Pubblicato in: Carlo Marx, Il Capitale, Estratti di Paolo Lafargue, con Introduzione critica di Vilfredo Pareto e replica di Paolo Lafargue, Remo Sandron, 1894, pp. 171-179.
Tradotto da Pasquale Martignetti e trascritto da: Leonardo Maria Battisti, febbraio 2020.
L’economia politica del XVIII secolo aveva due opinioni sulla sorgente del valore.
I fisiocrati rimontavano alla terra, e per terra bisogna anche intendere l’acqua, come sorgente primitiva ed unica del valore: essi non concedevano il nome d'industria produttiva se non a l’industria che procura nuove materie; all’industria dell'agricoltore, del minatore e del pescatore. Il lavoro dell'artigîano non creava se non prodotti inutili (faux produits), diceva Mercier de la Rivière, perché il valore che esso aggiungeva alla materia prima trasformandola era precisamente rappresentato dal valore dei suoi mezzi di sussistenza durante l'atto della produzione: i suoi bisogni distruggendo da un lato ciò che il suo lavoro produceva dall'altro, non ne risultava nessun accrescimento di ricchezza per la società.
Adamo Smith e più tardi Ricardo, al contrario, consideravano il lavoro come “la sorgente e la misura del valore„, ben inteso, il lavoro aiutato dalla terra e dalle altre forze naturali, senza il concorso delle quali nulla può essere creato.
“Il valore di una derrata„, dice Adamo Smith, “è eguale alla quantità di lavoro che questa derrata permette di comprare o di comandare al suo possessore. Il lavoro è dunque la misura reale del valore scambiabile di ogni merce„. (Rich. des Nat. Lib. I cap. V, traduzione G. Garnier, 1802).
“Io considero il lavoro„, dice Ricardo, “come la sorgente di ogni valore e la sua quantità relativa come la misura che regola quasi esclusivamente il valore relativo delle merci„. (Princ de l'Econ. pol. et de l'impôt. Cap. I, Sez. II — Petit. bibliot. écon.).
Anche prima di formulare la sua definizione, Ricardo risponde a quelli che gli obiettano che esistono
“oggetti il cui valore non dipende se non dalla loro rarità... come quadri preziosi, statue, libri e medaglie rare, vini di qualità squisita che non si possono ricavare se non da certi territori e dei quali non ne esiste se non una quantità limitatissima...„
“Questi oggetti non formano se non una piccolissima parte delle merci che si scambiano giornalmente sul mercato. Il maggior numero degli oggetti di cui si ha bisogno essendo il frutto dell'industria, si possono moltiplicare, non in un paese solo, ma in parecchi, a un grado al quale è quasi impossibile d'assegnare limiti, tutte le volte che si verrà consacrarvi l’industria necessaria per crearli:„ (l. c. cap. I. Sez. I).
“Poichè è certo„, dice Destutt de Tracy, “che le nostre facoltà fisiche e morali sono la nostra sola ricchezza originaria, che l’impiego di queste facoltà in un lavoro qualsiasi, è il nostro solo tesoro primitivo, e che è sempre da quest’impiego che nascono tutte le cose che noi chiamiamo beni... è anche certo che tutti questi beni non fanno che rappresentare il lavoro che loro ha dato nascita, e che se essi hanno un valore, o anche due distinti, essi non possono trarre questi valori se non da quello del lavoro da cui essi emanano„. (Elem. d’Ideologie, Parigi 1826, p. 35-36).
“Poichè il commercio in generale„ dice Beniamino Franklin, “non è altro che uno scambio di lavoro, è col lavoro che si stima più esattamente il valore di tutte le cose„. (The works of B. Franklin, edited. by Sparks. Boston 1836. Tom. II, pag. 267).
“Un uomo s'è occupato durante una settimana a fornire una cosa necessaria alla vita, e colui che gliene dà un’altra in cambio non può meglio stimarne l’equivalente se non calcolando ciò che gli è costato esattamente lo stesso tempo di lavoro. Esso non è infatti, se non lo scambio del lavoro d’un uomo in una cosa durante un certo tempo, contro il lavoro d’un altro uomo in un'altra cosa durante il medesimo tempo di lavoro„. (Anonyme. Some thouhgts on the interest of money in general and particularly in the public funds. London 1739).
Giambattista Say non ha un’opinione, ma una ricchezza d'opinioni sul valore:
Egli lo definisce come Adamo Smith con la sua potenza di compra.
“Il valore è la quantità di qualsiasi altra cosa che si può ottenere in cambio della cosa di cui uno vuol disfarsi? (Traité d’Econ. pol. Ed. Rapilly 1826, vol. II, lib. II, cap. IV, p. 220).
“Le due fondamenta del valore sono: 1° L’utilità che determina la domanda che se ne fa. - 2° Le spese della sua produzione che limitano l’estensione di questa domanda; giacché si cessa di domandare ciò che costa troppe spese di produzione„. (L. c. vol. III. Epitome, p. 328).
“Non sono le spese di produzione solamente che regolano il valore di scambio di una merce... il valore di scambio non può salire come le spese di produzione, perché bisognerebbe allora che il rapporto dell'offerta e della domanda restasse lo stesso; bisognerebbe anche che la domanda aumentasse„. (Ouvres complétes de D. Ricardo, 1847. Nota di Say, p. 8 e 9).
Say dice che Smith ha commesso un doppio errore facendo del lavoro la misura del valore, perché tutt'i beni del mondo non sono stati comprati dal lavoro dell’uomo. La natura ha una parte in certe produzioni, e il suo lavoro dai un valore addizionale a quello dell’uomo. Ciò è evidente nell’industria agricola, i cui prodotti pagano, oltre il salario dell’industria dell’uomo e i profitti del capitale (che può a rigore rappresentare lavoro accumulato), una rendita fondiaria„. (A. SMITH. Richesse des Nations. Ed. Blunqui. Nota di Say. Vol. I p. 37). Say si atteggia ad avversario della teoria dei fisiocrati sul valore ed eccolo che ammette la terra come sorgente di valore.
Può ricavarsi dall'Economie politique di Say un’altra opinione secondo la quale il lavoro, che egli chiama l'industria del l'uomo, è il solo creatore del valore.
Say contraddicendo la sua contraddizione di Smith, dice:
“La parte d'utilità che la natura ha comunicato al valore senza l’intervento dell’uomo nè dei suoi istrumenti, non fa parte del prodotto; essa è una ricchezza naturale che non ha costato spese di produzione (l. c. vol. III. Epitome, p. 311).
Say distingue gli agenti naturali che comunicano utilità al valore in due categorie: quelli che sono suscettibili
“di essere appropriati, come un campo, un corso d’acqua„,
e quelli che non potendo essere accaparrati rimangono proprietà comuni, come
“il mare, i fiumi, il vento, l’azione fisica o chimica delle materie le une sulle altre, ecc.„ (l. c., vol. I, cap. IV, p. 41-42).
“La macchina obliga le forze naturali, le diverse proprietà degli agenti naturali, a lavorare per l’utilità dell’uomo: il guadagno è evidente. C'è sempre aumento di prodotto o diminuzione di spese di produzione (l. c. vol. I, lib. I, cap. VII, p. 68-69).
“Si può, generalizzando davvantaggio, rappresentarsi, se si vuole, una terra come una grande macchina col mezzo della quale noi fabbrichiamo frumento, macchina che noi rimontiamo coltivandola„ (l. c., vol. I. lib. I, cap. VII, p. 65).
Sino a tanto che una macchina, come la terra, rimane il monopolio d'un individuo. L'economia prodotta non va a beneficio se non del suo accaparratore. “Infatti, quando un fabbricante, con l’aiuto di un processo che gli è particolare, giunge a fare per 15 lire un prodotto che prima costava 20 lire di spese di produzione, egli guadagna 5 lire sino a tanto che il suo processo rimane segreto e profitto egli solo del lavoro gratuito della natura; ma quando il processo diviene pubblico e la concorrenza obbliga il produttore a diminuire il prezzo del suo prodotto da 20 a 15 lire, sono allora i consumatori che fanno questo guadagno di 5 lire„ (l. c., vol. I, li bro I, cap. IV, p. 36-37).
Per conseguenza, le spese di produzione d’una merce non sono rappresentate se non dal lavoro dell’uomo e dal logorio delle macchine e degl’istrumenti che
“noi aggiungiamo alle nostre braccia per aumentarne la potenza, per ottenere il concorso degli agenti naturali„ (loc. cit., lib. 1, cap. VII, p. 65).
Se dunque la terra, che è una macchina per fabbricare frumento, non fosse accaparrata, essa non aggiungerebbe al prodotto la “rendita fondiaria„, ma il suo semplice logorio, cioè il prezzo degl'ingressi e del lavoro necessari ad ottenere di nuovo la sua fertilità.
In qualsiasi maniera si consideri la quistione, si è obbligati di ritornare alla constatazione di Adamo Smith e di Ricardo che il lavoro è “la sorgente e la misura del valore„.
Benché sia Marx che ha chiaramente dimostrato che il sopra lavoro non pagato del produttore manuale o intellettuale costituiva il plus-valore o i profitti del capitale, nondimeno degli economisti avevano già vagamente indicato il fatto.
Ricardo dice:
“Il valore intiero degli articoli del fittaiuolo e del manifatturiero si divide in due sole parti, delle quali l'una costituisce i profitti del capitale, mentre l’altra è consacrata al salario degli operai...... Se un fabbricante desse sempre le sue merci per la medesima somma di danaro, per mille lire sterline, per esempio, i suoi profitti dipenderebbero dal prezzo del lavoro necessario per la loro fabbricazione. Essi sarebbero minori con salari di 800 lire che con altri di 600. A misura dunque che i salari rialzerebbero i profitti diminuirebbero, (RICARDO, Principes d’Econ. pol., cap. VI, Petite Bibliot. Econ. p. 175-176).
Smith dice:
“In questo stato primitivo, che precede l'appropriazione delle terre e l'accumulazione dei capitali, il prodotto intero del lavoro appartiene all'operaio. Non c’è nè proprietario n'e padrone con cui egli debba dividere.
“Se questo stato avesse continuato, il salario,
o la ricompensa naturale del lavoro, sarebbe aumentata,
a misura che
le sue facoltà acquistavano tutti quei miglioramenti ai quali
dà luogo la divisione del lavoro„ (
“Il valore che gli operai aggiungono alla materia si risolve in due parti, delle quali l'una paga i salari dell’operaio e l’altra paga i profitti che fa l'imprenditore sulla somma dei fondi che gli son serviti ad anticipare questi salari e la materia da lavorare„ (SMITH, l. c., lib. I, cap. VI).
“Il padrone partecipa al prodotto del lavoro degli operai o al valore che questo lavoro aggiunge alla materia alla quale esso è applicato, ed è questa parte che costituisce il suo profitto” (SMITH, I. c., lib. I, cap. VIII).
Giambattista Say definisce l'operaio
“colui che loca la sua capacità industriale, o che vende il suo lavoro e che, per conseguenza, rinuncia ai suoi profitti industriali per un salario„. (Traitè d’Econ. pol, voi. III, Epitome, p. 306).
“Gli economisti del XVIII° secolo, dice Say, pretendevano che il lavoro non produca nessun valore senza consumare un valore equivalente; che, per conseguenza, esso non lasci nessun eccedente, nessun prodotto netto, e che la terra sola, fornendo gratuitamente un valore, possa sola dare un prodotto netto..... Ora i fatti mostrano che i valori prodotti sono dovuti all'azione e al concorso dell’industria, dei capitali e degli agenti naturali, e che nulla al di fuori di queste tre sorgenti produce un valore, una ricchezza nuova„ (l. c., lib. I, cap. IV, p. 40-41).
Esaminiamo secondo lo stesso Say, la parte contributiva di ciascuna di queste tre sorgenti di valori nella creazione del prodotto netto e del plus-valore.
1° Agenti naturali:
“Si obietterà che gli agenti naturali non appropriati, come la pressione dell'atmosfera nelle macchine a vapore, non sono produttivi di valore. Il loro concorso, essendo gratuito, si dice, non ne risulta nessun accrescimento nel valore scambiabilo dei prodotti, sola misura delle ricchezze. Ma si vedrà più innanzi che ogni utilità prodotta che non si fa pagare al consumatore, equivale a un dono che gli si fa, a un aumento della sua rendita” (SAY, I. c., vol. I, lib. I, cap. IV, p. 43). Si veggano anche le citazioni indicate nella nota I.
2° Capitali. Ogni macchina nella quale si
“è impiegato un valore capitale„
non produce benefici pel suo proprietario che sino a tanto che essa rimane un segreto;
“ma è senza esempio che il segreto abbia potuto essere conservato per lungo tempo. Tutto finisce per essere saputo, principalmente ciò che l’interesse personale eccita a scovrire...... Allora, la concorrenza abbassa il valore del prodotto di tutta l’economia che è fatta sulle spese di produzione, ed è allora che incomincia il profitto del consumatore. La macinatura del frumento non frutta probabilmente più ai mugnai attuali che a quelli del passato, ma la macinatura costa molto meno ai consumatori„ (SAY. l. c., vol. I, lib. I, cap. VII, pag. 72. Si veggano egualmente le citazioni della nota).
La macchina quindi non fa se non riprodurre “il suo valore capitale„, ma non crea plus-valore.
Non rimane dunque per produrre i salari e i, profitti del capitalista, se non l’industria, definita da Say
“l’azione delle forze fisiche e morali dell’uomo applicate alla produzione.„ (Epitome).
Il valore della forza-lavoro, secondo Marx, è determinato dal valore dei prodotti necessari alla sua conservazione quotidiana, alla sua riproduzione familiare e alla sua educazione tecnica: esso è variabile secondo i paesi e secondo le epoche; è ciò che egli chiama il suo elemento storico e morale. Marx non può dunque essere reso responsabile, come le si fa, della legge di ferro dei salari, che Lassalle, più agitatore, e sopratutto più giurista che economista, formulò poi bisogni della sua propaganda, e che Giulio Guesde ebbe il torto d’importare in Francia senz'averne esperimentato il valore scientifico.
La legge di ferro generale ed inflessibile non può render conto delle variazioni dei salari da un’industria a un’altra nel medesimo paese nè di quelle di una medesima industria in località o paesi diversi: essa non può spiegare la riduzione costante dei salari in una medesima industria e in un medesimo paese, a misura che gli operai incalzati dalla loro concorrenza mutua s'abituano a ridurre i loro bisogni e a contentarsi degli alimenti più grossolani. — Smith dice che ai suoi tempi il salario nella Gran Bretagna
“era evidentemente al disopra di ciò che è precisamente necessario per mettere gli operai in grado di allevare la loro famiglia.„
Le donne e i fanciulli non essendo impiegati nelle manifatture, bisognava che il salario dell’uomo rappresentasse i loro mezzi di esistenza; questo salario era tanto elevato che, anche al tempo di Smith, la legge fissava un massimo che esso non poteva sorpassare (Rich. des Nat., lib. I, cap VIII). Questa fissazione dei salari fu generale in tutti i paesi europei: i padroni trovavano dappertutto che essi erano troppo considerevoli e che il guadagno di 3 o 4 giorni permetteva all’ operaio di riposarsi nel resto della settimana. Il fatto che in nessuna nazione capitalista esistono più leggi per fissare un massimo dei salari è la prova la più convincente che la classe operaia nella sua totalità ha imparato a ridurre i suoi bisogni di agi, di piaceri e di sussistenza in proporzioni che si sarebbero credute impossibili al XVIII secolo.
Lassalle, con la sua legge di ferro, non faceva che riprodurre le opinioni di certi economisti, fra gli altri quella di Giambattista Say.
“Il salario dei lavori semplici e grossolani, dice Say, non si eleva guari, in ogni paese, al di là di ciò che è rigorosamente necessario per vivervi.„ (Traité d’Écon. pol., vol. II, lib. II, cap. VII, § IV, p. 277).
— Questo salario era calcolato con una ferrea esattezza, giacché
“nella classe la cui rendita (leggasi salario) sta a livello col rigoroso necessario, una diminuzione di rendita è una sentenza di morte, se non per l’operaio, almeno per una parte della sua famiglia„ (l. c., p. 283).
È vero che Say menziona le abitudini che, infiuendo sulla estensione dei bisogni, reagiscono sul tasso dei salari.
“Più è piccolo il valore della consumazione dell'operaio, e più basso può stabilirsi il tasso ordinario del suo salario.„
Ed egli s'affretta ad aggiungere
“che non è a temersi che le consumazioni della classe degli operai si estendano molto, grazie allo svantaggio della sua posizione. L'umanità amerebbe di vederli, essi e le loro famiglie, vestiti secondo il clima e la stagione: essa vorrebbe che nel loro alloggio, gli operai con le loro famiglie potessero trovare lo spazio, l’aria e il calore necessari alla salute; che il loro nutrimento fosse sano, abbastanza abbondante e potessero essi permettersi qualche scelta e qualche varietà di cibo; ma vi sono pochi paesi nei quali bisogni così modesti non si ritengano eccedentii limiti dello stretto necessario, e nei quali per conseguenza essi possano essere soddisfatti coi salari dell’ultima classe degli operai.„ (l. c., p. 287).
Say è ancora più pessimista pel salario delle donne.
“Una filatrice in certi casali non guadagna la metà della sua sposa, benché questa sua spesa sia modica; essa è madre, figlia, sorella, zia o suocera d’un operaio il quale la nutrirebbe anche quando essa non guadagnasse assolutamente nulla...... Ciò può applicarsi a tutt'i lavori di donne. In generale, essi sono pochissimo pagati, per la ragione che un grandissimo numero di donne sono sostenuta a trimenti che col loro lavoro e possono mettere nella circolazione il genere di occupazione di cui esse sono capaci al di sotto del tasso al quale lo fisserebbo l’estensione dei loro bisogni„ (l. c., p. 281).
Ultima modifica 2020.02.12