Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza

Immanuel Kant (1783)


Parte seconda del problema trascendentale

COME È POSSIBILE LA FISICA PURA?

§ 1475.

Per natura s’intende l'esistenza delle cose in quanto determinate da leggi generali. Se “Natura„ significasse l’esistenza delle cose in sè, noi non potremmo conoscerla mai nè a priori, nè a posteriori76. Non a priori, perchè noi non possiamo sapere ciò che appartiene alle cose in sè per una scomposizione dei nostri concetti (giudizi analitici). Ciò che io voglio sapere infatti non è che cosa sia contenuto nel mio concetto di una cosa (questo appartiene all’essenza logica della cosa77), ma che cosa aggiunga la sua reale esistenza a questo concetto e da che cosa sia determinata la cosa stessa nella sua esistenza all’infuori del mio concetto. Il mio intelletto con le condizioni, sotto le quali soltanto esso può collegare le determinazioni delle cose nella loro esistenza reale, non detta legge alle cose stesse78; non sono queste che si conformano al mio intelletto, ma è il mio intelletto che dovrebbe conformarsi ad esse; esse dovrebbero quindi essermi date in antecedenza, perchè io potessi da esse ricavare queste determinazioni, ma allora non sarebbero più conosciute a priori.

Anche a posteriori sarebbe una tale conoscenza della natura delle cose in sè impossibile. Poniamo che l’esperienza mi apprenda le leggi a cui sottosta l’esistenza delle cose; queste leggi dovrebbero pure, in quanto si riferiscono alle cose in sè, valere delle cose necessariamente anche all’infuori della mia esperienza. Ora l’esperienza mi apprende bene che cosa esiste e come esiste, ma non mai che ciò debba necessariamente essere così e non altrimenti79. Quindi essa non può mai apprendermi la natura delle cose in sè.

§ 1580.

Noi siamo tuttavia realmente in possesso di una fisica pura la quale enuncia a priori e con quella necessità, che [295] s’addice a proposizioni apodittiche, le leggi alle quali la natura obbedisce. Basta che io ricordi qui quella propedeutica della scienza naturale che, sotto il nome di fisica generale, si premette sempre alla fisica (in s. s.) (la quale è fondata su principii empirici). In essa troviamo applicazioni della matematica ai fenomeni ed anche principii puramente discursivi (dedotti da concetti) che costituiscono la parte filosofica della fisica pura. Certo vi sono in essa anche molti concetti che non sono assolutamente puri ed indipendenti dalle sorgenti empiriche: come il concetto del movimento, il concetto dell’impenetrabilità (sul quale riposa il concetto empirico della materia), dell’inerzia, ed altri, i quali tolgono che essa possa dirsi una fisica assolutamente pura; di più essa si riferisce solo agli oggetti dei sensi esterni e quindi non ci dà l’esempio d’una fisica universale in senso rigoroso; chè questa dovrebbe ridurre sotto leggi generali tutta la natura, si riferisca questa all’oggetto dei sensi esterni od a quello del senso interno (all’oggetto della fisica od a quello della psicologia). Ma fra i principii di quella fisica generale se ne trovano alcuni, che realmente hanno quella universalità che noi esigiamo, come la proposizione che la sostanza permane e non si distrugge, che tutto ciò che avviene è sempre predeterminato da una causa secondo leggi costanti, etc. Queste sono vere leggi universali di natura che sussistono del tutto a priori. Vi è quindi realmente una fìsica pura; onde la questione: come essa è possibile?

§ 1681.

La parola “natura„ prende ancora un altro significato che determina l’oggetto, mentre nel significato precedente essa mette in rilievo soltanto la regolarità delle determinazioni dell’esistenza delle cose. La natura è così, materialiter considerata, l’insieme di tutti gli oggetti del l’esperienza. È della natura in questo senso che dobbiamo qui occuparci, perchè diversamente, se noi dovessimo conoscere, secondo la loro natura, cose, le quali non potessero mai diventare oggetto di esperienza, esse ci imporrebbero dei concetti il cui valore non potrebbe mai essere dato in concreto (in un qualunque esempio d’un’esperienza possibile): quindi noi potremmo della loro natura formarci solo concetti sulla cui realtà — se cioè si riferiscano realmente a degli oggetti, [296] o siano soltanto degli enti di ragione — non si potrebbe decidere nulla. La conoscenza d’un oggetto che non cadesse nell’esperienza sarebbe iperfisica: ora qui noi non abbiamo niente a fare con questo genere di conoscenze, ma solo con la conoscenza naturale, la cui realtà può essere confermata dall’esperienza, anche se sia possibile a priori ed anteceda ogni esperienza.

§ 1782.

L’elemento formale della natura in questo senso più ristretto è quindi la regolarità di tutti gli oggetti dell’esperienza e, in quanto è conosciuto a priori, la necessaria regolarità degli stessi. Noi abbiamo or ora mostrato che le leggi della natura negli oggetti, considerati non in rapporto ad una possibile esperienza, ma come cose in sè, non potrebbero mai venir conosciute a priori. Ma noi non abbiamo qui a fare con delle cose in sè (non ci interessiamo qui delle proprietà di queste), ma solo con cose come oggetto d’una possibile esperienza; ed il loro complesso è appunto ciò che diciamo qui natura. Or io chiedo se, trattandosi della possibilità d’una conoscenza a priori della natura, sia meglio formulare così il problema: come è possibile conoscere a priori la necessaria regolarità delle cose come oggetti dell’esperienza? oppure: come è possibile conoscere a priori la necessaria regolarità dell’esperienza in riguardo a tutti i suoi oggetti in genere?

Ben guardando, la soluzione della questione è assolutamente la stessa in rapporto alla conoscenza naturale pura, che costituisce il vero e proprio oggetto della questione, comunque venga questa formulata. Perchè le leggi soggettive sotto le quali soltanto è possibile una conoscenza delle cose per via di esperienza, valgono anche di queste cose come oggetti d’un’esperienza possibile (certo non delle stesse come cose in sè, ma di queste, qui non si fa punto questione). È del tutto la stessa cosa se io dico: senza la legge che, quando un evento viene percepito, esso deve sempre venir riferito a qualche cosa che antecede ed a cui esso segue secondo una regola generale, un giudizio percettivo non può mai valere come esperienza; o se io mi esprimo così: tutto ciò che mi è dato nell’esperienza come qualche cosa che diviene, deve avere una causa.

[297] È tuttavia meglio adottare la prima formula83. Perchè siccome noi possiamo ben avere a priori ed anteriormente a tutti gli oggetti una conoscenza delle condizioni sotto cui solo è possibile un’esperienza circa gli oggetti, ma non possiamo in alcun modo sapere a priori a quali leggi questi siano soggetti in se stessi, indipendentemente dal rapporto con una possibile esperienza, così noi non possiamo altrimenti studiare a priori la natura delle cose che ricercando le condizioni e le leggi generali (per quanto soggettive), sotto le quali soltanto è possibile (quanto alla forma) una tale conoscenza come esperienza e quindi determinando in accordo a ciò la possibilità delle cose come oggetti dell’esperienza: mentre se io scegliessi la seconda formula e ricercassi le condizioni a priori sotto cui è possibile la natura come oggetto dell’esperienza, potrei facilmente cadere in errore ed illudermi di poter parlare della natura come d’una cosa in sè; allora mi perderei inutilmente in infiniti tentativi di ricercare le leggi di cose circa le quali non ho niente di dato.

Noi avremo così da fare qui soltanto con l’esperienza e le condizioni universali date a priori della sua possibilità; e quindi da determinare la natura come l’oggetto totale di ogni esperienza possibile. Io spero che non mi si fraintenda84: e cioè s’intenda che io qui non ho di mira le regole dell’osservazione d’una natura già data, regole che già presuppongono l’esperienza; e quindi non il metodo di ricavare dall’osservazione della natura le leggi di questa, che non sarebbero leggi a priori e non darebbero una fisica pura; ma che voglio mostrare come le condizioni a priori della possibilità dell’esperienza sono anche le sorgenti dalle quali debbono venir ricavate tutte le leggi generali della natura.

§ 1885.

Ora noi dobbiamo notare in primo luogo questo: che sebbene tutti i giudizi d’esperienza siano empirici, cioè abbiano il loro fondamento nella percezione immediata dei sensi, tuttavia non per questo tutti i giudizi empirici sono inversamente giudizi di esperienza; ma che, perchè diventino tali, oltre all’elemento empirico e in genere oltre al dato dell’intuizione sensibile, debbono ancora aggiungersi certi particolari concetti, i quali hanno la loro origine del tutto a priori nell’intelletto puro ed ai quali deve prima venire subordinata ogni percezione per essere trasformata in esperienza.

[298] I giudizi empirici in quanto hanno valore obbiettivo sono giudizi di esperienza: quelli che hanno solo valore subbiettivo io li chiamo giudizi percettivi. Questi ultimi non abbisognano di alcun concetto intellettivo puro, ma solo del collegamento logico della percezione in un soggetto pensante. I primi invece richiedono sempre, oltre alle rappresentazioni provenienti dall’intuizione sensibile, il concorso di certi speciali concetti aventi l’origine loro nell’intelletto stesso, i quali appunto hanno per effetto di dare un valore obbiettivo al giudizio d’esperienza.

Tutti i nostri giudizi sono dapprima semplici giudizi percettivi; essi valgono solo per noi, cioè per il nostro soggetto, e solo in appresso diamo loro un nuovo rapporto, cioè li riferiamo ad un oggetto e vogliamo che essi valgano per noi in ogni tempo e, come per noi, così per ciascun altro; chè, quando un giudizio concorda con un oggetto, devono concordare anche fra loro tutti i giudizi sullo stesso oggetto e così il valore obbiettivo del giudizio di esperienza non significa altro che la sua validità universale. Ma allo stesso modo inversamente quando abbiamo ragione di tenere un giudizio per necessario ed universalmente valido (caratteri che si fondano non sulla percezione, ma sul concetto intellettivo puro, sotto cui la percezione è stata ordinata), dobbiamo tenerlo per obbiettivo, dobbiamo ritenere cioè che esprima non solo un rapporto della percezione con un soggetto, ma una proprietà dell’oggetto; perchè non vi sarebbe alcuna ragione che i giudizi degli altri coincidessero necessariamente col mio, se non fosse l’unità dell’oggetto, al quale tutti si riferiscono, e concordando col quale tutti debbono concordare anche fra di loro.

§ 1986.

Valore obbiettivo e universalità necessaria (per tutti) sono quindi concetti reciproci e, sebbene noi non conosciamo l’oggetto in sè, quando noi consideriamo un giudizio come universalmente valido e quindi necessario, diciamo che esso ha un valore obbiettivo. Noi conosciamo in questo giudizio l’oggetto (anche se esso ci rimane sott’altro rispetto, così come può essere in sè, ignoto) per via del collegamento universalmente valido e necessario delle percezioni date: e poiché questo è il caso per tutti gli oggetti dei sensi, possiamo dire che i giudizi d’esperienza traggono la loro validità obbiettiva non dall’immediata conoscenza [299] dell’oggetto (che è impossibile), ma solo dalla condizione della validità universale dei giudizi empirici, la quale, come si è detto, non riposa sulle condizioni empiriche, anzi in genere sulle condizioni sensibili, ma su d’un concetto intellettivo puro. L’oggetto rimane in sè sempre ignoto; ma quando il concetto intellettivo conferisce al collegamento delle rappresentazioni, che da quello pervengono al nostro senso, una validità universale, questo rapporto determina l’oggetto e il giudizio diventa obbiettivo.

Spieghiamo questo punto. Che la stanza è calda, lo zucchero dolce, l’assenzio amaro*1, sono semplici giudizi soggettivamente validi. Io non pretendo di dover sempre sentire così o che tutti sentano come io sento: esse esprimono solo il rapporto di due sensazioni con lo stesso soggetto, con me, ed anche solo così come esso si costituisce nel mio presente stato rappresentativo, quindi non valgono dell’oggetto; questi io li chiamo giudizi percettivi.

Tutt’altra cosa sono i giudizi di esperienza. Ciò che l’esperienza m’insegna in certe circostanze, essa deve insegnarlo sempre a me e ad ogni altro e la validità sua non si limita al soggetto od al suo stato del momento. Quindi io esprimo tutti questi giudizi come obbiettivamente validi. Così, p. es., quando io dico: l’aria è elastica, questo giudizio è prima solo un giudizio percettivo, pel quale due sensazioni dei miei sensi vengono collegate l’una con l’altra. Se io voglio che sia un giudizio d’esperienza, io esigo che questo collegamento sia sottoposto ad una condizione che lo renda universalmente valido. Io voglio cioè che e io in ogni tempo ed ogni altro dobbiamo collegare, nelle stesse circostanze, le stesse percezioni in modo necessario.

[300] § 2087.

Noi dobbiamo quindi analizzare l’esperienza in genere per vedere che cosa in questo prodotto appartenga ai sensi e che cosa all’intelletto e come il giudizio d’esperienza sia possibile. A fondamento sta l’intuizione della quale ho coscienza, cioè la percezione (perceptio), che è tutta cosa del senso. Ma in secondo luogo vi concorre anche un giudizio (che è cosa del solo intelletto). Ora questo giudizio può essere di due specie, secondochè io comparo semplicemente le percezioni e le collego in una coscienza, nella coscienza del mio stato, oppure le collego in una coscienza genericamente88. Il primo è solo un giudizio percettivo ed ha in tanto solo valore soggettivo: esso è un puro collegamento delle percezioni nel mio stato di coscienza senza riferimento all’oggetto. Quindi non basta per l’esperienza, come si crede comunemente, comparare delle percezioni e collegarle per mezzo del giudizio in una coscienza: questo non dà ancora nessuna universalità e necessità del giudizio, per le quali proprietà soltanto esso può essere oggettivamente valido e chiamarsi esperienza.

Bisogna quindi che preceda ancora un altro giudizio, perchè dalla percezione si abbia l’esperienza. L’intuizione data dev’essere subsunta sotto un concetto che determina la forma del giudizio in genere in rapporto all’intuizione, collega le intuizioni della coscienza empirica in una coscienza generica e per questo mezzo conferisce ai giudizi empirici un valore universale; tale concetto è un concetto intellettivo puro a priori e il compito suo è semplicemente quello di determinare in rispetto ad un’intuizione il modo onde può venir costituito da essa un giudizio. Sia, p. es., il concetto intellettivo di causa: esso determina l’intuizione, che ad esso si subsume, p. es., dell’aria, in rapporto al giudicare generico e cioè in modo che il concetto di aria in relazione all’espansione stia nel rapporto di antecedente a conseguente in un giudizio ipotetico. Il concetto di causa è così un concetto intellettivo puro, distinto da ogni percezione possibile, il quale serve solo a determinare la percezione che ad esso è subordinata, in rapporto al giudicare generico e quindi a rendere possibile un giudizio universalmente valido.

Perchè da un giudizio percettivo si abbia un giudizio di esperienza, si esige anzitutto che la percezione [301] venga subordinata ad un concetto intellettivo di questo genere; così nell’esempio addotto l’aria si subordina al concetto di causa che determina il giudizio circa l’aria in rapporto all’espansione come ipotetico*2. Così questa espansione non viene soltanto rappresentata come connessa con la mia rappresentazione dell’aria in uno o più dei miei stati coscienti o nello stato cosciente di altri, ma come necessariamente connessa. Questo giudizio: l’aria è elastica, diventa universalmente valido e così un giudizio d’esperienza pel fatto che ad esso antecedono certi altri giudizi89, i quali subordinano l’intuizione dell’aria sotto il concetto di causa ed effetto e così determinano le percezioni non solo nel loro reciproco rapporto nel mio soggetto, ma in riguardo alla forma del giudicare generico (che è qui la forma ipotetica) e rendono per questa via il giudizio empirico universalmente valido.

Se noi analizziamo tutti i nostri giudizi sintetici, in quanto sono obbiettivamente validi, noi troviamo che essi non sono costituiti, come si crede comunemente, di semplici intuizioni collegate per via di comparazione in un giudizio, che anzi non sarebbero possibili, se oltre ai concetti ricavati dall’intuizione non si fosse aggiunto anche un concetto intellettivo puro, sotto il quale i concetti empirici vengono subsunti e così collegati in un giudizio obbiettivamente valido. Gli stessi giudizi della matematica pura nei suoi assiomi più semplici non si sottraggono a questa condizione90. Il principio “la linea retta è la più breve fra due punti„ presuppone che la linea venga subsunta sotto il concetto di grandezza, il quale non e certo una semplice intuizione, ma ha la sua sede nell’intelletto e serve a determinare l’intuizione della linea in tutti quei giudizi che di essa si pronunciassero nel rapporto della quantità, anzi precisamente della molteplicità91 [302] (Judicia plurativa)*3; in quanto per mezzo di questi si esprime che in una data intuizione è contenuta una molteplicità di elementi omogenei.

§ 2192.

Ora per mettere in luce la possibilità dell’esperienza in quanto riposa su concetti intellettivi a priori dobbiamo prima rappresentare in una tavola le forme del giudizio in genere e i diversi momenti dell’intelletto in quest’attività sua; perchè i concetti intellettivi puri, i quali non sono altro che concetti di intuizioni in genere, in quanto queste vengono determinate in rapporto all’uno od all’altro di questi momenti del giudizio in se stesso e quindi rivestite di necessità e di universalità, si svolgeranno in un ordine perfettamente parallelo alle forme del giudizio. E così saranno anche esattamente determinati i principi fondamentali a priori della possibilità di ogni esperienza come conoscenza empirica oggettivamente valida. Perchè essi non sono altro che proposizioni, le quali subordinano tutte le percezioni (secondo certe condizioni generali dell’intuizione) a quei concetti intellettivi puri.

Tavola logica dei Giudizi93

1. Secondo la quantità:

universali

particolari

singolari.

2. Secondo la qualità:

affermativi

negativi

infiniti.

3. Secondo la relazione:

categorici

ipotetici

disgiuntivi.

4. Secondo la modalità:

problematici

assertori

apodittici.


Tavola trascendentale dei concetti intellettivi.

 

1. Secondo la quantità:

unità (la misura)

molteplicità (la grandezza)

totalità (il tutto).

 

2. Secondo la qualità:

realtà

negazione

limitazione.

 

3. Secondo la relazione:

sostanza

causa

comunione.

 

4. Secondo la modalità:

possibilità

esistenza

necessità.

 


Tavola fisiologica pura dei principi generali

della scienza naturale pura.

 

1.Assiomi dell'intuizione

 

2. Anticipazioni della percezione

 

3. Analogie dell'esperienza

 

4. Postulati del pensiero empirico in genere.

 

[304] § 21 a94.

Per riassumere tutto quanto precede in breve, è anzitutto necessario ricordare al lettore che qui non si tratta di vedere come sorge l’esperienza, ma quali sono gli elementi che la costituiscono. La prima ricerca appartiene alla psicologia empirica e non potrebbe mai venire, anche qui, convenientemente svolta senza la seconda che appartiene alla critica della conoscenza e specialmente dell’intelletto.

L’esperienza, risulta da intuizioni, che appartengono alla sensibilità e da giudizi, che possono essere soltanto opera dell’intelletto. Ma quei giudizi che l’intelletto forma soltanto da intuizioni sensibili sono lungi ancora dall’essere giudizi di esperienza95. Perchè in tal caso il giudizio collegherebbe soltanto le percezioni così come sono date nell’intuizione sensibile: nell’ultimo caso invece i giudizi debbono dire che cosa contiene l’esperienza generica, non la semplice percezione, il cui valore è puramente subbiettivo. Il giudizio di esperienza deve quindi, oltre all’intuizione sensibile ed al collegamento logico della stessa (dopo che questo è stato per via di comparazione universalizzato), aggiungere in un giudizio qualche cosa che determina il giudizio sintetico come necessario e quindi come universalmente valido; e questo non può essere altro che quel concetto che rappresenta l’intuizione come in sè determinata96 in rapporto ad una forma del giudizio piuttosto che ad un’altra, cioè un concetto di quell’unità sintetica delle intuizioni, la quale può essere rappresentata solo da una data funzione logica del giudizio.

§ 22.

La somma di quanto precede è questa: compito dei sensi è intuire, dell’intelletto pensare97. Ma pensare è collegare rappresentazioni in una coscienza. Questo collegamento avviene o solo relativamente al soggetto ed allora è casuale e subbiettivo; od ha luogo assolutamente ed allora è necessario ed obbiettivo.

Il collegamento delle rappresentazioni in una coscienza è il giudizio. Quindi pensare è giudicare ossia riferire in genere rappresentazioni a giudizi98. Onde i giudizi sono o subbiettivi, quando le rappresentazioni vengono riferite solo ad una coscienza in un soggetto ed in esso unificate; o sono oggettivi, quando sono collegate in una coscienza genericamente, cioè [305] necessariamente. I vari momenti logici del giudicare sono altrettante forme possibili di collegare rappresentazioni in una coscienza. Se vengono presi come concetti, allora sono concetti del collegamento necessario delle stesse in una coscienza99 e così principi di giudizi obbiettivamente validi. Questo collegamento in una coscienza è od analitico, per l’identità, o sintetico per la composizione o l’aggregazione reciproca di diverse rappresentazioni. L’esperienza consiste in un collegamento sintetico dei fenomeni (percezioni) in una coscienza, in quanto esso è necessario. Quindi i concetti intellettivi puri sono quelli ai quali devono essere prima subordinate tutte le percezioni per convertirsi in giudizi di esperienza, ossia in giudizi, nei quali l’unità sintetica delle percezioni è rappresentata come necessaria ed universalmente valida*4.

§ 23101.

Le forme del giudizio, in quanto considerate come condizione del collegamento di date rappresentazioni in una coscienza, sono regole102. Queste regole in quanto rappresentano il collegamento come necessario sono regole a priori e, in quanto non hanno al disopra di sè altre regole dalle quali possano venir derivate, principi. Ora poiché in riguardo alla possibilità dell’esperienza, quando si considera in questa soltanto la forma del pensiero, non vi è nessun’altra condizione dei giudizi d’esperienza che stia sopra a quelle che subordinano i fenomeni, secondo la diversa forma della loro intuizione, ai concetti intellettivi puri, [306] che rendono il giudizio empirico oggettivamente valido, così i principi che esse costituiscono sono i principi a priori dell’esperienza possibile.

I principi della esperienza possibile sono ad un tempo leggi universali della natura, conoscibili a priori. E così è sciolta la questione posta dalla seconda delle nostre domande: come è possibile la Fisica pura? Perchè l’elemento sistematico, che costituisce la forma della scienza, è stato qui da noi completamente enucleato, non essendo possibili, oltre alle condizioni formali del giudicare in genere da noi esposte (che sono anche le condizioni di tutte le regole esposte dalla logica), altre condizioni; e siccome esse costituiscono un sistema logico, così i concetti fondati sopra di esse, che contengono le condizioni a priori di tutti i giudizi sintetici e necessari, costituiscono un sistema trascendentale ed i principi, per mezzo dei quali tutti i fenomeni vengono subordinati a questi concetti, costituiscono un sistema fisiologico103, un sistema naturale, che antecede ogni conoscenza empirica della natura, anzi solo la rende possibile e può quindi propriamente venir chiamato il sistema universale della Fisica pura.

§ 24104.

Il primo*5 di quei principi fisiologici subsume tutti i fenomeni, come intuizioni nello spazio e nel tempo sotto il concetto della grandezza ed è per questo rispetto un principio dell’applicazione della matematica all’esperienza. Il secondo non subsume l’elemento propriamente empirico, cioè la sensazione, che segna l’elemento reale delle intuizioni, propriamente sotto il concetto di grandezza, perchè la sensazione non contiene, come l’intuizione, lo spazio ed il tempo, per quanto essa ponga l’oggetto corrispondente nello spazio e nel tempo; pur vi è tuttavia nel tempo fra la realtà (la rappresentazione della qualità sensibile) e lo zero, cioè l’assenza completa dell’intuizione, una differenza che ha una grandezza, in quanto fra un grado qualunque di luce e le tenebre, fra ogni grado di calore e il freddo assoluto, fra ogni grado di peso e l’assoluta imponderabilità, fra ogni grado di densità nello spazio e [307] il vuoto assoluto può sempre venir pensato ancora un grado minore intermedio, come anche tra una coscienza e la perfetta incoscienza (la oscurità psicologica) vi sono sempre ancora dei gradi inferiori; quindi nessuna percezione è possibile, che segni lo zero assoluto, come, p. es., nessuna oscurità psicologica è pensabile che non possa venir considerata come una coscienza, la quale è solo sopraffatta da altri stati più forti e così in tutti i casi della sensazione; onde l’intelletto può anche, in virtù del principio che tutte le sensazioni, ossia il reale di tutti i fenomeni, hanno dei gradi, anticipare delle sensazioni, ossia dei gradi della qualità delle rappresentazioni empiriche (fenomeni), e questa è la seconda forma di applicazione della matematica (mathesis intensorum) alle scienze naturali.

§ 25105.

In quanto poi al rapporto dei fenomeni tra loro, in vista della loro semplice esistenza, la determinazione sua non è matematica, ma dinamica, e non può mai essere obbiettivamente valida, quindi servire a costituire un’esperienza, se non per l’intervento di principi fondamentali a priori, che soli rendono possibile il sapere d’esperienza in questo rapporto. Quindi i fenomeni debbono essere subsunti106 sotto il concetto di sostanza, che sta a fondamento di ogni determinazione dell’esistenza come il concetto della cosa, ovvero in secondo luogo, in quanto si ha una successione nei fenomeni, ossia un evento, sotto il concetto di effetto in rapporto alla sua causa, oppure infine, in quanto la simultaneità deve essere obbiettiva, ossia riconosciuta in un giudizio di esperienza, sotto il concetto di comunione (azione reciproca). Così ai nostri giudizi empirici, ma obbiettivamente validi, ossia alla possibilità dell’esperienza in quanto deve collegare gli oggetti, secondo l’esistenza loro, nella natura, stanno a fondamento dei principi a priori; essi sono le vere leggi naturali, che possono dirsi leggi dinamiche.

Infine107 appartiene anche ai giudizi d’esperienza la conoscenza della concordanza e del collegamento non tanto dei fenomeni tra loro in un’esperienza, quanto piuttosto nel loro rapporto con la esperienza in genere; che può esprimere in un concetto la loro concordanza con le condizioni formali riconosciute dall’intelletto o la loro connessione [308] ai materiali del senso e della percezione o la concorrenza d’entrambe e quindi può essere possibilità, realtà o necessità secondo le leggi generali della natura: la trattazione relativa a questi principi costituirebbe la metodologia fisiologica (distinzione della verità o delle ipotesi e limiti dell’attendibilità di queste ultime).

§ 26108.

Sebbene la terza tavola dei principi ricavata dalla natura stessa dell’intelletto secondo il metodo critico abbia in sè una perfezione, per la quale si leva di gran lunga sopra ogni altra che sia stata tentata dogmaticamente, ma inutilmente, partendo dalle cose stesse, o che potrà in avvenire essere tentata, e cioè che in essa tutti i principi sintetici a priori sono stati svolti completamente e partendo da un unico principio, cioè la facoltà di giudicare in genere, che costituisce il momento essenziale dell’esperienza in rapporto all’intelletto, cosicché si può esser certi che essa li contiene tutti (una soddisfazione che il metodo dogmatico non può mai procacciare), questo non è tuttavia, di gran lunga, il suo merito maggiore109.

Si deve fare attenzione all’argomento dal quale siamo partiti per stabilire la possibilità di questa conoscenza a priori e che subordina ad un tempo la possibilità di tali principi ad una condizione la quale non deve mai essere perduta di vista sotto pena di non intendere il vero senso dei principi e di estenderne l’uso oltre i limiti che il senso ad essi originariamente dato dall’intelletto esige: e cioè che essi contengono solo le condizioni d’un’esperienza generica possibile, in quanto è soggetta a leggi a priori. Onde io non dico: le cose in sè hanno una grandezza, la loro realtà un grado, la loro esistenza implica il collegamento degli accidenti in una sostanza, ecc.: nessuno può provare questo, perchè è assolutamente impossibile dedurre da puri concetti simili affermazioni sintetiche, se manca da una parte ogni rapporto all’intuizione sensibile, dall’altra ogni collegamento di questa in un’esperienza possibile. La limitazione essenziale dei concetti in questi principi è quindi questa: che tutte le cose obbediscono necessariamente ed a priori a tali condizioni, ma solo come oggetti dell’esperienza.

Di qui segue110 ancora in secondo luogo un’altra particolarità caratteristica della loro dimostrazione: e cioè che i suddetti principi non [309] vengono riferiti ai fenomeni ed al loro rapporto, senz’altro, ma alla possibilità dell’esperienza, della quale i fenomeni costituiscono solo la materia, non la forma, cioè a proposizioni sintetiche oggettivamente ed universalmente valide — carattere pel quale appunto i giudizi d’esperienza si distinguono dai puri giudizi percettivi. Ciò avviene in quanto i fenomeni, come semplici intuizioni che occupano una parte dello spazio e del tempo, stanno sotto il concetto di grandezza, che collega sinteticamente a priori secondo regole il molteplice in essi contenuto; e che, in quanto la percezione oltre all’elemento intuitivo contiene anche una qualità sensibile, tra la quale e lo zero (ossia la sua assenza totale) vi è sempre un passaggio attraverso a gradi inferiori, il reale dei fenomeni deve avere un grado, perchè la qualità sensibile, pur non occupando per se stessa una parte dello spazio e del tempo6, può operare il suo passaggio al tempo od allo spazio vuoto solo nel tempo; onde sebbene la sensazione, come qualità dell’intuizione empirica, non possa mai venir conosciuta a priori in riguardo a ciò, onde specificamente si distingue dalle altre sensazioni, può tuttavia venir distinta in una possibile esperienza generica, come grandezza della percezione sotto l’aspetto intensivo, da ogni altra analoga: il che appunto rende possibile e determina l’applicazione della matematica alla natura in riguardo all’intuizione sensibile, per la quale essa ci è data.

Questo dev’essere massimamente rilevato nella dimostrazione dei principi che abbiamo chiamato analogie dell’esperienza. Perchè siccome questi riguardano non, come i principi dell’applicazione della matematica alla scienza naturale in genere, la costituzione delle intuizioni, ma il collegamento della loro esistenza in un’esperienza, [310] e questa non può essere altro che la determinazione dell’esistenza nel tempo secondo leggi necessarie, sotto le quali soltanto essa è oggettivamente valida e quindi è esperienza; così la dimostrazione non si riferisce all’unità sintetica nel collegamento delle cose in sè, ma delle percezioni, ed ancora delle percezioni non secondo il loro contenuto, ma secondo la loro determinazione nel tempo e il rapporto della loro esistenza in esso111. Queste leggi generali contengono quindi la necessità della determinazione dell’esistenza nel tempo in genere (quindi secondo una regola a priori dell’intelletto) perchè la determinazione empirica nel tempo relativo sia oggettivamente valida e cioè esperienza. Io non posso aggiungere di più in questi Prolegomeni; solo raccomando al lettore, che per lunga abitudine considera l’esperienza come una semplice composizione empirica di percezioni e quindi non s’avvede che essa va ben al di là delle percezioni e cioè dà ai giudizi empirici un valore universale per mezzo di una pura unità intellettiva che antecede a priori: raccomando, dico, di fare ben attenzione a questa distinzione dell’esperienza da un semplice aggregato di percezioni e di giudicare da questo punto di vista la dimostrazione dei principi112.

§ 27113.

Qui è ora il luogo di levare dalle fondamenta il dubbio di Hume. Egli affermò con diritto che noi non possiamo in alcun modo apprendere per mezzo della ragione la possibilità della causalità, cioè del rapporto dell’esistenza d’una cosa con l’esistenza d’una qualche altra che è posta necessariamente dalla prima. Io aggiungo ancora che noi possiamo così poco penetrare il concetto della sussistenza e cioè della necessità che all’esistenza delle cose stia a fondamento un soggetto, il quale non può essere predicato di alcun’ultra cosa, anzi che noi non possiamo nemmeno comprendere la possibilità d’un essere simile (sebbene possiamo additare nell’esperienza esempi dell’uso di tal concetto); ed egualmente aggiungo che questa incomprensibilità riflette anche la comunione delle cose, perchè non si vede affatto come dallo stato d’una cosa si possa trarre una conseguenza relativa allo stato di cose affatto diverse ed esteriori ad essa ed inversamente, e come sostanze, delle quali ciascuna ha la sua propria esistenza separata, debbano dipendere reciprocamente e necessariamente. Tuttavia io sono ben lungi dal considerare questi concetti [311] come semplicemente derivati dall’esperienza e la necessità che in essi si rivela, come immaginaria e come una semplice apparenza derivante da lunga abitudine: io ho mostrato anzi a sufficienza che i detti concetti e i principi, che ne derivano, sono fondati a priori anteriormente ad ogni esperienza ed hanno un valore obbiettivo superiore ad ogni dubbio, certo però solo nella loro applicazione all’esperienza.

§ 28114.

Sebbene pertanto noi non abbiamo il minimo concetto della connessione delle cose in se stesse e quindi del come esse esistano come sostanza, o agiscano come cause o stiano in comunione con altre (come parti d’una totalità reale) e tanto meno possiamo pensare tali proprietà nei fenomeni come fenomeni (perchè ciò che quei concetti contengono non fa parte del dato fenomenico, ma può essere pensato solo dall'intelletto), noi abbiamo tuttavia il concetto di un tale collegamento delle rappresentazioni nel nostro intelletto e precisamente nell’atto del giudicare in genere; e cioè pensiamo le rappresentazioni, in una classe di giudizi, come soggetti ai quali si riferiscono dei predicati, in un’altra come causa in rapporto con un effetto, in una terza come parti che, insieme raccolte, costituiscono una totale conoscenza possibile. Di più noi conosciamo a priori: che senza riguardare la rappresentazione d’un oggetto come determinata in rapporto all’uno od all’altro di questi momenti, noi non potremmo avere alcuna conoscenza che fosse valevole dell’oggetto; mentre se noi ci occupassimo dell’oggetto in sè, noi non potremmo da alcun segno riconoscere che esso sia determinato in rapporto all’uno od all’altro di questi moménti e cioè cada sotto il concetto della sostanza o della causa o (nel suo rapporto con altre sostanze) sotto il concetto della comunione: perchè della possibilità d’un tale collegamento dell’essere io non ho alcuna idea. Ma anche la questione non è di vedere come le cose in sè, bensì come la nostra esperienza delle cose sia determinata in riguardo a queste forme del giudizio, cioè come le cose — quali oggetti dell’esperienza — possano e debbano venir subordinate a quei concetti dell’intelletto. Ed allora è ben chiaro che io vedo non solo la possibilità, ma anche la necessità di subsumere tutti i fenomeni sotto questi concetti, cioè di costituire questi in principi della possibilità dell’esperienza.

[312] § 29115.

Vediamone un saggio relativamente al concetto stesso messo in questione da Hume, a quella crux metaphysicorum che è per lui il concetto di causa. Data è in primo luogo, per mezzo della logica, a priori, la forma del giudizio condizionato in genere e cioè la possibilità d’usare una data conoscenza come premessa ed un’altra come conseguenza. Ora è possibile che nella percezione si riscontri un rapporto regolare, secondo il quale ad un certo fenomeno segue costantemente un certo altro (ma non inversamente); questo è il caso di servirmi del giudizio ipotetico e di dire, p. es.: quando un corpo è stato abbastanza a lungo esposto al sole, esso diventa caldo. Qui non vi è certamente ancora alcun collegamento necessario, quindi non vi è ancora il concetto di causa. Ma io continuo e dico: se la precedente proposizione, che è soltanto un collegamento soggettivo di percezioni, dev’essere una proposizione di esperienza, dev’essere considerata come necessaria ed universalmente valida. Allora suonerebbe così: il sole è, per via della sua luce, la causa del calore. La regola empirica sopraenunciata viene ora considerata come legge, e invero non come semplice legge dei fenomeni, ma come legge dei fenomeni diretta a costituire una possibile esperienza; esperienza che, come sappiamo, ha bisogno di regole universalmente e necessariamente valide. Io vedo ora benissimo il concetto di causa essere un concetto necessariamente appartenente alla pura forma dell’esperienza e la sua possibilità essere la possibilità d’un collegamento sintetico delle percezioni in una coscienza in genere; non vedo invece la possibilità d’una cosa in genere come causa per la ragione appunto che il concetto di causa designa una condizione inerente non alle cose, ma all’esperienza e cioè mi dice che questa può essere una conoscenza obbiettivamente valida dei fenomeni e della loro successione solo in quanto l’antecedente può essere collegato col susseguente secondo la regola dei giudizi ipotetici.

§ 30116.

Quindi è fermo ancora che i concetti intellettivi puri non hanno più nessun senso quando si staccano dagli oggetti dell’esperienza e vengono riferiti a cose in sè (noumeno). Essi servono in certo modo solo a compitare i fenomeni per poterli leggere come esperienza; i principi che scaturiscono dal riferimento di questi concetti al mondo sensibile [313] servono al nostro intelletto solo per il fine dell’esperienza: al di là di questa sono collegamenti arbitrari senza realtà obbiettiva, dei quali nè si può conoscere a priori la possibilità, nè si può confermare od anche solo far comprendere con esempi il riferimento ad oggetti, perchè tutti gli esempi possono solo venir tolti da una qualunque esperienza possibile e quindi anche gli oggetti, cui quei concetti vengono riferiti, non possono venir trovati che in una possibile esperienza.

Questa soluzione completa del problema di Hume — per quanto contraria essa sia alle previsioni sue — salva così ai concetti intellettivi puri la loro origine a priori ed alle leggi universali della natura il loro valore come leggi dell’intelletto, in modo tuttavia da limitarne l’applicazione all’esperienza, in quanto la loro possibilità ha il suo fondamento solo nel rapporto dell’intelletto alla esperienza; non però nel senso che essi derivino dall’esperienza, ma nel senso che l’esperienza deriva da essi: un rapporto affatto invertito, al quale Hume non pensò nemmeno.

Di qui segue il risultato seguente di tutte le antecedenti ricerche: “tutti i principi sintetici a priori non sono altro che principi di un'esperienza possibile„ e non possono mai venir riferiti a cose in sè, ma soltanto a fenomeni còme oggetti dell’esperienza. Quindi anche la matematica pura come la fisica pura non possono mai riferirsi a qualche cosa di più che a semplici fenomeni e rappresentano soltanto ciò che o rende in genere possibile l’esperienza o, essendo derivato da questi principi, deve sempre venir rappresentato in una qualunque possibile esperienza.

§ 31117.

Così abbiamo alla fine qualche cosa di preciso, che ci può servire di norma per giudicare di tutti i tentativi metafisici, che finora con molta audacia, ma con pari cecità, si sono spinti al di là di tutti i limiti; senza distinzione alcuna. I filosofi dogmatici non si sono mai persuasi che il fine dei loro sforzi dovesse venir ristretto in così brevi confini: nemmeno coloro che, forti della loro pretesa sana ragione, con concetti e principi della ragion pura legittimi e naturali, ma destinati soltanto per l’uso dell’esperienza, riuscirono a delle affermazioni per le quali non conoscevano, nè potevano conoscere alcun limite preciso, [314] perchè essi non avevano mai riflettuto, nè erano capaci di riflettere sopra la natura e la possibilità di un tale intelletto puro.

Più d’un naturalista della ragion pura118 (con questo nome intendo chi si arroga, senza un’analisi scientifica della ragione, di decidere nelle cose della metafisica) potrebbe opporre che tutto quello ch’è stato esposto qui con tanto apparato o, s’egli preferisce, con prolissa e pedantesca solennità egli l’ha già da lungo tempo non solo congetturato, ma saputo e veduto come per una divinazione della sua sana ragione: “e cioè che noi con tutta la nostra ragione non possiamo uscire mai dal campo dell’esperienza„. Ma poichè, quando gli si domandano ad uno ad uno i suoi principi razionali, egli deve confessare che fra questi ve ne sono molti che egli non ha tolto dall’esperienza, che quindi valgono indipendentemente da questa ed a priori, come e con quali ragioni vorrà tenere in freno il dogmatico ed anche se stesso, quando voglia servirsi di questi concetti e di questi principi al di là di ogni esperienza possibile, appunto perchè vengono conosciuti indipendentemente da questa? Ed anch’egli, questo adepto della sana ragione, non è pertanto sicuro, nonostante la sua pretesa saggezza acquistata così a buon mercato, di non sdrucciolare insensibilmente, al di là degli oggetti dell’esperienza, nel mondo dei sogni. Anzi anch’egli vi è in generale immerso abbastanza profondamente, sebbene col suo linguaggio popolare, poiché egli chiama le sue concezioni semplici verosimiglianze, congetture razionali od analogie, dia una certa apparenza migliore alle sue infondate pretese.

§ 32119.

Già dai tempi più antichi della filosofia i filosofi speculativi hanno posto, oltre gli esseri sensibili o fenomeni, costituenti il mondo sensibile, certi particolari esseri intelligibili (noumeni) che dovrebbero costituire un mondo intelligibile e, poiché essi facevano una cosa sola della parvenza (o fenomeno) e dell’apparenza illusoria (ciò che può perdonarsi ad un’età non ancora raffinata), a questi soli esseri intelligibili attribuivano una vera realtà.

In fatto quando noi consideriamo, com’è giusto, gli oggetti dei sensi come puri fenomeni, ammettiamo con questo nello stesso tempo che ad essi sta a fondamento una cosa in sé, sebbene noi non la conosciamo così com’è costituita in sè, ma ne conosciamo solo il fenomeno, ossia [315] il modo con cui questo ignoto quid affetta i nostri sensi. L’intelletto quindi, pel fatto stesso che ammette i fenomeni, ammette anche l'esistenza di cose in sè e pertanto noi possiamo dire che la rappresentazione di questi esseri che stanno a fondamento dei fenomeni e cioè la rappresentazione di puri esseri intelligibili non solo è legittima, ma è inevitabile.

Anche la nostra deduzione critica non esclude in alcun modo tali esseri (noumena), ma solo limita i principi dell’estetica120 in guisa che essi non debbono venir estesi a tutte le cose in generale, con che tutto sarebbe trasformato in pura parvenza, ma debbono valere soltanto degli oggetti d’un’esperienza possibile. Così viene ammessa l'esistenza degli intelligibili, ma con questa limitazione rigorosa e senza eccezione: che noi non sappiamo nè possiamo saper nulla di determinato intorno a questi esseri intelligibili puri, perchè i nostri concetti intellettivi puri come le nostre intuizioni pure si riferiscono unicamente agli oggetti d’un’esperienza possibile, quindi ai soli esseri sensibili e, non appena si fa astrazione da questo, non resta più a quei concetti il minimo senso e valore.

§ 33121.

Certo bisogna riconoscere che i nostri concetti intellettivi puri ci attirano insidiosamente essi medesimi verso un uso trascendente degli stessi: così io chiamo quello che va al di là di ogni possibile esperienza. Non solo in quanto i nostri concetti della sostanza, della forza, dell’azione, della realtà, ecc. sono affatto indipendenti dall’esperienza e non contengono alcun elemento fenomenico e così sembrano realmente riferirsi a cose in sè (noumeno); ma, ciò che conferma ancora questa congettura, implicano in sè una necessità di determinazione, alla quale l’esperienza non arriva mai. Il concetto di causa contiene una regola, secondo la quale da uno stato ne segue necessariamente un altro; ma l’esperienza122 ci può solo mostrare che spesso o tutt’al più comunemente ad uno stato delle cose ne segue un altro; quindi non può darci nè rigorosa universalità, nè necessità.

Quindi è che i concetti intellettivi sembrano avere un valore ed un contenuto che non si esauriscono nel semplice uso relativo alla esperienza: e così l’intelletto si costruisce, senz’accorgersene, a lato dell’edificio [316] dell’esperienza, un altro palazzo ben più vasto, che riempie di puri esseri di ragione, senza notare che egli si è avventurato coi suoi concetti per sè legittimi al di là dei limiti del loro uso.

§ 34123.

Erano quindi necessarie due trattazioni importantissime, anzi indispensabili, per quanto estremamente astruse, che sono state appunto intraprese nella “Critica„ a p. 137 e segg. e 235 e segg.; per la prima delle quali si è mostrato che i sensi non ci dànno i concetti intellettivi puri in concreto, ma ci forniscono solo lo schema per l’uso degli stessi e che l’oggetto ad esso corrispondente si ritrova soltanto nell’esperienza (che è un prodotto dell’intelletto dai materiali del senso). Nella seconda ricerca (“Critica,, pag. 235) si mostra: che, nonostante Γindipendenza dei nostri concetti e principi intellettivi puri dall’esperienza e nonostante l’apparente estensione maggiore del loro uso, tuttavia per mezzo di essi non si può pensare assolutamente nulla fuori del campo dell’esperienza, perchè essi non fanno altro che determinare la forma logica del giudizio in riguardo a intuizioni date: che, poichè al di là del campo delle sensibilità non vi sono affatto intuizioni, viene a mancare ai concetti puri ogni valore, non potendo più essi per nessun mezzo venir rappresentati in concreto: quindi che tutti i noumeni insieme con la loro totalità, il mondo intelligibile7, non sono altro che rappresentazioni d’un compito ideale124, il cui oggetto è in sè ben possibile, ma a noi assolutamente irraggiungibile per la natura del nostro intelletto che non è facoltà d’intuire, ma solo di collegare intuizioni date in un’esperienza; e infine che [317] in questa devono essere contenuti tutti gli oggetti corrispondenti ai nostri concetti, mentre fuori di essa qualunque concetto, venendo a mancare il fondamento intuitivo, non può più avere alcun senso.

§ 35125.

Si può forse perdonare all’immaginazione quando essa talora divaga, cioè non si tiene cautamente entro i limiti dell’esperienza: perchè almeno essa viene da un tale libero volo vivificata e rinforzata ed è sempre più facile temperarne l’ardire che guarirne l’indolenza. Ma che l’intelletto, il quale deve pensare, in luogo di pensare fantastichi, è cosa imperdonabile; perchè soltanto l’intelletto può aiutarci a mettere dei limiti, quando è necessario, alle stravaganze dell’immaginazione.

In questo egli comincia in modo innocente e corretto. Prima egli mette in luce le conoscenze fondamentali, che ad esso ineriscono anteriormente ad ogni esperienza, pur avendo soltanto sempre in questa la loro applicazione. Poco per volta però lascia andare questo limite e in verità che cosa dovrebbe impedirglielo, dal momento che l’intelletto ha ricavato in tutta libertà da se stesso i suoi principi? Ed allora incomincia ad assumere nuove forze nella natura, per venire poi ad esseri esteriori alla natura, in breve per costruire un nuovo mondo, al quale non fa difetto il materiale, perchè una ferace immaginazione lo apporta in quantità e l’esperienza, se anche non lo conferma, non può nemmeno confutarlo. Questa è anche la ragione per cui i giovani pensatori amano tanto la metafisica in pretto stile dogmatico e le sacrificano spesso il loro tempo ed il loro talento che potrebbero meglio rivolgere altrove.

E non serve a nulla il voler frenare tali infecondi tentativi della ragion pura con ammonimenti d’ogni genere intorno alla difficoltà della soluzione di problemi così profondi, con lamenti sui limiti126 della nostra ragione e col degradare le affermazioni a semplici congetture. Chè, fino a quando non sia chiaramente dimostrata la loro impossibilità e l’autoconoscenza della ragione non sia ridotta a vera scienza col distinguere con geometrica certezza il campo del suo uso legittimo da quello delle applicazioni vane e sterili, quei vani tentativi non cesseranno mai intieramente.

[318] § 36127.

Come è possibile la Natura?

Questa domanda, che è il punto supremo che la filosofia trascendentale può toccare ed al quale essa deve esser condotta come al limite ed alla perfezione sua, contiene propriamente due questioni.

In primo luogo: come è possibile la natura in senso materiale, cioè secondo il dato dell’intuizione, come complesso dei fenomeni? Come sono in genere possibili lo spazio, il tempo e ciò che li riempie entrambi, il dato della sensazione? La risposta è: per via della costituzione della nostra sensibilità, per la quale essa viene affetta in un modo tutto suo particolare da oggetti che sono in se stessi ignoti ed assolutamente distinti da ogni fenomeno. Questa risposta e stata data nella Critica dall’Estetica trascendentale, qui nei Prolegomeni dalla soluzione della prima questione fondamentale.

In secondo luogo: come è possibile la natura in senso formale, ossia considerata come il complesso delle regole sotto cui devono stare tutti i fenomeni, quando debbano venir pensati come collegati in un’esperienza? La risposta non può essere altra che questa: essa è possibile solo per via della costituzione del nostro intelletto, per la quale tutte quelle rappresentazioni del senso vengono necessariamente riferite ad una coscienza; quest’attività dà origine a quella particolare forma di pensare128 che è il nostro pensare, e cioè il pensare per via di regole e per mezzo di questo all’esperienza, la quale deve essere assolutamente distinta dalla visione delle cose in se stesse. Questa risposta è stata data nella Critica dalla Logica trascendentale, qui nei Prolegomeni dalla soluzione del secondo problema fondamentale.

Come poi siano possibili queste proprietà particolari del nostro senso o del nostro intelletto e della necessaria appercezione che sta a fondamento di esso e di ogni pensiero, non possiamo ulteriormente sapere nè dire, perchè esse ci sono alla lor volta sempre necessarie ad ogni soluzione e ad ogni pensiero.

Molte sono le leggi della natura che noi possiamo conoscere solo per via di esperienza; ma la regolarità nel collegamento dei fenomeni, vale a dire la natura in genere noi non possiamo conoscerla per alcuna esperienza, [319] poiché l’esperienza stessa presuppone certe leggi le quali stanno a priori a fondamento della sua possibilità.

La possibilità dell’esperienza in genere è quindi anche la legge universale della natura e i principi della prima sono anche le leggi della seconda. Perchè noi non conosciamo la natura altrimenti che come il complesso dei fenomeni, cioè delle rappresentazioni in noi e quindi non possiamo derivare la legge della sua connessione altronde che dai principi del collegamento delle rappresentazioni in noi, cioè dalle condizioni della loro unificazione necessaria in una coscienza, ciò che costituisce la possibilità dell’esperienza.

La stessa proposizione fondamentale che abbiamo svolto in tutta questa sezione del libro e cioè che vi sono leggi generali della natura che possono venir conosciute a priori conduce già di per se all'altra proposizione: che la legislazione suprema della natura deve giacere in noi stessi, nel nostro intelletto e che noi non dobbiamo chiedere le leggi universali della natura alla natura stessa per mezzo dell’esperienza, ma che al contrario dobbiamo derivar la natura, secondo la sua regolarità universale, unicamente dalle condizioni della possibilità dell’esperienza che giacciono nel nostro senso e nel nostro intelletto: perchè del resto come sarebbe possibile conoscere a priori queste leggi, dal momento che esse sono non regole analiticamente derivate, ma vere estensioni sintetiche della conoscenza? Una simile concordanza necessaria dei principi dell’esperienza possibile con le leggi della possibilità della natura può solo derivare da due cause: o queste leggi vengono derivate dalla natura per via dell’esperienza o inversamente la natura viene genericamente derivata dalle leggi della possibilità dell’esperienza ed è una cosa sola con la semplice regolarità universale dell’esperienza stessa. La prima proposizione si contraddice perchè le leggi universali della natura possono e debbono venir conosciute a priori (cioè indipendentemente da ogni esperienza) ed essere poste a fondamento di ogni uso empirico dell’intelletto: quindi non resta che la seconda8.

[320] Noi dobbiamo però distinguere le leggi empiriche della natura130 che presuppongono sempre determinate percezioni dalle leggi pure od universali della natura che, senza che stiano a fondamento particolari percezioni, contengono soltanto le condizioni della loro verificazione necessaria in un’esperienza; in riguardo a queste ultime, “natura„ ed “esperienza possibile„ sono assolutamente la stessa cosa, e poiché in quest’ultima la regolarità riposa sul collegamento necessario dei fenomeni in un’esperienza (senza del quale noi non potremmo conoscere affatto alcun oggetto del mondo sensibile), e quindi sulle leggi originarie dell’intelletto, così può parere a primo aspetto strano, ma è perfettamente giustificato quando io dico delle leggi dell’intelletto che: l’intelletto non attinge le sue leggi (a priori) dalla natura, anzi piuttosto le impone ad essa.

§ 37131.

Io voglio spiegare questa proposizione in apparenza ardita per mezzo di un esempio che deve mostrare: che le leggi che noi scopriamo negli oggetti dell’intuizione sensibile, sopratutto quando sono state riconosciute come necessarie, sono già da noi ritenute per leggi imposte dal nostro intelletto, sebbene siano in tutto il resto simili alle leggi naturali che noi attribuiamo all’esperienza.

§ 38.

Quando si considera le proprietà del circolo, per le quali questa figura riunisce in sè d’un tratto in una regola generale tante arbitrarie determinazioni dello spazio, non si può a meno di attribuire a questo ente geometrico una natura132. Così, p. es., due linee che taglino se stesse e ad un tempo il circolo, in qualunque modo vengano tirate, si dividono sempre secondo una regola tale che il rettangolo avente per lati i due segmenti dell’una è uguale al rettangolo avente per lati i segmenti dell’altra. Ora io chiedo: “questa legge è nel circolo od è nell’intelletto?„. Cioè, questa figura contiene la ragione di questa legge in se stessa, indipendentemente dall’intelletto od è l’intelletto che, dopo d’aver costruito secondo i suoi concetti (e cioè in base alla uguaglianza del raggio) la figura stessa, vi introduce nell’atto stesso la legge delle corde secantisi secondo la proporzione geometrica? È facile vedere, se si va appresso alla dimostrazione [321] di questa legge, che essa può solo venir derivata dalla condizione che l’intelletto ha posto a fondamento della costruzione di questa figura e cioè dell’uguaglianza del raggio. Se noi estendiamo ora la considerazione antecedente per esaminare più ampiamente l’unità delle molteplici proprietà delle figure geometriche sotto leggi comuni e consideriamo il circolo come una sezione conica che sta con le altre sezioni coniche sotto le stesse leggi fondamentali della costruzione geometrica, troviamo che tutte le corde che si tagliano nell’interno delle sezioni coniche, l’ellisse, la parabola e l’iperbole, si tagliano sempre in modo che i rettangoli costruiti sui loro segmenti, se anche non sono uguali, stanno tuttavia fra loro in rapporto costante. Se noi procediamo ancor oltre e cioè fino alle dottrine fondamentali dell’astronomia fisica, troviamo come una legge fìsica estesa a tutta la natura materiale la legge dell’attrazione reciproca, secondo la quale l’attrazione diminuisce in ragione del quadrato della distanza dal centro di attrazione, come inversamente la superficie sferica, in cui l’attrazione si diffonde, si accresce nella stessa proporzione: ciò che sembra giacere nella natura delle cose e quindi viene anche di solito esposto come conoscibile a priori. Ora per quanto semplici siano le origini di questa legge, in quanto essa riposa unicamente sul rapporto delle superficie sferiche di raggio diverso, le conseguenze ne sono tanto rilevanti in riguardo alle molteplici armonie che essa introduce ed alla regolarità loro, che non soltanto tutte le orbite possibili dei corpi celesti escono dalle forme delle sezioni coniche, ma che nessun’altra legge dell’attrazione può venir pensata come conveniente ad un sistema cosmico all'infuori di quella, secondo la quale l’attrazione diminuisce col quadrato delle distanze.

Qui abbiamo un esempio di ciò che noi diciamo natura, di un ordine secondo leggi che il nostro intelletto conosce a priori, sopratutto dai principi generali della determinazione spaziale. Ora io chiedo: queste leggi generali sono nello spazio e l’intelletto le apprende solo col cercar di penetrare il ricco contenuto ideale dello spazio, o non sono piuttosto nell’intelletto e nel modo con cui questo determina lo spazio secondo le leggi dell’unità sintetica, donde procedono tutti i suoi concetti? Lo spazio è qualcosa di così uniforme e, in riguardo a tutte le proprietà particolari, di così indeterminato che certo nessuno vorrà cercare in esso una sorgente di leggi naturali. Per contro ciò che determina lo spazio nella figura circolare, nelle figure del cono e della sfera è l’intelletto, in quanto [322] contiene in sè il fondamento della sintesi che li costituisce. Quella pura forma universale della intuizione, che dicesi spazio, è quindi bene il substrato di tutte le intuizioni determinabili poi in oggetti particolari e contiene certo in sè la condizione della possibilità e molteplicità di questi ultimi; ma l’unità degli oggetti è determinata in fine solo dall’intelletto secondo le condizioni inerenti alla sua propria natura: così l’intelletto è la sorgente dell’ordine universale della natura, in quanto abbraccia tutti i fenomeni sotto le sue proprie leggi e per questo mezzo primamente costituisce a priori (secondo la forma) l’esperienza, per effetto di che tutto quanto viene conosciuto per via di esperienza è necessariamente soggetto alle leggi dell’intelletto. Perchè noi non abbiamo da fare con la natura delle cose in se stesse, che è indipendente dalle condizioni della nostra sensibilità come del nostro intelletto, ma con la natura come oggetto di esperienza possibile; ed allora si comprende come l’intelletto nostro, nell’atto stesso che rende l’esperienza possibile, faccia sì che il complesso dei dati sensibili o non sia affatto oggetto di esperienza, o sia natura.

§ 39133.

Appendice alla scienza naturale pura. Del sistema delle categorie.

Niente può riuscir più grato ad un filosofo, quando si trova di fronte ad una molteplicità di concetti o di principi che prima nell’uso che egli ne faceva in concreto gli si presentava come una pluralità disgregata, del poterli derivare a priori da un principio, raccogliendoli così tutti in una conoscenza sistematica. Prima egli poteva credere che ciò che gli era rimasto dopo una certa astrazione e sembrava costituire, dopo un paragone reciproco, una certa categoria di conoscenze, fosse completamente raccolto, ma era pur sempre solo un aggregato; ora vede che questa categoria è costituita da quel certo numero di conoscenze, non più e non meno, e vede la necessità della sua suddivisione interiore, in una parola la comprende ed ha, invece d’un aggregato, un sistema.

Ricavare dalla conoscenza comune i concetti, che non hanno a proprio fondamento alcuna esperienza particolare e tuttavia ricorrono in ogni conoscenza appartenente all’esperienza, in quanto ne costituiscono in certo modo la pura [323] forma unificatrice, non esigeva una riflessione ed una penetrazione maggiore che non il ricavare da una lingua le regole generali dell’uso concreto delle parole e così mettere insieme gli elementi d'una grammatica (le due ricerche sono in realtà molto affini tra loro), senza tuttavia dar la ragione per cui questa lingua ha quella speciale costituzione formale e non un'altra e tanto meno sapere che debbano aversi appunto tante, non una più, non una meno, di queste determinazioni formali del linguaggio.

Aristotele aveva raccolto dieci di questi concetti fondamentali puri sotto il nome di categorie9. A queste, che vennero anche chiamate predicamenti, si vide più tardi costretto ad aggiungere ancora cinque postpredicamenti10, che tuttavia sono già parzialmente contenuti in quelli (come prius, simul, motus); ma questa rapsodia poteva valere e meritar plauso più come accenno a future ricerche che come teoria sistematicamente svolta; onde col progredire della filosofia venne rigettato come affatto inutile.

Analizzando gli elementi puri (non contenenti nulla di empirico) del conoscere umano, riuscì a me pel primo, dopo lunga riflessione, di distinguere e separare con sicurezza i concetti fondamentali puri del senso (spazio e tempo) da quelli dell’intelletto. Così vennero escluse le categorie 7, 8, 9 della serie aristotelica. Ma le restanti non potevano servirmi a nulla perchè non era dato alcun principio, in base al quale io potessi esaurientemente misurare l’intelletto e determinare completamente e con precisione tutte le sue funzioni, onde hanno origine i suoi concetti puri.

Ora per trovare un tale principio io cercai se non vi fosse un atto dell’intelletto che contenga tutti gli altri e si distingua soltanto per i diversi momenti o modi di subordinare in genere il molteplice della rappresentazione sotto l’unità del pensiero e trovai che questo atto dell’intelletto è il giudizio. Qui io aveva dinanzi a me il lavoro già fatto, sebbene non scevro di imperfezioni, dei logici, il quale mi mise in grado di erigere una tavola completa delle funzioni intellettuali pure, ancora [324] indeterminate riguardo ad ogni oggetto135. Io riferii infine queste funzioni del giudizio agli oggetti in genere o piuttosto alla condizione della validità obbiettiva dei giudizi ed ebbi così i concetti intellettivi puri, intorno ai quali io non potevo più avere alcun dubbio che essi appunto ed essi soli, non uno più, nè uno meno, costituissero tutta la nostra conoscenza delle cose da parte del puro intelletto. Io li chiamai, come è giusto, con l’antico nome di categorie riservandomi di aggiungere poi ad esse, sotto il nome di predicabili, il sistema completo dei concetti che da esse si possono derivare sia collegandole fra loro, sia collegandole con le forme pure del fenomeno (spazio e tempo), sia con la loro materia in quanto non ancora empiricamente determinata (l’oggetto generico della sensazione): il che avrebbe dovuto essere opera d’un sistema di filosofia trascendentale136, al quale la mia Critica della ragion pura serve appunto di preparazione.

Ma ciò che essenzialmente distingue questo sistema delle categorie da quell’antica rapsodia che procedeva senz’alcun principio, e che lo rende meritevole di far parte della filosofia, sta in ciò che per mezzo di esso è possibile determinare esattamente il vero senso dei concetti intellettivi puri e la condizione del loro uso. Perchè esso ci fa vedere che le categorie non sono per sè altro che funzioni logiche e come tali non concorrono per nulla a costituire anche il minimo concetto d’un oggetto in sè, ma hanno bisogno sempre del fondamento dell’intuizione empirica ed anche allora servono solo a determinare i giudizi empirici, che altrimenti rimarrebbero indeterminati ed indifferenti in riguardo a tutte le forme del giudizio col subordinarli ad una forma particolare, rendendoli così universalmente validi e trasformandoli in giudizi di esperienza.

Un simile concetto della natura delle categorie, che ne limita ad un tempo l’uso alla costituzione dell’esperienza, non venne in mente nè al loro primo inventore, nè ad alcuno dopo di lui; ma senza un tal concetto (che deriva rigorosissimamente dalla derivazione o deduzione loro) esse sono affatto inutili e costituiscono solo una filza di nomi senza una spiegazione ed una norma pel loro uso. Se qualche cosa di simile fosse venuto in mente agli antichi, senza dubbio tutto lo studio della conoscenza razionale pura, che sotto il nome di metafisica ha per tanti secoli servito a rovinare più d’una solida mente, sarebbe giunto a noi sotto tutt’altra forma ed avrebbe rischiarato all’intelletto umano la via [325] invece di affaticarlo, come realmente è avvenuto, in oscure e vane sottigliezze e di renderlo straniero alla vera scienza.

Questo sistema di categorie rende poi alla sua volta sistematica la trattazione di tutti gli oggetti della ragion pura e ci dà un’indicazione ed un indirizzo sicuro del come e per quali vie ogni ricerca metafisica, quando voglia essere esauriente, debba essere condotta: perchè esso abbraccia tutti i momenti dell’intelletto, ai quali deve essere subordinato ogni altro concetto. Così è sorta anche la tavola dei principi, che solo il sistema delle categorie può assicurarci completa; ed anche nella divisione dei concetti che trascendono l’uso naturale dell’intelletto (“Critica„ p. 344, v. anche p. 415) è sempre lo stesso filo, il quale, poiché deve passare sempre per gli stessi punti fissi, stabiliti nell’intelletto umano a priori, forma sempremai un circolo chiuso che non lascia alcun dubbio e ci assicura che l’oggetto d’un concetto intellettivo o razionale puro, in quanto dev’essere esaminato filosoficamente e secondo principi a priori, è stato in tal modo completamente esaurito dalla conoscenza. Io non ho anzi tralasciato di far uso di questa guida in riguardo ad una delle più astruse distinzioni ontologiche, e cioè alla distinzione molteplice dei concetti del qualche cosa e del nulla e di stabilire, in accordo con essa, una tavola sistematica necessaria (“Critica„, p. 292)*11.

[326] Il medesimo sistema rivela anche in questo, come ogni vero sistema fondato su d’un principio generale, la sua non mai abbastanza pregiata fecondità di applicazioni, che esso respinge tutti i concetti estranei che potrebbero insinuarsi tra i concetti intellettivi puri ed assegna ad ogni conoscenza il suo posto. Quei concetti che io ho ridotto egualmente, guidato dalle categorie, in una tavola sotto il nome di concetti di riflessione137, sono mescolati nell’ontologia, senza diritto e senza che vi possano legittimamente pretendere, fra i concetti intellettivi puri, sebbene questi servano a collegare e perciò a costituire l’oggetto, quelli invece servano solo a comparare concetti già formati e perciò abbiano altra natura ed altra applicazione: per la mia divisione sistematica (“Critica„, p. 260) essi vengono separati da questo miscuglio. Ma ancor più chiaramente risalta poi il vantaggio di quella tavola ben distinta delle categorie quando, come ora faremo, veniamo alla separazione della tavola dei concetti trascendentali della ragione, che sono di tutt’altra natura ed origine che non i concetti intellettivi (tavola che deve perciò avere anche un’altra forma), dalla tavola delle categorie; separazione necessaria e pure non mai attuata in alcuno dei sistemi metafisici, dove le idee della ragione e i concetti intellettivi vengono mescolati senza distinzione come se fossero fratelli d’una sola famiglia e dove tale mescolanza, in difetto d’un determinato sistema di categorie, non poteva in nessun modo venir evitata.


Note di Kant

*1. Io concedo volontieri che questi esempi non rappresentano giudizi percettivi, i quali possano mai diventare giudizi d’esperienza, anche aggiungendovi un concetto intellettivo, perchè si riferiscono solo al sentimento che ognuno riconosce come puramente subbiettivo e perciò non possono mai diventare obbiettivi; io volevo solo per ora dare esempi di giudizi validi soltanto subbiettivamente, che non contengono in sè fondamento alcuno ad una universalità necessaria, e per questa via ad un rapporto con l'oggetto. Nella nota che segue è dato un esempio di giudizi percettivi, che per l’aggiunta d’un concetto intellettivo diventano giudizi di esperienza.

*2. Per avere un esempio più perspicuo si consideri il seguente: quando il sole colpisce il sasso, questo si riscalda. Questo è un semplice giudizio percettivo e non contiene necessità per quante volte e io ed altri possiamo avere ciò percepito; vi è soltanto questo, che le percezioni si trovano abitualmente così collegate. Ma se io dico: il sole riscalda il sasso, alla percezione s’aggiunge il concetto intellettivo della causa che collega necessariamente il concetto del calore con quello dello splendere del sole: il giudizio sintetico diventa necessariamente valido per tutti, quindi obbiettivo e da semplice percezione si tramuta in esperienza.

*3. Così vedrei io più volontieri chiamati i giudizi che nella logica son detti particolari. Che quest’ultimo vocabolo implica già il pensiero che non sono universali. Ma quando io parto dall’unità (nei giudizi singolari) e così vo verso la totalità, non posso ancora mescolarvi nessun rapporto con la totalità: io penso soltanto la pluralità senza totalità, non l’eccezione da questa. Di questo è bene tener conto quando si devono rilevare i momenti logici corrispondenti ai concetti intellettivi puri: nell’uso logico dei giudizi si può stare all’antico.

*4100. Come concorda questa proposizione, che i giudizi d’esperienza devono costituire un collegamento necessario delle percezioni; con l’altra mia proposizione, sulla quale ho sovente sopra insistito: che l’esperienza come conoscenza a posteriori può dare solo giudizi contingenti? Quando io dico “l’esperienza m’insegna questo„ io intendo solo sempre la percezione in essa implicata, p. es. la successione costante dell’essere il sasso battuto dal sole e del suo riscaldarsi; in questo senso il giudizio d’esperienza è sempre de contingenti. Che questo riscaldamento proceda necessariamente dall’illuminazione solare, è bensì contenuto nel giudizio d’esperienza (per mezzo del concetto di causa), ma questo io non rapprendo per mezzo dell’esperienza, che anzi al contrario l’esperienza è prodotta soltanto da questa aggiunta del concetto intellettivo (della causa) alla percezione. Come si faccia questa aggiunta alla percezione può vedersi nella Critica là dove si tratta della facoltà trascendentale del giudizio, p. 137 ss.

*5. Questo e i due paragrafi seguenti difficilmente verranno intesi a dovere, se non si ricorra a quanto dice la Critica a proposito dei principii; ma potranno servire a mettere in rilievo le linee generali di quanto ivi è contenuto ed a richiamare l’attenzione sui punti essenziali.

*6. Il calore, la luce ecc. sono (secondo il grado) tanto grandi in un piccolo spazio quanto in uno grande; così le rappresentazioni interne, il dolore, la coscienza in genere non sono minori nel grado se durino un breve od un lungo spazio di tempo. Quindi la grandezza è qui in un punto od in un istante tanto grande quanto nello spazio o nel tempo più grandi. I gradi sono quindi grandezze, ma non dell’intuizione, bensì della semplice sensazione, ovvero sia costituiscono la grandezza del substrato dell’intuizione e possono venir apprezzati come grandezze solo da 1 a 0, in quanto cioè ciascuna delle qualità sensibili può attraverso ad infiniti gradi intermedii giungere a sparire oppure dallo zero può per infiniti momenti di accrescimento giungere in un certo tempo fino ad una data sensazione (Quantitas qualitatis est gradus).

*7. Non, come si dice comunemente, mondo intellettuale. Perchè intellettuali sono le conoscenze date per via dell’intelletto e di queste ve ne sono che si riferiscono anche ai nostro mondo sensibile: intelligibili si dicono gli oggetti in quanto vengono rappresentati puramente dall’intelletto e ad essi non può riferirsi alcuna delle nostre intuizioni sensibili. Ora poiché ad ogni oggetto deve corrispondere una qualche intuizione, così si dovrebbe pensare un intelletto che intuisca immediatamente le cose: ma di un tale intelletto noi non abbiamo il minimo concetto, quindi nemmeno degli esseri ai quali esso dovrebbe riferirei.

*8129. Crusius solo trovò una via di mezzo: e cioè che uno spirito che non può nè errare nè ingannare ci abbia originariamente infuso queste leggi naturali. Ma poiché insieme a queste s’insinuano pure spesso anche principii errati, del che il sistema suo ci dà esso stesso non pochi esempi, l’uso d’un tale principio, data la mancanza di criterii sicuri per distinguere l’origine genuina dalla spuria, è cosa molto scabrosa, poichè non si può mai sapere con sicurezza che cosa ci possa aver inspirato il padre della verità e che cosa il padre della menzogna.

*9. 1. Substantia. 2. Qualitas. 3. Quantitas. 4. Relatio. 5. Actio. 6. Passio. 7. Quando. 8. Ubi. 9. Situs. 10. Habitus.

*10134. Oppositum, Prius, Simul, Motus, Habere.

*11. Avendo innanzi la tavola delle categorie, si possono farvi sopra molte graziose considerazioni, per esempio: 1°) che la terza scaturisce dalla prima e dalla seconda collegate in un concetto solo; 2°) che in quelle della quantità e della qualità si ha solo un progresso dall’unità alla totalità o dal qualche cosa al nulla (a questo scopo debbono le categorie della qualità così ordinarsi: Realtà, limitazione, Negazione totale), senza Correlata od Opposita, mentre quelle della relazione e della modalità implicano questi ultimi con sè; 3°) che, come la modalità nel giudicare non è un predicato speciale, così anche i concetti modali non aggiungono alcuna determinazione alle cose, ecc.: tutte considerazioni che hanno il loro grande vantaggio. Se poi si enumerano ancora tutti i predicabili, che si possono ricavare completamente da ogni buona ontologia (p. es. quella di Baumgarten) e li si ordina per classi sotto le categorie, non trascurando di aggiungervi una scomposizione di tutti questi concetti più completa che sia possibile, ne sorgerà una parte della metafisica che sarà puramente analitica, non contenendo ancora alcuna proposizione sintetica, e che potrebbe premettersi alla seconda, cioè alla parte sintetica. Essa non solo porterebbe con la sua determinazione e compiutezza un grande vantaggio, ma avrebbe anche, per via della sua perfezione sistematica, una certa bellezza.


Note di Piero Martinetti

75) § 14. Nei primi quattro paragrafi di questa parte Kant si propone il problema. Il complesso degli oggetti della nostra conoscenza non obbedisce soltanto alle leggi matematiche, ma è sottomesso ad un certo numero di leggi invariabili, per le quali soltanto costituisce una “natura„. Queste leggi, che formano la parte più propriamente filosofica della fisica pura (cfr. Kr. r. V., 547 nota) sono altrettante conoscenze sintetiche a priori: come sono esse possibili?

L’ordine di questi quattro paragrafi non è il più perspicuo. Nel § 14 Kant comincia ad eliminare la supposizione che le leggi della fisica pura si applichino alle cose in sè: le verità a priori valgono anche qui — come abbiamo già veduto ampiamente per le verità a priori della matematica — del mondo dei fenomeni, non d’un ipotetico mondo di cose in sè. Il nostro punto di partenza insomma deve essere questo: che la nostra realtà fenomenica e soggetta, oltre che alle proposizioni della matematica, ad un certo numero di leggi che valgono di essa universalmente e necessariamente e che la fisica pura stabilisce a priori.

Certo il nome “natura„ in largo senso significa “realtà determinata da leggi generali„ e designa semplicemente una costituzione formale: la regolarità, l’ordinamento secondo leggi generali (Kr. r. Vern., 289 nota; cfr. Grundleg. d. Met. d. S., 421; Metaph. Anf. d. Naturw., 467; Kr. pr. V., 43). Quindi possiamo parlare della “natura„ d’un fluido, del fuoco, ecc.; d’una natura sensibile o d’una natura delle cose in sè, perchè una realtà non retta da leggi immutabili è per noi impensabile (Grundl., 446). Ma per noi non può essere questione qui d’una natura delle cose in sè, le cui leggi non potrebbero essere per noi oggetto di conoscenza a priori. Noi non possiamo aver notizia di queste leggi per mezzo d’una analisi dei nostri concetti (e così a priori): perchè come potrebbe il nostro intelletto pretendere di dettar legge con i suoi concetti a cose da esso distinte ed indipendenti? E dato che ne avessimo notizia per esperienza, come potremo dire di conoscere queste leggi come leggi a priori? (cfr. § 9 init.).

76) [p. 63,4]. Si badi che qui Kant dice che noi non potremmo conoscere nè a prioria posteriori — non le cose in sè — ma la natura delle cose in sè, cioè le leggi universali e necessarie che dovrebbero valere a priori delle cose in sè.

77) [p. 63,10]. L’analisi del mio concetto d’una cosa mi dà l’essenza logica di questa cosa, ma nulla mi dice intorno alla sua esistenza ed alle condizioni di questa. Per l’analisi del mio concetto delle cose in sè (se, per ipotesi, mi fosse dato) io non potrei quindi apprendere nulla delle leggi necessarie dalle quali è retta l’esistenza loro: esse giacciono fuori del mio concetto.

78) [p. 63,15]. La realtà fenomenica riceve le sue leggi dal mio intelletto perchè ne è costituita; ma le cose in sè sono indipendenti dal mio intelletto: io non potrei quindi conoscere le leggi e la natura delle cose in sè per mezzo di giudizi sintetici a priori, come invece abbiamo visto accadere, nella conoscenza matematica, in riguardo alla realtà fenomenica.

79) [p. 63,25]. Questo è uno dei punti fondamentali che in Kant ricorre spesso. “L’esperienza c’insegna bene che cosa vi è, ma non che non possa essere altrimenti„ (Kr. r. Vern., 481). “L’esperienza ci farebbe in un collegamento conoscere solo che esso è, non che esso debba necessariamente essere così„ (Kr. pr. Vern., 51). “I giudizi d’esperienza ci insegnano bene come sono fatte certe cose, ma non mai che esse debbono essere così e non possono essere altrimenti„ (Ueber die Fortschritte ecc., 154). Si cfr. Prol., 368 e nota 100.

80) § 15. — Nel § 15 Kant constata semplicemente che noi abbiamo nella fisica pura la conoscenza a priori di certe leggi universali e necessarie della realtà.

81) § 16. Mentre nel senso suo più ampio la parola “natura„ esprime solo il carattere formale dell’“essere determinato da leggi universali e necessarie„ in senso più ristretto per “natura„ possiamo intendere la realtà fenomenica in quanto appunto è retta da leggi universali e necessarie. Questo è veramente la nostra “natura„ per eccellenza. Essa è la natura in s. empirico (Kr. r. Vern., 184), la natura materialiter spectata, perchè per essa s’intende e i fenomeni e il loro ordine necessario (non solo l’ordine formale necessario in astratto) (Kr. r. Vern., 289); ed abbraccia tanto la natura corporea quanto la natura pensante, Γto (Proleg., § 15; Kr. r. Vern., 546). È questa realtà fenomenica la natura alla quale si riferiscono le leggi, che la fisica pura stabilisce a priori.

82) § 17. Astraendo dalla natura materialiter spectata l’elemento formale cioè le sue leggi universali e necessarie, noi abbiamo l’oggetto della presente ricerca: come è possibile che l’intelletto nostro stabilisca, conosca a priori certe leggi in rapporto a tutti gli oggetti dell’esperienza? — Per meglio precisare che qui si tratta degli oggetti dell’esperienza e non delle cose in sè Kant alla formula: come è possibile conoscere a priori la necessaria regolarità delle cose come oggetti dell’esperienza? sostituisce quest’altra: com’è possibile conoscere la necessaria regolarità dell’esperienza in rapporto a tutti i suoi oggetti?

83) [p. 66,9]. La prima secondo l’ordine del capoverso “Ben guardando...„ e perciò la seconda di quelle formulate nel capoverso antecedente.

84) [p. 66,29]. Kant previene qui un grossolano errore d’interpretazione. Noi non vogliamo qui ricercare come si debba osservare la natura e ricavarne per l’osservazione le leggi (empiriche); ma vogliamo ricercare perchè il complesso dei fenomeni ci si presenta come una “natura„, come una totalità retta da leggi necessarie, che sono il fondamento a priori delle leggi empiriche, quali siano le condizioni che rendono possibile in noi la costituzione d’un’esperienza tale, che noi possiamo a priori determinarne le leggi più generali.

85) § 18. Nei §§ 18, 19, 20, 21, 21„, 22, 23 Kant risolve la questione. Egli mostra che in tutta la nostra esperienza sono intrecciati dei concetti intellettivi puri, i quali sono appunto ciò che trasforma il complesso dei dati subbiettivi in un’esperienza obbiettiva; i giudizi che subsumono le intuizioni, i dati subbiettivi ai concetti puri sono quelle leggi a priori della natura, che costituivano l’oggetto del nostro attuale problema. Così, come l’indagine circa la possibilità delle proposizioni a priori della matematica aveva condotto Kant a porre le forme a priori del senso, qui l’indagine circa le proposizioni a priori della fisica pura lo conduce a stabilire le forme a priori dell’intelletto.

Nel § 18 comincia a mostrare che l’esame della nostra conoscenza degli oggetti, dell’esperienza obbiettiva, ci conduce a distinguere in essa due elementi: il dato sensibile e certi concetti intellettivi a priori ai quali deve prima venir subordinato il primo per essere trasformato in esperienza. Il dato sensibile riceve già da parte del senso stesso un’elaborazione primitiva, una certa organizzazione unificatrice: ma questa prima azione dell’io pensante sul dato non dà origine che a dei collegamenti subbiettivi, da Kant detti giudizi percettivi. Quando invece a questi collegamenti subbiettivi viene per così dire impressa da parte dell’intelletto una certa forma, il loro contenuto, che esprimeva soltanto uno stato del soggetto, si fissa in un oggetto, costituisce un collegamento indipendente da noi e perciò valido per noi come per tutti gli altri spiriti percipienti, in breve un’esperienza obbiettiva.

86) § 19. Nel § 19 Kant conferma e chiarisce con esempi l’asserto del § 18. La validità obbiettiva delle nostre conoscenze non procede da un contatto nostro con le cose in sè (che è impossibile), ma da un collegamento universalmente valido e necessario dei dati sensibili: e questo ha luogo per virtù dei concetti intellettivi. Nella seconda parte del § 19 Kant spiega con esempi la differenza tra giudizi percettivi e giudizi d’esperienza; sebbene la forma astratta con cui i primi vengono enunciati, li faccia rassomigliare a giudizi d’esperienza, non è difficile tuttavia intendere che cosa egli voglia dire.

87) § 20. Continua nel § 20 l’esplicazione dell’asserto del § 18. A fondamento del conoscere obbiettivo sta un collegamento puramente subbiettivo di sensazioni: p. es. la successione del vedere la pietra esposta al sole e del sentire come essa si riscaldi. Per effetto del concetto intellettivo della causa questo collegamento subbiettivo si trasforma nel giudizio obbiettivo: il sole riscalda la pietra. Il contenuto è rimasto lo stesso: la forma è diventata un’altra. Ciò che prima era nella mia coscienza un’associazione del momento, alla quale altri od io stesso in un altro istante avrei potuto contrapporre un’altra associazione in un ordine diverso, è diventato un collegamento stabile, valido per me e per tutti i soggetti percipienti, una conoscenza obbiettiva, un giudizio di esperienza. — Questa azione del concetto intellettivo non deve essere intesa nel senso d’un arbitrario intervento dello spirito, come se questo avesse dinanzi a sè un caso di associazioni subbiettive e di suo arbitrio imponesse a questa od a quella il suggello del concetto intellettivo a priori: per modo che esso sarebbe libero p. es. di applicare o di non applicare nel caso citato la categoria della causa, di applicarla alla successione dei due fenomeni nell’ordine riferito od in un altro ordine qualsiasi. Questa interpretazione puerile ha per fondamento quella concezione realistica del mondo fenomenico contro la quale Kant ci mette continuamente in guardia: da una parte i fenomeni incomposti, vere cose opposte allo spirito, dall’altra lo spirito che si affatica ad introdurvi un ordine. I fenomeni sono già essi medesimi dei processi spirituali e l’ordine che l’intelletto vi introduce non deve considerarsi come qualche cosa di straniero ad essi; la subordinazione loro alle forme intellettive rappresenta in realtà un potenziamento interiore che appare come un’azione subbiettiva dello spirito solo perchè, come già si è notato (nota 60), in essa viene più chiaramente alla luce l’azione creatrice dello spirito che è il principio d’ogni vera realtà. Lungi pertanto dal costituire come una specie di molteplicità obbiettiva, alla quale ogni ordine sia indifferente, la molteplicità dei fenomeni non costituisce qualche cosa d’obbiettivo se non per virtù appunto dell’ordine intellettivo: le associazioni costanti del senso, gli schemi sensibili, lungi dall’essere le ragioni obbiettive delle associazioni fissate dall’intelletto, hanno anzi in queste sole la loro ragione e la loro esplicazione. In questa considerazione ha la sua soluzione la difficoltà che già si è incontrata a proposito del tempo e dello spazio: perchè l’intelletto pone A come causa di B a preferenza di C? L’ordine intellettivo non è fissato ad arbitrio dall’intelletto, nè ha la sua ragione in un ordine extraintellettivo, che l’intelletto solo sanzionerebbe, ma ha la ragione della sua obbiettività nel suo stesso carattere intellettivo; la sua costituzione non è un processo capriccioso, nè meccanico, ma teleologico.

La potenza che dà origine al collegamento subbiettivo delle sensazioni costituendone le percezioni (giudizi percettivi) è l'immaginazione produttiva (Kr. r. Vern., A 89, nota): essa è già in certa maniera una prima azione dell’intelletto sul dato sensibile (Kr. r. Vern., 120) e congiunge in sè i due “capi estremi„, il senso e l’intelletto (16, 91). Suoi prodotti sono gli schemi trascendentali, preformazioni sensibili delle forme intellettive (Kr. r. Vern., 133 ss.). — La teoria della formazione dell’esperienza obbiettiva è esposta in modo assai più complicato e con qualche diversità nelle due ediz. della Critica: si cfr. Cantoni, E. Kant., I, 251 ss.; e si veda qui l’esemplificazione al § 29.

88) [p. 69,25]. La “coscienza generice„ (überhaupt) in Kant designa la coscienza intellettiva nella sua impersonale obbiettività ed universalità. Si cfr. Amrhein, Kants Lehre vom “Bewusstsein überhaupt„, 1908. Questa coscienza generice non è naturalmente solo la coscienza costante, normale dell’individuo in opposizione agli stati molteplici e varii della coscienza; nel qual caso il “generice„ non sarebbe che un’accentuazione pleonastica dell’unità della coscienza; ma esprime la forma impersonale della coscienza, la coscienza universale, logica. È questa coscienza superindividuale una realtà metafisica od è puramente un’astrazione ideale? In quest’ultimo caso essa non sarebbe che una finzione sussidiaria e verrebbe in fondo a dire: “Le nostre conoscenze sono obbiettive quando sono cosi collegato come dovrebberlo esserlo, se appartenessero ad una coscienza universale abbracciante tutti gli individui„. Il neocriticismo in genere nega che questo concetto abbia un valore metafisico: “dimmi come pensi la coscienza generica (scrive il Vaihinger) ed io ti dirò chi tu sei, se un critico od un dogmatico Anche nella filosofia immanente di W. Schuppe la coscienza generica è piuttosto un’astrazione logica che una realtà concreta. In genere però tale concetto è stato svolto in senso metafisico: già nel 1790 Maimon l’equipara all’anima del mondo (Kant’s, Briefw., II, 169; Maimon, Ueb. die Weltseele nel “Berl. Journal f. d. Aufkl.„, VIII, 47): essa è il soggetto trascendentale, l’intelletto infinito nella sua opposizione ai soggetti individuali empirici (Deussen, Ueber d. Wesen d. Idealismus, 1902, 12 ss.).

89) [p. 70, 26]. Questi sono i principii a priori, nei quali sono espresse sotto forma di leggi, di regole, le forme intellettive; di essi nel § 23.

90) [p. 71, 10]. I giudizi della matematica sono sintesi pure dell’intuizione; essi non procedono tuttavia dalle semplici intuizioni pure del senso, ma hanno bisogno di essere costruite per mezzo dell’intelletto; si cfr. Kr. r. Vern., 146 ss. Nella nota 56 già si è trattato di questa cooperazione dell’intelletto nella costituzione del sapere matematico. L’oscurità maggiore viene a questa teoria dalla separazione che Kant introduce fra le categorie matematiche e le forme dell’intuizione pura. Se si riflette che lo spazio ed il tempo non sono due forme subbiettive vuote, ma due sistemi di relazioni (Reflex., II, 408); e che d’altra parte gli “assiomi dell’intuizione„ ossia i principii corrispondenti alla categoria della qualità “si presentano come le semplici e dirette conseguenze della costituzione dello spazio e del tempo messa in luce dall’Estetica„ (Riehl, Kritiz., I2, 542) ed anch’essi hanno una certezza intuitiva, sarà difficile non vedere qui, oltre ad una separazione inopportuna, anche un’inutile duplicazione. Si cfr. su questo punto anche i §§ 24, 26, 38.

91) [p. 71,17]. Il giudizio intorno alla lunghezza d’una linea determina questa come una molteplicità, una pluralità più o meno grande di elementi omogenei (p. es. di unità di lunghezza): perciò è detto da Kant judicium plurativum. Qui Kant, più che il giudizio come atto logico, ha presente l’atto per cui lo spirito determina quantitativamente un oggetto costituendolo come risultante da un’unità, da una molteplicità o dalla totalità degli elementi quantitativi componenti. Con un ravvicinamento un poco forzato Kant assimila questi tre atti alle tre forme del giudizio logico sotto il rispetto della quantità.

92) § 21. I concetti intellettivi puri trasformano le percezioni in giudizi d’esperienza rivestendole di necessità e di universalità. Noi non abbiamo perciò che a considerare le forme diverse nelle quali il pensiero determina un dato contenuto percettivo come necessariamente ed universalmente valido — ossia le forme del giudizio logico — ed otterremo senz’altro la tavola dei concetti intellettivi puri.

93) [p. 72, 8]. Cfr. Logik, § 20-30. Kr. d. r. Vern., 86 ss. I giudizi singolari sono da trattarsi, nell’uso logico, come gli universali; il momento logico della determinazione quantitativa dell’oggetto da parte dell’intelletto è però diverso e rende qui necessaria la distinzione; si cfr. la nota 91. — Il giudizio infinito non dice soltanto che un soggetto non è contenuto entro la sfera d’un dato predicato (come il negativo, p. es. l’anima non è mortale), ma aggiunge che esso è contenuto in qualche parte dell’estensione indefinita che abbraccia tutti i predicati possibili, eccetto quel dato predicato: l’anima è non mortale. Con questo giudizio non si determina a quale categoria delle cose non mortali io debba riferire l’anima: tuttavia si afferma qualche cosa di positivo e cioè che, dividendo la totalità dell’essere nelle due categorie “mortale„ e “non mortale„, l’anima è compresa in quest’ultima, indeterminatissima categoria. Meglio esso è anche detto giudizio limitativo (Kiesewetter, Logik, I, 52-53, 166-168): la distinzione risale già alla logica aristotelica tradizionale.

94) § 21 a. Nei §§ 21 a e 22 Kant insiste sulla diversità di grado delle sintesi percettive, opera dell’immaginazione creatrice, e delle sintesi di esperienza, opera vera e propria dell’intelletto per mezzo dei suoi concetti puri. Le prime sono casuali e subbiettive, le seconde universalmente e necessariamente valide; questa conversione è dovuta all’azione dei concetti intellettivi puri, che hanno la virtù di fissare le sintesi percettive, organizzandole in un ordine coerente, valido in modo stabile e per tutti gli individui.

95) [p. 73,16]. Già si è detto che l’immaginazione produttiva è la prima funzione deH’intelletto in rapporto al materiale del senso. In stretto senso l’intelletto e la facoltà di unificare il molteplice sensibile secondo leggi necessarie trasformandolo in esperienza obbiettiva; in largo senso comprende ogni spontaneità dello spirito e così anche la prima unificazione subbiettiva del molteplice stesso in giudizi percettivi. La teoria dell’unificazione intellettiva del molteplice dato nell’intuizione sensibile e dei suoi gradi diversi non è in Kant nè chiara ne costante. V. Cantoni, I, 256 ss.

96) [p. 73,27]. I concetti intellettivi impongono alle intuizioni in ogni caso una data forma di collegamento espressa in una data forma di giudizio, quindi determinano Γintuizione in rapporto ad una forma del giudizio piuttosto che ad un’altra; le diverse forme del giudizio esprimono, rappresentano le diverse forme dell’unità sintetica introdotta dall’intelletto (in s. s.).

97) [p. 73,34]. Il “pensare„ è per Kant propriamente l’azione dell’intelletto che collega in unità un molteplice dato alla coscienza come intuizione sensibile. Questo dato dell’intuizione sensibile non è per sè che una molteplicità disgregata di impressioni del senso, la quale, anche quando è stata dall’immaginazione produttiva collegata e disposta secondo certi ordini suoi proprii, non cessa perciò di essere un complesso di rappresentazioni meramente soggettive: solo per opera del “pensiero„, dell’azione specifica dell’intelletto, esso riceve un valore obbiettivo e diventa un complesso di “conoscenze„. In che consiste questa azione del pensiero? Come avviene questo collegamento in unità? Esso avviene per una subsunzione delle impressioni del senso ai concetti puri (Ueber eine Entdeckung, 36; secondo l’interpretazione data nella nota 56 ciò dovrebbe limitarsi veramente alle categorie logiche, alle categorie della relazione). Questi sono come altrettanti schemi astratti della realtà: il loro intreccio costituisce una specie di trama della realtà, che però non diventa veramente realtà, se non quando questa trama è riempita con la materia delle impressioni. In altre parole i concetti puri ci forniscono innumerevoli punti di concentramento, intorno ai quali si fissa e si consolida il materiale sensibile; per effetto della categoria di sostanza, p. es., un fascio di impressioni eterogenee (l’odore, la forma, il colore, etc. d’un oggetto) diventa la rappresentazione obbiettiva d’una cosa con le sue proprietà. Infatti se noi spogliamo una rappresentazione obbiettiva (un concetto, come Kant si esprime) di ogni rivestimento sensibile, ci resta sempre un concetto puro (Was heisst, etc., 147). Questo riferimento dei singoli dati sensibili ai rispettivi punti di concentramento costituisce l’atto del giudicare: i primi atti, per i quali si costituisce la nostra rappresentazione obbiettiva del mondo, sono un corto numero di giudizi intuitivi (Nachricht, etc.,151), che distribuiscono gli elementi sensibili in certi gruppi stabili che sono le rappresentazioni obbiettive, i concetti individuali intuitivi, le cose. Così, per restare all’esempio del concetto puro di sostanza, uno dei primi atti dell’intelletto nostro è di distribuire la molteplicità variopinta di dati offertaci ad ogni istante dai sensi in un certo numero di gruppi fra loro collegati, i quali per effetto del concetto di sostanza sono da noi appresi come oggetti sostanziali dotati di proprietà. Queste unità così costituite dall’operazione dell’intelletto contengono un duplice elemento: anzitutto l’unità introdotta dall’intelletto che è un semplice punto di concentramento, un’unità astratta non afferrabile in sè e posta per così dire al di là degli elementi concreti raccolti intorno ad essa, una semplice “regola di sintesi di percezioni„ (Kr. r. Vern., 474 nota), che è per natura sua qualche cosa di generale, di estensibile ad un numero indefinito di individui; in secondo luogo il “rivestimento„ sensibile, che rappresenta il lato concreto di quest’unità ed è per natura sua determinato secondo il tempo e lo spazio, individuale ed unico. Di qui il duplice carattere della rappresentazione obbiettiva particolare. Per il primo fattore essa non è qualche cosa di totalmente individuale: il carattere universale del concetto puro si comunica alle rappresentazioni sensibili che lo rivestono: esse si prestano a venir divette dal qui e dall’ora per diventare segni d’una molteplicità d’individui: sotto questo riguardo ogni rappresentazione obbiettiva è già sempre anche un concetto. Per il secondo fattore d’altra parte non è possibile attribuire all’unità concettuale astratta un valore concreto, senza riferirla ad un’intuizione singola immediata, senza incarnarla in un qui ed in un’ora: sotto questo riguardo ogni rappresentazione obbiettiva come rappresentazione immediata d’un singolo è un’intuizione. Noi possiamo quindi denominare la rappresentazione obbiettiva del singolo intuizione o concetto, secondo il fattore al quale sovratutto attendiamo in quel momento (Ueber die Fortschritte, etc., 156; nelle Reflex., II, 274-8, all’intuizione corrisponde l'Erscheinung: la teoria ivi esposta richiama quella distinzione delle categorie in matematiche e dinamiche che abbiamo applicato nella nota 56). — L’intelletto può però in appresso isolare l’operazione sua dal contatto immediato dell’intuizione; questo è ciò che dicesi più propriamente pensare (Ib.: “Per l’intuizione che corrisponde ad un concetto l’oggetto è dato; senza di essa è solo pensato„). Quel collegamento di impressioni sensibili che costituisce il rivestimento dell’unità concettuale pura viene fissato e reso indipendente dal l’apprensione immediata del senso: laddove, in presenza di questa, esso era la rappresentazione d’un oggetto, diventa ora, così divelto, la rappresentazione astratta, il segno di innumerevoli oggetti. Io posso quindi per mezzo di esso conoscere, ma solo in quanto esso mi rinvia poi ad uno di questi: la conoscenza per concetti è conoscenza indiretta, discursiva. Nei giudizi intuitivi io riferisco al soggetto del giudizio un contenuto che mi è dato da un’intuizione diretta: il cieco, cui è stata ridonata la vista, unisce all’oggetto, all’unità “oro„ la qualità “giallo„ intuitivamente appresa. Nei giudizi discursivi, astratti, io riferisco invece al soggetto un contenuto, che mi rinvia ad altre intuizioni non presenti: quando io dico “l’oro è giallo„, attribuisco all’unità “oro„ per mezzo del concetto “giallo„ il contenuto di altre rappresentazioni intuitive, delle quali il concetto “giallo„ è il segno, la rappresentazione mediata (Kr. r. Vern., 85 ss.). — La conoscenza può quindi essere immediata (se l’oggetto è dato nell’intuizione) o mediata (per mezzo dei concetti ma in ogni caso anche il pensiero ha il fine suo nell’intuizione (Kr. r. Vern., 49; e in forma anche più generale Diss., § 25). Pensare non è ancora conoscere, perchè ogni nostra conoscenza ci è data, quanto alla materia, dall’intuizione sensibile: un pensiero che non si riferisca ad un contenuto intuitivo è un’attività formale che si esercita a vuoto, non ha valore di conoscenza (Kr. r. Vern., 116-117). Questo è uno dei punti fondamentali sui quali Kant insiste spessissime volte (Kr. r. Vern., 123, 127-8, 144, etc.). La stessa applicazione delle categorie nell’intuizione pura (nella matematica) è ancora sempre solo una conoscenza formale che non può dirsi vera conoscenza, se non in quanto ha la sua applicazione nella realtà empirica. Ogni costruzione concettuale deve quindi potersi tradurre nell’intuizione: senza di che non è conoscenza. Questo atto di giustificare il concetto dimostrandolo nell’intuizione è detto da Kant in genere esposizione (exhibitio) dell’oggetto; se si tratta dell’intuizione pura (cioè dell’esposizione dei concetti matematici), si dice che i concetti vengono costruiti: se si tratta dell’intuizione empirica, si dice che si dà un esempio del concetto (Ueber die Fortschritte, etc., 157). — Qui Kant usa come sinonimi “pensare„ e “giudicare„. Ma propriamente per Kant l’intelletto (del quale è proprio il pensare) è la facoltà delle regole (Kr. r. Vern., 131); il pensare è il mantenere presenti allo spirito le unità concettuali (Streit d. Fakult., ed. Vorl., 162). Il giudizio invece è la facoltà di subsumere alle regole, di decidere se un particolare debba o non debba venir subordinato ad una data unità (Kr. r. Vern., 131). Sebbene già nella Critica della ragion pura esso sia posto qualche volta accanto all’intelletto ed alla ragione come una facoltà distinta, solo nella Critica del giudizio acquista una vera autonomia e diventa una facoltà intermedia fra l’intelletto e la ragione.

98) [p. 74,6]. Vi è quindi un pensare ed un giudicare corrispondenti alla funzione inferiore dell’intelletto, all’immaginazione produttiva, un’attività logica inferiore, che crea il mondo subbiettivo della rappresentazione; e vi è un pensare e giudicare in senso vero e proprio, un’attività che sola può rigorosamente dirsi logica e che trasforma quel mondo in un sistema obbiettivo di elementi collegati da rapporti universalmente validi. Al primo corrisponde la semplice coscienza empirica, personale; al secondo la coscienza “generica„, la coscienza logica impersonale.

99) [p. 74,12]. Cioè: le diverse specie di collegamento necessario, espresse nella loro unità astratta, costituiscono altrettanti concetti, i concetti intellettivi puri.

100) [p. 74, nota]. Sull’esperienza si cfr. le note 22, 51, 56. Kant risolve qui di passaggio una grave difficoltà della sua teoria dell’esperienza. I giudizi d’esperienza si distinguono, egli dice, dai giudizi percettivi per la loro universalità e necessità: ora non ripete egli più volte che l’esperienza non dà mai necessità, che esso ci dice come le cose sono e non come debbono essere? Kant scioglie la contraddizione col distinguere tra i due sensi della parola esperienza: l’esperienza nel senso suo proprio è fatta di proposizioni necessarie, ma ciò che vi è in essa di necessario non viene a posteriori dall’esperienza in senso lato, cioè dall’intuizione empirica, bensì dall’intelletto. Con ciò tuttavia la questione non è del tutto chiarita: l’esperienza ha o non ha necessità? Il Simmel (Kant, 31-34) risolve la difficoltà secondo le sue predilezioni empiristiche. Veramente necessarii sono soltanto i principii a priori. ma essi non sono conoscenze, bensì pure forme di conoscenze. L’esperienza costituisce un grado intermedio, anzi una serie infinita di gradi intermedii fra il concetto-limite dei principii a priori assolutamente necessarii (che non sono più conoscenze), e i giudizi percettivi, che esprimono solo uno stato del soggetto (e non sono ancora conoscenze). Essa partecipa quindi della necessità dei principii a priori, ma anche nelle forme più perfette non arriva mai alla certezza assoluta di questi. Io credo invece che la difficoltà si debba risolvere col distinguere le due specie di necessità: la necessità ideale o formale e la necessità reale o materiale; delle quali la prima corrisponde alla scienza razionale pura, la seconda alla scienza razionale applicata (Metaph. Anfangsgr., 468). Se il mondo nostro fosse un perfetto sistema intelligibile, tutto sarebbe in esso necessario nel primo senso, come un sistema di principii puri a priori: per noi questa necessità è limitata al sistema dei principii formali, non essendo la necessità logica dei giudizi analitici e dei raziocinii deduttivi che una necessità logica impropria, condizionata dall’unità sintetica d’un concetto o d’una proposizione generale, che può avere origine empirica. Sotto questo rispetto la realtà dell’esperienza non è quindi, nè potrà mai risolversi in un sistema necessario a priori: anche in un’esperienza umana idealmente perfetta l’effetto non potrà mai dedursi a priori dalla causa, perchè l’esperienza contiene un dato irreducibile a necessità ideali, un dato fenomenico che nessun progresso dell’esperienza può trasformare in un intelligibile. Ma dalla organizzazione dei dati sensibili per opera dell’intelletto, la realtà dell’esperienza è stretta in un ordine necessario secondo la necessità che abbiamo detto reale o materiale: vale a dire che, posti gli elementi dati, quel collegamento formale che diciamo esperienza s'impone come assolutamente necessario. Sotto questo rispetto la realtà dell’esperienza è un sistema necessario: e quella necessità medesima, che stringe in un giudizio d’esperienza due dati percettivi, stringe tutta la realtà, per quanto nell’esperienza individuale questo collegamento formale possa essere ben imperfetto. Perciò quando Kant dice che il giudizio d’esperienza è un giudizio necessario, vuol dire che esso ha una necessità reale e solo di fronte al semplice dato percettivo corrispondente può considerarsi come un’assoluta necessità: onde, allorché noi consideriamo detto giudizio nella sua totalità, di fronte al sapere a priori, noi dobbiamo riconoscere che esso non è nella sua totalità assolutamente, cioè per sè stesso necessario, costruibile a priori e perciò possiamo dire che esso non dà necessità.

101) § 23. Nel § 23 risolve il problema formulato nel § 17. Le forme di collegamento logico (in s. s.) espresse nei concetti intellettivi puri, considerate nella loro azione sul materiale intuitivo sono regole a priori, o meglio principii a priori della possibilità dell'esperienza. Se ricordiamo che per natura s’intende appunto il mondo dei fenomeni in quanto collegato da leggi universali e costanti, è facile vedere che nei principii a priori dell’intelletto abbiamo le leggi supreme della natura, che la fisica pura stabilisce a priori. Così si è veduto come siano possibili i giudizi sintetici a priori della fisica pura.

102) [p. 75, 4]. “La rappresentazione d’una condizione generale, alla quale può essere sottoposto un dato molteplice, dicesi regola; e quando deve esservi sottoposto, legge„ (Kr. r. Vern., A 85). “Le regole in quanto sono obbiettive (e quindi ineriscono necessariamente alla conoscenza degli oggetti) diconsi leggi„ (ib., 92). L’intelletto è la facoltà delle regole: ma non tutte le unificazioni operate dall’intelletto, non tutte le regole cioè, sono leggi. La natura è la connessione dei fenomeni secondo regole necessarie, cioè secondo leggi. La stessa differenza vale quanto al senso dei due termini sotto l’aspetto pratico.

103) [p. 75, 27]. “Fisiologia„ è per Kant la scienza generale della natura ed è sinonimo di “fisica„ nell’antico senso e nel senso in cui è usata questa parola nella traduzione presente; sebbene Kant in generale riservi la parola “fisica„ a designare la “fisiologia„ della natura esteriore in contrapposizione alla “fisiologia„ del senso interno o psicologia empirica.

104) § 24. Nei §§ 24-25 Kant riassume brevissimamente la seconda parte della Analitica dei principii e passa brevemente in rassegna le quattro classi di principii a priori corrispondenti alle quattro classi di categorie. — Le prime due classi di principii reggono la costituzione delle unità fenomeniche, le altre due la costituzione dei rapporti tra queste unità. — La sintesi operata dai primi è una compositio di elementi omogenei in un tutto e si divide in composizione estensiva (aggregatio) ed intensiva (coalitio). I principii delle prime due classi sono chiamati matematici, in quanto l’applicazione di quelli della prima classe costituisce gli oggetti nella loro grandezza estensiva, l’applicazione di quelli della seconda classe nella loro grandezza intensiva: gli uni e gli altri rendono possibile l’applicazione della matematica alla realtà (cfr. nota 56). Quelli sono detti da Kant assiomi dell’intuizione; questi anticipazioni della percezione. La ragione di questo nome è data nel testo, e più chiaramente nel § 26.

105) § 25. La sintesi operata dai principii delle altre due classi è invece un nexus di unità fenomeniche (omogenee o non); p. es. della sostanza e dell’accidente, della causa e dell’effetto ecc. Questi principii sono chiamati da Kant dinamici: la quale espressione “non vuole alludere ai principii della dinamica fisica, ma solo denotare che i principii così denominati si riferiscono ai rapporti necessari fra le percezioni e per mezzo loro ai rapporti dell’esistenza dei fenomeni„ (Riehl). I principii matematici dànno origine al mondo, cioè alla totalità dei fenomeni in quanto questi sono tutti obbiettivamente determinati nella loro intensità come nella loro estensione temporale e spaziale, i principii dinamici dànno origine alla natura, cioè alla totalità dei fenomeni in quanto questi sono oltracciò collegati in un tutto da rapporti attivi di inerenza, di dipendenza causale ecc. La terza classe di principii è data dalle analogie dell’esperienza, la quarta dai postulati del pensiero empirico in genere.

106) [p. 77,2]. Qui Kant enuncia le tre analogie dell’esperienza, che sono la legge della persistenza della sostanza, la legge della causalità, la legge della comunione reciproca d’azione di tutte le cose. La parola analogia è presa qui da Kant nel senso matematico di proporzione, di uguaglianza fra due rapporti: a: b = c: d. “In filosofia però l’analogia non è l’uguaglianza fra due rapporti quantitativi, ma fra due rapporti qualitativi, dove io da tre membri dati posso conoscere e dare a priori solo il rapporto al quarto, non questo stesso quarto membro; il che però mi dà una regola per cercarlo nell’esperienza ed un segno per ritrovarvelo (Krit. r. Vern., 160-161). Questi principii legano tra loro i fenomeni in una rete tale di rapporti reciproci che dati tre membri io posso, non costruire il quarto (come nella proporzione matematica), ma rintracciarlo: a quel modo p. es. che dalla conoscenza dei rapporti fra gli altri membri del sistema planetario venne dagli astronomi determinato nella sua posizione e rintracciato il pianeta Nettuno. Si veda Proleg., § 58 e specialm. la nota. Essi valgono incondizionatamente della realtà empirica, in quanto senza di essi non si avrebbe una realtà empirica obbiettiva. Consideriamo sotto questo rispetto, a titolo d’esempio, il principio di causa. “Che cosa significano la legge causale ed il collegamento causale delle cose? Questa legge non è una necessità logica, perchè noi possiamo pensare un mondo nel quale essa non valga; non può nemmeno derivare dalle impressioni sensibili, perchè queste ci dànno sempre solo una successione, non una derivazione; il collegamento causale è qualche cosa di non intuibile, è posto al di là delle immagini sensibili delle cose. Ora Kant prova che anche quella successione di parvenze sensibili, che noi diciamo esperienza, sarebbe impossibile se non venisse presupposta la legge causale. Le impressioni sensibili delle cose si affacciano sempre successivamente alla nostra coscienza. Le rappresentazioni di quelle cose che coesistono durevolmente si succedono, come impressioni sensibili, allo stesso modo che le rappresentazioni di quelle che realmente si succedono. Il sensualista, che fa consistere ogni conoscenza esclusivamente nelle percezioni, non dovrebbe quindi, p. es., poter distinguere se un raggio solare ora percepito e un riscaldamento percepito dopo si siano realmente succeduti o se realmente coesistano come gli alberi d’una foresta, che io percepisco pure soltanto successivamente. Allora è evidente che ciò che io dico esperienza non sarebbe possibile: si avrebbe una fantasmagoria praticamente malsicura, una casualità fallace di rappresentazioni, come noi certo abbiamo abbastanza spesso nell’illusione, ma che distinguiamo sostanzialmente dalla conoscenza empirica a noi accessibile. Perchè quelle immagini sensibili uniformi diventino le diverse esperienze che noi in fatto abbiamo, noi dobbiamo essere convinti che la successione delle percezioni sia nell’un caso necessariamente determinata, nell’altro invece possa seguire anche inversamente o in un ordine qualunque...; la causalità è solo il nome di quella necessità, della sicurezza di ritrovare sempre quella successione nell’esperienza„ (Simmel, Kant, 16-17).

107) [p. 77,20]. Qui enuncia i tre postulati del pensiero empirico, che sono le leggi secondo le quali un fenomeno è dato come possibile (se non contraddice alle condizioni formali poste dal senso e dall’intelletto come condizioni dell’esperienza), reale (se ci è attestato dalla percezione o dalla connessione sua necessaria con percezioni), necessario (se riunisce l’una e l’altra condizione). Effettivamente la totalità dei fenomeni è retta dalla necessità: se un fenomeno appare come possibile o come reale, ciò è dovuto soltanto alla limitazione dell’esperienza in chi lo apprende, che o non è in grado di accertare se il detto fenomeno faccia parte del dato dell’esperienza complessiva o non lo ha inserto ancora nella concatenazione necessaria di tutti i fenomeni per opera dell’intelletto. Perciò Kant dice che i postulati del pensiero empirico non sono tanto leggi del collegamento dei fenomeni quanto espressioni del rapporto dei fenomeni col pensiero: essi fissano in qual relazione dev’essere posto con l’esperienza normale un fenomeno, rispetto al quale il soggetto conoscente ha o non ha adempito tutte le condizioni richieste perchè esso venga perfettamente connesso col resto dell’esperienza. Vengono chiamati postulati del pensiero empirico, perchè l’atto, per il quale il pensiero empirico, il soggetto dell’esperienza, pone un fenomeno come possibile, reale o necessario, non ha bisogno per sè di giustificazione più che l’atto del geometra che prolunga una linea o traccia un circolo: esso non aggiunge nulla al contenuto del fenomeno, ma, una volta che ne sono date le condizioni formali o le materiali o le une e le altre, lo pone, caratterizzandolo, con quel diritto stesso col quale è posta tutta l’esperienza in genere.

108) § 26. Nei §§ 26-30 Kant mette in luce, non senza ripetizioni, un’altra conseguenza importante della sua ricerca: e cioè che i concetti intellettivi puri si riferiscono solo all’esperienza, alla realtà fenomenica. Già nella lª parte la soluzione del problema “come sono possibili i giudizi sintetici a priori della matematica?„ aveva condotto Kant ad una duplice conclusione: 1° la presenza delle forme dell’intuizione; 2° il carattere fenomenico della realtà alla quale queste si applicano. In questa 2ª parte dal problema parallelo “come sono possibili i giudizi a priori della fisica pura?„ è venuto a concludere nei §§ 18-25 alla presenza, nell’esperienza, d’un elemento intellettivo a priori, delle forme dell’intelletto; ora conferma la seconda conseguenza già messa in luce nella prima parte.

109) [p. 78,10]. Per Kant la critica della ragion pura deve essere, come si è veduto (nota 22), una costruzione sistematica a priori: è naturale che egli si vanti qui di aver costruito a priori, partendo da un unico principio, le sue tavole delle categorie e dei corrispondenti principii puri e che questo sia per lui diventato il fondamento di ogni trattazione metodica di questioni filosofiche. Si veda il § 39 nel quale Kant si estende a lungo su questo punto.

110) [p. 78, 26]. Qui è enunciata la tesi essenziale: che le categorie valgono per noi solo in quanto leggi costitutive dell’esperienza, che non possono da noi venir applicate alle cose in sè. Esse potranno servirci a concludere dall’esperienza, dal mondo fenomenico al suo fondamento trascendente (di ciò nella IIIª parte), ma non a farci conoscere questo trascendente, a costituire una conoscenza del trascendente.

111) [p. 79, 27]. Nella “determinazione nel tempo„ o nella “unità sintetica„? B. Erdmann (ed. Acc., 618) è per quest’ultima, E. v. Aster (Kantstudien, 1905, 101) per la prima. Nell’uno e nell’altro caso però il senso non muta.

112) [p. 80, 12]. Le categorie valgono per noi soltanto dei fenomeni, ma non dei fenomeni come singoli nel loro rapporto col soggetto conoscente, bensì dei fenomeni in quanto costituenti quella totalità ben connessa che è l’esperienza, valgono insomma dell’esperienza obbiettiva, che esse concorrono a costituire. Di qui il modo particolare di dimostrazione da usarsi rispetto ai principii puri corrispondenti alle categorie. Noi non possiamo infatti dimostrarli col dedurli analiticamente dalla natura ultima delle cose in sè perchè non abbiamo dell’intelligibile notizia se non per via appunto dei principii formali; d’altra parte è assurdo volerli provare con l’esperienza, dal momento che ogni più insignificante esperienza già li presuppone. L’unica via di legittimarli è quella di mostrare che essi sono necessari alla costituzione dell’esperienza obbiettiva, che è per l’uomo la sola forma raggiungibile della verità. E questa è appunto la via seguita da Kant nella parte corrispondente della Critica, che qui egli riassume molto sommariamente, ripetendo in parte ciò che si è detto nei §§ 24-25. Gli oggetti della percezione devono essere anzitutto sottomessi ad una legislazione che ne fissi la grandezza estensiva ed intensiva secondo un sistema invariabile di rapporti: altrimenti l’una e l’altra rimarrebbero abbandonate all’arbitrio dell’impressione del momento. In secondo luogo i rapporti fra gli oggetti così costituiti debbono essere fissati in modo che costituiscano anch’essi un sistema obbiettivo: ciò che si ottiene fissando certi rapporti temporali regolari (ma ancora del tutto subbiettivi) nei rapporti necessari ed universalmente validi, che sono espressi dalle categorie dinamiche.

113) § 27. Qui Kant ripete la sua soluzione, riferendosi al problema della causa posto da Hume. Questo problema, come sappiamo, era in fondo lo stesso problema kantiano della possibilità delle sintesi a priori: con qual diritto noi colleghiamo due elementi dell’esperienza con un vincolo che la conoscenza sensibile non ci dà accanto agli elementi così collegati? Soltanto, Hume aveva limitato ad un principio solo una questione che Kant estende agli altri principii intellettivi ed ai principii della matematica. Ora egli, dice Kant, aveva ragione di riconoscere che il vincolo di necessità, il quale collega e rende possibile l’esperienza, non è una necessità logica pura: la ragione non ci permette di concludere dalla causa all’effetto. Ma ebbe torto nel volerlo ridurre ad un’apparenza subbiettiva creata dall’immaginazione: la necessità che si rivela nell’esperienza procede dal collegamento interiore dei dati sensibili da parte del sistema dei concetti intellettivi puri, che soli rendono possibile la loro trasformazione in un’esperienza obbiettiva. Ridotto questo collegamento ad un’apparenza subbiettiva, non resta più nulla di obbiettivo: nemmeno quegli elementi fenomenici che dovrebbero, di fronte a tale apparenza subbiettiva, costituire il residuo obbiettivo della realtà. — Sulla posizione del problema da parte di Hume e sulla relativa critica di Kant è da consultarsi Vaihinger, Comm., I, 340 ss.: il quale tuttavia pone tra le due formule del problema (1° Su quale fondamento la ragione afferma, posta la causa A l’esistenza necessaria dell’effetto B? 2° Con qual diritto la ragione afferma che tutto ciò che diviene ha una causa?) un distacco, che qui non ha ragione di essere. Delle due formule la prima enuncia il principio di causalità nella sua applicazione concreta all’esperienza e chiede: perchè l’intelletto nel suo uso empirico crede di poter stabilire tra due fenomeni, A e B, un rapporto di sequenza necessaria che pure, strettamente parlando, non è dato nell’esperienza stessa? La seconda invece enuncia la legge causale in astratto e chiede: quale fondamento ha la legge della causalità in generale? Dal punto di vista kantiano i due problemi sono distinti: il primo ha la sua soluzione nella posizione del concetto intellettivo puro della causa; il secondo nella deduzione, nella giustificazione di questo concetto puro rispetto al suo uso nell’esperienza. Ma è naturale che in Hume questi due problemi, anzi meglio questi due momenti del problema causale siano confusi insieme. Hume considera (nei Saggi) il problema nella prima forma e si chiede: su qual fondamento io, posta la causa A, ritengo posto in virtù di esso necessariamente l’effetto B? Hume vide giustamente che questo giudizio causale non era un giudizio analitico, perchè altrimenti dal concetto della causa si sarebbe dovuto poter derivare logicamente quello dell’effetto: ma, non reputando possibile altro collegamento necessario di rappresentazioni fuorché per mezzo del principio d’identità nei giudizi analitici, ne concluse non sussistere tra A e B alcun collegamento necessario e quindi non esservi in generale nell’esperienza, nel sapere reale (perchè la deduzione analitica mette semplicemente in luce il contenuto d’un concetto e non dice nulla intorno alla sua obbiettiva realtà) alcun collegamento necessario. Egli prese quindi bensì il suo punto di partenza nella considerazione d’un giudizio causale particolare, ma ne tolse occasione per risolvere il problema del collegamento causale in genere: nel caso particolare del come possiamo trascendere il concetto A per passare secondo una connessione necessaria al concetto B (l’effetto di A) egli considerò veramente il problema generale del come possiamo trascendere la semplice successione A, B e passare alla successione causalmente concatenata A, B. Ciò tanto è vero che noi potremmo a questo riguardo indifferentemente prendere in considerazione qualunque altro collegamento (cfr. Proleg., § 27 ss.); l’essenziale è di ricercare se vi sia o non vi sia nell’esperienza un principio a priori di collegamenti necessari altri da quelli espressi nei giudizi analitici. Kant poteva quindi, anzi doveva in questa considerazione generica del problema fare astrazione dalle distinzioni che la sua particolare soluzione del problema stesso vi ha introdotto.

114) § 28. In questo paragrafo Kant non fa che ripetere sommariamente le conclusioni dei precedenti circa le categorie e la costituzione dell’esperienza.

115) § 29. Qui Kant cerca di chiarire con un esempio come l’esperienza risulti dall’accedere di principii intellettivi di sintesi ai collegamenti soggettivi della percezione e dell’immaginazione produttiva: v. la nota 87.

116) § 30. In questo paragrafo Kant ci ripete ancora che le categorie valgono solo dell’esperienza, che per esse si costituisce, ma non possono venir riferite a cose in sè. Nel campo dell’esperienza valgono a priori e sono in questo senso le vere leggi universali della natura; fuori dell’esperienza non possiamo più annettere al loro uso alcun valore obbiettivo.

117) § 31. Nei §§ 31, 32, 33, 34, 35 Kant trae dalle sue conclusioni precedenti un’altra conseguenza — relativa già alla questione della possibilità della metafisica. Se un uso trascendente delle categorie non ha valore obbiettivo, tutti i tentativi della filosofia dogmatica di darci una conoscenza assoluta delle cose come sono in sè debbono considerarsi come vani sforzi di rivolgere alla conoscenza delle cose in sè quelle attività e quei principii dell’intelletto che in realtà sono destinati solo a costituire in noi l’esperienza — vale a dire un sistema di conoscenze ben connesso, ma sempre puramente umano, relativo, fenomenico.

118) [p. 84, 3]. “Il naturalista della ragion pura si prende per principio che col senso comune (ch’egli chiama il buon senso) senza la scienza si possa fare più, in riguardo agli altissimi problemi che sono compito della metafisica, che non con la speculazione. Egli afferma quindi che si può determinare la grandezza e la distanza della luna più sicuramente a colpo d’occhio che non con i complicati metodi della matematica„ (Kr.r. Vern., 551-552). L’ironia di Kant è diretta contro i filosofi popolari che, inclinando verso l’empirismo, respingevano o limitavano di molto le pretese della metafisica; ma per una specie di diffidenza del buon senso contro la speculazione, senza tanto apparato critico, dicendo anche essi come Maupertuis: Sopratutto niente sistemi! Si cfr. § 35.

119) § 32. Vi è un mondo di cose in sè — questa è una verità riconosciuta fin dai primi tempi della speculazione: ma esso è per la nostra conoscenza inaccessibile. Su questo concetto delle cose in sè si cfr. il passo della Grundl. citato nella nota 61 e Kr. r. Vern., 202-214 —. Già si è veduto nella prima parte e in questa seconda come una delle conclusioni alle quali ci conduce l’indagine circa la possibilità del sapere a priori, è che la realtà a noi data nell’esperienza, la realtà a cui tale sapere si riferisce, è soltanto una realtà fenomenica, non un mondo di realtà assolute, di cose in sè. Ciò implica già la conseguenza che ad essa debba contrapporsi un mondo di cose in sè (un mondo di fenomeni assoluti non è più un mondo di fenomeni); il quale tuttavia, poiché la nostra conoscenza è veramente conoscenza solo quando risulta dall’applicazione dei principii a priori del senso e dell’intelletto al dato intuitivo, mancando in questo caso ogni intuizione, è per noi un concetto necessario, non una conoscenza. Il valore di questo concetto è, dal punto di vista teoretico, puramente negativo, in quanto caratterizza e limita la nostra conoscenza fenomenica: tutto ciò che noi affermiamo delle cose in sè non è tanto una determinazione positiva di queste, quanto una determinazione della natura dell’esperienza considerata nella sua totalità. Certo la ragione si lascia facilmente traviare a credere di averne una conoscenza positiva o coll’erigere tale astrazione concettuale in un’entità reale, che è effettivamente vuota di contenuto e di significato, o col completarla per mezzo di elementi intuitivi, che vi introducono una contraddizione: ma con ciò non riesce che ad avvolgersi in un mondo di entità immaginarie o contraddittorie. Se sotto l’aspetto teoretico questo mondo di cose in sè, questo noumeno (in senso negativo) è per noi uno spazio vuoto (Proleg., § 59); esso acquista invece un contenuto per virtù della ragion pratica: la conoscenza si subordina allora alle finalità pratiche della ragione, rappresentandosi positivamente questo mondo delle cose in sè come un regno di esseri intelligibili, ma per mezzo della conoscenza simbolica (§ 57-58).

120) [p. 85, 10]. Perchè “principii dell’estetica„ e non “dell’analitica„? In questo senso ha proposto una correzione del testo B. Erdmann (Proleg., 618). Certo però, limitando il carattere spaziale e temporale ai fenomeni, si limita con ciò ai fenomeni anche l’applicazione dei principii intellettivi.

121) § 33. Il fatto che noi troviamo in noi dei principii intellettivi affatto indipendenti dall’esperienza ed implicanti un’assoluta necessità è quasi un invito a penetrare, col loro aiuto, nel mondo degli intelligibili, delle cose in sè —. Sui motivi diversi che inducono la ragione ad oltrepassare la sfera dell’esperienza ed a fare un uso trascendente dei concetti intellettivi cfr. Kr. r. Vern., 31-33, 468-9. Essi si riducono essenzialmente all’esempio della matematica e della fisica pura ed alla possibilità di pervenire a priori, e perciò con assoluta certezza, a nuove proposizioni per mezzo dell’analisi dei concetti. La ragione vedendo che per via dei concetti a priori dell’intelletto è in grado d’acquistare un grande numero di conoscenze (formali) circa gli oggetti dell’esperienza in genere, non comprende da principio perchè mai non possa con le sue idee giungere ancor oltre e cioè al di là dell’esperienza: dal momento che e gli uni e le altre derivano in fondo egualmente dalla ragione indipendentemente dall’esperienza. Cfr. Ueb. die Fortschritte d. Metaph., 86 ss.

122) [p. 85, 33]. La parola “esperienza„ è presa qui nel senso di “dato sensibile, complesso dei giudizi percettivi„. Si cfr. la nota 51.

123) § 34. Di qui la necessità nella Critica di due trattazioni: 1° per mostrare (nel cap. sullo Schematismo dei concetti intellettivi puri, Kr. r. Vern., 133 ss.) che l’uso dei concetti puri è condizionato dagli schemi dell’immaginazione; 2° e (nel cap. sul Fondamento della distinzione degli oggetti in fenomeni e noumeni, ib., 202 ss.) che i concetti puri non hanno valore se non nell’applicazione loro al dato sensibile.

124) [p. 87, 1 ss]. Su questo concetto della cosa in sè come concetto limite si veda la parte IIIª, § 57.

125) § 35. Dopo d’aver mostrato come l’intelletto fidente nei suoi principii a priori, con questi e con elementi fornitigli dall’immaginazione si crei poco per volta un mondo metafisico immaginario, Kant rinnova qui l’affermazione della necessità d’un severo esame critico della ragione compiuto in modo metodico. La prima parte del paragrafo richiama il principio della prima prefazione alla Critica.

126) [p. 87, 35). Il problema dei limiti e del compito della ragione non può essere risolto con lamenti sulla sua impotenza (Kr. r. Vern., A 9); tale giustificazione si potrà ammettere nelle scienze della natura, non nella conoscenza che la ragione ha di sè stessa (ib., 457); la ragione consiste appunto in ciò che noi possiamo renderci conto di tutti i nostri concetti, di tutte le nostre opinioni ed affermazioni (ib., 410). Questo concetto è lungamente svolto a proposito della soluzione delle antinomie in Kr. r. Vern., 331 ss.

127) § 36. In un lungo paragrafo Kant ricapitola i risultati ai quali finora è giunto. La realtà che conosciamo è una realtà fenomenica: le leggi supreme di questa realtà sono le leggi che la natura stessa del nostro intelletto impone a priori al complesso dei dati sensibili per costituirne l’esperienza, ossia per fare di questo complesso di dati subbiettivi una realtà obbiettiva.

128) [p. 88, 27]. Fugace accenno alla teoria dell’appercezione pura, svolta da Kant nella Deduzione trascendentale delle categorie. Tutte le categorie non sono se non forme diverse dell’unificazione del molteplice ed hanno il loro fondamento nella appercezione pura o trascendentale, che non è se non l’io puro come principio dell’unificazione del molteplice. La natura ultima e più profonda della coscienza ci si rivela come potenza unificatrice: oltre a questo punto non possiamo risalire (cfr. Kr. r. Vern., 109, nota). Questa potenza unificatrice, che noi conosciamo solo nella sua attività formale, non mai come cosa, come sostanza, è “il fondamento della possibilità delle categorie, le quali per parte loro non rappresentano altro che la sintesi del molteplice dell’intuizione in quanto riceve unità nell’appercezione„ (Kr. r. Vern., A 250).

129) [p. 90, nota]. Cr. Aug. Crusius (1715-1775), professore di filosofia e teologia a Lipsia, contrappose alla dottrina wolfiana un sistema proprio, cercando di mettere in accordo la filosofia e la teologia; il suo tentativo non ebbe però grande fortuna.

130) [p. 90, 3]. Le leggi naturali ricavate dall’esperienza sono applicazioni e determinazioni delle leggi a priori nel materiale empirico: non nel senso certo che esse si possano dedurre dalle leggi a priori, ma nel senso che tutte, in quanto leggi, vi si riconducono.

131) § 37. Nei §§ 37-38, che sono una specie di appendice del precedente, Kant si propone di mostrare perspicuamente con un esempio, come ciò che diciamo ordine, regolarità della natura, dipenda da un complesso di condizioni che è facile riconoscere come creazioni dell’intelletto. L’ordine del sistema planetario riposa in fondo sulle proprietà geometriche del circolo, le cui proprietà non procedono da quell’entità inerte e vuota che sarebbe lo spazio in sè, ma dall’attività sintetica dell’intelletto, che sola può con un suo atto creare un così vasto e complicato sistema di rapporti e di armonie quale è quello che discende dalla “natura„ del circolo.

132) [p. 91, 2]. Secondo la scolastica “essentia et natura distinguuntur per hoc quod essentia dicitur per ordinem ad esse et ideo dicitur principium essendi; natura vero dicitur per ordinem ad operari et ideo definitur principium operandi„. Per Kant la natura è un tutto dinamico, l’unità dei principii e delle leggi che presiedono all’esistenza reale d’una cosa; l’essenza è un tutto matematico, l’unità dei principii e delle leggi che presiedono alla possibilità d’una cosa. “Quindi alle figure geometriche si può attribuire un’essenza, non una natura„ (Met. Anfangsgr., 467, nota). Qui però natura è preso in generale come “complesso delle leggi costitutive d’un’essenza„.

133) § 39. Nel § 39 Kant celebra lungamente i pregi del suo sistema delle categorie che è una deduzione sistematica, non un affastellamento irrazionale, una “rapsodia„, come Kant ama esprimersi: sistema che non solo rese possibile di dare alle categorie ed ai principii che ne derivano il loro vero senso di principii formali costitutivi dell’esperienza, ma si mostrò fecondo di applicazioni nella trattazione di tutte le questioni filosofiche. Esso rivela il suo pregio anche in ciò che permette di distinguere sicuramente i concetti intellettivi puri dai concetti estranei che vi sono stati spesso mescolati (concetti di riflessione) e dalle idee della ragione. — Si cfr. i §§ 26 e 43; Metaph. Anfangs., 473 ss.

134) [p. 93, 31]. Appresso alle categorie o predicamenti Aristotele tratta di cinque altre proprietà od affezioni generali che vennero chiamate postpraedicamenta e che esprimono “quae in ipsis praedicamentis communiter reperiuntur et ipsorum velut proprietates communes sunt„. Esse sono: oppositum, prius, simul, motus, habere.

135) [p. 94,22]. Nella logica comune il giudizio collega due concetti: io (dice qui Kant) considerai le diverse forme di sintesi che sono le forme del giudizio non più nella loro funzione logica, ma nella loro funzione trascendentale, non in quanto collegano concetti in un sistema logico, ma in quanto sono le necessarie condizioni della trasformazione dei dati percettivi in un sistema di giudizi obbiettivamente valido, cioè in un’esperienza, ed ebbi, in corrispondenza alle dodici forme logiche, le dodici forme trascendentali dell’attività sintetica dell’intelletto, espresse nelle dodici categorie. — Sul rapporto della logica formale con la logica trascendentale si veda oltre la nota 143.

136) [p. 94,34]. Le dichiarazioni di Kant intorno alle parti della filosofia e in particolare intorno ai rapporti della Critica della ragion pura con il sistema della filosofia trascendentale sono varie e discordi: si cfr. Vaihinger, Comm., I, 459 ss., 481 ss. Il punto di vista adottato qui nei Prolegomeni considera la Critica come la propedeutica, la dottrina preparatoria del sistema della filosofia trascendentale: essa contiene la costruzione sintetica di tutti i concetti e principii della conoscenza pura, più (nella dialettica) la critica delle pseudoconoscenze pure della metafisica tradizionale. Il sistema della filosofia trascendentale conterrebbe invece il completo svolgimento analitico della parte positiva della Critica e cioè dei concetti e principii della conoscenza pura: sarebbe in altre parole un sistema di ontologia fondato sulla Critica (cfr. Kr. r. Vern., 43 ss., 94 e specialm. 543-547). A questa ontologia critica dovevano poi seguire la metafisica della natura (la physiologia rationalis di Kr. r. Vern., 546) e la metafisica dei costumi. Ma Kant mutò più tardi avviso e non solo non diede esecuzione al suo vago progetto d’un’ontologia critica, ma quasi dimenticò d’aver distinto fra la Critica e il sistema della filosofia pura. Nella prefazione alla Critica del giudizio egli distingue tra la parte critica e la parte dottrinale (o sistematica) dell’opera sua: la prima comprende le tre critiche, la seconda comprende la metafisica della natura e la metafisica dei costumi (Kr. d. Urt., 167-170). E nella sua dichiarazione circa la Teoria della scienza di Fichte scrive: “Qui devo notare che la pretesa di coloro i quali vogliono che io abbia avuto solo l’intenzione di dare una propedeutica alla filosofia trascendentale e non il sistema stesso di questa filosofia mi è inconcepibile„ (Verm. Schriften, ed. Kirchmann, 293).

137) 137) [p. 96,11]. La riflessione è la facoltà di comparare fra loro i concetti; ed anche questa comparazione avviene sotto quattro punti di vista corrispondenti alle quattro classi di categorie. I rapporti nei quali possono trovarsi i concetti da questi quattro punti di vista sono i concetti di riflessione e sono:

Per la quantità — identità e diversità;

Per la qualità — concordanza e contraddizione;

Per la relazione — interno ed esterno;

Per la modalità — materia e forma (Born).

Per determinare bene questi rapporti è necessario determinare l’origine dei concetti e cioè se procedono dall’intelletto puro o dal senso; perchè altro è p. es. il criterio dell’identità o della diversità per gli intelligibili, altro per i sensibili. “È della più grande importanza pel bene delle scienze il distinguere tra loro i principii eterogenei, raccogliendo gli omogenei in uno speciale sistema a costituire una scienza particolare, affine di evitare l’incertezza che nasce dalla loro mescolanza: perchè in questo caso non si può più distinguere bene a quali di essi si debbono riferire sia le limitazioni, sia anche gli errori che potrebbero prodursi nel loro uso„ (Metaph. Anfangsgr., 472-3; cfr. Kr. r. Vern., 544). La riflessione sui concetti quando si tratta del loro contenuto obbiettivo e non solo della loro forma logica deve essere sempre riflessione trascendentale, cioè determinare prima da quale facoltà provenga il concetto; senza di ciò si ha un’anfibolia trascendentale, un’applicazione dei criterii di comparazione dei concetti puri ai concetti del senso o viceversa. Kant adduce dalla dottrina leibniziana molti esempi di questa confusione nel capitolo “Dell’Anfibolia dei concetti di riflessione„ (Kr. r. V., 214 ss.).



Ultima modifica 2021.07