Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza

Immanuel Kant (1783)


ALLEGATI

I. Recensione di Gottinga

Critica della ragion pura di Em. Kant. 1781, 856 pp. 8°.

Quest’opera che serve di continuo esercizio, se non sempre di ammaestramento, all’intelligenza del lettore, che spesso tende l’attenzione fino alla stanchezza e talora le viene in aiuto con immagini felici, o la premia con inattese applicazioni profonde, è un sistema di idealismo superiore o, come l’autore lo denomina, trascendentale: un idealismo che abbraccia ugualmente lo spirito e la materia, che trasforma il mondo e noi stessi in rappresentazioni e suscita un mondo di oggetti dalle parvenze, facendole intessere dall’intelletto nell’unica serie dell’esperienza, mentre la ragione irresistibilmente, ma vanamente si sforza di distenderle e di raccoglierle in un completo e perfetto sistema della realtà universa. Il sistema dell'A. riposa, a un dipresso, sui principii seguenti. Tutte le nostre conoscenze sorgono da certe modificazioni di noi stessi, che noi diciamo sensazioni. Dove queste abbiano luogo, donde vengano, questo ci è in fondo del tutto ignoto. Se anche vi è un essere reale, al quale le rappresentazioni ineriscono, se anche vi sono cose reali da noi indipendenti, che le producono, noi non conosciamo alcun predicato tanto dell’uno quanto dell’altre. Con tutto ciò noi poniamo 1’esistenza di oggetti, noi parliamo di noi stessi, parliamo dei corpi come di cose reali, crediamo di conoscerle entrambi, noi pronunciamo a loro riguardo dei giudizi. La causa di tutto ciò è semplicemente questa, che le molteplici parvenze hanno alcunché di comune tra loro. Questo fa sì che esse si collegano reciprocamente e si distinguono da ciò che denominiamo il nostro io. Così vediamo le intuizioni dei sensi esterni come cose ed eventi fuori di noi, perchè esse tutte avvengono in un certo spazio l’una accanto all’altra e in un certo tempo l’una dopo l’altra. Reale è per noi ciò che ci rappresentiamo in un qualche luogo ed in un qualche tempo. Spazio e tempo non sono per sè alcunché di reale fuori di noi e nemmeno sono rapporti ovvero concetti astratti, ma sono leggi soggettive della nostra facoltà rappresentativa, forme delle sensazioni, condizioni soggettive dell’intuizione sensibile. Sopra questi concetti delle sensazioni come semplici modificazioni di noi stessi (sopra di ciò fonda principalmente anche Berkeley il suo idealismo), dello spazio e del tempo riposa l’una delle basi del sistema kantiano. Dalle parvenze sensibili, che si distinguono dalle altre rappresentazioni solo per questa condizione soggettiva, che con esse si connettono tempo e spazio, l’intelletto costituisce gli oggetti. Esso li costruisce. Perchè esso è in primo luogo, che riunisce più modificazioni lievi successive in totalità costituenti una sensazione completa: esso è, che di nuovo collega fra loro queste totalità nel tempo in modo che si succedono come causa ed effetto, per il che ciascuna riceve il suo determinato posto nel tempo infinito e tutte insieme ricevono la consistenza e la fissità di cose reali: esso è infine, che, aggiungendovi un nuovo collegamento, distingue gli oggetti simultanei come agenti reciprocamente l’uno sull’altro dai successivi come dipendenti in una serie sola l’uno dall’altro ed in questa guisa, coll’introdurre nelle intuizioni sensibili ordine, regolarità di successione e reciprocità d’azione, crea in vero e proprio senso la natura, determinandone le leggi secondo le proprie. Queste leggi dell’intelletto sono più antiche dei fenomeni ai quali vengono applicate; vi sono dunque concetti intellettivi a priori. Noi passiamo sopra il tentativo dell’autore di chiarire ancor maggiormente la funzione complessiva dell’intelletto per via d’una riduzione della stessa a quattro funzioni fondamentali e a quattro concetti fondamentali da quelle procedenti e cioè Qualità, Quantità, Relazione, Modalità, i quali ne comprendono alla lor volta altri più semplici sotto di sè e in unione con le rappresentazioni del tempo e dello spazio debbono dare i principii primi per la conoscenza empirica. Non si tratta che dei ben noti principii della logica e dell’ontologia formulati conforme alle riserve idealistiche dell’A. Di passaggio vien mostrato come Leibniz sia venuto alla sua monadologia e le vengono contrapposte osservazioni, che per la maggior parte possono anche venir mantenute indipendentemente dall’idealismo trascendentale dell’A. Il risultato principale di tutto ciò che l'Α. ha rilevato circa la funzione dell’intelletto dovrebbe essere questo: che il retto uso dell’intelletto puro consiste nell’applicare i suoi concetti alle parvenze sensibili e formare, per il collegamento dei due elementi, esperienze, e che è un abuso dello stesso, un’operazione senza speranza di riuscita, il concludere da concetti l’esistenza e le proprietà di oggetti che sono al di là di ogni nostra esperienza (Le esperienze sono per l'A., in contrapposizione alle pure immaginazioni ed ai sogni, intuizioni sensibili collegate con concetti intellettivi. Ma noi confessiamo che non vediamo come la distinzione, in genere così facile all’intelletto umano, del reale dall’immaginario, dal puramente possibile possa venir sufficentemente fondata sulla semplice applicazione dei concetti intellettivi senza un carattere di realtà nella sensazione stessa; poiché anche le visioni e le fantasie possono presentarsi, e nel sogno e nella veglia, come parvenze esterne nello spazio e nel tempo e in genere collegate fra di sè nel modo più regolare: più regolarmente talvolta, secondo l’apparenza, che gli avvenimenti reali). Ma oltre all’intelletto interviene ora ancora, per l’elaborazione delle rappresentazioni, una nuova potenza, la ragione. Questa sta con i concetti formati dall’intelletto nello stesso rapporto che l’intelletto con le parvenze. Come l’intelletto contiene le regole, secondo le quali i singoli fenomeni vengono raccolti nelle serie duna ben connessa esperienza; così la ragione ricerca i principii supremi, per mezzo dei quali queste serie possono venir riunite nella totalità perfetta dell’universo. Come l’intelletto dalle sensazioni costruisce una catena di oggetti che si riattaccano l’uno all’altro come le parti del tempo e dello spazio, tale però che il suo ultimo membro ci rinvia sempre ad altri antecedenti o più lontani; così la ragione vuole prolungare questa catena fino al suo membro primo od estremo: essa ricerca il principio e il limite delle cose. La prima legge della ragione è che, dove si dà qualche cosa di condizionato, deve essere data la serie totale delle condizioni o si deve con essa risalire fino a qualche cosa di incondizionato. In seguito a che essa trascende in duplice modo l’esperienza. Da una parte essa vuole prolungare la serie delle cose, onde abbiamo esperienza, molto al di là del dove l’esperienza arriva, perchè essa vuole giungere al compimento delle serie. D’altro lato essa vuole condurci fino a cose, quali noi non abbiamo mai sperimentato, fino all’incondizionato, all’assolutamente necessario, all’illimitato. Ma tutti i principii della ragione conducono ad illusioni od a contraddizioni, quando vengono estesi a denotare cose reali e le loro proprietà, mentre dovrebbero soltanto servire all’intelletto di regola per proseguire senza fine nell’indagine della natura. L’A. applica questo giudizio generale a tutte le principali ricerche della psicologia speculativa, della cosmologia e della teologia; come egli determini e giustifichi in ciascun punto questo giudizio, si potrà comprendere se non perfettamente, in parte almeno da quanto segue. Nella psicologia i sofismi sorgono quando determinazioni pertinenti solo ai pensieri come pensieri vengono considerate come proprietà dell’essere pensante. La proposizione “io penso„, l’unica fonte di tutta la psicologia razionale, non contiene alcun predicato dell’io, dell’io come essere. Essa esprime solo una certa determinazione dei pensieri e cioè la loro connessione per via della coscienza. Quindi non è possibile dedurre alcunché intorno alle reali proprietà di quell’essere che dovrebbe venir rappresentato come l’io. Da ciò che il concetto “io„ è il soggetto di molte proposizioni e non può mai diventare il predicato di alcuna, si conchiude che l’io, l’essere pensante, è una sostanza; mentre pure quest’ultima parola ha unicamente per funzione di designare l’elemento persistente nella intuizione esterna. Da ciò che nel mio pensiero non si trovano parti esteriori ad altre parti, si conclude alla semplicità dell’anima. Ma nessuna semplicità può aver luogo in ciò che deve venir considerato come reale, cioè come oggetto dell’intuizione esterna, perchè la condizione di ciò è che sia nello spazio, che riempia uno spazio. Dall’identità della coscienza si conclude alla personalità dell’anima. Ma non potrebbero più sostanze disposte in serie trasmettersi l'una all’altra una loro coscienza e i loro pensieri come si trasmettono l’una all’altra il movimento? (Un'obbiezione già elevata da Hume ed anche prima di lui). Infine dalla distinzione tra la coscienza di noi stessi e l’intuizione delle cose esterne si conclude con un sofisma all’idealità di queste, mentre pure le sensazioni interne ci dànno così poco dei predicati assoluti di noi stessi come le sensazioni esterne ce li dànno dei corpi. Così sarebbe debellato l’idealismo volgare od empirico, come l'Α. lo chiama, non per la dimostrazione dell’esistenza dei corpi, ma per l’eliminazione del privilegio che la convinzione della nostra propria esistenza credeva di avere di fronte a quella dell’esistenza dei corpi. Inevitabili sono le contraddizioni nella cosmologia fino a tanto che noi consideriamo il mondo come una realtà obbiettiva e vogliamo abbracciarlo come una totalità perfetta. L’infinità della sua durata nel passato, della sua estensione e della sua divisibilità sono inconcepibili per l’intelletto, lo offendono in quanto esso non trova il punto di riposo che cerca. E la ragione non trova motivo alcuno sufficiente per arrestarsi ad un dato punto qualsiasi. La conciliazione che trova l'Α. a questo dissidio, la legge vera della ragione, deve, se ben lo comprendiamo, consistere in ciò, che essa ben indirizza l’intelletto a ricercare senza fine la causa delle cause, la parte delle parti col proposito di raggiungere il pieno e perfetto sistema delle cose, ma nel tempo stesso lo avverte di non accogliere come ultima e prima alcuna causa ed alcuna parte, che egli possa trovare per via della esperienza. È la legge dell’approssimazione che implica ad un tempo l’inarrivabilità e l’approssimazione continua. Il risultato della critica della teologia naturale è molto simile ai precedenti. Principii che sembrano esprimere una realtà vengono convertiti in regole, le quali si limitano a prescrivere all’intelletto un dato procedere. Tutto ciò che qui l’A. aggiunge di nuovo è che egli chiama in aiuto l’interesse pratico e fa dare il colpo decisivo dalle idee morali, là dove la speculazione lascia i due piatti della bilancia egualmente carichi o piuttosto egualmente vuoti. Tutto ciò che quest’ultima riesce a produrre è quanto segue. Ogni pensiero di un reale limitato è simile a quello d’uno spazio limitato. Come questo non sarebbe possibile se non esistesse uno spazio universale infinito, così nessun reale finito sarebbe possibile se non esistesse una realtà universale infinita che stesse a fondamento delle determinazioni, cioè delle limitazioni delle singole cose. Ma l’una e l’altra cosa non è vera se non dei nostri concetti, non è che una legge del nostro intelletto, in quanto una rappresentazione presuppone l’altra. Tutte le altre prove che dovrebbero dimostrare di più sono trovate dall’A. nel suo esame errate od insufficienti. Il modo infine con cui l’A. vuole per mezzo dei concetti morali dare un nuovo fondamento alla concezione comune, dopo di averle tolto quello speculativo, preferiamo passarlo del tutto sotto silenzio, perchè è il punto che meno ci sorride. Vi è certamente una maniera di ricondurre i concetti del vero e le leggi più generali del pensiero ai concetti e principii più generali della buona condotta, che è fondata nella nostra natura e vale a guardarci od a ritrarci dalle aberrazioni della speculazione. Ma noi non la riconosciamo nell’aspetto e nella veste che l'Α. le ha dato.

L’ultima parte dell’opera, che contiene la metodologia, mostra dapprima da che debba guardarsi la ragione — e questa è la Disciplina; in secondo luogo dà le regole secondo le quali deve dirigersi — e questo è il Canone della ragion pura. Noi non possiamo analizzarne più precisamente il contenuto; del resto esso può già in gran parte ricavarsi da quanto precede. L’intiero libro può indubbiamente servire a rendere il lettore famigliare con le difficoltà più considerevoli della filosofia speculativa e può ai costruttori e difensori di sistemi metafisici, confidanti troppo superbamente ed audacemente nella loro pretesa ragion pura, porgere materia a salutari considerazioni. Ma non sembra a noi che l'Α. abbia scelto la via di mezzo tra le aberrazioni dello scetticismo e del dommatismo, nè la giusta via di mezzo che riconduce, se non con piena soddisfazione, con acquiescenza, alla concezione più naturale. E nondimeno entrambe sono, a noi sembra, segnate da indicazioni sicure. Anzitutto deve il retto uso dell’intelletto corrispondere al concetto più generale della condotta buona, alla legge fondamentate della nostra natura morale, quindi all’accrescimento della felicità. Siccome da ciò ben presto risulta che esso deve venir applicato in conformità delle sue leggi fondamentali, le quali rendono insopportabile la contraddizione ed esigono, per la adesione, motivi e, di fronte a motivi contrarii, motivi prevalenti e stabili: ne segue ancora che noi dobbiamo attenerci alla sensazione più forte e più stabile, ossia all’apparenza più forte e più stabile, come alla nostra realtà suprema. Questo fa il comune intelletto degli uomini. E come mai il filosofo, con le sue sottigliezze, se ne allontana? In quanto egli leva l'una contro l’altra le due classi di sensazioni, l’interna e l’esterna, cercando di confonderle in una, di trasformarle l’una nell’altra. Onde il materialismo, l’antropomorfismo, ecc., quando la conoscenza della sensazione interna viene assimilata o mescolata alla esterna. Onde ancora l’idealismo, quando viene contestato alla sensazione esterna il suo diritto di sussistere accanto all’interna, il suo carattere particolare. Lo scetticismo fa or l’una cosa or l’altra per tutto confondere e tutto abbattere. E in certo modo la stessa cosa fa il nostro A.: egli misconosce i diritti della sensazione interna, in quanto vuole considerati i concetti di sostanza e di realtà come appartenenti solo alla sensazione esterna. Ma il suo idealismo contrasta anche più contro le leggi della rappresentazione esterna, come contro la concezione e il linguaggio conformi alla nostra natura, che ne hanno origine. Se, come l'Α. stesso afferma, l’intelletto non fa che elaborare le sensazioni e non ci dà nuove conoscenze, esso agisce conforme alle sue prime leggi quando, in tutto ciò che riflette la realtà, si lascia guidare dalle sensazioni più che non le guidi. E se anche, accettata la tesi estrema dell’idealismo, tutto ciò di cui possiamo sapere e dire qualche cosa si risolve in rappresentazioni e leggi del pensiero, se le rappresentazioni modificate in noi e combinate secondo certe leggi sono appunto ciò che diciamo oggetti e mondo; a che muover guerra contro questo modo universale di esprimersi? A che e con qual diritto la distinzione idealistica?

II. Lettera di Garve a Kant e risposta di Kant.

1. — Garve a Kant.

Illustre Signore, — Ella invita il recensente dell’opera sua nel giornale di Gottinga a svelare il suo nome. Ora io non posso invero riconoscere questa recensione, così come essa è, in alcun modo come mia. Io sarei inconsolabile se essa fosse scaturita tutta dalla mia penna. Io non credo nemmeno che un altro collaboratore qualunque della Rivista, se l’avesse redatta da solo, avrebbe prodotto qualche cosa di così sconnesso. Ma io vi ho pure qualche parte. E poiché mi sta a cuore che un uomo, che io ho in ogni tempo altamente apprezzato, mi conosca almeno per un uomo d’onore, se anche debba ad un tempo reputarmi un povero metafisico: così io esco dall’incognito, come Ella lo richiede in un passo dei Suoi Prolegomeni. — Ma per metterla in grado di rettamente giudicare, io debbo raccontarle tutta la storia. Io non sono un collaboratore della rivista di Gottinga. Due anni fa (dopo aver passati molti anni, in condizioni molto cattive di salute, disoccupato ed oscuro nella mia città natale) io feci un viaggio a Lipsia spingendomi attraverso i dominii annoveresi fino a Gottinga. Ivi ricevetti molte attestazioni di gentilezza e d’amicizia da parte di Heyne, il direttore, e di altri collaboratori di questa rivista: onde un non so quale impulso di riconoscenza, misto ad un poco d’amor proprio, mi sospinse ad offrirmi volontariamente di collaborarvi con una recensione. La Sua Critica della ragion pura era appunto allora uscita; e poiché da una voluminosa opera che aveva per autore Kant io mi riprometteva un grandissimo piacere, avendomi già i suoi antecedenti piccoli scritti interessato vivamente; e poiché ancora io riteneva cosa utile a me stesso l’avere un motivo per leggere a fondo questo libro con un’attenzione più che ordinaria; così io mi offrii, prima ancora di aver veduto l’opera, di farne la recensione. Tale promessa era inconsiderata e questa è difatto l’unica sciocchezza che io so di aver commesso in tutto questo affare e che adesso ancora mi pesa. Tutto il resto è o conseguenza della mia reale incapacità o disgrazia. Io riconobbi tosto, quando cominciai a leggere l’opera, che avevo scelto male: che questa lettura specialmente in quel momento che ero in viaggio, distratto, occupato da altri lavori e in genere in quell’epoca, nella quale io ero sempre malaticcio, era per me troppo grave. Io Le confesso che non conosco nessun libro al mondo che m’abbia costato tanti sforzi a leggerlo; e se io non mi fossi creduto legato dalla parola data, avrei rinviato la lettura completa del libro a tempi migliori, quando la mia testa e il mio corpo si fossero trovati più in forze. Tuttavia non presi il lavoro leggermente. Io vi applicai tutte le mie forze e tutta l’attenzione di che sono capace: io la lessi interamente. Credo di avere afferrato il retto senso della maggior parte dei passi, isolatamente presi; non sono egualmente certo d’essermi fatta una giusta idea del tutto. — Io me ne feci dapprima un estratto completo di più che dodici fogli, intermezzato da idee che mi erano venute alla mente durante la lettura. Mi rincresce che questo estratto sia andato perduto: esso era forse, come avviene spesso delle mie prime idee, migliore di ciò che ne ho ricavato in appresso. Di questi dodici fogli, che non potevano certo diventare una recensione per rivista, ricavai con molta fatica (che da una parte io volevo abbreviare, dall’altra volevo essere intelligibile e non far torto al libro) una recensione. Ma anche questa era abbastanza lunga: non è infatti possibile fare d’un libro, del quale si deve ancora far conoscere al lettore la terminologia, un breve riassunto che non sia un non senso. — Io mandai via questa recensione, sebbene vedessi che essa superava in lunghezza la più lunga delle recensioni di Gottinga: la mandai perchè io stesso non avrei saputo abbreviarla senza mutilarla. Io mi lusingava che a Gottinga o si sarebbe fatta un’eccezione alla regola in vista della mole e dell’importanza del libro o si avrebbe saputo abbreviarla meglio di quel che io non potessi. La spedizione fu fatta da Lipsia, nel mio ritorno. — Per lungo tempo (dopo che io ero tornato in Slesia a casa mia) non compare nulla; finalmente ricevo foglio, dove dovrebbe trovarsi quella che si dice la mia recensione. Ella può credermi che, quando la vidi, il mio sdegno e il mio dispiacere non furono minori del Suo. Alcune frasi del mio manoscritto erano infatti conservate; ma esse non sommavano alla decima parte della mia recensione ed alla terza parte di quella di Gottinga. Io vidi che il mio lavoro, che non era stato realmente senza difficoltà, era stato fatto per niente, anzi era stato, più che inutile, dannoso. Perchè se il dotto di Gottinga, che abbreviò ed interpolò la mia recensione, anche dopo una fugace lettura del Suo libro vi avesse scritto su qualche cosa di suo, questo sarebbe riuscito migliore o almeno più connesso. Per giustificarmi presso i miei amici intimi, i quali sapevano che io avevo lavorato per Gottinga, ed attenuare almeno presso di loro la sfavorevole impressione che questa recensione doveva fare presso chicchessia, mandai il mio manoscritto, che avevo ricevuto dopo qualche tempo da Gottinga, al consigliere Spalding a Berlino. In appresso sono stato richièsto da Nicolai di lasciarlo stampare nella sua Allgem. D. Bibliot. Ed io glie l’ho concesso, a condizione che uno dei miei amici di Berlino lo confrontasse con la recensione di Gottinga e vi mutasse le frasi che questa ha conservato, anzi in genere vedesse prima se ne valeva la pena. Perchè io sono ora alfatto fuori della condizione di mettervi mano. — Ora non ne so altro. — Con questa lettera io ne scrivo simultaneamente un’altra al sig. Spalding, dove lo prego, se il manoscritto non sia ancora stampato, di farlo copiare e di mandarlo a Lei con la mia lettera. Ella potrà allora fare il paragone. Se Ella sarà altrettanto malcontento della mia recensione quanto dell’altra, ciò sarà una prova che io non ho penetrazione sufficiente per il giudizio d’un libro così difficile e profondo e che esso non è scritto per me. Io penso tuttavia che Ella, anche quando ne fosse malcontento, crederà tuttavia di dovermi qualche poco di stima e di riguardo: più sicuramente ancora penso che noi saremmo amici se ci conoscessimo personalmente.

Io non voglio del tutto respingere da me l’accusa che Ella muove al recensente di Gottinga, di essersi messo di cattivo umore per le difficoltà che aveva dovuto superare. Confesso di esserlo stato un poco anch’io: perchè io credeva debba esser possibile il rendere più facilmente intelligibili a coloro, che non sono del tutto nuovi alla riflessione, verità che hanno da produrre importanti riforme nella filosofia. Io ho ammirato la grandezza dell’energia, che è stata capace di meditare sino alla fine una così lunga serie di sottili astrazioni, senza stancarsi, senza disgustarsi, senza lasciarsi smuovere dalla sua via. Ho anche trovato in moltissime parti del suo libro ammaestramento e nutrimento pel mio spirito; così per es. là dove Ella mostra esservi proposizioni contraddittorie, che tuttavia possono venir egualmente bene dimostrate. Ma questa è ancora adesso la mia opinione, forse errata: che il complesso del Suo sistema, se deve diventar realmente utilizzabile, debba essere esposto in modo più accessibile, e, se ha contenuto di verità, possa anche esserlo; e che il nuovo linguaggio, che in esso regna dal principio alla fine, per quanto grande sia l’acume che rivela la connessione delle singole espressioni nel suo complesso, non serve spesso che a far apparire anche più grande di quello che realmente sia la riforma introdotta nella scienza o la deviazione dal pensiero degli altri.

Ella invita il suo recensente a dimostrare una di quelle proposizioni contraddittorie in modo che la corrispondente non sia capace d’una prova egualmente valida. Questo invito può riferirsi al mio collaboratore di Gottinga, non a me. Io sono persuaso che la nostra conoscenza ha dei limiti: che questi limiti s’incontrano appunto allora quando dalle nostre sensazioni si possono svolgere con eguale evidenza simili proposizioni contraddittorie. Io credo essere altamente utile il conoscere questi limiti e considero come uno dei propositi più benefici dell’opera Sua quello d’averli rjlevati in modo più chiaro e completo di quello che fosse mai stato fatto. Ma io non vedo come la sua Critica della ragione contribuisca ad eliminare queste difficoltà. Almeno, la parte del libro, in cui Ella mette in luce le contraddizioni, è senza paragone più chiara e luminosa (ed Ella stessa non lo negherà) di quella dove dovrebbero venir stabiliti i principii, secondo i quali sono da togliersi queste contraddizioni.

Poiché sono adesso in viaggio e senza libri e non ho a mano nè l’opera Sua, nè la mia recensione, voglia Ella considerare quanto io qui ne dico solo come pensieri fugaci, sui quali Ella non deve giudicare troppo severamente. Se qui o nella mia recensione ho malamente esposto il Suo pensiero e il Suo proposito, ciò è perchè l’ho malamente compreso o perchè la memoria mi è infedele. Io non ho la malvagia volontà di falsare le cose e non ne sarei nemmeno capace.

Infine debbo pregarla di non fare pubblico uso di questa mia informazione. Per quanto la mutilazione del mio lavoro mi sia apparsa, nei primi momenti che l’appresi, un’offesa, tuttavia l’ho perdonata del tutto a colui che aveva trovato ciò necessario: sia perchè, per la facoltà assoluta che gli avevo concesso, sono in parte io stesso il colpevole; sia perchè ho altri motivi di amarlo e di stimarlo. L’aver io protestato presso di Lei di non essere l’autore della recensione dovrebbe sembrargli una specie di vendetta. Molte persone a Lipsia ed a Berlino sanno che io ho voluto fare la recensione di Gottinga e poche sanno che della stessa solo la minima parte è mia, sebbene il malcontento, che Ella ha mostrato giustamente, ma con una certa durezza, contro il recensente di Gottinga, getti sopra di me, di fronte a tutti questi, una luce sfavorevole; ma io voglio piuttosto sopportare questo come la pena d’un’inconsideratezza (che tale fu la promessa d’un lavoro, del quale non conoscevo l’estensione e la difficoltà), che non ottenere una specie di giustificazione pubblica, che dovesse compromettere il mio amico di Gottinga.

Sono con vera stima e devozione, Illustrissimo Signore,

Lipsia, 13 luglio 1783.

Suo dev.mo

Garve.

2. — Kant a Garve.

Illustre Signore ! — Da lungo tempo avevo appreso a onorare nella Sua persona uno spirito filosofico illuminato ed un uomo di gusto affinato dalla dottrina e dalla conoscenza delle cose del mondo, e mi ero con Sultzer doluto che ad un talento così pregevole venisse tolto dalla malattia di dare al mondo tutti i frutti che avrebbe potuto. Ora io ho il piacere anche più alto di ritrovare nella Sua pregiata lettera evidenti prove d’un’onestà scrupolosa e coscienziosa e d’un senso di umana bontà, che danno a quei doni dello spirito il loro vero valore. Non credo di poter dare quest’ultima lode egualmente al Suo amico di Gottinga che, non provocato affatto, diede a tutta la sua recensione (io posso ben dirla sua, dopo la mutilazione) un tono così ostile. Vi era pure nel mio scritto qualche cosa che, se anche egli non approvava la soluzione delle difficoltà da me scoperte, avrebbe meritato di essere ricordato per questo almeno che io era stato il primo ad esporle nella luce dovuta ed in tutta la loro estensione, avendo io — se non risolto — portato il problema, per così dire, alla sua più semplice espressione: invece egli con una certa furia, anzi direi con accanimento evidente, mette tutto sotto i piedi; al qual proposito noto questa inezia, che egli ha intenzionalmente omesso innanzi alla parola “autore„ l’abbreviamento “sig.„, abitualmente usato in questa Rivista e destinato a raddolcire un poco il biasimo. Io posso bene indovinare chi sia questo signore dal suo procedere, specialmente là dove egli lascia trasparire i suoi pensieri. Come collaboratore d’una celebre rivista, certo egli ha per qualche tempo nelle sue mani se non l’onore, la fama d’un autore. Ma egli è pur anche autore e quindi espone, così facendo, la sua propria fama ad un pericolo, che sicuramente non è così trascurabile come egli s’immagina. Ma io voglio tacere di questo, dal momento che Ella si compiace di chiamarlo suo amico. Ben dovrebbe invero egli essere, sebbene in un più largo senso, anche mio amico, se dalla comune partecipazione alla stessa scienza e dagli energici, sebben vani sforzi di rimettere questa scienza su d’un piede più sicuro, può nascere un’amicizia letteraria; ma io penso che sia avvenuto qui come altrove; costui deve aver temuto di dover rimettere qualche cosa delle sue pretese di fronte a simili novità; timore che è assolutamente infondato, perchè qui si tratta della limitazione non degli autori, ma dell’intelletto umano.

Ella può, Ill.mo Signore, fermamente credermi — e di ciò può informarsi in qualunque tempo sulla fiera di Lipsia dal mio editore Hartknoch — che alle assicurazioni di questo, che Ella avesse parte nella recensione, io non ho mai voluto dar fede ed ora mi è oltremodo grato il ricevere dalla Sua cortese informazione la conferma della mia supposizione. Io non sono così delicato e suscettibile da irritarmi per le obbiezioni e le critiche, posto pure che si riferissero a quanto io considero come il merito più eccellente del mio scritto, quando non traspariscano l’intenzione di nascondere ciò che pure potrebbe trovarsi qua o là di encomiabile e l’espressa volontà di nuocere. Io aspetto con piacere la pubblicazione della Sua recensione integra nella A. D. Bibliothek, questa preoccupazione mette agli occhi miei nella luce più favorevole il Suo carattere e mi dimostra ch’esso s’ispira a quella onestà e purezza d’intenzioni che caratterizzano il vero scienziato e che mi riempiranno sempre della più alta stima, qualunque sia per essere il Suo giudizio. Con tutta libertà confesso che io medesimo non aveva fatto conto da principio su d’una rapida accoglienza favorevole del mio scritto: perchè a questo fine non era stata abbastanza elaborata, in modo da riuscire generalmente accessibile, l’esposizione delle materie, che io aveva per più di dodici anni continuamente ed accuratamente meditato: a questo si sarebbero richiesti ancora alcuni anni, mentre io la condussi a termine in quattro o cinque mesi, per paura che una così lunga occupazione finisse per riuscire, tardando ancora, a me stesso di peso e che la età aggravantesi (io sono già adesso nei sessant’anni ed ho ancora in testa tutto il sistema) me ne rendesse in ultimo l’esecuzione forse impossibile. E di questa mia risoluzione sono ancora adesso, sia pure l’opera mia così com’è, affatto contento; tanto anzi che io non vorrei a nessun costo avere ancora da scriverla, come non vorrei a nessun costo addossarmi ancora una volta la lunga serie di sforzi che essa m’è costata. Il primo stordimento che dovevano produrre necessariamente una certa quantità di concetti assolutamente stranieri all’intelletto usuale e di nuovi vocaboli ancora più stranieri, sebben necessarii, si dissiperà col tempo. Alcuni punti si chiariranno (ed a ciò forse contribuiranno i miei Prolegomeni). Questi punti irradieranno luce su altri passi, al che certo si richiederà di tempo in tempo un contributo di esplicazioni da parte mia; e così finalmente potrà venir compreso nella sua totalità ed a fondo l’insieme; a condizione che si ponga mano all’opera e, partendo dalla questione fondamentale che è il punto essenziale (e che io ho abbastanza chiaramente esposta), si proceda successivamente ad esaminare a parte e ad elaborare con sforzi concordi ogni singolo punto. In una parola, il meccanismo c’è tutto completo, ed ora si tratta soltanto di lucidarne i pezzi o di ungerli per togliere l’attrito, il quale certo gli impedirebbe di entrare in attività. Ancora, questo genere di scienza ha questo di particolare che la concezione del tutto è necessaria per rettificare ogni parte singola e quindi, per erigere quella, si è in diritto di lasciare queste per un dato tempo in un certo stato d’imperfezione. Se io avessi voluto fare l’una e l’altra cosa ad un tempo, le forze e il tempo non mi sarebbero bastati.

Ella accenna alla mancanza di popolarità come ad un giusto rimprovero che si può fare al mio scritto: perchè ogni scritto filosofico deve potersi esporre popolarmente: altrimenti nasconde molto probabilmente sotto il velo nebuloso d’un’apparente profondità, cose senza senso*1. Ma con la popolarità, in ricerche le quali miravano tant’alto, non si poteva cominciare. Quando io fossi solamente giunto a tanto, che gli altri mi fossero venuti appresso un tratto con i concetti scolastici, in mezzo ad espressioni barbare, vorrei bene io stesso accingermi (altri però vi riuscirà meglio) a stendere un riassunto popolare, e tuttavia solido, del tutto, riassunto del quale ho già il piano in mente: per intanto accontentiamoci di essere chiamati pedanti (doctores umbratici), purché riusciamo a portar avanti la scienza: la parte più delicata del pubblico certo non prenderà parte a questo lavoro, finchè esso non esca dalla sua oscura officina e, completamente polito, possa affrontare anche il suo giudizio. Abbia Ella ancora la gentilezza di gettare un rapido sguardo sull’insieme e vedrà che la materia da me elaborata nella Critica non è metafisica, ma è una scienza affatto nuova e finora intentata e cioè la critica della ragione in quanto giudicante a priori. Altri hanno certamente toccato di questa facoltà, come Locke e Leibnitz, sempre però confusamente con altre potenze conoscitive, ma nessuno ha mai anche solamente pensato che essa potesse essere l’oggetto d’una scienza formale e necessaria e per di più molto estesa, la quale (senza rinunziare a questa sua limitazione a considerare unicamente la facoltà delle conoscenze pure) richiedesse una tale molteplicità di suddivisioni e nel tempo stesso (ciò che è meraviglioso) potesse dalla natura di tale facoltà derivare tutti gli oggetti ai quali essa si estende, enumerarli e provare la completezza di questa enumerazione col doro ordinamento sistematico nella totalità di una potenza conoscitiva; ciò che nessun’altra scienza assolutamente può fare — e cioè dal semplice concetto (ma ben determinato) d’una potenza conoscitiva derivarne a priori anche tutti gli oggetti, tutto quello che si può saperne, anzi tutto quello che intorno ad essi involontariamente, sebbene illusoriamente, si sarà costretti a giudicare. La logica che sarebbe ciò che v’ha di più simile a tale scienza, è tuttavia in questo punto infinitamente al disotto di essa. Perchè essa si estende, è vero, ad ogni uso dell’intelletto, ma non può dire a quali oggetti e fin dove si possa applicare la conoscenza intellettiva, e deve attendere che oggetti della sua applicazione le siano dati dall’esperienza o per altra via (p. es. dalla matematica).

Ed ora, mio caro Signore, io La prego, quando Ella voglia ancora spendere fatica in questa faccenda, di usare di tutto il Suo prestigio e di tutta la Sua influenza per provocarmi dei nemici, non nemici alla mia persona (chè io sto in pace con tutto il mondo), ma al mio scritto; e nemici non anonimi, nemici che non attacchino tutto in una volta o qualche cosa preso casualmente in mezzo al resto, ma che procedano veramente con l’ordine debito; prima esaminare od ammettere la mia dottrina della distinzione delle conoscenze analitiche e sintetiche, poi procedere all’esame del problema generale da me chiaramente proposto nei Prolegomeni, come cioè siano possibili conoscenze sintetiche a priori, quindi analizzare successivamente i miei tentativi di risolvere questo problema, ecc. Perchè io mi credo in grado di dimostrare formalmente che nessuna proposizione veramente metafisica si possa esporre divelta del tutto, ma debba sempre venir derivata solo dal rapporto in cui essa si trova con le fonti di tutta la nostra conoscenza razionale pura, quindi dal concetto della possibile totalità d’una tale conoscenza, ecc. Ma per quanto cortese e condiscendente Ella volesse essere in riguardo a questo mio desiderio, io so benissimo fin d’ora che, dato il gusto dominante in questa età, di rappresentarsi nelle cose speculative il difficile come facile (non di renderlo facile), il Suo gentile interessamento circa questo punto rimarrebbe senza risultato. Garve, Mendelssohn e Tetens sono i soli, ch’io conosca, dalla cui collaborazione quest’impresa potrebbe in non lungo tempo essere portata fino ad un termine che dei secoli non hanno potuto raggiungere: ma questi eccellenti uomini paventano di accingersi a lavorare un deserto che, con tutta la fatica spesasi intorno, è sempre rimasto egualmente ingrato. Tuttavia gli sforzi umani si svolgono in un circolo costante e ritornano a quel punto nel quale si sono già una volta trovati: onde materiali che ora giacciono nella polvere potranno forse venir usati a costruire uno splendido edilizio.

Ella ha la bontà di giudicare favorevolmente la mia esposizione delle contraddizioni dialettiche della ragion pura, sebbene la soluzione delle stesse non abbia la Sua approvazione*2.

Se il mio recensente di Gottinga si fosse indotto a trar fuori anche un solo giudizio di questo genere, allora almeno io non avrei pensato ad una disposizione ostile, avrei dato la colpa all’aver mancato il senso del maggior numero delle mie proposizioni (ciò che non mi sarebbe tornato inaspettato) e così in gran parte a me stesso e in luogo di rispondere con qualche acerbità, o non avrei risposto affatto, o al più mi sarei qualche poco lamentato perchè si volesse così semplicemente condannare tutto senza aver attaccato la fortezza principale; ma nel caso presente regnava in tutta la recensione ad ogni punto un tono così insolente di disprezzo e di arroganza, che io doveva necessariamente sentirmi mosso a provocare questo grande genio a venire alla luce, per poter decidere, dal paragone dei suoi prodotti con i miei, per quanto poca cosa questi siano, se vi era realmente da parte sua quella grande superiorità, o se invece non vi fosse dietro una certa astuzia di autore, che sta nel lodare tutto ciò che concorda con le affermazioni che si trovano nei propri scritti e nel biasimare ciò che vi contrasta e così nel crearsi di sottomano un piccolo imperio sopra tutti gli autori in una data materia (essendo gli autori obbligati, se vogliono essere giudicati bene, a usare l’incenso ed a celebrare come loro guida gli scritti di colui, nel quale sospettano il futuro recensente); col che si finisce poco per volta a guadagnarsi, senza grande fatica, un nome. Giudichi ora Ella, appresso a questo, se io ho dimostrato il mio malcontento contro il recensente di Gottinga, come Ella ama esprimersi, con una certa durezza.

Dopo la spiegazione che Ella ha avuto la bontà di darmi, secondo la quale il vero recensente deve restare in incognito, cade, da quanto prevedo, la mia aspettazione che il mio invito venga accolto: a meno che egli si presentasse, ovverosia si scoprisse da se stesso di propria volontà, nel qual caso tuttavia io mi considere come legato anon fare il minimo uso in pubblico di ciò che intorno al vero processo delle cose Ella ha avuto la bontà di parteciparmi. Del resto una controversia erudita condotta aspramente mi è così insopportabile e lo stesso stato d’animo che essa presuppone è così contrario alla mia natura che io preferisco addossarmi il più esteso lavoro di chiarimento e di giustificazione di ciò, che ho già scritto, contro l’avversario più reciso, ma obbiettivo, che destare e mantenere in me una passione che in nessun altro caso trova posto nell’animo mio. Se tuttavia il recensente di Gottinga credesse di dover rispondere alle mie espressioni nella rivista e nella solita maniera, senza compromettere la propria persona, ben saprei io (sempre salva l’obbligazione che mi sono sopra assunto) prendere le mie misure per far cessare questa molesta disuguaglianza tra un aggressore invisibile ed un aggredito che si difende dinanzi agli occhi di tutto il mondo; sebbene pur resterebbe aperta una via di mezzo e cioè che egli non si nominasse pubblicamente, ma si scoprisse a me (per i motivi da me addotti nei Prolegomeni) per lettera, scegliendo poi e risolvendo pubblicamente il punto da mettersi in questione. Ma qui ben si potrebbe esclamare: O curas hominum! Miseri uomini, voi vi date l’apparenza di occuparvi solo della verità e della diffusione del sapere, mentre ciò che veramente vi occupa è soltanto la vostra vanità!

Ed ora, Illmo Signore, voglia Ella che questa occasione non sia la sola per mantenere una conoscenza che mi è così gradita. Un carattere della natura che Ella lascia trasparire nella prima Sua lettera non è, anche senza voler tener conto della superiorità dell’ingegno, cosa tanto frequente nel nostro mondo letterario, perchè colui il quale apprezza la purezza del cuore, la mitezza e la bontà generosa più che tutta la scienza stessa, non debba sentire, quando incontra tutte queste belle proprietà riunite, un vivo desiderio di entrare in rapporto con chi le possiede. Ogni consiglio, ogni accenno d’un uomo così sagace e delicato sarà per me in ogni tempo del più alto pregio e quando vi fosse da parte mia qualche cosa con cui io potessi ricambiare una tale cortesia, il piacer mio ne sarebbe raddoppiato.

Io sono, Illmo Signore, con vera stima e devozione

Konisberga, 7 agosto 1783.

suo

E. Kant.


Note di Kant

*1. Perchè non si addossi a me solo la colpa delle difficoltà create ai miei lettori con la novità del linguaggio e l’oscurità non facilmente penetrabile, io faccio volentieri la seguente proposta. La deduzione dei concetti intellettivi puri, ossia delle categorie, cioè la possibilità di avere affatto a priori concetti delle cose, non potrà non essere giudicata altamente necessaria, perchè senza di essa la conoscenza pura a priori non ha alcuna certezza. Ora io vorrei che alcuno tentasse di arrivarvi in modo più facile e più popolare: allora egli sentirà la difficoltà, la più grande fra tutte quelle che la speculazione possa trovare in questo campo. Da altre fonti poi che non quelle da me indicate, egli non la deriverà mai; di questo sono perfettamente sicuro.

*2. La chiave tuttavia c’è, soltanto l’uso non solito ne è da principio difficile. Essa sta nel considerare tutti gli oggetti a noi dati secondo due concetti diversi e cioè prima come fenomeni, poi come cose in sè. Se si prende i fenomeni per cose in sè e si esige da essi, come tali, nella serie delle condizioni l’assolutamente incondizionato, si cade in pure contraddizioni, le quali scompaiono quando si mostri che l’assolutamente incondizionato non si trova in mezzo ai fenomeni, ma soltanto nelle cose in sè. Se si prende al contrario ciò che, come cosa in sè, può contenere in sè la condizione di alcunché nel mondo, per fenomeno, allora si creano delle contraddizioni dove non ne esistono affatto, come nel caso della libertà, e questa contraddizione scompare non appena si fa attenzione a quel diverso significato degli oggetti.



Ultima modifica 2021.07