Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza

Immanuel Kant (1783)


Parte prima del problema trascendentale54

COME È POSSIBILE LA MATEMATICA PURA?

§ 655.

Qui abbiamo un vasto e sicuro corpo di dottrine, che già oggi abbraccia un’estensione mirabile e promette per l’avvenire un accrescimento indefinito, che implica in ogni sua parte una certezza apodittica, cioè una necessità assoluta e quindi non riposa su fondamenti sensibili, ma è un puro prodotto della ragione, che oltre a ciò è assolutamente di natura sintetica. “Ora come è possibile alla ragione umana di erigere un tale sistema del tutto a priori?„. Non presuppone forse questa facoltà, poiché essa non si appoggia nè può appoggiarsi all’esperienza, un qualche fondamento a priori della conoscenza, che giace profondamente nascosto, ma che dovrebbe venire in luce per via di questi suoi effetti, quando solamente si andasse diligentemente appresso a questi fino ai loro primi inizi?

[281] § 7.

Ora noi troviamo che ogni conoscenza matematica ha questo di particolare, che essa deve rappresentare il suo concetto nell’intuizione ed a priori, quindi in un’intuizione di origine pura, non empirica, senza di che essa non può fare il minimo passo; onde i suoi giudizi sono sempre intuitivi56, laddove la filosofia deve starsi paga a giudizi discursivi derivati da semplici concetti e quindi può bene chiarire le sue dottrine apodittiche per mezzo dell’intuizione, ma derivarnele mai. Questa osservazione in riguardo alla natura della matematica ci dà già un avviamento a scoprire la prima e suprema condizione della sua possibilità: essa ci rivela cioè che quella deve avere a suo fondamento una qualche intuizione pura nella quale essa può rappresentare o, come si dice, costruire tutti i suoi concetti in concreto e tuttavia a priori*1. Se noi riusciamo ora a scoprire questa intuizione pura ed a stabilirne la possibilità, si spiegherà facilmente allora come siano possibili i giudizi sintetici a priori nella matematica pura e quindi anche come questa scienza stessa sia possibile: perchè, come l’intuizione empirica ci spiega senza difficoltà come noi possiamo ampliare il concetto, che noi ci siamo formati d’un oggetto dell’intuizione, per mezzo di nuovi predicati offerti dall’intuizione stessa, così sarà anche dell’intuizione pura, ma con questa differenza: che in quest’ultimo caso il giudizio sintetico sarà certo a priori ed apodittico, nel primo invece solo a posteriori ed empirico; perchè questo contiene solo ciò che vien trovato nell’intuizione empirica accidentale, quello invece ciò che si trova necessariamente nell’intuizione pura, essendo essa, come intuizione a priori, inseparabilmente connessa col concetto, anteriormente ad ogni esperienza, ad ogni singola percezione.

§ 8.

Ma la difficoltà sembra a questo punto aumentare anziché diminuire. Perchè ora sorge la questione: come e possibile intuire qualche cosa a priori? L’intuizione è una rappresentazione quale si avrebbe dall’immediata presenza dell’oggetto57. Perciò sembra impossibile avere una intuizione originaria a priori58 perchè [282] l’intuizione sarebbe allora senza la presenza antecedente o simultanea dell’oggetto a cui si riferisce e quindi non potrebb’essere un’intuizione. I concetti sono invero di tal natura, che alcuni di essi, e cioè quelli, i quali contengono soltanto il pensiero d’un oggetto in genere, possiamo bene formarceli a priori senza bisogno di essere entrati in un rapporto immediato con l’oggetto — tali, p. es., i concetti di grandezza, di causa, etc.—; ma anche questi abbisognano, per avere un senso ed un valore, di un certo uso in concreto, cioè d’essere applicati ad una qualche intuizione, che sola dà ad essi un oggetto. Ma come può l’intuizione dell’oggetto antecedere l’oggetto?

§ 9.

Se la nostra intuizione fosse di natura tale da rappresentare le cose come sono in se stesse, essa non potrebbe mai aver luogo a priori, ma sarebbe sempre empirica. Poiché, che cosa contenga l’oggetto in se stesso, io posso saperlo solo quando esso mi è presente e mi è dato. Certo anche allora è difficile comprendere in che modo l’intuizione d’una cosa presente dovrebbe farmela conoscere così come essa è in sè, poiché le sue proprietà non possono migrare nella mia facoltà rappresentativa: ma, pur concessa una simile possibilità, tale intuizione non avrebbe luogo a priori, cioè prima che l’oggetto mi fosse dato: senza di questo, il rapporto della mia rappresentazione con l’oggetto non avrebbe alcun fondamento e dovrebbe procedere da una specie di ispirazione. In un solo modo è quindi possibile che la mia intuizione anteceda la realtà dell’oggetto ed abbia luogo come conoscenza a priori; quando cioè non contiene altro che la forma della sensibilità, la quale nel mio soggetto antecede tutte le reali impressioni che io ricevo dagli oggetti59. Allora questo io potrò bene sapere a priori: che gli oggetti dei sensi non potranno essere intuiti se non in conformità di questa forma60 della sensibilità. Di qui segue: che le proposizioni, che riguardano puramente questa forma dell’intuizione sensibile, potranno venire applicate validamente agli oggetti dei sensi: ed inversamente che le intuizioni possibili a priori non possono mai riferirsi ad altre cose che agli oggetti dei nostri sensi.

[283] § 10.

Quindi è soltanto la forma dell’intuizione sensibile, che ci rende possibili delle intuizioni a priori delle cose: ma per essa noi conosciamo gli oggetti solo come essi appariscono ai nostri sensi61, non come sono in sè: e questa presupposizione è assolutamente necessaria se si voglia ammettere la possibilità di giudizi sintetici a priori o, nel caso che la loro realtà sia fuori discussione, si voglia esplicarne e determinarne in antecedenza la possibilità.

Ora lo spazio ed il tempo sono quelle intuizioni, che la matematica pone a fondamento di tutte le sue conoscenze e di tutti i suoi giudizi, che si presentano come apodittici e necessari: poiché la matematica deve prima rappresentare, ossia costruire tutti i suoi concetti nell’intuizione e la matematica pura nell’intuizione pura; senza di che, senza cioè l’intuizione pura, nella quale soltanto le può essere data la materia per giudizi sintetici a priori, le è impossibile di fare un solo passo (in quanto essa non può procedere analiticamente, per via di scomposizioni di concetti, ma solo sinteticamente). La geometria pone a fondamento l’intuizione pura dello spazio. L’aritmetica costruisce i suoi concetti di numero per una successiva addizione di unità nel tempo: ma la meccanica pura sopratutto può costruire i suoi concetti del movimento solo per mezzo della rappresentazione del tempo62. Ora ambo le rappresentazioni sono semplici intuizioni; poiché se si toglie dalle intuizioni empiriche dei corpi e dei loro mutamenti (i movimenti) l’elemento empirico, ciò che è dato dalla sensazione, rimangono ancora il tempo e lo spazio, che sono pertanto da considerarsi come intuizioni pure, le quali stanno a priori a fondamento delle intuizioni empiriche e quindi non possono mancare mai, ma appunto per ciò, che sono intuizioni pure a priori, provano che sono pure forme della nostra sensibilità, antecedenti necessariamente ogni intuizione empirica ossia ogni percezione di oggetti reali: noi possiamo in accordo ad esse avere delle conoscenze a priori intorno agli oggetti, ma solo in quanto essi ci appariscono.

§ 11.

Il còmpito della sezione presente è quindi risolto. La matematica pura è possibile come conoscenza sintetica a priori solo in quanto non si riferisce ad altri oggetti che agli oggetti dei sensi, [284] ed in quanto l’intuizione empirica di questi è fondata a priori sopra un’intuizione pura (dello spazio e del tempo), la quale non è altro che la pura forma della sensibilità che preesiste alla reale apparizione degli oggetti, anzi che sola la rende possibile. Ma questa facoltà di intuire a priori non concerne la materia dei fenomeni, ossia ciò che in essi è dovuto alla sensazione, perchè questo è l’elemento empirico, bensì solo la forma degli stessi, lo spazio e il tempo. Se si avesse il minimo dubbio ancora su questo punto, e cioè che il tempo e lo spazio sono determinazioni inerenti non alle cose in sè, ma solo al loro rapporto con la sensibilità, ci si spieghi in che modo sia possibile sapere a priori e così prima di ogni contatto delle cose, prima che esse ci siano date, come è costituita l’intuizione loro, ciò che appunto avviene nel caso del tempo e dello spazio. Questo è invece perfettamente esplicabile non appena questi vengono posti come semplici condizioni formali della nostra sensibilità e gli oggetti come puri fenomeni: perchè allora la forma del fenomeno, cioè l’intuizione pura, può benissimo venire ricavata da noi medesimi e rappresentata a priori.

§ 1263.

Per esplicazione e conferma di quanto precede basta che noi osserviamo come procedono ordinariamente e per necessità inevitabile i geometri. Tutte le prove della perfetta eguaglianza di due figure date (delle quali l’una può in tutte le sue parti venir messa al posto dell’altra) riescono alla fine a stabilire che esse coincidono: ora ciò non è evidentemente altro che un giudizio sintetico riposante sull’intuizione immediata, la quale intuizione deve essere pura e data a priori, perchè altrimenti quel giudizio non sarebbe apoditticamente certo, avrebbe solo una certezza empirica. Si potrebbe solo dire: l’osservazione ci mostra sempre così e il nostro giudizio vale per tutta la durata delle nostre osservazioni, ma non oltre. Che lo spazio perfetto (quello cioè che non è più soltanto il limite d’un altro spazio) abbia tre dimensioni e che lo spazio in genere non possa averne di più64 si fonda sulla proposizione che in un dato punto possono tagliarsi ad angolo retto tre sole rette: ora questa proposizione non può venir derivata da concetti, ma riposa immediatamente sull’intuizione [285] e su d’un’intuizione pura a priori, essendo essa apoditticamente certa: che si possa postulare di prolungare una retta indefinitamente (in indefinitum) o di veder continuata all’infinito una serie di mutamenti (p. es., di spazi percorsi da un corpo in movimento), presuppone una rappresentazione dello spazio e del tempo, che può venire soltanto dall’intuizione, in quanto questa non ha in se stessa limite alcuno: che da concetti essa non potrebbe in alcun modo venir derivata. La matematica si fonda adunque sopra intuizioni pure a priori, che rendono possibili le sue proposizioni sintetiche ed apoditticamente valide: quindi la nostra deduzione trascendentale65 dei concetti dello spazio e del tempo66 ci spiega anche la possibilità d’una matematica pura, che senza una tale deduzione e senza ammettere che “tutto ciò che può essere dato ai nostri sensi (ai sensi esterni nello spazio, al senso interno nel tempo) viene da noi intuito solo come ci appare, non come è in sè potrebbe bensì venir ammessa come fatto, ma non mai esplicata.

§ 1367.

Coloro i quali non possono liberarsi dal concetto che lo spazio e il tempo siano proprietà reali inerenti alle cose in sè possono esercitare il loro acume intorno al paradosso seguente; quando ne avranno cercato inutilmente la soluzione potranno, liberi almeno per un momento da preconcetti, sospettare che forse la riduzione dello spazio e del tempo a semplici forme della intuizione sensibile possa avere qualche fondamento.

Quando due cose sono perfettamente uguali in tutte le parti, che è possibile conoscere isolatamente in sè, e cioè in tutte le determinazioni di grandezza e di qualità, ne dovrebbe seguire che l’una possa venir messa, in tutti i casi ed in tutti i rapporti, al posto dell'altra, senza che questo scambio possa menomamente venir avvertito. Ora in fatti così avviene con le figure geometriche piane: ma certe figure sferiche mostrano, nonostante quella perfetta uguaglianza interiore, una tale differenza nel rapporto esterno, che l’una non può assolutamente venir messa al posto dell’altra: p. es., due triangoli sferici dei due emisferi che hanno per base comune un arco dell’equatore possono essere perfettamente uguali per i lati e gli angoli in modo che, [286] quando se ne descrive completamente l’uno, non vi si trova nulla che non convenga perfettamente anche alla descrizione dell’altro e tuttavia l’uno non può essere messo al posto dell’altro (e cioè nell’emisfero opposto): qui abbiamo una differenza interiore dei due triangoli, che tuttavia nessun intelletto riesce a rivelarci come tale e che si manifesta soltanto per i rapporti esteriori nello spazio. Ma io voglio addurre dei casi più famigliari tolti dalla vita comune.

Che cosa può essere più simile e più uguale in tutte le parti alla mia mano od al mio orecchio, che la loro immagine nello specchio? e tuttavia io non posso mettere la mano, così come e veduta nello specchio, al posto dell’originale: chè se questa è la destra, quella veduta nello specchio è sinistra e così l’immagine dell’orecchio destro è un orecchio sinistro, che non può mai prendere il posto del primo. Ora noi non abbiamo qui differenze interiori che un intelletto possa pensare: e tuttavia si tratta, come i sensi ci apprendono, di differenze interiori, perchè la mano sinistra non può, nonostante la reciproca somiglianza ed uguaglianza, venir contenuta nei medesimi confini spaziali della destra (non sono congruenti); il guanto dell’una non può venir usato per l’altra mano. Che cosa vuol dire questo? Questi oggetti non sono rappresentazioni delle cose come sono in se stesse e come le conoscerebbe l’intelletto puro, ma sono intuizioni sensibili, cioè fenomeni, la cui possibilità riposa sul rapporto di certe cose a noi ignote con qualche cosa d’altro, cioè con la nostra sensibilità. Ora in questa lo spazio è la forma dell’intuizione esterna e la determinazione interiore di ogni singolo spazio è possibile solo per la determinazione del suo rapporto esteriore con l’intiero spazio di cui quello è parte (per la determinazione del rapporto col senso esterno), ossia la parte è possibile soltanto per il tutto, ciò che non ha luogo per le cose in sè come oggetti dell’intelletto puro, ma ha luogo bensì per i semplici fenomeni. Per questo è che noi non possiamo rendere intelligibile per alcun concetto la differenza di oggetti simili ed uguali, ma incongruenti (p. es., di due conchiglie volte a spirale in senso inverso), bensì solo per il loro rapporto con la destra e con la sinistra, ciò che costituisce un richiamo immediato all’intuizione.

[287] Osservazione I68.

La matematica pura e specialmente la geometria pura può avere realtà obbiettiva soltanto sotto la condizione di riferirsi agli oggetti dei sensi, in riguardo ai quali vale il principio che la nostra rappresentazione sensibile non ci dà le cose come sono in sè stesse, ma solo come ci appariscono. Onde segue che le proposizioni della geometria non sono determinazioni d’una semplice creazione della nostra immaginazione — le quali non potrebbero venir riferite con sicurezza agli oggetti reali — ma che esse valgono dello spazio e di tutto ciò che può trovarsi nello spazio, perchè lo spazio non è che la forma di tutti i fenomeni esterni, sotto la quale soltanto ci possono essere dati oggetti dei sensi. La sensibilità, la cui forma la geometria toglie a proprio fondamento, è la condizione della possibilità di tutti i fenomeni esterni: questi non possono quindi mai contenere altro da ciò che la geometria loro prescrive. Tutt’altrimenti sarebbe se i sensi ci rappresentassero gli oggetti così come sono in sè. Perchè allora dalla rappresentazione dello spazio, che il geometra prende a priori con tutte le sue proprietà come proprio fondamento, non seguirebbe ancora che tutto questo e tutto ciò che poi ne viene ricavato debba proprio avverarsi così nella natura. Lo spazio del geometra verrebbe ad essere considerato come una semplice invenzione senza validità obbiettiva: poiché non si comprende come le cose dovrebbero necessariamente concordare con l’immagine che noi ce ne facciamo in antecedenza da noi. Ma se questa immagine o piuttosto questa intuizione formale è la proprietà essenziale della nostra sensibilità, per mezzo della quale soltanto ci sono dati oggetti, e questa sensibilità ci rappresenta non cose in sè, ma solo i loro fenomeni, è facile a comprendersi e nel tempo stesso è indiscutibilmente provato: che tutti gli oggetti esterni del nostro mondo sensibile debbono necessariamente ed esattamente concordare con le proposizioni della geometria, perchè è la sensibilità che sola, per mezzo della sua forma dell’intuizione esterna (lo spazio), oggetto della geometria, rende possibili quegli oggetti come fenomeni. Rimarrà sempre come un fatto degno di nota nella storia della filosofia che vi fu un tempo nel quale matematici, che erano anche filosofi69, presero a dubitare non della correttezza [288] delle loro proposizioni geometriche, in quanto concernevano il solo spazio, ma della validità obbiettiva o della applicabilità di questo concetto stesso e di tutte le sue determinazioni geometriche colla natura: essi temevano che una linea nella natura potesse ben essere composta di punti materiali e quindi il vero spazio obbiettivo potesse consistere di parti semplici, sebbene lo spazio, che il geometra ha in niente, non lo possa affatto. Essi non vedevano che anzi è questo spazio ideale che rende possibile lo spazio fìsico, cioè l’estensione materiale; che questa non è una proprietà delle cose in sè, ma solo una forma della nostra facoltà rappresentativa sensibile; che tutti gli oggetti nello spazio sono puri fenomeni, cioè non cose in sé, ma rappresentazioni della nostra intuizione sensibile e che quindi, poiché lo spazio, come il geometra lo pensa, è precisamente la forma dell’intuizione sensibile che troviamo in noi a priori e che contiene il fondamento della possibilità (secondo la forma) di tutti i fenomeni esterni, questi debbono necessariamente concordare con le proposizioni del geometra, che questi deriva non da concetti di sua invenzione, ma dal fondamento soggettivo di tutti i fenomeni esterni, dalla sensibilità stessa. In tal modo e solo in tal modo il geometra potrà essere assicurato circa l’indiscutibile realtà obbiettiva delle sue proposizioni contro tutti i sofismi d’una metafisica superficiale: per quanto inesplicabile essa possa parere a questa, pel fatto che essa non risale fino alle sorgenti prime dei suoi concetti70.

Osservazione II71.

Tutto ciò che deve esserci dato come oggetto, deve esserci dato nella intuizione. Ma ogni intuizione nostra avviene solo per mezzo dei sensi: l’intelletto non intuisce, ma pensa. Ora poiché i sensi, secondo che abbiamo provato, non ci dànno mai ed in nessun punto le cose in sé, ma solo i loro fenomeni e questi sono semplici rappresentazioni della sensibilità, “così tutti i corpi, con lo spazio nel quale si trovano, non debbono essere considerati altrimenti che come rappresentazioni in noi e non hanno altra esistenza che nel nostro pensiero„. Non è questo pretto idealismo?

L’idealismo consiste nell’affermazione che nulla esiste all’infuori degli esseri pensanti: le altre cose che noi crediamo di percepire nell’intuizione [289] sarebbero soltanto rappresentazioni negli esseri pensanti, alle quali non corrisponderebbe in realtà alcun oggetto esistente fuori di essi. Io per contro dico: A noi sono date le cose come oggetti dei nostri sensi, esistenti fuori di noi; soltanto noi non ne conosciamo che i fenomeni, ossia le rappresentazioni, che esse producono in noi agendo sui nostri sensi, e non sappiamo nulla di ciò che possano essere in se stesse. Quindi io ammetto che esistano dei corpi fuori di noi, ossia delle cose, le quali, sebbene a noi affatto ignote in riguardo a ciò che possano essere in se stesse, sono da noi conosciute per mezzo delle rappresentazioni che la loro azione sulla nostra sensibilità ci procura, ed alle quali diamo il nome di corpi, parola che designa così solo il fenomeno dell’oggetto in sè a noi ignoto, ma non perciò meno reale. Si può chiamare idealismo questo? Ne è anzi il contrario.

Che senza pregiudizio della reale esistenza delle cose esterne si possa dire d’una quantità dei loro predicati che non appartengono a queste cose in se stesse, ma solo ai loro fenomeni e non hanno un’esistenza propria fuori della rappresentazione, è cosa che era già nota prima di Locke, sebbene solo dopo di lui sia stata universalmente ammessa e riconosciuta. Tali sono, p. es., la temperatura, il colore, il sapore, etc. Se io poi per stringenti ragioni novero tra i fenomeni oltre a queste anche le altre qualità dei corpi, che sono dette primarie, l’estensione, la posizione e in genere lo spazio con tutto ciò che vi inerisce (impenetrabilità o materialità, forma, etc.), non vedo che vi sia la minima ragione per non ammetterlo; e come non si può chiamare idealista colui che vuol vedere nei colori non delle proprietà dell’oggetto in sè, ma solo delle modificazioni del senso della vista, così non può esser chiamata idealistica la mia dottrina solo perchè io trovo che anche altre, anzi tutte le proprietà costituenti l’intuizione d’un corpo, appartengono solo al suo fenomeno; con ciò non è affatto negata, come nel vero idealismo, la realtà della cosa che appare, ma solo si mostra che noi non possiamo coi sensi conoscerla così come è in se stessa.

Io vorrei ben sapere come dovrebbero suonare le mie asserzioni per non peccare di idealismo. Senza dubbio io dovrei dire: non solo che la rappresentazione dello spazio [290] corrisponde perfettamente al rapporto della nostra sensibilità con gli oggetti — perchè questo io l’ho detto, — ma ancora che è perfettamente simile al suo oggetto; un’affermazione alla quale io non saprei annettere un senso più che alla proposizione che la sensazione del rosso sia simile a quella proprietà del cinabro che provoca in me la detta sensazione.

Osservazione III.

Questo ci permette anche di respingere facilmente un’obbiezione facile a prevedersi, ma altrettanto vana: “che cioè l’idealità dello spazio e del tempo trasformi tutto il mondo sensibile in pura apparenza„72. Mentre prima si era perduto ogni sano concetto filosofico della conoscenza sensibile col ridurre la sensibilità ad una semplice rappresentazione confusa, che ci avrebbe dato sempre ancora le cose come sono in sè, ma senza la facoltà di portare ad una chiara coscienza tutto il contenuto di questa rappresentazione, io ho mostrato invece che la sensibilità si differenzia dall’intelletto non logicamente, per la maggiore o minor chiarezza, ma geneticamente per l’origine del contenuto suo, che ci rappresenta le cose non come sono in sè, ma come affettano i nostri sensi e quindi fornisce come materia alla riflessione dell’intelletto non le cose stesse, ma i loro fenomeni. Ora questa necessaria concezione ha potuto dare pretesto all’obbiezione che la mia dottrina trasformi il mondo sensibile in pura apparenza; ma ciò non è possibile senza snaturare del tutto e quasi a bello studio il mio pensiero.

Quando ci è dato un fenomeno, noi siamo ancora affatto liberi quanto al giudizio che dobbiamo darne. Il fenomeno viene dai sensi, il giudizio è opera dell’intelletto; in questo si tratta solo di decidere se la determinazione dell’oggetto sia o non sia verità. E la distinzione fra la verità e il sogno non viene decisa in base alla natura delle rappresentazioni che sono riferite all’oggetto, perchè queste sono uguali nell’uno e nell’altra, ma in base alla connessione delle stesse secondo le norme che regolano il collegamento delle rappresentazioni nel concetto d’un oggetto: bisogna vedere se esse possono, o no, venir collegato insieme in un’esperienza. Ed in questo non dipende affatto dal fenomeno, se talora la nostra conoscenza prende l’apparenza per verità, se cioè l’intuizione, per cui ci è dato un contenuto sensibile, [291] viene scambiata pel concetto dell’oggetto o anche dell’esistenza dello stesso, che solo l’intelletto può pensare. I sensi ci rappresentano il corso degli astri ora come progressivo, ora come retrogrado ed in questo non v’è nè verità nè falsità, perchè, fino a quando si tiene a mente che questo è solo parvenza, non si giudica ancora circa la costituzione obbiettiva del loro movimento. Ma siccome, quando l’intelletto non veglia accuratamente ad impedire che questa rappresentazione subbiettiva venga tenuta per obbiettiva, facilmente ne sorge un falso giudizio, così si dice: gli astri sembrano muoversi d’un moto retrogrado; però l’apparenza non va messa sul conto dei sensi, bensì dell’intelletto, al quale soltanto spetta ricavare dalla parvenza un giudizio obbiettivo.

In tal modo se anche noi non instituissimo alcuna ricerca sull’origine delle nostre rappresentazioni, avrebbero origine egualmente dal collegamento delle nostre intuizioni sensibili (sia il loro contenuto della natura che si vuole) nello spazio e nel tempo secondo le regole del collegamento delle conoscenze in un’esperienza, secondo che procediamo con circospezione o no, verità od ingannevole apparenza; questo riguarda soltanto l’elaborazione intellettiva delle rappresentazioni sensibili, non la loro origine. E così se anche io ritengo tutte le rappresentazioni sensibili insieme alla loro forma, cioè il tempo e lo spazio, per niente altro che fenomeni e il tempo e lo spazio come pure forme della sensibilità, che non risiedono, fuori di esso, negli oggetti e mi valgo delle rappresentazioni stesse solo in ordine ad un’esperienza possibile: questo porre le rappresentazioni come semplici fenomeni non implica per nulla che si tenda a vedere in esse soltanto errore od apparenza: perchè ciò non toglie che possano venir sistemate secondo le regole della verità in un’esperienza. In simil modo le proposizioni geometriche valgono dello spazio come pure di tutti gli oggetti sensibili e quindi valgono per ogni possibile esperienza, sia che io consideri lo spazio come una pura forma della sensibilità, sia che lo consideri come qualche cosa di inerente alle cose stesse: sebbene solo nel primo caso io possa esplicarmi come sia possibile conoscere a priori quelle proposizioni come valevoli per tutti gli oggetti dell’intuizione esterna; ma per il resto, in riguardo cioè ad ogni esperienza possibile, tutto rimane come se io non avessi abbandonato l’opinione volgare.

Se però io ardisco, coi miei concetti di tempo e di spazio, trascendere ogni esperienza possibile, ciò che è inevitabile quando io li considero come proprietà inerenti alle cose stesse [292] (che cosa mi vieterebbe infatti di considerarli come appartenenti pur sempre alle cose, anche se i miei sensi fossero altrimenti organizzati, fossero o non fossero atti a percepirle?), può allora avere origine un grave errore fondato su d’un’illusione, in quanto io considero ciò che è soltanto una condizione soggettiva dell’intuizione sensibile e quindi vale sicuramente per tutti gli oggetti dei sensi, per ogni esperienza possibile, come valido universalmente e lo riferisco alle cose in se stesse invece di farne delle semplici condizioni della esperienza.

Ben lungi pertanto dal trasformare il mondo sensibile in una pura apparenza, la mia dottrina dell’idealità dello spazio e del tempo è piuttosto l’unico mezzo di assicurare l’applicazione di una delle più importanti conoscenze, quella che la matematica ci dà a priori, agli oggetti reali e di impedire che essa venga tenuta per pura apparenza: perchè senza questa teoria sarebbe affatto impossibile mettere in chiaro se le intuizioni dello spazio e del tempo, che noi non deriviamo da alcun’esperienza e perciò debbono trovarsi a priori nella nostra rappresentazione, non siano costruzioni capricciose dello spirito, alle quali non corrisponda nessun oggetto almeno in modo adeguato, e se la geometria non sia per conseguenza un sapere illusorio: laddove noi abbiamo potuto dimostrarne l’indiscutibile validità per tutti gli oggetti dell’esperienza appunto per ciò che questi sono puri fenomeni.

In secondo luogo è tanto poco vero che questi miei principii col ridurre le rappresentazioni sensibili a fenomeni distruggano ogni verità dell’esperienza e la trasformino in pura apparenza, che anzi essi sono l’unico mezzo di evitare l’illusione trascendentale, onde la metafisica fu in ogni tempo traviata e trascinata — per l’errore suo di considerare i fenomeni, che sono pure rappresentazioni, come cose in sè — alla puerile occupazione di correr dietro a delle bolle di sapone; donde quelle curiose manifestazioni dell'antinomia della ragione, che io ricorderò più innanzi e che vien tolta da questa semplice osservazione: che il fenomeno fino a che è tenuto nei limiti dell’esperienza è fonte di verità, quando l’oltrepassa e diventa trascendente è fonte di niente altro che di illusione.

Poiché quindi io lascio alle cose, che ci rappresentiamo per i sensi, tutta la loro realtà e soltanto limito la nostra intuizione sensibile delle stesse nel senso [293] che essa non ci rappresenta in nessun punto, nemmeno nelle intuizioni pure dello spazio e del tempo, più che la parvenza delle cose, non mai la costituzione loro in se stesse, è falso che io veda nella natura un’illusione universale e la mia protesta contro ogni accusa di idealismo e perfettamente fondata ed evidente, anzi sarebbe quasi superflua, se non vi fossero certi giudici incompetenti, i quali, ben lieti di applicare un nome antico a tutte le deviazioni dalle loro opinioni assurde, per quanto comuni, ed incapaci di andare al di là della lettera e di giudicare delle denominazioni filosofiche secondo il loro spirito, sono sempre pronti a porre i loro sogni al posto dei concetti determinati e precisi degli altri, deformandoli e torcendoli dal loro vero senso. Perchè l’aver io dato a questa mia teoria il nome di idealismo trascendentale non autorizza nessuno a confondere questo con l’idealismo empirico di Descartes (questo era infatti solo la constatazione dell’impossibilità di provare la reale esistenza del mondo corporeo, onde era libero ad ognuno, secondo Descartes, negare quest'esistenza) o con l’idealismo mistico e fantastico di Berkeley73 (contro il quale, come contro simili fantasie, la nostra critica è anzi il vero e proprio rimedio). Questo idealismo da me così denominato non concerneva l’esistenza delle cose (il dubbio circa quest’esistenza è appunto ciò che costituisce l’idealismo nel senso tradizionale), che non mi è mai passato in mente di mettere in dubbio, ma solo la rappresentazione sensibile delle cose, cui appartengono avanti tutto lo spazio e il tempo; e di questi, quindi in genere di tutti i fenomeni, io ho solo mostrato: che essi non sono cose (ma modi di rappresentazione) e nemmeno proprietà inerenti alle cose in se stesse. La parola trascendentale che io ho sempre usato a significare non un rapporto della nostra conoscenza con le cose, ma solo con la facoltà conoscitiva, doveva evitare questa falsa interpretazione. Piuttosto però di darvi ancora per l’avvenire occasione, preferisco ritirare questa denominazione e chiamare la mia dottrina idealismo critico. Ma se in realtà è un idealismo condannabile il trasformare le cose reali (non i fenomeni) in pure rappresentazioni, con qual nome si vorrà chiamare quello che converte le semplici rappresentazioni in cose? Io penso lo si potrebbe chiamare l'idealismo sognante74, per differenziarlo dal precedente che può dirsi l’idealismo fantasticante; all’uno ed all’altro mette rimedio soltanto il mio idealismo [294] trascendentale o, meglio ancora, critico.


Note di Piero Martinetti

54) Il punto di partenza è preso da Kant, come abbiamo veduto, nel fatto dell’esistenza, accanto all’esperienza, la quale non può darci mai un’assoluta necessità ed universalità, di conoscenze universali e necessarie, le quali valgono della realtà a noi data nell’esperienza (che altrimenti non potrebbero dirsi conoscenze) e tuttavia per la natura loro ci rinviano ad una fonte necessariamente altra dall’esperienza. Come sono possibili tali conoscenze? Nella prima e seconda parte dei Prolegomeni Kant ci dà l’esplicazione di questo fatto: esplicazione che è poi anche una conferma ed una giustificazione del valore che noi abbiamo ad esse attribuito fin da principio. Tale esplicazione ha luogo per una conversione dal punto di vista dogmatico al punto di vista trascendentale: i principii che valgono universalmente e necessariamente degli oggetti dell’esperienza non vengono allo spirito come leggi straniere dai dati dell’esperienza, nè sono nostre arbitrarie affermazioni valide solo pel mondo dei nostri concetti: ma sono elementi costitutivi necessari della realtà dell’esperienza, che non è qualche cosa di straniero e di contrapposto allo spirito conoscente, ma è una costruzione sua eretta in conformità delle leggi universali e costitutive dello spirito stesso. Nella prima parte Kant svolge questa sua soluzione in rapporto alla matematica. Come avviene che le proposizioni geometriche, p. es., che non sono certo generalizzazioni empiriche, valgono in modo universale e necessario della realtà corporea? Ciò avviene, risponde Kant, in quanto lo spazio del matematico e lo spazio, nel quale si trovano i corpi, sono in fondo una cosa sola: lo spazio reale non è un misterioso recipiente a cui lo spirito sia estraneo, ma è una costruzione formale dello spirito conoscente in genere e le leggi che il matematico trova, quando considera questa funzione dello spirito, astrazion fatta dal contenuto che in detta costruzione formale viene ordinato, valgono necessariamente delle cose corporee, perchè queste sono appunto il risultato della costruzione stessa. — Questa prima parte dei Prolegomeni corrisponde all’Estetica trascendentale della Critica.

55) § 6. Nella matematica abbiamo un meraviglioso sistema di giudizi sintetici a priori, vale a dire di conoscenze non derivabili per via analitica dai concetti e non fondate sull’esperienza, ma sulla ragione pura. Come si spiega questo? § 7. Nota Kant in primo luogo che i giudizi matematici sono intuitivi: la matematica è una scienza concettuale come le altre, ma ogni suo giudizio non fa che formulare concettualmente un’intuizione. La quale non è naturalmente un’intuizione empirica, ma un’intuizione pura, epperò certa a priori ed apodittica. Vi deve perciò essere a fondamento della matematica un’intuizione pura originaria. § 8. Ma come può aversi un’intuizione pura? Intuizione significa presenza dell’oggetto: ora un’intuizione determinata dalla presenza dell’oggetto non è più pura, ma empirica. § 9. Qui Kant procede alla soluzione. Un’intuizione pura può darsi ad una sola condizione: che essa contenga solo la forma della conoscenza dell’oggetto: forma che antecede nel soggetto necessariamente le impressioni, il contenuto materiale della conoscenza e perciò è data a priori. § 10. Questa intuizione pura, formale, che condiziona ogni intuizione sensibile, comprende le forme dello spazio e del tempo: la geometria ha a suo fondamento l’intuizione pura dello spazio, l’aritmetica, l’intuizione pura del tempo. § 11. La prima questione è così risolta. La matematica è possibile in quanto la conoscenza sensibile è conoscenza fenomenica condizionata da un’intuizione pura, da una predisposizione del soggetto umano a sentire secondo date forme. Solo così è possibile spiegarci come noi possiamo conoscere intuitivamente ed a priori qualche cosa circa gli oggetti: ciò che sarebbe invece inesplicabile se la nostra conoscenza sensibile fosse conoscenza di cose in sè.

56) [p. 47,20] La matematica, già si è detto, non è una deduzione analitica nel senso logico — chè altrimenti tutta la matematica non sarebbe che un’enorme tautologia —; nemmeno è una scienza empirica perchè allora non avrebbe più un vero carattere apodittico. Essa è un sistema di giudizi sintetici a priori (si cfr. la nota 31). Nella sezione presente dei Prolegomeni Kant si propone di mostrare che i giudizi sintetici a priori della matematica sono fondati sulle intuizioni pure dello spazio e del tempo. Per bene intendere questa esplicazione kantiana del sapere matematico è necessario richiamarci al concetto generale della conoscenza secondo Kant e mettere in luce la differenza tra le sintesi intuitive del sapere matematico e le sintesi concettuali del sapere filosofico. — Ogni vero atto di conoscenza è, come sappiamo, un atto di sintesi: in questa asserzione è tacitamente implicato un presupposto metafisico che avvicina Kant a Leibniz, il presupposto cioè che la realtà ultima sia un perfetto sistema intelligibile e che lo spirito ricostituisca, nell’atto del conoscere, dai frammenti dispersi del senso l’unità che già in essi confusamente ed imperfettamente si rivela. Ma questo processo non può, secondo Kant, giungere, come sperava, anzi sognava la metafisica dogmatica, fino ad essere una riproduzione ideale, in un sistema logico perfetto, del sistema intelligibile assoluto; esso è sempre condizionato nell’uomo dalla natura irreducibile degli elementi di questo processo, i quali sono dati sensibili, fenomenici e vengono bensì dallo spirito subordinati alle forme a priori e per tal modo avvicinati formalmente al sistema dell’unità intelligibile assoluta, ma che quando vengono dalla ragione costretti a costituire una totalità assoluta ben tosto rivelano, per una serie d’insanabili contraddizioni, l’impossibilità di pensare per mezzo dei dati fenomenici una realtà assoluta. In secondo luogo (e questo è il punto che qui sovratutto c’interessa) questa sintesi formale degli elementi fenomenici ha per Kant due gradi qualitativamente irreducibili che potremmo denominare la sintesi sensibile (o intuitiva o matematica) e la sintesi intellettiva (o concettuale o filosofica). È degno di nota che Kant ha sotto questo rispetto un precursore nell’eclettico antileibniziano A. Rüdiger, il quale nel suo De sensu veri et falsi (1722), p. 283 ss., distingue la ratiocinatio sensualis seu mathematica dalla ratiocinatio idealis seu syllogistica. Questa distinzione, si noti bene, procede dalla distinzione fra senso ed intelletto, ma non coincide affatto con essa. Kant stabilisce una distinzione essenziale tra il senso che è recettività e l’intelletto che è spontaneità e questa distinzione fonda la distinzione susseguente fra conoscenza matematica e conoscenza filosofica: la filosofia leibniziana appunto perchè non distingueva essenzialmente fra senso ed intelletto considerava la matematica come scienza filosofica: “omnis cognitio a priori (dice Baumgarten) est cognitio philosophica„. Ma questa differenza essenziale è stabilita da Kant fra le due sorgenti della conoscenza, non fra due specie di conoscenza: il senso da sè solo non dà conoscenza alcuna (v. nota 85). È vero che Kant parla qui (ed anche nell’Estet. trascend.) della conoscenza matematica come se l’intelletto non vi avesse parte: così parla anche dell’intuizione empirica, ossia della rappresentazione sensibile obbiettiva, come se fosse il prodotto del solo senso: onde gli è stato giustamente mosso il rimprovero che egli attribuisca al senso (almeno secondo la forma) un’attività che contraddirebbe alla sua definizione (Vaihinoer, Comm., II, 16 ss.). Ma che la conoscenza matematica esiga, secondo Kant, anche l’opera sintetica dell’intelletto, è fuori d’ogni dubbio (Kr. r. Vern., 125, nota). — Che cosa è adunque che caratterizza la sintesi sensibile o matematica e la distingue dalla sintesi intellettiva vera e propria, che conduce al sapere concettuale e quindi alla scienza, alla filosofia? Kant non si è espresso a questo riguardo con tutta la chiarezza desiderabile: la soluzione dev’essere ricavata da poche espressioni disperse qua e là: importante è sopratutto l’accenno che egli ci dà nella Dialettica trascendentale con la sua distinzione fra le categorie matematiche e le dinamiche (v. nota 153). Ciò che distingue i due gradi della organizzazione del dato sensibile è anzitutto questo, che il primo ha luogo per mezzo delle cosidette categorie matematiche (categorie della qualità e della quantità), il secondo per le categorie dinamiche, per le categorie della relazione, che sono le vere categorie logiche (per le categ. delle modalità si veda la nota 107). Il collegamento che avviene per mezzo delle categorie matematiche è condizionato essenzialmente dalle forme dello spazio e del tempo e da esse inseparabile (Kr. r. Vern., 360-62; Proleg., § 52 c); onde, poiché il risultato di tutta l’attività sintetica dell’intelletto in questo grado si è di costituire l’unità dell’esperienza rispetto alle forme dell’intuizione sensibile, lo spazio ed il tempo, essa ha potuto nell’Estetica venir considerata come un prodotto del senso; e per conseguenza anche la matematica ha potuto esser considerata come fondata sull’intuizione sensibile pura. Carattere essenziale della sintesi matematica si è che essa presuppone l’omogeneità di ciò che collega (Proleg., § 53): il molteplice del senso, temporalmente e spazialmente caratterizzato, viene per essa raccolto, come un complesso di elementi omogenei, in un sistema di sintesi formali, che tende a costituire una totalità unica, penetrata, per così dire, da un solo ritmo, da un solo ordine e perciò, nella sua apparente eterogeneità, perfettamente omogenea: onde il principio fondamentale della matematica è il principio della sostituibilità per eguaglianza, della ricorrenza. Invece il collegamento che avviene per le categorie della relazione non è essenzialmente legato alle forme del tempo e dello spazio: il principale risultato suo è di costituire, dagli elementi già determinati dalle forme temporali e spaziali, delle unità che non sono più esse medesime essenzialmente determinate nello spazio e nel tempo; queste unità, che possono anzi venir isolate dalle condizioni di spazio e di tempo e fissate in un certo numero di note o rappresentazioni sensibili simboliche e quindi estese ad un numero indefinito d’individui, sono le unità concettuali. In ciascuna di esse gli elementi concorrenti non sono posti l’uno accanto all’altro come parti d’una grandezza o mogenea, ma accentrati ed unificati, come proprietà, in un essere unico ed identico; e pel medesimo processo queste unità vengono raccolte in altre unità superiori, che la ragione aspira poi a ricondurre ad un’unità o principio supremo, nella cui identità si raccoglie quanto la molteplicità delle cose ha di reale. I principii della categoria di relazione sono quindi veramente i principii dell’organizzazione logica del reale: l’assioma fondamentale di questa sintesi intellettiva o concettuale è il principio d’identità. — Di più i due gradi dell’unificazione del dato differiscono profondamente ancora in questo: che nel primo (la sintesi matematica) la sintesi degli elementi dati è qualche cosa di compiuto, mentre nel secondo è qualche cosa che si compie: la realtà ordinata nel tempo e nello spazio è un sistema di sintesi intuitivamente, ossia immediatamente date, ciascuna delle quali, anche se scomposta negli elementi e negli elementi degli elementi, ci rinvia sempre ad unità sintetiche subordinate e non mai agli elementi costitutivi ultimi; nella sintesi logica sono invece date intuitivamente le unità determinate nello spazio e nel tempo, mentre le unità risultanti dalla loro sintesi sono pensate, non intuite, sono unità concettuali che non sono mai date per se stesse, ma debbono sempre avere nelle intuizioni sensibili il punto di partenza e la rappresentazione simbolica.

Ciò premesso, non è difficile ora intendere che cosa voglia dire Kant quando dice che la matematica è un sistema di giudizi sintetici a priori fondati sull’intuizione pura. Laddove nella costituzione del sistema logico dei concetti l’intuizione non ci dà che il punto di partenza, nella ricostruzione del sistema dei rapporti matematici l’intuizione ci dà un sistema di sintesi che essa può scomporre e ricomporre, ma che in ogni modo non riesce mai a ricondurre realmente fino ai suoi ultimi elementi costitutivi: la filosofia è costruzione d’una totalità data a noi intuitivamente solo nei suoi elementi, la matematica è ricostruzione d’una totalità, intuitivamente data, dai suoi elementi che non possono più esserci dati intuitivamente. Perciò sebbene e l’una e l’altra rispecchino un’organizzazione sintetica del reale, il genio matematico è essenzialmente genio analitico, che divina i fattori e la loro composizione là dove il profano non vede che l’unità d’un dato; il genio filosofico è invece genio sintetico, divina nel molteplice e nel diverso l’unità dell’idea e non si serve della deduzione analitica che come d’un procedimento sussidiario e del tutto secondario. Certo la matematica aspira a ricostruire riflessamente il sistema formale delle sintesi matematiche del reale e questa ricostruzione può essere in molti punti sintesi originale, costruzione; ma e nell’uno e nell’altro caso essa riceve sempre dall’intuizione un duplice ordine di dati: in primo luogo un certo numero di sintesi elementari indecomponibili, che essa introduce nelle più svariate forme come definizioni, postulati, ecc.; in secondo luogo un certo numero di principii, di assiomi, i quali esprimono il carattere della totalità che per tale attività sintetica si costituisce. Tutta la matematica è una costruzione fondata su questi elementi e su questi principii, che per via di successive estensioni e sostituzioni partecipa alle più complicate formazioni la chiarezza intuitiva dei suoi elementi e dei suoi principii. Al qual riguardo è perfettamente indifferente, almeno dal punto di vista filosofico, l’esaminare fino a qual punto la matematica riesca a restringere il numero delle intuizioni fondamentali, riducendo un assioma od un postulato ad una proposizione dimostrabile: essa non rimane perciò meno un sistema fondato sopra un certo numero di sintesi intuitive di natura radicalmente diversa dalle sintesi logiche e quindi irreducibile in perpetuo ad una vera costruzione logica. Le sintesi intuitive che stanno a fondamento della matematica costituiscono delle verità evidenti e necessarie in rapporto all’intuizione nostra del reale; ogni costruzione e dimostrazione riposa già su di esse, non appena venga intuitivamente costruita: anche il tentativo di astrarre da qualcuna delle condizioni fondamentali della nostra intuizione spaziale non ha senso se non tradotto intuitivamente nel linguaggio della nostra intuizione ed è fondato anch’esso sopra altri principii di carattere intuitivo, non logico. Certo le dette sintesi non sono logicamente necessarie, appunto perchè la matematica non è una costruzione logica del reale: perciò nessuna delle costruzioni matematiche è logicamente necessaria e il pensiero logico può pensare in astratto altri tempi, altri spazi, altre forme intuitive della realtà. Ma questo non equivale nemmeno a dire che siano posizioni arbitrarie o postulati nel senso letterale della parola: esse condizionano la nostra realtà intuitiva come forme a priori e l’universalità necessaria dell’a priori ha, sotto l’aspetto metafisico, come abbiamo veduto, un fondamento ben diverso dalla semplice universalità empirica.

Resta a chiarire perchè Kant dica che la matematica si fonda sull’intuizione pura. La sintesi matematica come costitutiva del reale è sintesi concreta, sintesi di dati sensibili in una forma intuitiva; la matematica pura, la matematica come scienza astrae dagli elementi sensibili, come dai fattori logici dell’esperienza (Kr. r. Vern., 30), per non considerare che la pura forma dell’intuizione, cioè l’atto della sintesi intuitiva in sè stessa; la sintesi formale intuitiva così astrattamente considerata in sè stessa, senza riguardo alla natura degli elementi collegati, è ciò che Kant chiama “intuizione pura„. Quindi anche la matematica, come scienza pura, risulta da un’astrazione. Ma ciò non vuol dire naturalmente che essa sia derivata empiricamente: in essa lo spirito non astrae un dato da altri dati, ma considera la propria attività astraendo dal dato empirico: perciò Kant dice che le intuizioni pure potrebbero piuttosto dirsi astraenti che non astratte (Diss., § 4). E nemmeno vuol dire che il risultato dell’astrazione sia, come nel caso dell'astrazione logica, qualche cosa di universale, un concetto. L’unità formale, che l’astrazione logica isola, è separabile dalle determinazioni di tempo e di luogo e perciò può apparire come una generalità comune a più individui; l’unità formale dell’astrazione matematica (l’intuizione pura) è sempre una determinazione temporale o spaziale e perciò qualche cosa di singolo e di particolare. Senza dubbio la matematica, come scienza, si costituisce per mezzo di concetti generali; il matematico parla del triangolo, non di questo o quel triangolo, come il fisico parla, p. es., della materia o del movimento. Ma laddove in quest’ultimo caso il sapere è derivato dal concetto o fissato nel concetto ed i rapporti che costituiscono questo sapere sono rapporti logici di unità concettuali, ai quali l’intuizione degli esseri particolari può al più servire come aiuto od esemplificazione, nel sapere matematico è il concetto che serve di aiuto all’intuizione: i rapporti concettualmente espressi dalla matematica non sono rapporti fra i concetti matematici, ma fra le intuizioni a questi corrispondenti e non possono perciò venir messi in evidenza se non quando lo spirito costruisce mentalmente nell’intuizione pura o visibilmente nell’intuizione empirica il concetto matematico corrispondente. Questa è la differenza che Kant fissa col dire che la conoscenza razionale è conoscenza da concetti, la conoscenza matematica è conoscenza da costruzione di concetti (Kr. r. Vern., 488 ss.; Log., 25-26). — Per il fatto stesso che le sintesi della matematica pura astraggono dal molteplice intuitivo da esse collegato, esse non sono ancora per se conoscenze: esse contengono le condizioni formali necessarie di ogni intuizione di oggetti dell’esperienza, ma non sono obbiettive se non in quanto hanno la loro applicazione nell’intuizione empirica (cfr. la nota 50). “Tutti i concetti matematici non sono per sè conoscenze se non in quanto si presuppone che vi sono cose, le quali vengono da noi rappresentate secondo la forma di quella intuizione sensibile pura„ (Kr. r. Vern., 117).

Un’ultima domanda resta a farsi: perchè quel sistema di giudizi sintetici fondati sull’intuizione pura, che costituisce la matematica, può essere costruito a priori? Anche un giudizio d’esperienza è sotto un certo rispetto un giudizio a priori: in quanto la sintesi, che lo costituisce, deriva, considerata in sè stessa, da un principio puro dell’intelletto: tuttavia l’esperienza non può, come totalità, essere costruita a priori —. Bisogna a questo proposito ricordare il presupposto razionalistico del pensiero kantiano che è stato sopra messo in rilievo: la realtà è in sè stessa un sistema intelligibile e se la nostra ragione potesse avere un’intuizione diretta di questa realtà, essa potrebbe ricostruire a priori dai suoi principii la realtà universa. L’intuizione nostra è invece un’intuizione fenomenica: l’opera del nostro intelletto non è di intuire, ma di collegare fra di loro le nostre intuizioni per dar loro una forma razionale. L’esperienza che così ne risulta è nella sua totalità una conoscenza obbiettiva, una verità (si cfr. la nota 50), ma una verità puramente umana: in quanto è collegata da principii a priori, ha un valore universale e necessario rispetto agli elementi che in essa si unificano, ma è pur sempre nel suo insieme qualche cosa d’accidentale e di inderivabile a priori (si cfr. la nota 22). Invece il sistema dei principii formali della matematica costituisce una totalità formale, ma pura: il sistema delle leggi formali pure partecipa di quella assoluta universalità e necessità che caratterizza la realtà intelligibile, in quanto esso è appunto una partecipazione, almeno secondo la forma, della natura intelligibile alla realtà sensibile.

57) [p. 48,25]. Per “intuizione„ Kant spesso intende il semplice dato sensibile, in quanto cioè procede dalla recettività ed antecede ogni collegamento per opera dell’intelletto (Kr. r. Vern., 107, 117, ecc.). Ma in senso più proprio designa la rappresentazione obbiettiva immediata dell’oggetto, contrapponendosi da un lato alla sensazione, che è il semplice dato sensibile non elaborato, dall’altro al concetto, che è rappresentazione mediata dell’oggetto (cfr. la nota 97). La “rappresentazione„ è invece per Kant il termine generico che designa quell’attività per la quale è reso presente alla coscienza un contenuto: ed abbraccia sotto di sè la sensazione, l’intuizione, il concetto, l’idea (Kr. r. Vern., 250).

58) [p. 48,27]. “Io non posso (dice Garve, Uebersicht d. vorn. Principien d. Sittenlehre, 205-6), nonostante ogni mio sforzo, farmi alcun concetto di un’intuizione a priori: anzi le parole stesse mi sembra contengano una contraddizione, perchè io intuisco solo ciò che è presente ed una rappresentazione a priori dovrebbe riferirsi ad un oggetto da intuirsi solo in avvenire„. Così anche Herder, Metakr., I, 62. Per la soluzione di Kant si cfr. Kr. d. r. Vern., 54; Fortschr. d. Metaph., 91.

59) [p. 49,23]. Cfr. Proleg., 318. La parola “oggetto„ (Gegenstand) ha in Kant, come già la parola “obiectum„ nella Dissert. del 1770, un doppio senso: i due sensi vengono spesso usati promiscuamente nello stesso contesto (cfr., p. es., Kr. r. Vern., 49) in modo non certo favorevole alla chiarezza. Nel primo senso “oggetto„ vale quanto oggetto empirico: esso designa semplicemente quell’unità in cui l’intelletto raccoglie ed obbiettiva le impressioni sensibili e che quindi viene a queste contrapposta come il loro oggetto: oggetto fisico, appercettivo, fenomenico. Nel secondo senso vale quanto oggetto trascendente: esso designa il “fondamento intelligibile dei fenomeni„ (Kr. r. Vern., 341), la causa ignota delle nostre impressioni: oggetto metafisico, transoggettivo, noumenico. In questo caso le espressioni “affettare i sensi„, “esser causa delle impressioni„, ecc., sono espressioni figurate ed improprie, che esprimono solo il carattere passivo della nostra intuizione (Diss., § 10 e specialm. § 22, Anm.), rappresentano sull’analogia dell’azione tra due oggetti fisici il rapporto fra il soggetto e l’oggetto in sè; si cfr. Schmidt, Wörterb.,3 33. Che la sensazione abbia luogo per un’azione (comunque concepita) delle cose in sè sullo spirito, è una delle presupposizioni iniziali della Critica, che in ogni tempo è stata considerata come sorgente di gravi difficoltà: perchè le cose in sè ci sono del tutto ignote e quindi non si può di esse dire che esercitino un’azione. V. specialmente Schulze, Aenesidemus (1911), 197 ss.; Schopenhauer, W. (Gris.), I, 556-7. In questa difficoltà sopratutto prese il suo punto di partenza lo svolgimento idealistico della filosofia kantiana con S. Beck, Maimon e Fichte. Cfr. Vaihinger, Comm., II, 35 ss.

60) [p. 49,25]. Per il concetto di “forma„ della conoscenza e la fondamentale distinzione tra materia e forma del conoscere si cfr. Diss., § 4, § 13; Kr. r. Vern., 50, 100, 152, 474-5; sul concetto di forma e materia in generale, ib., 218-9; sugli antecedenti storici della teoria kantiana, Vaihinger, Comm., II, 63 ss. La distinzione tra materia e forma è la conseguenza di quella distinzione, nel seno della conoscenza umana, d’un sapere universale ed obbiettivo, che è il punto di partenza, il presupposto della Critica. Se vi devono essere delle verità universali ed assolute, coestensive all’esperienza, queste non possono essere esperienze singole, ma elementi costitutivi comuni a tutte le esperienze, i quali si contrappongono ai dati accidentali e mutevoli come leggi necessarie del dato. Questo concetto è da Kant ricondotto all’antico concetto aristotelico della forma, che è l’elemento universale, tipico, essenziale delle cose: ma laddove per Aristotele l’anima non è che una delle forme, per Kant non vi è attività formatrice che non sia attività dello spirito in genere: i principii che formano l’informe, che dal caos degli elementi sensibili costituiscono la realtà obbiettiva, sono le leggi stesse dello spirito, le forme del conoscere, che lo spirito impone a priori alle cose. Le considerazioni che hanno condotto Kant a porre il tempo e lo spazio come le due forme a priori dell’intuizione sono svolte sistematicamente nell’Estetica trascend., § 2 ss. Come si debbano pensare queste due forme risulta già in parte da ciò che si è detto in riguardo all’a priori in generale (nota 22), alla matematica (nota 56) ed al concetto di forma. Certo il linguaggio trascurato di Kant, specialmente nell’Estetica trascend., favorisce l’interpretazione comune che le forme a priori dell’intuizione non siano due virtualità, due leggi dello spirito, che si svolgono di mano in mano che il sopravvenire delle impressioni sensibili ne porge loro l’occasione (Dissert., § 4, § 15 in fine), ma siano già, anche nell’individuo, qualche cosa di perfettamente formato e di definitivo, come due infiniti recipienti vuoti, nei quali vengono ad ordinarsi le impressioni sensibili. In tal caso l’animo dovrebbe possedere, anteriormente ad ogni rappresentazione sensibile, una rappresentazione intuitiva dello spazio e del tempo infinito: un vero assurdo. Del resto Kant dice in qualche passo troppo esplicitamente che le intuizioni pure sono leggi dello spirito e non intuizioni innate (Diss., §§ 14, 16; Ueber eine Entdeck., 43 ss.), per lasciar sussistere qualche dubbio; ed anche le espressioni più crude dei Prolegomeni e della Critica, che sembrano suggerire l’interpretazione contraria, si spiegano in quanto la priorità metafisica si pone naturalmente come una priorità (non esplicita) anche nel tempo. Quando p. es. Kant dice che le forme erano già pronte nel soggetto (Kr. r. Vern., 50), egli vuol solo dire che il processo, pel quale si svolgono, nel corso dell’esperienza, le forme a priori, non crea realmente nulla e non aggiunge nulla ad esse: ciò che viene alla luce explicite nell’esperienza era già implicite nello spirito in tutta la sua perfezione.

Queste considerazioni ci permettono di rettamente intendere anche la subbiettività delle forme. L’interpretazione che abbiamo respinto fa naturalmente delle due forme dell’intuizione qualche cosa di puramente subbiettivo: esse sarebbero come due modi di vedere le cose, proprii del soggetto, che falsano, travestono necessariamente le impressioni a noi provenienti dall’ignota cosa in sè. Nel qual caso giustificata sarebbe l’obbiezione del Trendelenburg: che cioè l’apriorità delle forme, se pure ci prova che esse sono forme subbiettive, non esclude che siano anche obbiettive, ossia proprie della realtà in sè. A questa falsa interpretazione molto hanno contribuito anche gli improprii, talora grossolani paragoni, coi quali si è cercato di rendere intuitivo il concetto di forma della conoscenza; se ne veda la rassegna in Vaihinger, Comm., II, 62-63. Che le forme a priori non siano semplicemente modi subbiettivi di tradurre l’azione delle cose in sè, dovrebbe apparire già da questa semplice considerazione; che anche la materia del conoscere, cioè la sensazione, è nel suo contenuto qualitativo una traduzione subbiettiva di quest’azione e tuttavia non ha in sè niente di formale. La teoria kantiana deve essere più profondamente interpretata in accordo col senso originario della teoria della forma (che non era a Kant straniero quanto a primo aspetto sembra, si cfr. Von einem υornehemen Ton, ecc., 21). Le forme dell’intuizione, anziché predisposizioni subbiettive a sentire in un dato modo, che ci separano dalla realtà in sè, debbono essere considerate come due attività, in virtù delle quali il caos originario delle inpressioni sensibili è avvicinato alla realtà, espresso in una sintesi che è certo inadeguata di fronte alla perfetta unità di questa, ma che in ogni modo costituisce un progresso verso la realtà; di fronte poi alle altre forme a priori, esse rappresentano le forme definitivamente acquisite, che perciò si presentano come immediatamente date nell’intuizione stessa unitamente agli elementi sensibili. La subbiettività loro non vuol dire altro se non che esse provengono all’esperienza da quell’attività immanente alla realtà stessa, che in questa rappresenta l’energia unificatrice e creatrice e che noi diciamo spirito; lungi dall’essere un travestimento esse sono quindi un potenziamento, la cui necessità a priori s’impone di fronte alla molteplicità pura e semplice delle impressioni col diritto che ha la realtà di fronte all’apparenza (cfr. Diss., § 22 Anm.). Certo questa necessità non esclude che esse decadano di fronte ad un grado superiore di realtà, di fronte all’intelligibile, al grado di semplici forme fenomeniche: sotto questo aspetto possono venir chiamate in un secondo senso (e con maggior diritto) forme subbiettive; ma l’in-sè, di fronte al quale esse decadono al livello di travestimenti fenomenici, non è allora il noumeno pensato come nudo di forme, bensì il noumeno pensato come il vertice del potenziamento formale, come una subbiettività più profonda e perciò più largamente e più veramente obbiettiva. Allora si risolve anche la difficoltà sollevata da Herbart nella sua Introduz. alla filosofia (§ 150): perchè noi vediamo qui una figura rotonda, là una quadrata? Non sono queste determinazioni aventi una ragione empirica? Ed allora come possono dirsi lo spazio e il tempo forme pure? Queste non sono due forme astratte, assolutamente omogenee che lo spirito getti sopra ad una realtà ad esse straniera; ma sono le unità formali ad essa connaturate, le forme necessarie della sua coordinazione e la loro diversificazione accidentale per opera del fattore empirico non detrae alla loro purezza più che la diversificazione dei doveri nei varii individui (che non si può dedurre per sè dalla legge morale) non detragga all’unità e purezza formale della legge (cfr. nota 87).

Anteriormente ad ogni esperienza non preesiste nello spirito che la disposizione, la potenza dell’intuizione temporale e spaziale: il che importa già tuttavia per sè (se si riflette al senso del concetto di “potenza„) che quanto si presenta nel divenire empirico come il termine finale del processo, è già realmente nell’ordine metafisico prima ed indipendentemente da tutto il processo medesimo. Nel corso dell’esperienza si svolgono le forme dello spazio e del tempo come forme della coordinazione del molteplice intuitivo: facendo astrazione dal contenuto qualitativo di questo molteplice si hanno le intuizioni pure del tempo e dello spazio (si cfr. la nota 56). “Noi possiamo astrarre lo spazio e il tempo dall’esperienza come chiari concetti, perchè noi stessi ve li avevamo posti ed anzi per mezzo di essi avevamo costituito l’esperienza„ (Kr. r. Vern., 172). Queste forme pure vengono ancora sempre chiamate col nome di “intuizioni l’espressione “intuizione pura,, nota il Riehl, limita le rappresentazioni del tempo e dello spazio puro da una parte di fronte alla sensazione, al contenuto dell’intuizione empirica, dall’altra di fronte ai concetti generali dell’intelletto. Quindi essa significa “non sensazione e non concetto„, ma non implica già la rappresentazione d’un’immagine o d’un recipiente. Tuttavia l’espressione non è stata felicemente scelta perchè ha sempre nutrito l’erronea opinione che lo spirito possegga, prima di ogni esperienza, le rappresentazioni concrete dello spazio puro e del tempo puro (Riehl, D. philos. Kritiz., I, 457-8). Le rappresentazioni delle forme pure dello spazio e del tempo non sono per conseguenza separabili realmente da quella del contenuto sensibile (Kr, r. Vern., 297, nota): esse non costituiscono mai due oggetti nel senso in cui lo sono gli oggetti dell’intuizione sensibile (Kr, r. Vern., 332, 297). In una nota (Kr, r. Vern., 125) Kant chiama “oggetto„ lo spazio della geometria in quanto l’intuizione pura dello spazio, che è fondamento della geometria, risulta da una coordinazione dei rapporti spaziali per opera delle categorie matematiche in un sistema di valore obbiettivo: ma questo sistema è ancora sempre un sistema di rapporti formali che hanno bisogno della materia dell’intuizione empirica per costituire degli oggetti nel vero e proprio senso della parola.

61) [p. 50,1]. Il valore universale e necessario delle proposizioni matematiche ci conduce quindi a stabilire: 1° Che la nostra conoscenza sensibile delle cose è condizionata da certe forme necessarie (tempo e spazio); 2° che tale conoscenza è conoscenza di fenomeni, non di cose in sè. Sul concetto di cosa in sè, noumeno, si v. la nota 119. Sul concetto di fenomeno, parvenza, si veda la chiara esposizione del Paulsen, E. Kant.4, 155 ss; per la distinzione della “parvenza„ (in senso di “fenomeno„) dall’apparenza illusoria si cfr. Kr. r. Vern., 234 ss. La parvenza o fenomeno è la rappresentazione obbiettiva, è in fondo ciò che noi diciamo “cosa„. Essa non è solo un’apparenza subbiettiva, non è un processo passeggiero che avvenga solo in e per una coscienza individuale, ma non è nemmeno una cosa in sè indipendente dall’attività conoscitiva dello spirito. Una cosa reale qualunque, che io apprendo per l’esperienza, non è una cosa in sè, perchè ogni contenuto suo risulta da elementi percettivi e ciò che non è contenuto percettivo nello stretto senso della parola è costituito da rapporti, da forme che procedono egualmente dallo spirito. Ma appunto perchè per virtù di queste essa è collegata con gli altri contenuti percettivi della mia coscienza e con quelli delle altre coscienze in un sistema che ha il suo fondamento nella costituzione unica ed universale dello spirito, nello “spirito in genere„, essa è indipendente dagli stati accidentali della mia e dell’altrui coscienza ed è qualcosa di più che, come Stuart Mill voleva, una semplice possibilità permanente di sensazioni; essa continua a far parte di questo sistema, di questa “coscienza generica„ anche se non sia attualmente percepita da me o da altri individui. Tutta la conoscenza nostra del mondo, sia del mondo corporeo esterno, sia del mondo nostro interno (l’io empirico) è conoscenza di fenomeni. Grundl. d. Metaph. d. Sitten, 450-1: “Vi è una considerazione che non esige alcuna sottile riflessione, che anzi l’intelletto più comune può fare, sebbene a suo modo, per mezzo d’un’oscura distinzione del giudizio, che esso chiama sentimento: e cioè che tutte le rappresentazioni, che ci vengono indipendentemente dalla volontà nostra (come quelle dei sensi), non ci fanno conoscere gli oggetti altrimenti che come essi ci affettano, rimanendo sempre ciò che essi sono in sè stessi a noi ignoto; quindi che per questa specie di rappresentazioni, nonostante tutta l’attenzione e tutta la chiarezza che possa introdurvi l’intelletto, noi arriviamo sempre soltanto alla conoscenza dei fenomeni, non mai delle cose in sè. Una volta fatta questa distinzione, ne risulta da sè che al di là dei fenomeni si deve ammettere e supporre qualche cosa d’altro che non è fenomeno, e cioè le cose in sè, sebbene noi riconosciamo senz’altro che, poiché esse non possono mai da noi venir conosciute se non in quanto ci affettano, noi non possiamo mai venir con esse a contatto e non possiamo mai sapere che cosa sono in sè. Di qui la distinzione approssimativa del mondo sensibile e del mondo intelligibile, dei quali il primo può variare nei diversi spettatori secondo la differenza del senso, l’altro, che sta a fondamento del primo, è sempre identico. L’uomo non può nemmeno presumere di conoscere sè stesso come è in sè con la sola conoscenza che egli ha di sè per il senso interiore. Perchè siccome egli non è il creatore di sè stesso, e riceve il concetto di sè non a priori, ma per esperienza, è naturale che egli possa aver notizia dell'essere suo solo per il senso interno e quindi solo per l’apparenza fenomenica della sua natura, per il modo con cui la sua coscienza è affetta, sebbene egli debba pure simultaneamente ammettere, oltre a questa costituzione del proprio soggetto composto di puri fenomeni, qualche cosa d’altro che ne è il fondamento e cioè il proprio io, comunque sia poi esso costituito in sè stesso; quindi egli deve considerare sè stesso per quanto si riferisce alla pura percezione e recettività del senso, come appartenente al mondo sensibile, per quanto si riferisce a quanto può essere in lui pura attività, come appartenente a quel mondo intelligibile, che egli pure ulteriormente non conosce„.

62) [p. 50,15]. Nella Dissertazione del 1770 allo spazio è fatta corrispondere la geometria, al tempo la meccanica pura: all’aritmetica corrisponde invece il concetto del numero, che è un concetto intellettivo, ma può essere realizzato solo col sussidio dello spazio e del tempo (Diss., § 12). Nella Critica e nei Prolegomeni permane la stessa indecisione, rispetto alla scienza corrispondente alla forma del tempo, tra la meccanica pura e l’aritmetica. G. Schultz vi fa corrispondere l’aritmetica e la matematica generale (Prüfung, II, 237); soluzione che è stata poi generalmente adottata dalla scuola kantiana; si cfr. Vaihinger, Comm., II, 387 ss.

63) § 12. Nel resto di questa prima parte Kant conferma e chiarisce la soluzione da lui proposta (§ 12-13, Osservaz. I) e si difende contro l’accusa di idealismo (Osserv. II-III). — Nel § 12 per confermare che a principio della matematica sta veramente un’intuizione a priori, Kant adduce alcuni esempi di quelle intuizioni fondamentali, che sopra (nota 56) abbiamo veduto costituire il punto di partenza della costruzione matematica: dell’uguaglianza delle figure coincidenti, delle tre dimensioni dello spazio, della possibilità di prolungare una linea od una serie all’infinito.

64) [p. 51,33]. In quale rapporto stanno le recenti speculazioni metageometriche con questa affermazione di Kant e in genere con la sua teoria dello spazio come forma a priori dell’intuizione? Secondo alcuni esse hanno segnato la condanna definitiva della teoria kantiana (Schiller, Humanism, 85 ss.): in genere vige anche presso i matematici la tendenza a considerare in conseguenza di ciò la nostra forma dello spazio come un’acquisizione empirica. La geometria euclidea non è necessaria più di quello che sia necessario il sistema metrico decimale di fronte ai sistemi antichi, ma è soltanto la più comoda perchè la più semplice e la più conforme alle proprietà dei solidi naturali (Poincaré, Science et hypothèse,49 ss. Liebmann (Zur Anal. d. Winklichkeit4, 1911, 74 ss.) ha mostrato con molta chiarezza come la teoria kantiana possa rimanere perfettamente indifferente di fronte a questa “scienza di tutte le forme possibili dello spazio„ che Kant stesso, del resto, aveva già preannunciato (Ged. v. d. wahren Schatzung, ecc., § 9-11). Secondo la dottrina critica gli assiomi della geometria non sono necessità logiche, ma intuitive, condizioni indeclinabili della nostra intuizione: le quali non escludono che per altri esseri, diversamente costituiti, possano sussistere altre condizioni, altre forme, delle quali però non possiamo farci alcuna rappresentazione concreta (Kr. r. Vern., 55-56). Quindi, per quanto il nostro spazio euclideo non sia che un caso molto speciale, del quale non vediamo logicamente la necessità in rapporto con gli altri casi possibili, esso è per l’intuizione nostra una condizione assolutamente necessaria. Noi possiamo bene rappresentarci degli esseri che vivano, come l’ombra dell’uomo nel noto scherzo di Fechner, in uno spazio a due dimensioni, cioè su d’una superficie piana o sferica, perchè non si tratta in questo caso che di astrarre dalla forma dell’intuizione che noi possediamo: ma uno spazio a tre dimensioni diverso dal nostro o uno spazio a più di tre dimensioni non possono venir costruiti che in astratto o simbolicamente rappresentati per mezzo di elementi tolti al nostro spazio. “Gli assiomi geometrici, scrive il Simmel, sono così poco logicamente necessari come la legge causale, si possono pensare spazi, e quindi geometrie, nei quali valgono tutt’altri assiomi che i nostri, come ha mostrato la geometria antieuclidea nel secolo dopo Kant. Ma essi sono incondizionatamente necessari per la nostra esperienza perchè essi solamente la costituiscono. Helmholtz errò quindi completamente nel considerare la possibilità di rappresentarci senza contraddizione spazi nei quali non valgano gli assiomi euclidei come una confutazione del valore universale e necessario di questo, da Kant affermato. Poiché l’apriorità kantiana significa solo universalità e necessità per il mondo della nostra esperienza, una validità non logica, assoluta, ma ristretta alla cerchia degli oggetti sensibili... Le geometrie antieuclidee varrebbero a confutare l’apriorità dei nostri assiomi solo quando alcuno fosse riuscito a raccogliere le sue esperienze in uno spazio pseudosferico od a riunire le sue sensazioni in una forma di spazio, nel quale non valesse l’assioma delle parallele„ (Simmel, Kant, 1905, 18-19), si cfr. anche Masci, Le forme dell’intuizione, 1881, 46 ss. — In secondo luogo, secondo la dottrina critica queste necessità intuitive sono a priori, ossia sono tali che, condizionando esse necessariamente ogni nostra esperienza, non è possibile costruirle, derivarle nel seno dell’esperienza. Certo la forma dello spazio non è un a priori nel senso che essa abbia anteceduto nel tempo ogni esperienza in genere; il fatto che noi possiamo fino ad un certo segno analizzarla psicologicamente nei suoi fattori e nella sua genesi mostra che essa è, dal punto di vista psicologico, una forma acquisita dello spirito. Ma è a priori nel senso che quest’acquisizione è un’acquisizione originaria, è l’acquisizione di qualche cosa che non solo condiziona attualmente con la più assoluta necessità ogni nostra esperienza intuitiva, anche quelle per mezzo delle quali si vorrebbe derivarla o costruirla; ma la condiziona come qualche cosa che doveva essere indipendentemente da quest’esperienza, perchè lo spirito l’ha generato da sè nel corso dell’esperienza come una propria necessità interiore, non l’ha accolta dall’esterno come un dato. Coloro che credono di poter fondare gli assiomi della geometria sull’esperienza o su d’una convenzione utile o su particolarità della struttura fisiologica, non tengono abbastanza presente che le esperienze da essi invocate presuppongono già tutte quella costituzione particolare del mondo dell’esperienza che se ne vorrebbe derivare. Quindi tutte le loro esplicazioni o riescono ad un circolo vizioso o sono al più da considerarsi come traduzioni nel linguaggio dell’esperienza d’una parte d’un processo che in sè trascende l’esperienza. Questa affermazione del valore incondizionato dell’a priori spaziale per la nostra esperienza è della più alta importanza, in quanto separa recisamente il punto di vista trascendentale, critico, da quello empirico. Secondo l’empirismo la costituzione della forma dello spazio è un fatto che non differisce da qualunque altro fatto dell’esperienza e può pretendere ad un’universalità di fatto, non di diritto: anzi, sotto un tale aspetto, può avere un valore pratico, non teoretico. Secondo il punto di vista critico, invece, la distinzione dell’a priori nell’esperienza è una distinzione di valore: la costituzione d’un principio formale è la rivelazione d’un valore teoretico più alto, che, pur essendosi svolto nel corso dell’esperienza, non ne deriva, anzi si impone ad essa come una necessità, che rivela un’universalità di diritto e non soltanto di fatto: la sua idealità non ne fa un travestimento, ma anzi una rivelazione più perfetta della realtà —. Anche in questo secondo punto, quando si tenga presente la distinzione delll'a priori intuitivo e dell’a priori logico, le conclusioni della metageometria non hanno nulla che contraddica alla teoria kantiana.

65) [p. 52, 9]. “Deduzione trascendentale, vale quanto legittimazione, dimostrazione che una rappresentazione od un concetto ha valore obbiettivo, è un elemento costitutivo dell’esperienza. La deduzione trascendentale del tempo e dello spazio ha luogo col mostrare come le intuizioni pure del tempo e dello spazio si applichino necessariamente all’esperienza, perchè senza di esse non è possibile esperienza alcuna.

66) [p. 52, 10]. Il tempo e lo spazio sono intuizioni pure, non concetti (Kr. r. Vern., 57 ss.). Tuttavia Kant dimentica qualche volta questa distinzione terminologica e considera l’intuizione pura come un concetto. Così anche in Diss., § 15 cConceptus spatii itaque est intuitus purus, cum sit conceptus singularis, sensationibus non conflatus, sed omnis sensationis externae forma fundamentalis„.

67) § 13. Qui Kant adduce una novella prova della sua affermazione che lo spazio è una forma dell’intuizione. Egli cita il caso di due figure perfettamente uguali nei loro rapporti interni, ma incongruenti (come le due mani). Questo esempio era già stato da lui considerato nella Dissert. del 1768: “Del fondamento primo della distinzione delle direzioni nello spazio„, per dimostrare che lo spazio non può essere costituito soltanto dai rapporti interni delle parti (che sono identici nella destra e nella sinistra): la diversità degli oggetti incongruenti non può essere esplicata se non ammettendo un rapporto degli oggetti con lo spazio unico ed assoluto — il quale rapporto, poiché lo spazio assoluto non è percepito, non ci appare direttamente, ma nella sua opposizione con quello di altri corpi. “Noi vogliamo quindi dimostrare: che la determinazione perfetta d’una figura corporea non riposa soltanto sul rapporto e sulla posizione reciproca delle sue parti, ma ancora inoltre sul rapporto suo con lo spazio universale assoluto così come i geometri lo pensano: in modo tuttavia che questo rapporto non è percepito direttamente, ma bensì in quelle differenze dei corpi che hanno unicamente tale rapporto per fondamento„ (W., II, 381). L’esempio è anche riferito in breve nella Dissert. del 1770 (§ 15): qui Kant corregge e completa l’argomentazione secondo il nuovo indirizzo del suo pensiero. La differenza di due figure incongruenti non può essere esplicata dall’intelletto, si e veduto, prendendo semplicemente in considerazione le due figure nella loro costituzione interna: onde la necessità di metterle in rapporto con lo spazio nella sua totalità, ecc. Ma questo ci prova ancora che gli oggetti spaziali non sono cose in sè: perchè in tal caso dovrebbero esistere ed essere perfettamente compresi nella loro costituzione e nei loro rapporti ciascuno per sè stesso. Questa necessità di determinare ogni singolo per mezzo del suo rapporto intuitivo con la totalità mostra che si tratta di fenomeni: la totalità, di fronte alla quale due cose uguali quanto ai rapporti interni possono trovarsi in rapporto diverso, e quindi anch’essa qualche cosa di fenomenico e così non uno spazio puro in sè, ma una forma del senso, l'intuizione pura dello spazio.

68) Oss. Iª. In questa Osservazione Ia Kant mostra come solo la teoria delle forme a priori dell’intuizione possa assicurare il valore obbiettivo della matematica. Se i principii fondamentali della matematica fossero soltanto convenzioni arbitrarie che lo spirito nostro applica ad un mondo di cose in sè da essi indipendenti, mancherebbe ogni certezza intorno al valore di questi principii e delle loro conseguenze in rapporto alla realtà sensibile. Tale valore è invece perfettamente esplicabile, se essi costituiscono nel loro complesso una forma a priori dell’intuizione, se sono le leggi necessarie d’un mondo fenomenico, il quale non può pervenire alla realtà altrimenti che per esse.

69) [p. 54,36]. Questi matematici, che erano anche filosofi, sono Leibniz ed i monadisti. Leibniz certamente considerava i principii della matematica pura come verità necessarie innate e non come creazioni arbitrarie dell’immaginazione e non aveva posto in dubbio il valore della loro applicazione alla realtà sensibile. Vi è però già qui nel suo pensiero un punto oscuro che giustifica il rimprovero a lui mosso da Kant. Per Leibniz le cose in sè sono esseri di natura immateriale (monadi) costituenti un sistema intelligibile, che al senso dell uomo appare come un mondo materiale esteso. Il sistema dei rapporti spaziali dovrebbe essere quindi puramente subbiettivo, una traduzione analogica, nel soggetto percipiente, di certi rapporti intelligibili fra le monadi. Questa è la soluzione più coerente e più logica, Talora invece già in Leibniz, più spesso nei suoi seguaci, compare un’altra soluzione: i rapporti fra le monadi corrispondenti ai nostri rapporti spaziali, costituiscono già obbiettivamente nelle monadi un mondo di rapporti spaziali, una specie di spazio ideale, che è il corrispondente obbiettivo del nostro spazio sensibile. Ad ogni modo però anche in questo caso lo spazio ideale è tutt’altra cosa dello spazio sensibile. Cfr. Platner, Lehrb. d. Logik und Metaph., 1795, § 370: “A questo spazio subbiettivo viene posto a fondamento, come materia soprasensibile, l’ordine delle sostanze coesistenti. Quest’ordine può venir chiamato esso medesimo spazio: ma è allora lo spazio ideale, non lo spazio concretato nell’estensione, quindi non lo spazio del quale la dottrina kantiana afferma la soggettività„. Donde viene allora alla geometria il suo concetto dello spazio? Poiché lo spazio puro della geometria, sia pur esso astratto quanto si vuole, è pur sempre lo spazio intuitivo, non lo spazio intelligibile, esso deve necessariamente venir posto come una “finzione ideale„, una costruzione dell’immaginazione da materiali ricevuti per mezzo dell’esperienza. “In geometria acquiescimus in notione extensionis, qualis a sensu in imaginationem derivatur, consequenter ab imaginibus pendet omnis cognitio„ (Wolff, Psych. ration., § 102). I successori di Leibniz e di Wolff, che, pur ritenendone la concezione metafisica nelle sue linee fondamentali, erano venuti facendo una parte sempre più larga all’esperienza fino a rinunciare affatto alla possibilità stessa d’una filosofia derivata a priori da concetti, si pronunciarono anche più decisamente per questa derivazione empirica; la matematica riposa su astrazioni ricavate dall’esperienza, come ogni concetto empirico, ed ha una chiarezza ed evidenza maggiore della conoscenza filosofica soltanto per l’estrema semplicità e trasparenza delle nozioni astratte, sulle quali opera. Le sue deduzioni possono quindi avere una necessità logica intrinseca, senza che possano pretendere ad una assoluta validità obbiettiva: “non vi è alcun motivo a concludere che il reale nello spazio sia divisibile all'infinito, anche se in un certo senso si concedesse che lo spazio sia tale » (Feder, Ueber Baum und Kausalität., 1787, 5). “Contro questo principio d'una divisione infinita della materia, la cui dimostrazione è puramente matematica (scrive Kant nella Kr. r. Vern., 305), vengono dai monadisti opposte obbiezioni, le quali già per questo si rendono sospette, che esse non vogliono accettare le più chiare dimostrazioni matematiche per conoscenze della costituzione dello spazio, in quanto esso è in fatto la condizione della possibilità di ogni materia, ma le considerano solo come deduzioni da concetti astratti ed in medesimo tempo arbitrarii, le quali non si potrebbero riferire agli oggetti reali.... Se li si ascolta, si dovrebbe, oltre al punto matematico che è semplice, ma non è parte, bensì limite d’uno spazio, pensare anche dei punti fisici, che sono bensì anche semplici, ma hanno il privilegio, come parti dello spazio, di riempirlo per la loro semplice aggregazione„. Si cfr. anche Kr. r. Vern., 131.

70) [p. 55, 23]. Accetto qui la correzione del Vaihinger, Comm., II, 419.

71) Oss. IIª. Nelle osservazioni II e III Kant si difende contro l’accusa di idealismo. La parola “idealismo„ è presa qui da Kant nel senso allora corrente: e cioè come la concezione la quale nega che il mondo materiale esista all’infuori degli spiriti percipienti, nè in quella forma nella quale è percepito, ne in altra forma, nella quale esista in sè come fondamento del mondo percepito. Essa considera così il mondo come una creazione della nostra facoltà rappresentativa o come la copia, negli spiriti finiti, dell’idea del mondo esistente nello spirito infinito (Platner, Lehrb. d. Log. u. Metaph., § 359). Nella osservazione II Kant oppone, con un linguaggio forse troppo crudamente realistico, che anch’egli ammette l’esistenza d’un fondamento in sè delle rappresentazioni nostre, per quanto a noi ignoto; e che la dottrina sua non differisce da quella del realismo scientifico, se non in quanto egli pone nel soggetto anche le qualità primarie, rimanendo sempre inalterata la realtà dell’oggetto in sè. Può chiamare idealismo questo (dice Kant) solo chi aderisce al più grossolano realismo e cioè vuole, p. es., che lo spazio percepito sia una copia dello spazio reale — ciò che non ha senso.

La dottrina monadistica concedeva anch’essa che ci è impossibile pensare sostanze materiali in sè esistenti e che le proprietà fondamentali della materia non hanno valore obbiettivo; ma era dai suoi seguaci difesa contro l’accusa di idealismo, in quanto essa pone, nelle monadi, un sistema di esseri conoscibili, che sono il reale fondamento del mondo sensibile, del quale è possibile controllare il valore obbiettivo come si fa d’una traduzione della quale si possegga il testo. La concezione kantiana invece ponendo il fondamento in sè della rappresentazione come inconoscibile veniva a confondersi, in questo punto, con l’idealismo berkeleyano; se il mondo sensibile non è che un complesso di rappresentazioni soggettive senza controllo obbiettivo, che cosa distingue allora in esso la realtà dal sogno? Non è possibile allora ridurre tutto il mondo sensibile ad un’apparenza? Contro questa obbiezione si difende Kant nella Osservazione III mettendo in rilievo ciò che caratterizza l’idealismo trascendentale e lo distingue dal berkeleyano. Il porre il mondo sensibile come un complesso di rappresentazioni non vuol dire che esso sia vero o falso; il fenomeno per sè non è nè vero nè falso. La distinzione del vero e del falso, della realtà e del sogno è introdotta nel campo dei fenomeni dall’intelletto; e non per mezzo d’una fantastica comparazione dei fenomeni con le cose in sè, ma per mezzo del collegamento dei fenomeni in un ordine obbiettivo secondo “le regole della verità„, ossia secondo i principii a priori dell’intelletto stesso. La teoria che caratterizza l’idealismo trascendentale e cioè il riconoscimento di principii a priori che organizzano le parvenze fenomeniche in un’esperienza obbiettiva legittima così la distinzione fra verità ed apparenza: questa rimane come nell’opinione volgare, solo riceve un altro fondamento. Con questo duplice vantaggio però: che la nostra teoria del mondo sensibile come realtà fenomenica condizionata dalle forme a priori dello spazio e del tempo ci permette di spiegarci il valore obbiettivo assoluto delle proposizioni matematiche; e che elimina l’illusione metafisica, la quale procede dall’estendere oltre i limiti dell’esperienza le forme dello spazio e del tempo e in genere ciò che vale della sola esperienza. In ultimo, protestando contro i suoi critici, Kant conclude alla necessità di distinguere il suo proprio idealismo trascendentale o critico o formale da ogni altra forma di idealismo che renda impossibile la distinzione della realtà obbiettiva dall’apparenza, sia col negare la possibilità di stabilire il valore obbiettivo dell’esistenza del mondo esterno (idealismo empirico o scettico o problematico), o col porne il fondamento in un inaccessibile mondo trascendente di volontà o di idee divine (idealismo mistico o dogmatico o fantastico). Del resto, se ben si medita, più stravagante della tesi dell'idealismo fantastico è quella del realismo volgare; il primo pone al posto delle cose un mondo di pure rappresentazioni, ma il secondo trasforma il mondo delle rappresentazioni in un mondo di cose in sè: perciò Kant lo chiama un idealismo sognante. Questa digressione sull’idealismo dev’essere confrontata con ciò che dice Kant nel § 49, nell’appendice (374 ss.), nella Confutazione dell’idealismo nelle sue due redazioni (Kr. r. Vern., 190-193, ib., 1ª ed. 232-238) e nella soluzione delle antinomie (ib., 338-342). In questi passi della Critica Kant svolge meglio la sua difesa dell’idealismo trascendentale, mostrando come esso solo sia in grado di assicurare la realtà obbiettiva del mondo esterno. Quando si cerca il fondamento dell’obbiettività non in un certo ordine interno delle rappresentazioni, ma nel loro rapporto esterno con una realtà trascendente (realismo trascendentale) si pone subito il problema: come possiamo noi venire a contatto di questa? Tra noi e le cose in sè si apre un abisso insuperabile. Ecco perchè allora si dubita della nostra capacità di conoscere gli oggetti e si riduce il mondo della rappresentazione ad una pura apparenza subbiettiva (idealismo empirico). Se invece l’obbiettività è fondata su di un certo ordine interno delle rappresentazioni ad esse imposto a priori dallo spirito, nel mondo della rappresentazione così ordinato ci è data immediatamente una realtà obbiettiva; esso non è soltanto più un caos di apparenze subbiettive, ma si identifica con quel mondo stesso di oggetti che siamo soliti a contrapporre all’apparenza (realismo empirico). Così l'idealismo trascendentale conduce al realismo empirico, ci dà ragione del valore obbiettivo da noi attribuito all’esperienza esterna in confronto del sogno e dell’illusione e lo legittima; il realismo trascendentale invece conduce all’idealismo empirico, che anche Kant riprova e dal quale vuole energicamente sia distinto il suo idealismo trascendentale.

Dall’identità della rappresentazione e dell’oggetto qui insegnata Kant trae però un’altra conseguenza che dà al suo idealismo una ben più ampia portata ed un senso più profondo. La realtà obbiettiva ci è immediatamente data con la rappresentazione stessa: il mondo esterno non è che la stessa nostra esperienza esterna, come il mondo nostro interiore è la stessa nostra esperienza interna. Ma non bisogna dimenticare che l’esperienza è conoscenza di fenomeni, non di cose in sè: tanto la realtà obbiettiva del mondo quanto la realtà obbiettiva dell’io non sono quindi che la manifestazione fenomenica d’un mondo di cose in sè, che è a fondamento del mondo fenomenico. Mentre quindi l’idealismo empirico nelle sue varie forme crede di avere nell’esperienza interiore la conoscenza d’una realtà assoluta e nell’esteriore la traduzione subbiettiva d’un mondo obbiettivo esterno, per l’idealismo trascendentale la stessa esperienza esteriore è già quel mondo obbiettivo e non un’apparenza, una fantasmagoria subbiettiva che debba attendere dall’esterno la conferma del suo valore: ma l’una e l’altra esperienza, il mondo interno cioè e il mondo esterno nella sua obbiettività non sono che la manifestazione fenomenica d’una realtà in sè che li trascende. Tanto l'io quanto il mondo hanno una realtà empirica immediata: ma questa realtà empirica non ne esclude l’idealità trascendentale.

72) [p. 57,8]. Qui Kant mette in rilievo la distinzione fra la sua teoria e la teoria leibniziana del senso. I leibniziani stabilivano fra il senso e l’intelletto una semplice distinzione quantitativa nella chiarezza: la conoscenza sensibile è la conoscenza d’un grande numero di elementi che lo spirito abbraccia d’un colpo e perciò in modo confuso e indistinto: la stessa conoscenza, quando venga dall’analisi ristretta ad un singolo elemento, diventa chiara e distinta e dicesi conoscenza intellettiva. Kant invece pone tra il senso e l’intelletto una differenza specifica, qualitativa: le forme proprie della conoscenza sensibile rendono impossibile quella transizione insensibile tra il senso e l’intelletto che i leibniziani ammettono (Cfr. Diss., § 7). Altro è quindi il senso della parola “fenomeno„ in Leibniz ed in Kant. Si cfr. Kr. r. Vern., 220-1: “(Leibniz) non considerò come originarie le condizioni dell’intuizione sensibile che portano con sè una differenziazione specifica; poiché la sensibilità era per lui solo una rappresentazione confusa e non una sorgente speciale di rappresentazioni; la conoscenza fenomenica era per lui rappresentazione della cosa in sè, sebbene distinta per la forma logica dalla conoscenza intellettiva, in quanto cioè la prima per l’abituale difetto di analisi porta con sè nel concetto della cosa una certa mescolanza di rappresentazioni accessorie che l’intelletto sa invece separare„. Si veda anche la Dissert. § 5, 7 e lo scritto contro Eberhard, Ueber eine Entdeckung etc. (ed. Vorl.), 28 ss.

73) [p. 60,16]. Vedi su Berkeley anche Proleg., 374 ss. e Kr. r. Vern., 190. Che Kant non abbia correttamente interpretato Berkeley e sia stato verso di lui anche in parte ingiusto fu già rilevato dai suoi avversari, p. es. da Herder nella Metakritik, 1799, 403 ss. Kant non ebbe un chiaro concetto dell’immaterialismo berkeleyano e quindi non vide sempre esattamente la differenza tra questo e la dottrina sua propria. Tale differenza non si può far consistere in ciò che per Kant i fenomeni hanno il loro fondamento in una cosa in sè, perchè anche in Berkeley le idee del mio spirito hanno il loro fondamento nella volontà dello spirito eterno, il quale suscita nel mio spirito quelle idee, che io chiamo cose, secondo le leggi che egli stesso si è posto. La vera differenza sta piuttosto in ciò, come acutamente espone il Beck in una lettera a Kant stesso (Kant’s, Briefwechsel, 1900, II, 369): che mentre l’idealismo da Kant ripudiato distingue recisamente fra un mondo intelligibile, al quale riserba l'obbiettività, ed un mondo sensibile, il quale non può essere che un fluire inconsistente di parvenze subbiettive, Γidealismo kantiano stabilisce una gradazione di obbiettività e di realtà: la realtà ultima, il fondamento di ogni obbiettività è certo il mondo inconoscibile delle cose in sè, ma anche il mondò sensibile — il solo a noi accessibile — ha un’obbiettività propria per virtù dei principii formali a priori che costituiscono dai dati sensibili il mondo regolare dell’esperienza. “Si può dire: per Berkeley le cose che sono nello spazio sono dipendenti dall’io empirico, per Kant dal trascendentale. Quindi per quello sono pura apparenza, per questo sono fenomeno, intesa questa parola in senso obbiettivo, in modo che questi oggetti fenomenici sono, di fronte all’io empirico, per sè stanti ed indipendenti„ (Vaihinger, Comm., II, 55). Si cfr. Proleg., 374.

74) [p. 60,34]. Si cfr. Prol., § 35. La fantasticheria (Schwärmerei) filosofica consiste nel “dogmatizzare con la ragion pura nel campo del soprasensibile„ (Was heisst sich im Denken orientieren, 153, Anm.); cfr. Kr. pr. Vern., 85.


Note di Kant

*1. Vedi Critica, p. 713 (2a ed., p. 741).



Ultima modifica 2021.07