nel 1865 di 162,5 miliardi di franchi, nel 1875 di 212,5 miliardi di franchi [N.d.A.].

*20. Louis Reybaud, Le Coton, son régime, ses problèmes, 1863 [N.d.A.].

*21. Erodoto, Storie, Libro II [N.d.A.].

*22. Biot, De l’abolition de l’esclavage ancien en Occident, 1840 [N.d.A.].

*23. Tito Livio, Storia di Roma, libro I [N.d.A.].

*24. Platone, Repubblica, libro V [N.d.A.].

*25. Cicerone, Dei doveri, I, tit. II, cap. 42 [N.d.A.].

*26. Platone, Repubblica, V, e Le leggi, III; Aristotele, Politica, I e vII; Senofonte, Economico, IV e VI; Plutarco, Vita di Licurgo [N.d.A.].


1. Il repubblicano Léon Gambetta (1838-1882), ministro dell’Interno nel governo provvisorio del 1870; il generale Gaston de Galliffet (1830-1909), il «fucilatore», responsabile della sanguinosa repressione della Comune di Parigi nel 1871; Claude-Joseph Bonnet (1786-1867), industriale della seta a Lione; i Rothschild, la potente dinastia della finanza europea.

2. Lafargue in questo momento è esule a Londra e pubblica Le droit à la paresse sul periodico parigino «L’Égalité», in forma di articoli dal 23 giugno al 4 agosto. Rientrato a Parigi nel 1882, sarà arrestato l’anno successivo; nel carcere di Sainte-Pélagie rivedrà e amplierà gli articoli per pubblicarli in volume nel 1883.

3. Adolphe Thiers (1797-1877), giornalista, storico e politico. Liberale, presidente della terza repubblica nel 1871, represse nel sangue la Comune di Parigi.

4. Gotthold Ephraïm Lessing (1729-1781), scrittore, philosophe e drammaturgo tedesco, autore della commedia Nathan il saggio (1779) ispirata ai valori della solidarietà e della tolleranza.

5. Eduard Friedrich Pœppig (1798-1868), zoologo e naturalista tedesco, esploratore in Perú e in Amazzonia; George Campbell (1823-1900), economista, sociologo e politico liberale inglese; Frédéric Le Play (1806-1882), economista e sociologo francese.

6. Abitanti dell’Auvergne, regione della Francia centro-meridionale.

7. François Guizot (1787-1874), storico e politico, capo del governo dopo la rivoluzione del luglio 1830, liberale approdato a posizioni conservatrici.

8. Antoine  Scrive-Labbé (1789-1864), grande industriale del tessile a Lille, introdusse tecnologie inglesi in Francia.

9. Il governo provvisorio della rivoluzione del 1848 aveva stabilito la durata della giornata di lavoro a dieci ore a Parigi, a undici in provincia; nello stesso anno il successivo governo Cavaignac la fissò a dodici ore.

10. Componimenti satirici in versi dei secoli XII-XIII.

11. Riferimento alla «dive bouteille» di Rabelais.

12. Jules Simon (1814-1896), repubblicano conservatore, filosofo, presidente del consiglio nel 1876-1877.

13. Charles Lebègue de Germiny (1799-1871), finanziere e politico, ministro delle finanze nel 1851, presidente della Banque de France dal 1857 al 1863.

14. L’economista liberale Paul Leroy-Beaulieu (1843-1916), il filosofo positivista Auguste Comte (1798-1857), lo scrittore e poeta victor Hugo (1802-1885), che sarà oggetto di un violento pamphlet politico di Lafargue nel 1885, e Paul de Kock (1793-1871), drammaturgo e chansonnier.

15. Il celebre scrittore e moralista Jean de La Bruyère (1645-1696).

16. Louis-René villermé (1782-1863), medico, autore nel 1840  del sociologico Tableau de l’état physique et moral des ouvriers employés dans les manufactures de coton, de laine et de soie.

17. L’Académie des sciences morales et politiques, di cui villermé fu nominato presidente nel 1849.

18. I grandi notabili del pensiero e della politica liberale; «Blanqui l’accademico» è Adolphe Blanqui (1798-1851), fratello del rivoluzionario Louis-Auguste Blanqui (1805-1881), repubblicano e comunista, tra i dirigenti della Comune del 1871.

19. Grandi industriali, fautori di un riformismo sociale di impronta protestante.

20. Discorso pronunciato alla Società internazionale di studi pratici di economia sociale di Parigi nel maggio 1863, pubblicato su «L’Économiste français» nello stesso periodo.

21. Louis Reybaud (1799-1879), scrittore liberale, autore della serie di romanzi sociali Jérôme Paturot; per Jules Simon vedi n. 12.

22. Victor Destutt de Tracy (1781-1864), politico e saggista liberale, autore delle Lettres sur l’agricolture (1857).

23. Victor Cherbuliez (1829-1899), scrittore, collaboratore della liberale «Revue des Deux-Mondes».

24. Charles James Townschend (1810-1895), canadese, rettore di Amherst.

25. Léon Harmel (1829-1915), grande industriale cattolico.

26. Auguste Pouyer-Quertier (1820-1891), industriale, ministro delle Finanze nel 1871-1872.

27. Gli Chagot, delle fonderie di Montceau-les-Mines; gli Schneider, dell’industria metallurgica di Creusot.

28. Émile  Ollivier (1825-1913), capo del governo di Napoleone III nel 1870; Émile de Girardin (1802-1881), editore liberale, fondatore di «La Presse» nel 1836; François Achille Bazaine (1811-1888 ), maresciallo di Francia dal 1864, responsabile della disfatta e della capitolazione francese nella guerra franco-prussiana del 1870.

29. L’uso medico del mercurio, per la cura della sifilide.

30. Joseph Garnier (1813-1881), economista e senatore liberale; Émile Acollas (1820-1891), repubblicano, professore di diritto.

31. La rivolta dei canuts, operai tessili, a Lione nel 1831; la Comune di Parigi del 1871.

32. David Livingstone (1813-1873), Henry Stanley (1841-1904), Paul Belloni du Chaillu (1835-1903), Pierre Savorgnan de Brazza (1842-1905), celebri esploratori europei.

33. Jules-Armand Dufaure (1798-1881), liberale, presidente del consiglio nel 1876-1879; per Émile de Girardin vedi n. 28.

34. Frédéric Passy (1822-1912), economista liberale e deputato.

35. Paul-Leroy-Beaulieu, La Question ouvrière au XIXe siècle, 1872 [N.d.A.].

36. I piú noti finanzieri dell’epoca, protagonisti del mondo bancario, industriale, politico e giornalistico.

37. Prigione nei dintorni di Parigi.

38. Hippolyte-Louis de Lorgeril (1811-1888), senatore monarchico; Albert de Broglie (1821-1980), capo del governo dell’«Ordre moral» nel 1873-74.

39. Jules Ferry (1832-1893), Charles de Freycinet (1828-1923), Pierre Tirard (1827-1893), repubblicani, piú volte presidenti del consiglio.

40. «Si fingono dei Curii e vivono come ai Baccanali» (Giovenale).

41. Rabelais, Pantagruel, Libro II, cap. LXXIV.

42. Léon Gambetta, capo del partito repubblicano, e Paul de Cassagnac (1842-1904), deputato bonapartista, avversari politici.

43. Charles-Ernest Lullier (1838-1891), ufficiale con cui Cassagnac si era rifiutato di battersi a duello nel 1868.

44. Il cancelliere tedesco Otto von Bismarck (1815-1898), al potere dal 1862 al 1890, campione della reazione imperialista.

45. Quartiere popolare parigino.

46. Amédée-Jerôme Langlois (1819-1902), collaboratore ed esecutore testamentario di Proudhon (1809-1865), militante dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, dopo il 1876 si era riavvicinato a Thiers.

47. Elme-Marie Caro (1826-1879), filosofo spiritualista vicino a victor Cousin.

48. Frédéric Bastiat (1801-1850), economista liberale; Félix Dupanloup (1802-1878), vescovo di Orléans, deputato e accademico, capo dei cattolici liberali; per Leroy-Beaulieu vedi n. 14.

49. Marguerite Boucicaut (1816-1887), nota benefattrice, fondarice con il marito Aristide, industriale, del primo grande magazzino parigino Le Bon Marché.



Ultima modifica 2019.02.15