[Indice dei Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza]
[265] Quando si espone un dato sapere sotto forma di scienza, bisogna prima determinare in modo preciso che cosa è che caratterizza questa particolare scienza, quale è la particolarità che la distingue da tutte le altre: chè in caso contrario i confini di tutte le scienze si confondono e nessuna di esse può venir trattata a fondo secondo la sua propria natura.
Sia che questa particolarità risieda nella differenza dell’oggetto20 o delle fonti conoscitive oppure del metodo o in alcune od anche in tutte queste differenze unite, e su di essa che si fonda l’idea della futura scienza e del suo territorio.
Ora in primo luogo, per ciò che riguarda le fonti del sapere metafisico, e già implicito nel concetto di questo che esse non possono essere fonti empiriche21. I principii suoi (per essi intendo non solo gli assiomi, ma anche i concetti fondamentali della metafisica) non devono quindi mai essere ricavati dall’esperienza: perchè il sapere metafìsico è sapere non fisico, sapere che e al di là dell’esperienza. Onde nè l’esperienza esteriore, che è la fonte della fisica vera e propria, nè l’interiore, che è a base della psicologia empirica, possono mai servirgli di fondamento. [266] Esso è sapere a priori22, sapere derivato dall’intelletto puro e dalla ragione pura23.
In questo esso non si differenzierebbe per nulla dalla matematica pura; io lo chiamerò pertanto sapere filosofico puro, riferendomi per il senso di quest’espressióne alla pag. 712 e ss. della Critica della Ragion pura, dove è esposta chiaramente e con sufficiente ampiezza la differenza di queste due specie di sapere razionale. — E questo basti circa le fonti del sapere metafisico24.
a) Distinzione generica dei giudizi in analitici e sintetici.
Che il sapere metafisico debba risultare di semplici giudizi a priori, discende dalla natura della sua fonte. Ora tutti i giudizi, abbiano l’origine che vogliono, abbiano la forma logica che vogliono, si distinguono in rapporto al loro contenuto secondo che sono puramente esplicativi e non aggiungono al contenuto della conoscenza nulla di nuovo, oppure ampliativi ed estendono la conoscenza data: i primi si possono chiamare analitici26, gli altri sintetici.
I giudizi analitici non esprimono nel predicato niente di più di ciò che era già realmente pensato nel concetto del soggetto27, sebbene non così chiaramente e consapevolmente. Quando io dico “tutti i corpi sono estesi„, io non ho ampliato per nulla il mio concetto di corpo, ma l’ho soltanto analizzato, in quanto l’estensione era già implicitamente pensata in quel concetto, sebbene non espressamente rilevata: il giudizio è quindi analitico. Invece la proposizione “alcuni corpi sono pesanti„ contiene nel predicato qualche cosa che non è realmente pensato nel concetto generale di corpo: esso amplia il mio sapere [267] aggiungendo al mio concetto qualche cosa di nuovo e può dirsi per conseguenza un giudizio sintetico.
b) Il principio fondamentale comune dei giudizi analitici è il principio di contraddizione28.
Tutti i giudizi analitici riposano completamente sul principio di contraddizione e sono per natura loro conoscenze a priori, sia che il concetto, che loro serve di materia, sia o non sia di origine empirica. Perchè, essendo il predicato d’un giudizio analitico positivo già prima pensato nel concetto del soggetto, esso non può venir di lui negato senza contraddizione; del pari il suo contrario viene necessariamente negato del soggetto in un giudizio analitico, ma negativo; e ciò egualmente in virtù del principio di contraddizione. Così è, p. es., dei due giudizi: “ogni corpo è esteso„ e “nessun corpo è inesteso (semplice)„.
Per questo tutte le proposizioni analitiche sono giudizi a priori, anche se i loro concetti sono empirici, come per es., in questa: “l’oro è un metallo di color giallo„; poiché per saper ciò io non ho bisogno di altre esperienze, ho bisogno soltanto del mio concetto dell’oro, il quale contiene in sé l’affermazione che sia un metallo e di colore giallo; questi elementi appunto entravano a costituire il mio concetto ed io non ho avuto che a scomporlo, senza dover rivolgere il mio occhio altrove, fuori del concetto stesso.
c) I giudizi sintetici hanno bisogno d’un altro principio che non il principio di contraddizione.
Vi sono giudizi sintetici a posteriori la cui origine è empirica; ma ve ne sono anche di quelli che sono certi a priori e che hanno origine dall’intelletto puro e dalla ragione pura. Gli uni e gli altri però concordano in ciò, che non avrebbero mai potuto aver luogo in virtù del solo principio dei giudizi analitici, ossia del principio di contraddizione: essi esigono ancora un tutt’altro principio29, sebbene, qualunque sia il principio dal quale derivano, debbano sempre venirne derivati in accordo col principio di contraddizione; perchè niente può ad esso contraddire, sebbene certo non tutto se ne possa derivare. Dividiamo ora i giudizi sintetici in classi.
1) [268] I giudizi d’esperienza30 sono sempre sintetici. Perchè sarebbe assurdo fondare un giudizio analitico sull’esperienza, dal momento che io non ho bisogno di uscire dal mio concetto per formare il giudizio e quindi non ho bisogno della testimonianza dell’esperienza. Che un corpo è esteso, è un principio che vale a priori, non un giudizio d’esperienza. Perchè prima che io venga all’esperienza, ho già nel concetto tutte le condizioni richieste pel mio giudizio; non ho che da svolgere il predicato secondo il principio di contraddizione e così portare alla coscienza anche la necessità del giudizio, ciò che l’esperienza non mi potrebbe dare mai.
2) I giudizi matematici sono tutti sintetici31. Questo principio sembra essere finora sfuggito ai notomizzatori della ragione umana, anzi essere diametralmente opposto a tutte le loro congetture, per quanto sia in sè indiscutibilmente certo e conduca ad importantissime conseguenze. Siccome si vedeva che i ragionamenti dei matematici procedono tutti secondo il principio di contraddizione (ciò che per propria natura richiede ogni certezza apodittica), si venne nella persuasione che anche gli assiomi venissero conosciuti in virtù del principio di contraddizione — ciò che costituisce un grave errore; perchè una proposizione sintetica può benissimo venir appresa in accordo col principio di contraddizione32, ma non in sè stessa, bensì solo in quanto è presupposta un’altra proposizione sintetica dalla quale essa discende.
Anzitutto deve essere notato questo: che le proposizioni matematiche vere e proprie sono sempre giudizi a priori, non empirici, perchè implicano una necessità che l’esperienza non può dare. E se non mi si vuol concedere questo, sia pure: io limito la mia affermazione alla matematica pura, il cui concetto già porta con sè che sia costituita non di conoscenze empiriche, ma di sole conoscenze pure a priori.
Ben si potè da principio credere che la proposizione 7 + 5 = 12 sia una semplice proposizione analitica deducibile secondo il principio di contraddizione dal concetto della somma di sette e cinque. Ma, se si considera meglio la cosa, si vede che il concetto della somma di sette e cinque non contiene niente di più che l’unione dei due numeri in uno solo, con il che non è ancora niente affatto pensato questo numero unico che li comprende entrambi. Il concetto “dodici„ non è in nessun modo già implicato nel puro concetto di quella addizione di sette e cinque ed io posso analizzare finchè voglio il concetto di questa possibile somma, [269] ma non vi trovo certo il numero “dodici„. Si deve a questo fine uscire da questi concetti chiamando in aiuto l’intuizione che corrisponde ad uno dei due numeri, p. es., le proprie cinque dita o (come insegna Segner nella sua Aritmetica33) cinque punti e così aggiungere successivamente le unità date nell’intuizione del numero cinque al concetto del numero sette. Con la proposizione 7 + 5 = 12 si amplia quindi realmente il concetto del soggetto34, in quanto si aggiunge ad esso un altro concetto che non era affatto implicato nel primo: il che vuol dire che le proposizioni aritmetiche sono sempre sintetiche. Ciò si vede ancor più chiaramente quando si tratta di numeri un poco grandi: perchè allora è di tutta evidenza che, giriamo e volgiamo il nostro concetto come vogliamo, non potremo mai per via della semplice analisi di concetti, senza ricorrere all’intuizione, trovare la somma.
Del pari nessun principio della geometria pura è analitico. La proposizione che la retta è la linea più breve fra due punti35 è sintetica. Poiché il mio concetto della retta non implica niente circa la grandezza, ma solo una qualità. Il concetto della “linea più breve„ è qualche cosa di nuovo che si aggiunge e non potrebbe per nessuna scomposizione venir derivato dal concetto della retta. Qui deve intervenire l’intuizione, per mezzo della quale soltanto è possibile la sintesi dei due concetti.
Vi sono, è vero, alcuni altri principii, che sono presupposti dai geometri e che sono realmente analitici e si fondano sul principio di contraddizione: ma essi servono solo, come proposizioni identiche, a concatenare metodicamente il resto e non sono veri principii matematici; come p. es. a = a, ossia il tutto è uguale a se stesso, oppure (a + b) > a, ossia il tutto è maggiore d’una sua parte. E tuttavia anche questi principii, sebbene traggano il loro valore dall’analisi dei concetti, vengono ammessi nella matematica solo in quanto possono venir rappresentati nell’intuizione. Ciò che nella matematica fa credere comunemente che nei suoi giudizi apodittici il predicato sia già contenuto nel concetto nostro, che fa da soggetto, e quindi il giudizio sia analitico, e solo un’ambiguità nella espressione. Noi dobbiamo infatti col pensiero aggiungere ad un dato soggetto un certo predicato e questa necessità è inerente ai concetti. Ma la questione non è di vedere che cosa dobbiamo aggiungere col pensiero al concetto dato, ma che cosa realmente noi già pensiamo, sia pure confusamente, in esso; e allora si vedrà che il predicato inerisce a quel concetto necessariamente bensì, ma per mezzo d’un’intuizione sopravveniente, non immediatamente.
[272] Ciò che distingue essenzialmente la conoscenza matematica pura da ogni altra conoscenza a priori è questo, che essa procede sempre non da concetti, ma per costruzioni36 di concetti (Critica, p. 713). Poiché quindi essa nelle sue proposizioni deve trapassare dal concetto a ciò che contiene l’intuizione ad esso corrispondente, quelle non possono e non debbono mai aver origine per scomposizione di concetti, cioè per via analitica, e sono tutte proposizioni sintetiche.
Io non posso qui non far notare il danno che alla filosofia è venuto dall’aver negletto quest’osservazione, che pur sembra così facile ed insignificante37. Hume quando si sentì attratto verso quel vero e degno compito d’un filosofo, che è l’esame della ragione, e gettò i suoi sguardi su tutto il regno della conoscenza pura a priori, nel quale l’intelletto umano pretende a tante conquiste, ne eliminò inavvertentemente un’intiera provincia, anzi la più considerevole e cioè la matematica, immaginandosi che la sua natura e per così dire la sua costituzione interiore riposasse su principii affatto diversi e cioè sul solo principio di contraddizione: e sebbene egli non avesse stabilito una divisione dei giudizi così formale ed universale o con gli stessi termini coi quali è stata qui da me posta, fu così appunto come se egli avesse detto: la matematica pura contiene solo proposizioni analitiche, la metafisica invece proposizioni sintetiche a priori. Ora in ciò egli errò gravemente e questo errore ebbe conseguenze decisive e funeste su tutto il suo pensiero. Perchè se ciò non fosse avvenuto, egli avrebbe ampliato la sua questione circa l’origine dei nostri giudizi sintetici bene al di là del suo concetto metafisico della causalità e l’avrebbe estesa anche alla possibilità della matematica come costruzione a priori: chè anche questa avrebbe egli dovuto considerare come di natura sintetica. [273] Ma allora non avrebbe più potuto in nessun modo far riposare i principii metafisici sulla pura esperienza, perchè così avrebbe sottoposto all’esperienza anche gli assiomi della matematica pura: ed egli era troppo perspicace per giungere a questo. La buona compagnia, in cui si sarebbe allora trovata la metafisica, l'avrebbe protetta contro il pericolo d’un trattamento troppo brutale: perchè i colpi diretti contro di essa avrebbero colpito anche la matematica, ciò che non era nè poteva essere nell’intenzione di Hume; e così il sagace filosofo sarebbe stato tratto a delle considerazioni analoghe a quelle che ora qui ci occupano, con la differenza che i pregi inimitabili della sua esposizione avrebbero conferito ad esse un ben altro valore.
3) I veri e proprii giudizi metafisici sono tutti sintetici38. Si deve distinguere i giudizi appartenenti alla metafisica dai veri e proprii giudizii metafisici. Fra quelli ve ne sono molti analitici, ma essi servono soltanto come strumento ai giudizi metafisici, che costituiscono esclusivamente il vero fine della metafisica e che sono tutti sintetici. Siccome alla metafisica appartengono certi concetti, p. es., quello di sostanza, così appartengono ad essa necessariamente anche i giudizi che hanno origine dalla semplice scomposizione di quelli, come p. es. il giudizio “la sostanza è ciò che esiste solo come soggetto„, etc.: noi cerchiamo appunto, per mezzo di parecchi simili giudizi analitici, di giungere ad una completa definizione dei relativi concetti. Ma poiché l'analisi dei concetti intellettivi puri (che sono i concetti appartenenti alla metafisica) non procede altrimenti che la scomposizione di tutti gli altri concetti, anche empirici, non appartenenti alla metafisica (p. es.: l’aria è un fluido elastico, la cui elasticità non è tolta da alcuna bassa temperatura a noi accessibile), è il concetto, non il giudizio analitico, che è propriamente metafisico. Invero, la metafisica giunge alle sue conoscenze a priori per un procedimento particolare e tutto suo, che deve perciò venir distinto da quelli che essa ha comuni con tutte le altre conoscenze intellettive: così p. es., la proposizione “tutto ciò che nelle cose è sostanza, è permanente„ è una proposizione sintetica e propriamente metafisica.
Quando si sono in precedenza raccolti secondo certi principii i concetti a priori che costituiscono il contenuto e come il materiale da costruzione della metafisica, la scomposizione di questi concetti ha una grande importanza: essa può anche venir esposta da sè come una parte speciale (una specie di philosophia definitiva) contenente puri giudizi analitici appartenenti alla metafisica, [274] separatamente da tutti i giudizi sintetici che costituiscono propriamente la metafìsica. Ed in realtà quelle analisi non hanno in nessun’altra disciplina una qualche utilità se non nella metafisica: dove hanno un valore in vista dei giudizi sintetici che debbono scaturire dai concetti prima così analizzati.
La conclusione del presente paragrafo è quindi questa: la metafisica ha da fare propriamente con proposizioni sintetiche a priori e queste sole ne costituiscono il fine; per il quale essa deve certamente ricorrere in più d’un caso anche all’analisi dei suoi concetti, e così a giudizi analitici, ma senza procedere in ciò altrimenti da tutte le altre discipline, che pure ricorrono all’analisi dei proprii concetti nell’unico intento di renderli più distinti. Ma la produzione di conoscenze a priori, fondate sull’intuizione come sui concetti, in sèguito anche — ed invero nella conoscenza filosofica39 — di giudizi sintetici a priori, è ciò che costituisce l’oggetto essenziale della metafisica.
Questa divisione è indispensabile nel riguardo della critica dell’umano intelletto e merita di essere considerata in essa come classica: altrimenti io non saprei che essa potesse ricevere altrove un’applicazione di qualche rilievo. E questa è, secondo me, la causa per la quale i filosofi dogmatici, che in generale hanno cercato la sorgente dei giudizi metafisici sempre solo nella metafisica stessa, non fuori di essa nelle leggi pure della ragione, trascurarono questa divisione, che sembra offrirsi da sè e, come il celebre Wolff41 e il sagace Baumgarten, che ne segue le orme, poterono cercare la prova del principio di ragion sufficiente, che è evidentemente sintetico, nel principio di contraddizione. Per contro io trovo già nel Saggio sull’intelletto umano di Locke un preludio a questa distinzione. Poiché nel 4° libro, cap. 3°, § 9 e ss., dopo di avere, poco innanzi, trattato delle diverse forme di collegamento delle rappresentazioni nei giudizi e delle loro fonti e distinto il collegamento fondato sulla identità o non identità (giudizi analitici) da quello fondato sulla coesistenza delle rappresentazioni in un soggetto (giudizi sintetici), confessa (nel § 10) che la nostra conoscenza (a priori) dell’ultima specie è molto ristretta e quasi nulla. Ma in tutto ciò che egli dice intorno a questa specie di conoscenza vi è così poca precisione, così poco ordine metodico, che non dobbiamo far le meraviglie se nessuno, nemmeno Hume, ne trasse occasione a considerare i giudizi da questo punto di vista. Perchè simili principii generali e tuttavia ben determinati non si imparano facilmente da altri, che ne abbiano avuto solo un oscuro presentimento. Bisogna esservi arrivati prima in virtù della propria riflessione per trovarli poi anche altrove, dove sicuramente non li si sarebbe trovati senza di ciò, perchè questi precursori non vedevano chiaramente essi medesimi l’idea che stava a fondamento delle loro osservazioni. Certo quelli che non sono capaci di pensare da sè possono poi bene esercitare la loro sagacia a scovare le verità, che sono state ad essi mostrate, in ciò che altri aveva già detto prima, dove tuttavia nessuno era riuscito prima a vederle.
Se vi fosse realmente una metafisica che potesse affermarsi come scienza, se si potesse dire: eccovi la metafisica, studiatela ed essa vi persuaderà irresistibilmente e per sempre delle sue verità, la presente domanda non avrebbe ragion d’essere e rimarrebbe solo un’altra domanda — più come prova della nostra sagacia che come dubbio sull’esistenza della cosa stessa — e cioè: come è possibile la metafisica? In che modo vi perviene la nostra ragione? Ora la ragione umana non è in questo caso tanto fortunata. Non si può indicare nessun libro, come si indicherebbe l’Euclide43, e dire: questa è la metafisica, qui troverete l’oggetto precipuo di questa scienza, la conoscenza d’un essere supremo e d’una vita futura, dimostrata per mezzo dei principii della ragione pura. Perchè ci si potrà invero indicare molte proposizioni, che sono apoditticamente certe e non sono mai state contestate: ma esse sono tutte analitiche e riflettono piuttosto i materiali sui quali la metafisica si costruisce, non costituiscono una vera estensione della conoscenza, ciò che invece dev’essere il vero e proprio fino della metafisica (§ 2, c). E se anche voi potete mostrarmi dei giudizi sintetici (p. es., il principio di ragion sufficiente), che non avete mai dimostrato con la ragione pura e cioè, com’era vostro dovere, a priori, ma che tuttavia vi sono facilmente concessi, voi cadete tuttavia, quando volete servirvene per il fine vostro, in affermazioni così instabili e malsicure, che in ogni tempo vediamo l'una metafisica contraddire all’altra o in riguardo ai giudizi stessi, o in riguardo alla loro dimostrazione, e così distruggere da sè la propria pretesa ad una validità duratura. Non v’è dubbio anzi che sono stati i tentativi di erigere una metafisica la causa prima dell’antichissima filosofia scettica: un indirizzo questo, nel quale la ragione è così crudelmente violenta in se stessa, che esso non avrebbe mai potuto sorgere se non da una perfetta disperazione della ragione in riguardo al compimento delle sue aspirazioni più essenziali. Poiché molto prima che si cominciasse a scrutare metodicamente la natura, già si era preso ad interrogare la ragione individuale, esercitata in una certa misura dalla stessa esperienza quotidiana: chè se le leggi di natura sono per solito difficili a scoprirsi, la ragione ci è tuttavia presente sempre; e così si era venuta raccogliendo alla superficie del sapere una certa metafisica, come una spuma, però in modo che si dissolveva appena raccolta per ricomparire quindi in altra forma alla superficie e venir di nuovo avidamente raccolta da qualcuno: mentre invece altri, in luogo di cercare nel profondo la causa di questo fenomeno, credevano di mostrarsi più saggi col deridere le vane fatiche dei primi.
[274] Stanchi così del dogmatismo che non ci insegna nulla44 e ad un tempo anche dello scetticismo che non ci promette nulla, nemmeno la pace d’una lecita ignoranza, stimolati dall’importanza d’un sapere, del quale non possiamo assolutamente far senza, e per lunga esperienza diffidenti di ogni conoscenza di questo genere che crediamo di possedere o che ci si offre sotto l’insegna della ragione pura, noi non abbiamo di meglio che proporci una questione critica, secondo la cui soluzione potremo regolare la nostra futura condotta, e chiederci: è possibile in genere la metafisica? A questa domanda si dovrà rispondere non con obbiezioni scettiche rivolte contro certe affermazioni d’una data metafisica (chè noi non ne presupponiamo per ora alcuna), ma con l’esame del concetto ancora problematico di questa stessa scienza.
Nella Critica della Ragion pura io ho cercato di risolvere il problema seguendo la via sintetica e cioè prendendo direttamente in esame la ragione pura e determinando secondo principii45 in questa sorgente del sapere gli elementi così come le leggi del suo uso puro. Questo lavoro è difficile ed esige un lettore ben risoluto a penetrare col pensiero a poco a poco in un sistema il quale non presuppone nulla come dato se non la ragione stessa e quindi, senza prendere le mosse da alcun fatto, cerca di svolgere la conoscenza dai suoi germi originarii. I Prolegomeni invece debbono essere una specie di introduzione preliminare: essi debbono piuttosto mostrare che cosa si deve fare per costituire realmente la scienza della ragione che non esporre la scienza stessa. Quindi essi debbono partire da un punto che sia famigliare e sicuro, [275] dal quale si possa prendere con fiducia le mosse per risalire alle fonti che ancora non si conoscono e la cui scoperta dovrà non soltanto esplicarci il dato a noi già noto, ma anche mettere in luce una quantità di altre conoscenze che derivano tutte dalla stessa sorgente. Il procedimento metodico dei Prolegomeni, specialmente poi dei Prolegomeni ad ogni futura metafisica, dovrà essere analitico46.
E per fortuna noi troviamo appunto che, sebbene non possiamo ammettere la realtà attuale della metafisica come scienza, possiamo con sicurezza asserire che una certa conoscenza sintetica pura a priori — la matematica pura e la fisica pura47 — è reale ed è data: poiché entrambe contengono proposizioni, che o sono apoditticamente certe, per virtù della ragione pura, o ci sono garantite dall’universale accordo datoci nell’esperienza e tuttavia sono universalmente riconosciute come indipendenti dall’esperienza. Noi abbiamo così come fatto incontestato almeno una certa conoscenza sintetica a priori48, in rapporto alla quale non dobbiamo chiedere se sia possibile (perchè è reale), ma solo come sia possibile; il principio che ci esplicherà la possibilità di questa conoscenza data, ci permetterà di decidere circa la possibilità di ogni altra conoscenza dello stesso genere.
Noi abbiamo veduto l’importantissima distinzione dei giudizi in analitici e sintetici. Non abbiamo avuto difficoltà ad esplicarci la possibilità dei giudizi analitici: perchè essa riposa unicamente sul principio di contraddizione50. La possibilità dei giudizi sintetici a posteriori, cioè di quelli che sono attinti dall’esperienza, non ha bisogno di alcuna esplicazione speciale; perchè l’esperienza non è essa stessa altro che una continua composizione (sintesi) delle percezioni51. Ci rimane quindi solo a ricercare o ad esaminare la possibilità dei giudizi sintetici a priori, la quale deve fondarsi su altri principii che non il principio di contraddizione.
[276] Ma noi non abbiamo da cominciare col cercare se la possibilità di tali giudizi sussista, non abbiamo cioè da chiederci se essi siano possibili. Perchè essi ci sono dati in buon numero e la loro realtà è d’una certezza indiscutibile: onde, poiché il metodo che qui seguiamo è il metodo analitico, noi prenderemo il nostro punto di partenza appunto in questo fatto, nella realtà d’una conoscenza sintetica, ma pura; quindi avremo però ad esaminare il fondamento di questa possibilità ed a chiederci: come è possibile questa conoscenza? La determinazione dei principii della sua possibilità ci metterà in grado di determinare anche le condizioni del suo uso, la sua estensione ed i suoi limiti.
Come sono possibili i giudizi sintetici a priori?
Io ho nel titolo per amor di chiarezza espresso questo problema in termini un poco differenti e cioè come il problema della possibilità della conoscenza razionale pura: ciò che io poteva questa volta fare senza pregiudizio dell’indagine nostra, perchè, trattandosi qui soltanto della metafisica e delle sue fonti, il lettore avrà sempre presente, io spero, dopo le osservazioni fatte sopra, che, quando noi qui parliamo di conoscenza razionale pura, intendiamo sempre soltanto la conoscenza sintetica, non l’analitica*1.
Dalla soluzione di questo problema dipende ora il destino della metafisica, la decisione circa la sua esistenza. Ben potrà alcuno esporre con maestosa sicurezza le sue affermazioni metafìsiche, [277] ben potrà soffocarci accumulando sillogismi su sillogismi: se egli non avrà prima risposto in modo soddisfacente a quella domanda, noi avremo diritto di dirgli: la tua è filosofia vana e senza fondamento, è falsa sapienza. Tu parli per bocca della ragion pura e ti arroghi il diritto di creare, per così dire, delle conoscenze a priori, in quanto non ti limiti a scomporre dei concetti già dati, ma introduci dei nuovi collegamenti che non si fondano sul principio di contraddizione e che tuttavia tu credi di poter scoprire indipendentemente da ogni esperienza: ora come tu pervieni a questo e come puoi tu giustificare la tua pretesa? Richiamarti all’approvazione del comune buon senso non ti è concesso: perchè questo è un testimonio, la cui attendibilità riposa soltanto sulla voce pubblica.
Quodcumque ostendis mihi sic, incredulus odi.
(Orazio, Ep., II, 3, 188).
Ma quanto necessaria è la soluzione del presente problema, altrettanto essa è difficile; e se la causa principale, per cui esso rimase così a lungo senza risposta, risiede in ciò, che non si vide nemmeno la possibilità di proporsi un tale problema, una seconda causa è senza dubbio questa, che una risposta soddisfacente a questa unica domanda esige una meditazione assai più intensa, profonda e faticosa di quel che non abbia mai richiesto la più prolissa opera di metafisica, che fin dal suo apparire promise l’immortalità al suo autore. Ed ogni sagace lettore, che mediti accuratamente su ciò che il presente problema richiede, atterrito dalla difficoltà del compito, sarà tratto da principio a ritenerlo come insolubile e, se non vi fossero realmente delle conoscenze sintetiche pure a priori, a considerarle come cosa impossibile: ciò che precisamente accadde a Davide Hume, sebbene egli fosse stato ben lungi dal proporsi il problema in termini così generali come qui facciamo e dobbiamo fare, se vogliamo che la soluzione abbia veramente un’importanza decisiva per tutta la metafisica. Perchè com’è possibile, disse a sè quel sagacissimo filosofo, che, quando mi è dato un concetto, io possa uscire da esso e collegarne con esso un secondo, il quale non è affatto contenuto nel primo, e per di più così come se il secondo appartenesse necessariamente al primo? Solo l’esperienza può fornirci tali collegamenti (così concluse egli da tale difficoltà, che egli prese per un’impossibilità) e tutta quella pretesa necessità o, ciò che vuol dir lo stesso, quella creduta conoscenza a priori, non è altro che l’effetto di una lunga consuetudine, per la quale noi, vedendo qualche cosa costantemente avverarsi, erigiamo in necessità obbiettiva quella ch’è solo una necessità subbiettiva.
Se il lettore si duole della difficoltà e della fatica, che la mia [278] soluzione di questo problema gli prepara, egli non ha che da tentare di risolverlo da sè per una via più facile. Forse allora egli si sentirà un poco obbligato a colui che si è per lui assunto un lavoro di così profonda meditazione ed inclinerà piuttosto a lasciar trasparire un poco di meraviglia per la facilità con cui, data la difficoltà della cosa, la soluzione ha potuto essere esposta: ed invero mi è costato la fatica di lunghi anni il poter risolvere questo problema in tutta la sua universalità (nel senso in cui prendono questa parola i matematici, e cioè estensivamente a tutti i casi) e il poterlo infine anche esporre in forma analitica, come lo troverà qui esposto il lettore.
Tutti i metafisici sono quindi solennemente e legittimamente sospesi dalle loro funzioni fino a tanto che abbiano soddisfacentemente risposto alla domanda: come sono possibili le conoscenze sintetiche a priori? Perchè questa risposta sola può dare ad essi l’autorizzazione a parlare in nome della ragione pura: in mancanza della stessa, essi non possono attendersi altro da parte delle persone ragionevoli, tante volte deluse, che di vedere senz’altro respinta, senza ulteriore esame, ogni loro istanza.
Se per contro essi volessero proseguire nell’occupazione loro, considerandola però non come scienza, ma come un’arte di persuadere cose utili e adatte al comune buon senso, questa professione non può, secondo equità, venir loro vietata. Ma essi dovranno allora parlare il modesto linguaggio della fede razionale, dovranno confessare che non è concesso ad essi di congetturare alcunché, tanto meno di sapere, intorno a ciò che è al di là dei limiti di ogni esperienza possibile, ma soltanto di postulare (non per uso speculativo, dovendo rinunciare alla speculazione, ma per uso pratico) quanto è utile, anzi necessario a guidare l’intelletto e la volontà nella vita. Così soltanto potranno meritare il nome di uomini utili e saggi e ciò tanto più quanto più rinunzieranno a quello di metafisici: perchè questi vogliono essere filosofi speculativi e perciò, siccome in materia di giudizi a priori non basta metter innanzi delle semplici verosimiglianze (che ciò che si pretende di conoscere a priori è per ciò solo posto come necessario), non hanno licenza di giocare con delle congetture, [279] ma debbono proporre le loro affermazioni in forma di scienza od essere condannati a tacere52.
Si può dire che tutta la filosofia trascendentale, che necessariamente antecede ogni metafisica53, non sia altro che la completa soluzione del problema qui proposto, solo in ordine sistematico e con la necessaria ampiezza: e si può anche dire che non abbiamo finora una filosofia trascendentale. Perchè quella che ne porta il nome è propriamente una parte della metafisica: ora quella scienza deve essa prima mettere in chiaro la possibilità della metafisica, deve quindi antecedere ogni metafisica. Non è quindi meraviglia che, dal momento che per rispondere in modo esauriente ad una sola domanda, si richiede un’intera scienza, priva di ogni aiuto da parte delle altre, quindi una scienza del tutto nuova, la risposta non sia possibile senza difficoltà e senza fatica, anzi senza una certa oscurità.
Volendo ora procedere alla soluzione del problema e invero secondo il metodo analitico, nel quale presupponiamo la reale esistenza di conoscenze razionali pure, noi possiamo appellarci solo a due discipline della ragion teoretica (chè di essa soltanto trattiamo) e cioè la matematica pura e la fisica pura: chè queste sole possono rappresentarci i loro oggetti nell’intuizione e quindi, ove in esse si trovi qualche conoscenza a priori, mostrarcene la verità ossia la concordanza con l’oggetto in concreto e quindi provarcene la realtà: donde poi sarà possibile risalire per via analitica al fondamento della loro possibilità. Il metodo analitico facilita qui estremamente il nostro procedimento in quanto in esso le considerazioni astratte non solo vengono applicate ai fatti, ma partono addirittura da essi: laddove nel metodo sintetico esse debbono venir dedotte completamente in abstracto da concetti.
Ma per risalire da queste conoscenze a priori, reali e fondate ad un tempo, alla possibilità di quella, che è oggetto dell’indagine nostra, ossia alla possibilità della metafisica come scienza, ci è necessario esaminare anche ciò che a questa dà occasione, ciò che come semplice conoscenza a priori, naturalmente data, ma sospetta quanto alla sua verità, è il fondamento della metafisica come scienza, ciò che, elaborato senza alcuna ricerca critica intorno alla sua possibilità, viene ordinariamente chiamato già metafisica: ci è necessario, in altre parole, comprendere nella nostra questione anche la disposizione naturale alla metafisica [280] e così dividere il nostro problema trascendentale in quattro altri problemi da risolvere separatamente e successivamente:
1) Come è possibile la matematica pura?
2) Come è possibile la fisica pura?
3) Come è possibile la metafisica in genere?
4) Come è possibile la metafisica in quanto scienza?
È facile vedere come la soluzione di questi problemi, sebbene costituisca in prima linea il contenuto essenziale della critica della ragione, abbia tuttavia importanza anche per sè e sia degna di attenzione in quanto ci trae a ricercare nella ragione la sorgente di due scienze pure: che se ciò avviene al fine di indagare e delimitare su dati di fatto la facoltà che la ragione ha di conoscere a priori, questo non toglie che le dette scienze ne traggano vantaggio, se non in rapporto al contenuto, in rapporto al loro retto uso e che, mentre di esse ci serviamo per chiarire la questione superiore della loro comune origine, noi prendiamo da questo occasione a mettere anche meglio in luce la loro propria natura.
*1. Non si può evitare che, col graduale progredire delle conoscenze, certe espressioni diventate classiche, le quali risalgono all’infanzia stessa della scienza, appariscano insufficienti e disadatte e che al senso antico venga ad aggiungersi un senso nuovo e più acconcio, non senza pericolo di confusione. Il metodo analitico, in quanto si oppone al sintetico, è tutt’altra cosa che un complesso di giudizi analitici: esso vuol dire soltanto che si parte da ciò che è oggetto della questione, come dato, per risalire alle condizioni che lo rendono possibile. In questo metodo si può anche far uso di puri giudizi sintetici, come ce ne dà esempio l’analisi matematica: onde potrebbe meglio venir chiamato metodo regressivo a differenza del metodo sintetico o progressivo. Col nome “Analitica„ si designa anche una delle parti capitali della Logica; qui essa vale come la logica della verità e si contrappone alla dialettica, senza riguardo a che le conoscenze da essa considerate siano analitiche o sintetiche. ↩
18. In queste osservazioni preliminari Kant traccia il piano generale dell’opera sua. Egli si propone di sottoporre ad esame critico la metafisica, per decidere quindi intorno alla sua possibilità. Ora che cosa è, considerata nella sua struttura come sapere, la metafisica? È una costruzione sintetica a priori. Kant si arresta qui a lungo sulla distinzione fra il procedimento analitico ed il procedimento sintetico del pensiero e mostra come costruzioni sintetiche a priori siano anche le altre due discipline razionali pure, la matematica e la fisica pura (§ 1-3). L’esistenza ed il valore indiscusso della matematica e della fisica pura dimostrano che la ragione può realmente costituire a priori, senza ricorrere alla esperienza, per mezzo d’una costruzione sintetica, un sistema di conoscenze assolutamente valide (§ 4). La ricerca si presenta quindi naturalmente divisa in tre parti. 1° Come è possibile la costruzione sintetica a priori della matematica? 2° Come è possibile la costruzione sintetica a priori della fisica pura? 3° Come accade che la ragione nostra si affatichi a costruire nella metafisica un sistema sintetico a priori e tuttavia fallisca continuamente in questo tentativo? Queste tre questioni ci conducono alla soluzione dell’ultimo e fondamentale problema: in qual senso dobbiamo riformare la metafisica perchè costituisca anch’essa un sistema scientifico? (§ 5). ↩
19. § 1. Kant rileva qui anzitutto questo primo carattere della metafisica: che è quanto alle sue fonti una costruzione a priori: la ragione in essa attinge a se stessa, non all’esperienza.↩
20. [p. 29,12]. Kant lascia da parte la questione dell’oggetto della metafisica. Una discussione di questo punto non era del resto qui necessaria, perchè genericamente tutti si accordano in questo, che la metafisica ha per oggetto i problemi della realtà soprasensibile “Dio, la libertà e l’immortalità„ (Kr. r. Vern., 31, cfr. Prolegomeni, 271). “La metafisica ha per proprio ed unico fine delle sue ricerche tre idee: Dio, la libertà e l’immortalità... Tutto il resto onde questa scienza si occupa serve solo come strumento per giungere a queste idee e stabilirne la realtà„ (Kr. r. Vern., 260 Anm.). Fortschr. d. Metaph. (ed. Vorl.), 83 ss.: “L’oggetto finale al quale mira tutta la metafisica è facile a scoprirsi e può sotto questo aspetto fondare la definizione seguente della stessa: essa è la scienza che ci fa passare dalla conoscenza del sensibile a quella del soprasensibile per mezzo della ragione„. Si comprende bene che la via seguita in questo da Kant ed anche i suoi risultati differiscono profondamente da quelli dell’antica metafisica: che per lui la metafisica non è tanto una scienza di queste realtà trascendenti, quanto piuttosto una scienza della ragione in quanto è, speculativamente e praticamente, aspirazione verso il trascendente. In questo senso, certo con un’accentuazione lievemente scettica, nei “Sogni d’un visionario„ (p. 63) è definita “la scienza dei limiti della ragione umana„.↩
21) [p. 29,18]. Kr. r. Vern. (A), 17: “Chè quando anche dalle nostre esperienze si tolga tutto ciò che appartiene ai sensi, rimangono tuttavia certi concetti originarii e giudizi da essi derivati, che devono essere sorti del tutto a priori, indipendentemente dall’esperienza etc.„.↩
22) [p. 30, 2]. Il senso originario dell’espressione “a priori„ ed “a posteriori„, quale ricorre nella scolastica, si riferisce alla distinzione della conoscenza degli effetti dalle loro cause (che si dice conoscere a priori) e della conoscenza delle cause dagli effetti (che è conoscere a posteriori). Onde genericamente poi conoscere a priori tanto valse quanto conoscere per mezzo della ragione, conoscere a posteriori quanto conoscere per mezzo dell’esperienza: “quod experiundo addiscimus, a posteriori cognoscere dicimur; quod vero ratiocinando nobis innotescit, a priori cognoscere dicimur„ (Wolff, Psych. emp., § 5). Kant precisa con maggior rigore la distinzione: conoscenze a priori vere e proprie sono per Kant le conoscenze assolutamente indipendenti dall’esperienza, quelle conoscenze o quegli elementi della conoscenza che non derivano nè immediatamente nè mediatamente dal senso, ma ci rinviano ad una sorgente distinta dal senso, ad un’attività autonoma dello spirito. Il senso è una facoltà passiva che ci può dire ciò che le cose sono; ma non può assolutamente per sè solo dirci, nemmeno dopo ripetute esperienze, che cosa debbono necessariamente essere. Ora per Kant è fuori di dubbio che alcune delle nostre conoscenze ci si presentano sotto l’aspetto di verità universali e necessarie: l’esistenza d’un sapere universale e necessario, ossia d’un sapere razionale è anzi, secondo Kant, un’affermazione necessaria, perchè la ragione non può negarla senza cadere in contraddizione con se stessa. Su questo punto quindi Kant è perfettamente d’accordo con tutta la tradizione idealistica ed aprioristica: che il sistema del sapere umano non è una semplice addizione o trasformazione meccanica di dati sensibili; ma che vi è nell’uomo una potenza di spontaneità spirituale, la ragione, che è sorgente di verità universali e necessarie, che sono date indipendentemente dai dati del senso, cioè a priori. La stessa esperienza, alla quale l’empirista si appella, quando venga sagacemente analizzata, si rivela non come una somma od un precipitato di elementi in sè irrazionali, ma come una sintesi, un sistema di dati secondo principii non ricavabili dal dato: la sua validità presuppone la validità universale e necessaria di questi suoi principii costitutivi, che diciamo principii a priori appunto perchè non vengono dal dato come dato, ma vengono nell’elaborazione spirituale dell’esperienza imposti al dato con un’indeclinabile necessità. Ogni minima esperienza, ogni affermazione, che abbia la pretesa di valere obbiettivamente, presuppone già il valore incondizionato di questi principii, la cui negazione è quindi da Kant considerata come un assurdo: “sarebbe come voler dimostrare con la ragione l’inesistenza della ragione„ (Kr. pr. Vern., 12). Di qui i due principii che sono come il canone di tutte le dimostrazioni e critiche kantiane: il dato per se stesso (l’esperienza nel senso di semplice somma delle percezioni) non dà necessità; tutto ciò che ci si presenta come, universale e necessario ha la sua origine a priori nella ragione.
Per questa sua teoria della necessità d’una conoscenza a priori, Kant si connette direttamente con Leibniz; di fronte alla filosofia eclettica contemporanea che inclinava, in questo punto più verso l’empirismo lockiano che verso l’apriorismo leibniziano (cfr. Feder, Ueber Raum und Causalität, 1787, X), la dottrina kantiana è una vera restaurazione del leibnizianismo. Anzi Kant è un apriorista più rigoroso di Leibniz stesso in questo che distingue la spontaneità dell’intelletto dalla semplice recettività del senso non per una semplice differenza nella distinzione e nella chiarezza, ma per una differenza specifica, qualitativa (cfr. la nota 72). Ma per un altro lato egli ne differisce profondamente: e cioè in quanto conclude con l’attribuire all’elemento a priori una semplice funzione formale e quindi ne deduce l’impossibilità d’una conoscenza obbiettiva per mezzo dell’a priori (conoscenza metafisica in senso dogmatico). L'a priori è per Kant, come per Leibniz, non un conoscere innato, ma una semplice virtualità dello spirito, che si svolge in noi in occasione dell’esperienza, un’“acquisizione originaria„ (Ueber eine Entdeckung, ed. Vorl., 43): di più è una virtualità che non può mai costituire da se un conoscere obbiettivo assolutamente puro da ogni dato empirico (Kr. pr. Vern., 141; cfr. Dissert., § 4, § 15): esso sussiste a sè, indipendentemente dall’esperienza, non come un sapere reale od una disposizione in sè perfetta ad un sapere reale, ma come un semplice fattore trascendentale dell’esperienza, come un elemento che entra necessariamente a costituire quel sapere che diciamo esperienza, senza derivare dal senso. Kant chiama spesso questo elemento col nome di rappresentazione a priori (Kr. pr. Vern., 52: “Lo spazio è una rappresentazione necessaria a priori etc.„): ma la parola rappresentazione è usata genericamente in questo caso a designare anche i semplici elementi formali della rappresentazione obbiettiva.
Da questi due punti (l’esistenza d’un sapere razionale che non deriva dal senso e il carattere formale di questo sapere razionale) è facile svolgere il pensiero di Kant circa la scienza in genere e circa la metafisica in ispecie come sapere a priori. La scienza è scienza solo in quanto è sapere obbiettivo universale e necessario, cioè razionale: quindi il semplice accumulamento di dati, l’esposizione storica, rapsodica, ex datis, non è ancora scienza. Le scienze empiriche (come p. es. la fisica vera e propria o la psicologia), che tentano la sistemazione razionale d’un dato campo dell’esperienza, non sono nemmeno esse ancora vera scienza: perchè, se per una parte implicano un elemento razionale (la concatenazione necessaria, l’ordine formale, nel quale esse inquadrano i dati per un’esigenza della ragione, che è a priori), per l’altro accolgono il dato di fatto come qualche cosa di semplicemente dato, razionalmente inesplicabile. Le scienze sono costruzioni razionali imperfette, provvisorie, il cui fine è di rendere possibile e preparare quello che è l'unica, la vera scienza, l’ideale supremo del sapere: e cioè la ricostruzione razionale di tutta la realtà ex principiis, non ex datis, la derivazione razionalmente necessaria di tutta la realtà da un principio supremo razionale e quindi certo anch’esso incontestabilmente a priori. “Scienza vera e propria può esser detta solo quella la cui certezza è apodittica: la conoscenza che non implica se non una certezza empirica è solo impropriamente denominata sapere..... Una dottrina razionale della natura merita il nome di scienza della natura solo quando le leggi naturali che stanno in essa a fondamento sono conosciute a priori e non sono leggi date dall’esperienza„ (Met. Anfangsgr., 467 ss.; cfr. Log. (ed. Kinkel), 27, 29).
Una tale scienza perfetta della realtà voleva essere la metafisica wolfiana, che credeva di poter dedurre dal principio d’identità per la semplice virtù della ragione tutto il sistema del sapere umano. E per Kant sta sempre fermo il principio metodico di questa metafisica, se non la metafisica stessa: una metafisica fondata su induzioni, ipotesi od esperienze può essere cosa utile praticamente come fede pratica (Proleg., 278), ma non è più una metafisica, come una matematica che si fondasse sopra semplici probabilità non sarebbe più matematica (Proleg., 369). Ma il sapere a priori è ristretto da Kant, come abbiamo veduto, ad una funzione formale e non dà origine, isolato, ad un sapere obbiettivo; “il principio che pervade e determina tutto il mio idealismo è questo: che ogni conoscenza delle cose per mezzo dell’intelletto puro e della ragion pura non è che illusione e che solo nell’esperienza sta la verità (Proleg., 374). Una scienza obbiettiva della realtà per pura virtù della ragione è nella condizione umana impossibile: il sapere nostro è sempre legato all’intuizione sensibile, che è per natura sua semplice dato irrazionale, e perciò non può rivestire altra forma che di dato razionalizzato, subordinato a principii formali razionali, ossia di “esperienza„. Come può quindi Kant parlare ancora d’una metafisica come scienza a priori? Una scienza che sia sapere circa le cose, che afferri a priori le cose nella loro struttura razionale è per noi impossibile; ma non è impossibile una scienza che costruisca a priori l’elemento razionale del nostro sapere razionalmente imperfetto, cioè dell’esperienza; che sia sapere razionale circa la composizione dell’esperienza e svolga sistematicamente a priori quel complesso di principii formali per mezzo dei quali lo spirito razionalizza il dato e ne costituisce l’esperienza. Ora per Kant i principii formali razionali (in l. s.), ai quali lo spirito subordina il dato, sono di due specie, entrambe egualmente razionali (in l. s.), cioè universali e necessarie, ma caratterizzate da una diversa forma di razionalità: in quanto gli uni (i principii matematici) ci si presentano come verità universali e necessarie connaturate delle cose stesse, che quindi si rivelano a noi nell’intuizione immediata delle cose come intuizioni universali e necessarie, come intuizioni pure, a priori, gli altri invece (i principii metafisici) ci si presentano come verità universali e necessarie, che il pensiero nostro attribuisce alle cose, che quindi ci si presentano come qualche cosa che noi dobbiamo pensare delle cose, come concetti universali e necessarii che il nostro pensiero deve predicare delle cose e pertanto come concetti puri, a priori. A queste due classi di principii formali corrispondono le due scienze (scienze in vero e proprio senso): la matematica e la metafisica (formale, critica). La prima svolge il sistema dei principii formali puri dell’intuizione sensibile, riproduce nella sua purezza e nella necessità della sua concatenazione interiore il sistema delle sintesi formali, dalle quali il dato dei sensi è trasformato nell’intuizione temporale e spaziale: essa costituisce un sistema perfettamente razionale, perchè gli assiomi ed i postulati, coi quali essa procede gradatamente alle costruzioni più complicate, rappresentano collegamenti assolutamente necessarii; ma questa necessità è una necessità intuitiva, non una necessità pensata, è una necessità che viene in evidenza non quando lo spirito considera il contenuto astratto dei concetti matematici, ma quando traduce questi concetti (poiché la matematica, come scienza, è formulata per mezzo di concetti) nelle intuizioni corrispondenti (la matematica è conoscenza a priori procedente da costruzioni di concetti, cfr. la nota 36). La metafisica invece è un perfetto sistema di autoconoscenza della ragione (in 1. s.) quanto alla sua operazione formale; quindi essa mette in luce nel loro principio le intuizioni pure sulle quali è fondata la matematica (lasciando a questa lo svolgimento del sistema nei suoi particolari) e ricostruisce in seguito tutta l’organizzazione dei concetti puri, per mezzo dei quali pensiamo a priori gli oggetti nell’esperienza; anch’essa come ricostruzione d’un organismo razionale, deve costituire un sistema razionale perfetto, deve cioè svolgere da un unico principio razionalmente necessario per una serie di passaggi razionalmente necessarii tutti i momenti del suo contenuto razionale, ossia tutta la serie dei principii razionali costitutivi dell’esperienza. Questa metafisica non è scienza della realtà razionale in se stessa (realtà intelligibile), che non è accessibile alla nostra potenza conoscitiva, ma è scienza dell’elemento razionale dell’esperienza, non è sapere trascendente, ma trascendentale; in quanto essa ci insegna a distinguere nettamente fra l’elemento formale dato a priori e ciò che ci è dato dal senso e così previene ogni confusione ed ogni abuso che si possa fare della conoscenza razionale col trasformarlo in un sapere obbiettivo illusorio, è critica della ragion pura.
Vale quindi anche della metafisica critica, della critica della ragione, l’affermazione qui stabilita da Kant circa la metafisica in generale, e cioè che essa è conoscenza a priori: ciò che del resto non deve far meraviglia, trattandosi dell’autoconoscenza della ragione (Proleg., § 56; Kr. r. Vern., 21-22, 84-85, 495 ss.; vedi la critica di questa concezione in Schopenhauer, W. (ed. Grisebach), I, 546-7); quindi il suo valore apodittico, l’esclusione assoluta d’ogni ipotesi (Kr. r. Vern., A 11, 509; Proleg., 369). Per questo suo carattere aprioristico (“dogmatico„, come Kant si esprime, Kr. r. Vern., 21) la Critica della ragione distingue recisamente il suo procedere da ogni ricerca di semplice psicologia della conoscenza; essa non si propone di studiare storicamente, ex datis, come sia costituita la nostra conoscenza e quali siano i principii a priori che l’intelletto vi introduce — perchè una tale ricerca non è scienza —, ma di ricercare come deve essere costituita la conoscenza e quali debbono essere i principii. Questa necessità, che rende possibile la critica della ragione come una concatenazione di verità necessarie, non è una necessità intuitiva (come nella matematica), ma una necessità logica: in che consiste essa propriamente? Certo non è una deduzione sillogistica, ma è una costruzione sintetica, la quale però è fondata in ultimo su d’un principio che è lo stesso principio d’identità, inteso nel senso suo sintetico. La verità prima e fondamentale che serve di punto di partenza è questa: vi è un sapere universale e necessario, vi è un sapere razionale che deve costituire un unico sistema. Questa proposizione che può essere posta a priori, perchè è un presupposto di ogni affermazione (quindi anche della negazione della possibilità d’un tale sapere) diventa quindi il termine d’una ricerca teleologica, la quale può riassumersi in questa domanda: come deve essere costituito il processo del conoscere perchè un tale unico sistema, perchè un tale sapere sia possibile? Di qui la ricerca degli elementi che conferiscono all’esperienza nostra i caratteri dell’universalità e della necessità e la determinazione del loro valore e della loro applicazione: le quali tutte avvengono a priori nel senso che non si limitano a constatare ciò che è, ma in ciò che è determinano ciò che deve essere perchè si avveri quella condizione suprema a priori. La matematica e la metafisica contengono le conoscenze a priori pure, cioè assolutamente pure da ogni elemento empirico. Ma è possibile secondo Kant dare a questo sapere a priori puro (che è sempre formale) un oggetto empirico “in modo tuttavia che all'infuori di ciò che è contenuto nel concetto di questo, non venga applicato alcun altro principio empirico„ (Met. Anfangsgr., 468; cfr. Prolegomeni, 324); e cioè p. es. applicare questo sapere formale al concetto empirico di materia in genere o di movimento etc. Allora si ha un’applicazione dei principii a priori che può sempre ancora venir costruita a priori (essendo l’elemento empirico qualche cosa di costante), ma per il fatto medesimo della presenza d’un concetto empirico non è più un a priori puro: essa costituisce lo a priori misto, il sapere comparativamente a priori: la meccanica p. es. è una tale applicazione dei principii puri a priori al concetto empirico del movimento (Kr. r. Vern., 28, 50, 74, 99). Il più delle volte però per Kant a priori è sinonimo di a priori puro, onde l’uso promiscuo delle parole “puro„ ed “a priori„ e talvolta anche l’uso di “puro„ nel senso di “a priori„ in generale (cfr. Vaihinger, Comm., I, 211-13, 451). — In un secondo senso si può parlare di un a priori relativo o meglio improprio; quando cioè si parte da un concetto facendo astrazione dal modo dell’acquisizione sua e se ne ricavano per via analitica dei giudizi che sono a priori, ma solo relativamente alla posizione del concetto che serve loro di fondamento e che quindi, ove si consideri l’origine e la natura di questo, sono il più delle volte di natura empirica. Tutti i giudizi analitici sono a priori, ma la maggior parte (quelli cioè che procedono da un concetto empirico) non sono che un a priori improprio.
Collegando poi i principii a priori col dato sensibile l’intelletto dà origine a quel collegamento razionale del dato che dicesi esperienza. Ma l’esperienza pur contenendo in sè un elemento a priori, razionale — che è ciò che le conferisce un valore obbiettivo e le dà una necessità di fatto — implica altresì una molteplicità di elementi empirici, che è un fattore accidentale, imprevedibile a priori; quindi, pur essendo una costruzione razionale, non perciò è un sistema che possa venir costruito a priori. Un giudizio d’esperienza costituisce bensì, una volta dati gli elementi empirici, una proposizione universale e necessaria: ma pel fatto stesso che implica un fattore di carattere non razionale, non può essere mai assolutamente universale e necessario, è sempre cioè un giudizio a posteriori. Anche qui bisognerebbe distinguere l'assolutamente a posteriori (le impressioni non ancora organizzate dall’intelletto) dall’a posteriori dell’esperienza, ossia dal sapere empirico, che implica già la presenza dell’elemento a priori; ma Kant usa quasi sempre le parole “a posteriori„ ed “empirico„ come termini equivalenti. ↩
23) [p. 30,2]. Kant distingue tre gradi della conoscenza, il senso, l’intelletto e la ragione. Il senso è la facoltà di ricevere delle affezioni (Diss., § 3, Kr. r. Vern., 49, 66); come semplice recettività esso si distingue recisamente dall’intelletto che è spontaneità, attività elaboratrice; sulla teoria kantiana del senso in rapporto alla teoria leibniziana si veda la nota 72. Queste affezioni provengono da un’azione delle cose in sè sullo spirito; ma come quest’azione debba intendersi, Kant non dice; si veda la nota 59. Il semplice dato del senso è qualche cosa ancora del tutto subbiettivo; esso è costituito da un elemento materiale (il contenuto qualitativo delle sensazioni) e da un elemento formale (il tempo e lo spazio; si cfr. per questo la nota 60). Al senso può riferirsi sotto un certo aspetto anche l’attività percettiva, la facoltà cioè dei collegamenti associativi, che antecedono e preparano i collegamenti obbiettivi dell’azione intellettiva vera e propria (si cfr. la nota 98). — L’intelletto è la facoltà di pensare, ossia di collegare le nostre intuizioni sensibili per mezzo di certe forme di unità che, espresse in concetti, costituiscono i concetti puri, ossia le categorie (Proleg., § 22, 34). Esso è la facoltà teoretica umana per eccellenza: sul fondamento puramente subbiettivo dei dati sensibili esso erige il mondo obbiettivo dell’esperienza; ma appunto perchè è facoltà ordinatrice ed ha bisogno sempre del dato sensibile come punto di partenza, esso non può trascendere mai l’esperienza. — La ragione (in s. s.) invece è la facoltà delle idee, che sono “concetti necessarii, il cui oggetto non può essere dato in nessuna esperienza„ (Proleg., § 40). In altre parole è la facoltà del soprasensibile, la facoltà che ha per vero e proprio oggetto il mondo delle cose in sè, l’intelligibile. Ma nelΓuomo, la cui conoscenza è legata indissolubilmente al dato sensibile, essa non ha dal punto di vista teoretico che una funzione prevalentemente negativa, che è di limitare e regolare l’attività dell’intelletto (si v. la nota 172). Il campo vero e proprio dell’attività sua è la vita morale, nella quale, come ragion pratica, tende a subordinare l’agire umano all’ordine intelligibile. — Però l’uso delle parole “intelletto„ e “ragione„ non è, come notò già Schopenhauer (W., I, 551 ss.), in Kant molto costante. La “ragione„ in amplissimo senso comprende l’intiera facoltà conoscitiva in quanto contiene in sè elementi a priori e quindi include anche l’intuizione pura: in questo senso è spesso usato anche qui nei Prolegomeni, specialmente in principio, dove per conoscenze della ragion pura s’intendono tanto quelle che sono fondate sulle intuizioni pure quanto quelle fondate sui concetti puri dell’intelletto e sulle idee della ragione in s. senso: “quindi conoscenza della ragione e conoscenza a priori sono una sola e medesima cosa„ (Kr. pr. Vern., 12). In ampio senso comprende l’intelletto e la ragione (in s. senso), escludendo la sensibilità (p. e. Kr. pr. Vern., 540): talvolta è usata in questo senso anche la parola “intelletto„ (Kr. r. Vern., 111). In stretto senso è la facoltà delle idee. ↩
24) [p. 30,8]. Per la differenza tra metafisica e matematica, alla quale si è già accennato nella nota 22, si veda la nota 56.↩
25) § 2. Quanto al processo conoscitivo, Kant rileva in secondo luogo la metafisica essere costituita di giudizi sintetici a priori. Premette la distinzione generica fra giudizi sintetici ed analitici (a). I giudizi analitici sono per natura loro a priori e riposano sul principio di contraddizione: naturalmente però il concetto dal quale vengono derivati a priori può essere d’origine empirica (b). I giudizi sintetici invece possono essere a priori od a posteriori: essi debbono sempre seguire in armonia col principio di contraddizione, ma l’unità che essi stabiliscono ha il suo fondamento in qualche cosa d’altro (c). Kant li distingue in tre classi: 1) Giudizi empirici. Sono le sintesi a posteriori date nell’esperienza. —· 2) Giudizi matematici. Tutti i giudizi matematici sono giudizi sintetici a priori. Che siano giudizi a priori risulta dalla necessità che essi implicano e che l’esperienza non può dare. Che siano giudizi sintetici nessuno invece l’ha finora osservato, perchè essi procedono in accordo col principio di contraddizione e perchè hanno in comune con gli analitici il necessario collegamento del soggetto e del predicato. Ma quanto al primo punto, si tratta semplicemente d’una condizione negativa: la derivazione d’un giudizio da un altro per un atto di sintesi deve avvenire in conformità del principio di contraddizione, non avviene in forza di esso. E quanto al secondo, è facile notare come in essi il predicato debba essere necessariamente aggiunto al soggetto, ma non vi sia affatto logicamente contenuto. Certo vi sono nella matematica dei giudizi identici, ma essi vi hanno solo una funzione sussidiaria. Ciò che caratterizza i giudizi matematici di fronte agli altri giudizi sintetici a priori (i metafisici) è che la sintesi è fondata in essi non sui concetti, ma sulle intuizioni sensibili corrispondenti. Fu il comune preconcetto del carattere analitico dei giudizi matematici che trasse in errore Hume: onde egli non estese le sue considerazioni anche alla matematica e così il risultato delle sue ricerche fu ben diverso da quello che doveva essere. — 3) Giudizi metafisici. I giudizi metafisici sono tutti sintetici; che siano a priori già risulta da quanto si è detto al § 1. Certo vi sono nella metafisica anche giudizi analitici: ma allora si tratta solo della scomposizione di concetti metafisici, che non è fine a sè, bensì serve alla posizione dei veri giudizi metafisici, che sono giudizi sintetici, com’è per es. questo: ciò che nelle cose è sostanza, è permanente. — La conclusione di tutto il paragrafo è adunque la seguente: quanto al metodo la metafisica è una costruzione sintetica a priori. ↩
26) [p. 30,18]. Log., § 36-37: “Proposizioni analitiche si dicono quelle la cui certezza riposa sull’identità dei concetti (del predicato con la nozione del soggetto). Quelle, la cui verità non si fonda sull’identità dei concetti, debbono dirsi sintetiche Le seconde accrescono la conoscenza materialiter, le prime solo formaliter L’identità dei concetti nelle proposizioni analitiche può essere esplicita od implicita. Nel primo caso le proposizioni analitiche diconsi tautologiche„. Non basta quindi che il concetto-predicato sia necessariamente collegato al concetto-soggetto perchè il giudizio sia analitico: bisogna che il primo sia contenuto nel secondo giusta il principio d’identità. Così p. es. la proposizione “ogni figura che ha tre lati, ha tre angoli„ è una proposizione sintetica, sebbene il predicato inerisca necessariamente al soggetto. (Ueber d. Fortschr. d. Metaph., ed. Vorl., 154). Nei giudizi analitici il predicato è quindi sempre un predicato essenziale del soggetto (ad essentiam pertinentia), sia esso uno degli elementi costitutivi, componenti direttamente la natura logica del soggetto (essentialia), od uno degli elementi derivati dagli elementi costitutivi (rationata). Nei giudizi sintetici invece il predicato è o un elemento collegato essenzialmente col soggetto e perciò predicabile a priori, ma non contenuto in esso logicamente (giudizi sintetici a priori), od un attributo extraessenziale (sia un modo interno od una relazione esterna) e perciò predicabile solo empiricamente (giudizi sintetici a posteriori) (Ueber eine Entdeckung ecc., ed. Vorl., 51 ss.). — La divisione dei giudizi in analitici e sintetici è stata combattuta già dai primi avversari di Kant; si veda p. es. Tittel, Kantische Denkformen, 1787, 69 ss.; Bornträger, Ueb. d. Daseyn Gottes, 1788, 25 ss.; Eberhard, Phil. Magasin, I, 3; e in difesa: Born, Neues Phil. Mag., I, 2; I. Schultz, Prüfung d. Kantischen Kritik, 1791, I, 28 ss. Veda il lettore italiano l’opera notevolissima di A. Franchi, Su la teorica del giudizio, 1870, I, 33-163. Come il Bornträger, A. Franchi considera tutti i giudizi come analitici. Kant, egli scrive, “confonde l’operazione primaria dell’intelletto, quello che produce originariamente i concetti (sintesi) con l’operazione secondaria, quella che invece li spiega e li chiarisce (analisi): onde non gli riesce mai di determinare con sufficiente esattezza la sua classificazione; della vera sintesi non tiene mai conto: sotto il nome di sintesi espone per lo più qualche maniera di analisi: ed i suoi giudizi sintetici non si distinguono per alcuna differenza veramente essenziale e specifica dai suoi giudizi analitici„ (p. 65). Ciò equivale a dire che “con i giudizi sintetici si formano i nuovi concetti, con gli analitici si chiariscono i concetti già formati,,. Così anche il Trendelenburg, Log. Unters.3, II, 263 ss. Allo stesso risultato riesce in fondo l’obbiezione sovente opposta che la distinzione, almeno quando il soggetto è un concetto empirico, ha un carattere del tutto relativo: per es. il giudizio “l’oro è un metallo del peso specifico di 19.3, può essere considerato come analitico o sintetico a seconda del contenuto che si dà al concetto “oro„ (Fries, Log., 1819, 184). Ma queste ed altre simili difficoltà procedono da un’inesatta interpretazione. Senza dubbio si può in un certo senso sostenere che tutti i giudizi sono sintetici, in quanto in essi il predicato viene collegato col soggetto: ma in questo caso la denominazione “sintetico„ è del tutto pleonastica, perchè soggetto e predicato non possono costituire un giudizio se non intercede fra essi un certo rapporto: la distinzione in giudizi analitici e sintetici concerne appunto la diversa natura di questo rapporto, secondo il fondamento che esso ha nello spirito. In un altro senso si può dire con una certa apparenza di verità che tutti i giudizi sono analitici, perchè esplicano, scindono in una dualità di termini collegati dalla copula una sintesi che nello spirito è raccolta in unità. Ma la distinzione kantiana non riflette l’espressione del giudizio, bensì la natura intrinseca della sintesi che nello spirito collega i due termini; il giudizio “il triangolo equilatero ha gli angoli eguali„, p. es., non è e non potrà essere mai per Kant un giudizio analitico; il fatto che noi conosciamo un predicato essere collegato necessariamente col soggetto non trasforma per questo tale predicato in un predicato appartenente all’essenza logica del soggetto. La stessa considerazione deve farsi rispetto ai giudizi empirici, sebbene certo noi non possiamo qui con egual sicurezza distinguere in modo definitivo i giudizi sintetici dagli analitici per l’instabilità dei concetti empirici, che anche Kant riconosce (Kr. r. Vern., 477 ss.). Il giudizio: “l’oro è un metallo del peso specifico di 19.3„ resta un giudizio analitico anche se il soggetto lo intende per la prima volta, perchè noi dobbiamo considerare il contenuto del concetto “oro„ non in questo o quell’individuo, ma nel soggetto generico dell’esperienza. E così se l’esperienza dovesse un giorno modificare il nostro concetto dell’oro escludendone il predicato del peso specifico 19.3, tale giudizio sarebbe fin d’ora un semplice giudizio sintetico a posteriori da noi considerato come analitico solo per l’imperfezione del nostro sapere. Noi dobbiamo insomma fare completamente astrazione da ogni questione genetica e rappresentarci il sapere umano nella sua costituzione obbiettiva, indipendente da particolarità di tempo o di individui. In esso noi troviamo espresse per mezzo di giudizi conoscenze di varia natura. Per una parte di esse lo spirito nostro penetra direttamente il contenuto essenziale dei proprii concetti e ad essi lo riferisce in virtù del principio d’identità: questo è un possedere la conoscenza, più che un conoscere, è una specie di imitazione iniziale ed imperfetta dell’intuizione dell’intelligenza divina che vede tutte le cose analiticamente nel loro principio; quindi per Kant questi giudizi, che hanno nella costituzione intelligibile della realtà, nel sistema obbiettivo delle idee divine collegate e penetrate dalla legge dell’identità il loro prototipo e la loro giustificazione, non costituiscono un problema. Vi sono dei giudizi invece per i quali noi riferiamo ad un soggetto un contenuto, che non gli appartiene essenzialmente in alcun modo, e quindi non sono che semplici constatazioni empiriche: questi giudizi estendono le nostre conoscenze, ma non sono necessarii a priori, epperò possono servire alla costituzione della scienza, ma non sono scienza: noi non abbiamo qui da occuparci di essi direttamente (giudizi sintetici a posteriori). Ve ne sono altri infine che esprimono collegamenti, necessarii e certi a priori, di elementi, i cui contenuti concettuali sono tra loro distinti ed indipendenti: questi sono i giudizi che costituiscono e caratterizzano il sapere umano in quanto è un processo, un’acquisizione: tutte le proposizioni della scienza (intesa in stretto senso) sono di questa natura ed anche la metafisica ne è costituita (giudizi sintetici a priori). Questi sono i giudizi dei quali dobbiamo occuparci, se vogliamo ricercare le condizioni della possibilità della metafisica. — Il solo appunto che si può fare qui a Kant è di essersi provvisoriamente arrestato troppo alla superficie e di non avere subito avvertito che anche i giudizi analitici ed i giudizi sintetici a posteriori presuppongono, come condizione, resistenza di giudizi sintetici a priori, perchè i giudizi analitici, quando non siano vacue tautologie, presuppongono un collegamento necessario di più note in un concetto, che per l’intelletto nostro non è possibile se non in virtù dell’attività formatrice dei principii a priori, e le sintesi dell’esperienza, appunto in quanto sintesi, risultano da una subordinazione del dato sensibile ai medesimi principii. Ma ciò non altera sostanzialmente il corso dell’argomentazione e non influisce sulla posizione del problema che la distinzione presente prepara. Il punto essenziale che Kant vuole con essa stabilire è che per l’intelligenza umana la forma caratteristica dell’acquisizione del sapere è la sintesi a priori. Un’intelligenza perfetta apprenderà forse l’unità della realtà intelligibile per mezzo di una deduzione analitica; ma l’uomo, confinato nel sensibile, conquista gradatamente un’assai imperfetta visione della medesima unità per mezzo d’un’unificazione progressiva, d’una subordinazione del molteplice sensibile ad un sistema d’unità formali insite come funzioni necessarie nell’attività dello spirito. Il suo sapere si svolge quindi sotto la forma di giudizi sintetici a priori ed ogni indagine circa il fondamento ed i limiti del sapere umano si riduce ad un’indagine circa il fondamento ed i limiti del giudizio sintetico a priori. ↩
27) [p. 30,22]. Per l’esempio si cfr. Kr. r. Vern., 34-35. Col concetto di corpo mi è data anche l’estensione, perchè io non posso rappresentarmi il corpo se non come esteso. Io posso invece pensare il corpo anche senza il peso: questo appartiene al concetto della materia, ma non è in esso contenuto (Metaph. Anfangsgr., 509). ↩
28) [p. 31,1]. Si cfr. Kr. r. Vern., 141-143: “Del principio supremo di tutti i giudizi analitici„.↩
29) [p. 31, 29]. Quale è questo altro principio sul quale si fondano i giudizi sintetici? “Che cosa e questa incognita, questa X, sulla quale si fonda l’intelletto quando, uscendo dal concetto A, crede di trovare un predicato B straniero ad A e che tuttavia esso crede di dover collegare con A?„ (Kr. r. Vern., 35-36). V. il cap. II, 2, dell'Analitica dei principii “Del principio supremo di tutti i giudizi sintetici„ (Kr. r. Vern., 143-145). Questo medium di tutti i giudizi sintetici è l’unità dell’appercezione, quell’unità alla quale deve subordinarsi ogni contenuto intuitivo del senso per avere valore obbiettivo. I giudizi sintetici a posteriori ossia i collegamenti dell’esperienza sono fondati, attraverso le forme a priori del senso e dell’intelletto, sopra questa unità: ed i giudizi sintetici a priori non fanno che formulare, astrattamente dal dato, le condizioni necessarie di quest’unità del molteplice dell’intuizione in un’esperienza possibile: anche per essi quindi, il criterio e il fondamento dell’obbiettività è dato dall’unità formale dell’esperienza complessiva, alla quale si subordinano nella loro applicazione in concreto al dato dell’intuizione. Cfr. Proleg., 279. ↩
30) [p. 32,1]. I giudizi d’esperienza sono le sintesi date nell’esperienza. Essi risultano dalla unificazione degli elementi dell’intuizione sensibile per virtù dei principii formali. Questa unificazione dà una forma razionale al dato, non trasforma naturalmente il dato, per sè irrazionale, in qualche cosa di puramente razionale; sì che l’esperienza risulta, nonostante la sua organizzazione razionale, come qualche cosa di razionalmente indeducibile, di accolto passivamente, di dato a posteriori. Essa trasforma tuttavia l’aggregato incoerente delle impressioni in una totalità organica ed unica, il cui accordo interiore — frutto della sua unità formale — è per noi garanzia della sua obbiettività e della obbiettività dei principii razionali che in essa trovano la loro applicazione. — Questo passo dei Proleg. è letteralmente riprodotto in Kr. r. Vern., 34. ↩
31) [p. 32,12]. Sul carattere sintetico dei giudizi matematici si cfr. Riehl, D. philos. Kritiz., I2, 442-5. Anche lo Stuart Mill riconosce che il giudizio “2+1 = 3„ non è un giudizio identico e che il numero tre risulta da un atto di sintesi (Log., tr. fr., I, 202). Ma per Kant essa è di più una sintesi a priori: l’intuizione sulla quale si fondano tali atti di sintesi non ci viene dall’esterno e le esperienze chiamate in aiuto con le dita o i punti sono semplici esemplificazioni empiriche d’un’intuizione pura. “La matematica ci dà il più splendido esempio d’una ragion pura che estende da sè le sue conoscenze senza il soccorso dell’esperienza (Kr. r. Vern., 468, e così ib., 9, 58 ecc.). “Ciò che sempre di nuovo provoca l’illusione che la matematica sia analitica è in primo luogo il fatto che la parte puramente logica della matematica può in una certa misura venire costituita, indipendentemente dalla parte sintetica — un vantaggio metodico che non decide nulla circa il carattere di tutta la disciplina: perchè, tolto il riferimento ai fondamenti sintetici, noi abbandoniamo del tutto il campo matematico e passiamo nel campo puramente logico. Ma sopratutto è il vedere che le dimostrazioni della matematica si risolvono in pure equazioni. Forse che una parte della matematica non è detta Analisi e non sono le equazioni proposizioni identiche? È già stato notato che non si tratta di vedere se una proposizione esprima o no l’identità, ma se quest’identità sia conosciuta da semplici concetti o no. Solo nel primo caso noi abbiamo una proposizione analitica„ (Riehl, l. c.). Dal punto di vista del nuovo empirismo matematico si veda Couturat, Les princ. des mathém., 1905, 255 ss. — Come poi sia possibile intuire a priori qualche cosa in rapporto alla realtà sensibile, collegare elementi dell’intuizione sensibile senza ricorso all’esperienza e con assoluta certezza, è il problema che Kant risolverà nella prima parte di quest’opera (§ 6 ss.). ↩
32) [p. 32, 22]. Tutti i giudizi a priori ed a posteriori, per conseguenza anche quelli della matematica, debbono venir costruiti in armonia col principio di contraddizione, che è il criterio di tutto ciò che è (logicamente) possibile, a maggior ragione di ciò che è necessario e perciò oggetto di certezza apodittica. Ma i giudizi della matematica procedono in conformità, non in virtù del principio di contraddizione, non cioè per via di analisi. Una proposizione sintetica a priori può essere derivata, costruita, partendo da un’altra proposizione (cfr. Vaihinger, Comm., I, 199-201): ma anche in questo caso il principio di contraddizione non ha per funzione di ricavare questa proposizione “in sè stessa„ dalla proposizione antecedente, bensì solo di regolarne, in via negativa, il vicendevole rapporto. ↩
33) [p. 33,6]. Segner, Elementa arithmeticen, geometrice et calculi geometrici, 1767; in tedesco, 1764.↩
34) [p. 33, 9]. Krit. r. Vern., A, 114: “Che 7 + 5 = 12„, non è proposizione analitica. Perchè io non penso nè nella rappresentazione di 7, nè in quella di 5, nè in quella della loro composizione il numero 12 (che io debba pensarlo in occasione dell’addizione di 5 e 7 non importa; ciò che importa nelle proposizioni analitiche è solo se io penso realmente il predicato nella rappresentazione del soggetto)„. Il concetto-soggetto è “la somma di 7 e 5„; il quale non contiene logicamente il numero 12. Il “12„ e la “somma di 7 e 5„ sono eguali, ma non concettualmente identici: infatti quando io scompongo il 12 in 7 e 5 ho due parti del 12, non due note od elementi concettuali. Io ho il 12 per un’intuizione sintetica necessaria a priori; ma per questo debbo uscire dai concetti del 5, del 7 e della loro somma. ↩
35) [p. 33,18]. L’esempio è ripetuto in Krit. r. Vern., 238. Cfr. ib., 68: “Prendete la proposizione che due rette non possono circoscrivere uno spazio, non ci dànno alcuna figura e provatevi a dedurla dai concetti della linea retta e del numero due: oppure provatevi a dedurre la proposizione che tre rette circoscrivono una figura dai rispettivi concetti. Ogni vostro sforzo sarà inutile e voi vi vedrete costretti a ricorrere all’intuizione, come del resto fa sempre la geometria„. Ib., 470: “Si dia ad un filosofo il concetto di triangolo e gli si dica di trovare secondo la sua maniera il rapporto della somma dei suoi angoli con l’angolo retto. Egli non ha che il concetto di una figura circoscritta da tre linee rette e in essa il concetto di altrettanti angoli. Ora egli può meditare su questo concetto fin che vuole: egli non ne ricaverà mai nulla di nuovo. Egli può notomizzare i concetti della retta, dell’angolo, del numero tre e renderli chiari, ma non troverà mai altre proprietà che non giacciono in questi concetti. Ma che questo problema venga ripreso dal matematico. Egli comincierà subito col costruire un triangolo eco.„. ↩
36) [p. 34,8]. Costruire un concetto matematico vuol dire rappresentarlo in concreto (Proleg., § 7), rappresentarlo nell’intuizione pura corrispondente (Ueber eine Entdeck., 9 nota), aggiungere al concetto la corrispondente intuizione a priori (Ueber die Fortschr., 157). V. sopratutto Kr. r. Vern., 469: “Costruire un concetto vuol dire: esporre l’intuizione a priori ad esso corrispondente. Per la costruzione d’un concetto si esige quindi un’intuizione non empirica, che, come intuizione, è un oggetto singolo, ma che tuttavia, come costruzione d’un concetto, deve esprimere nella rappresentazione sua una validità universale per tutte le intuizioni possibili che cadono sotto lo stesso concetto. Così io costruisco un triangolo in quanto rappresento l’oggetto corrispondente a questo concetto o con l’immaginazione nell’intuizione pura o anche, conforme a questa, sulla carta, nell’intuizione empirica, in ambo i casi però del tutto a priori, senza averne tolto il modello da un’esperienza qualunque. La figura disegnata è empirica, ma serve ad esprimere il concetto senza far torto alla sua universalità, perchè in questa intuizione empirica si attende solo all'atto della costruzione del concetto, rispetto al quale molte circostanze, p. es. la grandezza dei lati o degli angoli, sono affatto indifferenti e si astrae quindi da queste differenze che non alterano il concetto del triangolo„. ↩
37) [p. 34,16]. In questo punto Kant ha male inteso Hume, perchè in nessuna parte Hume fa consistere il metodo matematico in un’analisi pura e semplice di concetti; di più i concetti matematici sono per lui un a priori del tutto relativo, derivato in ultima analisi dall’esperienza. Cfr. Compayré, Hume, 144 ss.; Baumann, Raum, Zeit u. Mathem., II, 481 ss., 521 ss. 569 ss.; Vaihinger, Comm., I, 361 ss. Quindi è bene a credersi che, se anche Hume avesse esplicitamente riconosciuto il carattere sintetico dei giudizi matematici, non avrebbe esitato affatto a sacrificare la matematica pura, riconducendo all’esperienza anche l’origine delle sintesi matematiche. ↩
38) [p. 35,8]. I giudizi metafisici sono del pari giudizi sintetici a priori; essi collegano fra loro elementi concettuali per mezzo d’una specie di intuizione intellettiva a priori. L’esistenza di giudizi metafisici — e cioè di giudizi sintetici a priori aventi il loro fondamento nella ragione e non (come i matematici) nella sensibilità pura, è egualmente per Kant fuori di dubbio: i giudizi della fisica pura (cfr. § 15) sono giudizi metafisici: tali sono anche tutti quelli che costituiscono la critica della ragione pura. Nella seconda parte dell’opera Kant mostrerà come siano possibili i giudizi della fisica pura: i giudizi sintetici a priori dell’intelletto sono elementi formali costitutivi dell’esperienza. E nella terza mostrerà invece come i giudizi della metafisica dogmatica, ossia i giudizi sintetici della ragione non abbiano per noi alcun valore teoretico, non si riferiscano ad alcuna realtà obbiettiva: il solo sapere che la ragione crea, traendolo da sè stessa, è il sapere che la ragione ha della ragione, la critica della ragione. ↩
39) [p. 36,12]. L’inciso “e invero nella conoscenza filosofica„ ha per fine di distinguere i giudizi sintetici a priori della metafisica da quelli della matematica. ↩
40) § 3. In questo paragrafo Kant difende solamente l’originalità della sua divisione dei giudizi, che non è se non vagamente accennata in Locke. In fine una punta satirica contro coloro che, incapaci di trovare da sè qualche cosa di nuovo, sono poi acutissimi nel trovare agli altri i precursori. — Si cfr. Ueber eine Entdeckung ecc., 71-72, dove mostra che nessuno dei suoi pretesi antecessori, Locke, Crusius, Reusch, aveva posto la distinzione nella sua universalità; Ueber die Fortschritte ecc., 90; e per Hume Kr. r. Vern., 499. ↩
41) [p. 36,25]. Christian Wolff, n. nel 1679 a Breslau, professore in Halle dal 1707, dal 1723 a Marburg e dal 1740 nuovamente in Halle, m. nel 1754, ridusse in sistema la dottrina leibniziana creando una scuola che fiorì nelle università tedesche per tutto il XVIII secolo. La dottrina sua è prolissamente esposta in una serie di volumi latini (23 vol. in-4°), più brevemente in una serie di manuali in lingua tedesca editi dal 1712 al 1720. Si veda l’utile estratto di J. Baumann, Wolffsche Begriffsbestimmungen, ein Hilfsbüchlein beim Studium Kants, 1910. — Alex. Gottlieb Baumgarten, n. nel 1714 a Berlino, dal 1735 docente di filosofia ad Halle, dal 1740 professore a Francoforte s. Oder, m. nel 1762, è il più profondo e il più indipendente dei discepoli di Ch. Wolff. Le opere sue principali sono la Metaphysica (1739) e l'Aesthetica (1750). Baumgarten esercitò un’influenza non trascurabile, specialmente nella terminologia, sopra Kant, che nella Dissert. del 1770 lo chiama perspicacissimus coryphaeus metaphysicorum. ↩
42) § 4. In questo paragrafo Kant rileva come una metafisica universalmente riconosciuta non esista: perchè anche i giudizi apoditticamente certi contenuti nei sistemi metafisici o sono giudizi analitici (ed in tal caso non sono estensioni della conoscenza) o, se sono giudizi sintetici a priori, non sono giustificati e sono applicati a costruzioni arbitrarie di nessun valore. Di qui la necessità di procedere all’esame della possibilità della metafisica prendendo ad analizzare la ragion pura in genere, la facoltà dei giudizi sintetici a priori. I Prolegomeni procederanno in questo esame col metodo analitico, partendo dai giudizi sintetici a priori della matematica e della fisica pura, il cui valore è incontestato, per risalire al loro principio e decidere quindi circa la possibilità dei giudizi a priori della metafisica. — Il § 4 e il § 5 portano entrambi per titolo “Questione generale„, che veramente è a suo posto solo nel § 5, perchè qui non si tratta della questione generale della possibilità dei giudizi sintetici a priori (posta nel § 5), ma della questione particolare della possibilità dei giudizi a priori della metafisica. Non si può pensare ad un errore o ad una svista, perchè il titolo è ripetuto nell’ultimo capitolo, dove è risolto il problema enunciato nel § 4. Non resta quindi che assumere col Vaihinger che la parola “generale„ abbia un senso diverso nei due casi: nel § 4 significa “questione essenziale, questione centrale dei Prolegomeni„; nel § 5 invece ha il senso di “questione generalizzata, ridotta ad un caso più generale„ (Comm., I, 380-1). ↩
43) [p. 37,27]. Quasi con le stesse parole in Nachricht von d. Einrichtung s. Vorles. ecc., 307: “Per imparare la filosofia, bisognerebbe anzitutto che ve ne fosse una. Si dovrebbe mostrare un libro e poter dire: “ecco, questa è sapienza e conoscenza sicura; studiatevi di comprenderla e di appropriarvela, fondatevi sopra, d’ora innanzi, le costruzioni vostre, e sarete filosofi. Fino a quando non mi si mostri un tale testo di filosofia, al quale possa richiamarmi, come a Polibio per chiarire un punto di storia o ad Euclide per spiegare un teorema di matematica, mi si conceda di dire etc.„.↩
44) [p. 38,27]. Il punto di vista critico segna, secondo Kant, la conciliazione superiore del dogmatismo e dell’empirismo (scetticismo). Il dogmatico ha una cieca fiducia nella ragione e crede di potere con essa ampliare a priori indefinitamente il proprio sapere anche nel campo trascendente: e cade così nelle contraddizioni e nei sofismi che sono l’inevitabile accompagnamento della metafisica dogmatica. Lo scettico invece da questo miserando spettacolo è tratto a negare, ma senza esame critico, ogni virtù alla ragione ed a rifugiarsi nell’esperienza; ma la negazione dei principii della ragione corrode anche l’esperienza e conduce al più completo scetticismo. Da questi due scogli ci salva soltanto il criticismo con il suo esame della ragione. Questa contrapposizione dei tre punti di vista ricorre spesso in Kant e diventò poi uno dei luoghi comuni della scuola kantiana. Si cfr. Proleg., 339, 360; Kr. r. Vern., 106, 497; id., A 236-7, 243; e specialmente lo scritto Ueber die Fortschritte d. Metaphysik seit Leibnitz und Wolff.↩
45) [p. 39, 3]. Una ricerca “secondo principii„, “da principii„ è una ricerca sistematica procedente da principii a priori, una trattazione ex principiis, non una semplice constatazione empirica ex datis. Ogni costruzione razionalistica era o voleva essere una costruzione logica della realtà, procedente da un principio per sè evidente e necessario: Kant, pure limitando il compito della filosofia ad un’autoconoscenza della ragione, vuole che questa autoconoscenza sia un sistema di principii logicamente concatenati e procedenti da un principio razionalmente necessario. Si cfr. la nota 22 e per l’espressione Reinhold, Beitr. zur Bericht., II, 1794, 48 ss. ↩
46) [p. 39,20]. Sul metodo analitico si cfr. Logik, § 117: “Alla soluzione del problema critico si aprivano due vie. Si poteva partire dal fatto della conoscenza sintetica pura nella matematica e nella fisica e risalire alle condizioni che ci spiegano questo fatto. Così procede la geometria quando considera come risolto un problema, la cui soluzione si cerca, e ricava dalla costituzione stessa del problema le condizioni necessarie della sua soluzione. Questo procedimento è analitico. In questo caso non ricercheremo se, ma come è possibile la conoscenza pura. Ma si può anche derivare la conoscenza pura immediatamente dagli elementi del sapere, dalle rappresentazioni del tempo e dello spazio invece che dalla matematica, dai concetti fondamentali e dai principii d’un’esperienza in genere invece che dalla fisica, e così stabilire il fondamento della scienza con le sue unità costitutive. Questo procedimento è sintetico; esso non ci rivela soltanto le condizioni d’un fatto assunto, ma produce il fatto stesso e lo pone così al disopra d’ogni dubbio„ (Riehl, D. philos. Kritizismus, I2, 447-8). A ragione però il Vaihinger osserva (Comment., I, 417-22) che Kant oscilla spesso tra il metodo analitico che si potrebbe dire matematico e quello che potrebbe dirsi scientifico. Il primo consiste nel supporre come data la risoluzione d’un problema per dedurne le conseguenze e pervenire così ad una condizione che è valida o realizzabile indipendentemente dalla ipotetica soluzione assunta come punto di partenza: questa condizione serve poi come punto d’appoggio per risalire in senso inverso alla dimostrazione della verità o della realizzabilità di ciò che era stato prima ipoteticamente assunto nella soluzione. Il secondo consiste nel partire da un dato di fatto (non da un’assunzione ipotetica) per risalire ai fattori che gli hanno dato origine ed averne così l’esplicazione genetica. Il problema che è oggetto dei Prolegomeni è un esempio del secondo caso: noi abbiamo come dato di fatto il sapere a priori della matematica e della fisica pura e da questo dobbiamo risalire ai suoi fattori, per trarne poi le debite conseguenze in rapporto alla sua vera funzione ed ai limiti nei quali deve essere contenuto. Ma Kant (cfr. nota 48) passa poi molte volte a considerare l’esplicazione della possibilità dei giudizi della matematica e della fisica pura come una giustificazione, una dimostrazione della loro validità; e quindi anche il punto di partenza appare allora come una posizione provvisoria che è giustificata soltanto dall’analisi susseguente: allora l’analisi “parte di ciò che si cerca, come se fosse dato, per risalire alle condizioni sotto le quali è possibile„ (§ 5 nota). ↩
47) [p. 39,24]. La scienza generale della realtà empirica comprende per Kant la fisica o scienza della natura esteriore e la psicologia o scienza della natura interiore. La fisica pura sarebbe quindi la metafisica immanente della natura esteriore, la scienza che tratta delle leggi formali della realtà esteriore, che noi possiamo conoscere a priori in quanto procedono dalle forme pure dell’intelletto. Qui però corrisponde alla “fisiologia immanente„ dell’Architettonica della ragion pura (Kr. r. Vern., 544 ss.), che abbraccia tanto la natura Corporea quanto la natura pensante ed ha per oggetto “la natura come il complesso di tutti gli oggetti sensibili, quindi così come essa ci è data, ma solo secondo le condizioni a priori, sotto le quali soltanto essa ci è genericamente data„ (Cfr. Prolog., § 15; Kr. r. Vern., 38; Grundl. zur Metaph. d. Sitt., 387 ss.; Metaph. Anfangsgr. d. Naturw., 467 ss.). Nella tripartizione dei concetti sintetici a priori in giudizi matematici e metafisici data nel § 2, i giudizi della fisica pura sono perciò inclusi nei metafisici (laddove nella Critica, p. 38-39, ha luogo la distinzione in giudizi matematici, giudizi della fisica pura e giudizi metafisici, intendendosi per questi solo i giudizi della metafisica trascendente); il giudizio “la sostanza è permanente„ è citato nel § 2 come un giudizio metafisico e nel § 15 come un giudizio della fisica pura. Quindi nel § 2 i giudizi metafisici comprendono i giudizi sintetici a priori della metafisica immanente o fisica pura (opera dell’intelletto, cfr. Kr. d r. Vern., 499) e i giudizi sintetici a priori della metafisica trascendente, dell’antica metafisica (opera della ragione), ai quali pensa più propriamente Kant, quasi sempre quando parla dei giudizi sintetici a priori della metafisica. ↩
48) [p. 39,29]. L’esistenza d’un sapere universale ed obbiettivo dato a priori realmente nella matematica e nella fisica pura — ecco il punto di partenza, l’ubi consistam della , almeno dal punto di vista adottato nei Prolegomeni. Il problema è di ricercare come questo sapere sia possibile, affine di determinare per questa via non come, ma se sia possibile un sapere analogo (cioè costituito anch’esso di giudizi sintetici a priori) nella metafisica. Ciò però non esclude che questa ricerca del “come„ confermi il “se„ anche in rapporto alla matematica ed alla fisica pura; che cioè l’esplicazione del come si hanno le conoscenze matematiche ed i giudizi della fisica pura, non giovi a rassicurarci intorno alla validità obbiettiva della prima (sebbene essa non ne avrebbe per sè bisogno) e non raffermi contro gli scettici il valore obbiettivo dei principii intellettivi; la deduzione dei quali è ad un tempo giustificazione ed esplicazione (Cfr. Vaihinger, Comm., I, 385 ss.). ↩
49) § 5. Dopo d’avere così convertito il problema della possibilità della metafisica in quest’altro più generale: come sono possibili i giudizi sintetici a priori, dopo d’aver mostrato la necessità di risolvere questo problema prima di affrontare qualsiasi questione metafisica e d’averne rilevato le difficoltà, Kant divide la trattazione in quattro parti, ciascuna delle quali riflette un punto del problema generale: 1° Come sono possibili i giudizi sintetici a priori della matematica? 2° Come sono possibili i giudizi sintetici a priori della fisica pura? 3° Donde viene all’uomo la tendenza alla metafisica? 4° Come è possibile costituire scientificamente la metafisica? — La questione della possibilità dei giudizi sintetici a priori della metafisica è scissa, come si vede, in due parti. Posta la vanità della metafisica sussistente di fatto, non era possibile porre la questione negli stessi termini in cui è posta per la matematica e la fisica pura, dove abbiamo già come dati di fatto due discipline validamente costituite e contenenti giudizi sintetici a priori; posta l’inevitabile necessità di proporsi i problemi metafisici, non era possibile una semplice condanna senza rinvio. Si imponeva invece: 1° un esame del fondamento che la tendenza metafisica ha nello spirito umano; 2° in base a tale conoscenza, una riforma della metafisica (la costituzione della Critica). Sulla corrispondenza delle parti della Critica a queste quattro domande v. Cantoni, E. Kant, 1, 180; Vaihinger, Comm., I, 371 ss. ↩
50) [p. 40,7]. Perchè la possibilità dei giudizi sintetici a posteriori non ha bisogno di esplicazione? Perchè l’esperienza è tutta costituita di sintesi a posteriori e il valore obbiettivo dell’esperienza non è da Kant posto in dubbio. Il criterio supremo e definitivo della verità sta per Kant nella possibilità di costituire una totalità coerente e stabile: questo è, in ultimo, il carattere che distingue la realtà dell’esperienza dal sogno. Ora l’esperienza risulta dalla unificazione complessiva e stabile dei dati sensibili, per mezzo d’un sistema di leggi e di principii universali, in un mondo di oggetti: che appunto per ciò noi contrapponiamo come realtà alle sintesi parziali, subbiettive ed instabili dell’illusione e del sogno. Certo questo mondo degli oggetti non costituisce ancora una totalità assoluta, come la ragione nostra esigerebbe: perciò l’esperienza non è un sistema deducibile a priori da un principio primo e non costituisce una scienza nel rigoroso senso della parola. Essa è tuttavia l’unica forma nella quale può essere data allo spirito umano la totalità della realtà: quindi essa è per noi la sola conoscenza obbiettiva, anzi, in quanto tale, è anche la sorgente e il criterio dell’obbiettività dei sistemi formali della matematica e della fisica pura, i quali, sebbene non traggano il loro valore dall’esperienza e siano anzi le leggi costitutive dell’esperienza stessa, deducibili a priori senz’alcun ricorso all’esperienza, ricevono il loro valore obbiettivo solo dal fatto che s’inquadrano, come elementi formali, nell’unità complessiva dell’esperienza (cfr. Proleg., 274). Gli stessi tentativi estremi della ragione di pervenire a quel principio delle cose, dal quale tutta la realtà si dovrebbe poter dedurre a priori, non per altro sono da Kant ripudiati, se non perchè fanno appello a principii trascendenti, rispetto ai quali viene a mancare questo nostro solo mezzo di controllo: l’unificabilità nell’esperienza. Kant, dato il suo proposito di ricercare la validità ed i limiti della conoscenza a priori, prende come punto di partenza della sua regressione analitica non il fatto dell’esperienza, ma il fatto dell’esistenza d’un sapere a priori obbiettivamente valido nella matematica e nella fisica pura; ma l’obbiettività di questo sapere presuppone l’obbiettività dell’esperienza, la quale non è implicata direttamente nella presente ricerca, in quanto l’oggetto di questa non è, come si è detto, il sapere in genere, ma il sapere a priori, il sapere della ragion pura. Tuttavia come l’analisi del sapere a priori della matematica e della fisica pura ne è ad un tempo la giustificazione, così, non essendo l’esperienza altro che una composizione dei dati sensibili secondo quei medesimi principii a priori che stanno a fondamento del sapere puro, la giustificazione del sapere puro e anche una giustificazione dell’esperienza: la critica della ragion pura è indirettamente anche una critica dell’esperienza. ↩
51) [p. 40,9]. L’esperienza è una “sintesi continua di percezioni, è il collegamento dei dati sensibili in un tutto secondo leggi universali e necessarie„. Però la parola “esperienza„ non ha in Kant un senso costante. Normalmente significa appunto “il collegamento sintetico delle percezioni in una coscienza, in quanto è necessario„ (Proleg., 305), in quanto cioè “riposa su concetti intellettivi puri a priori„ (ib., 302); essa è un “prodotto dei sensi e dell’intelletto„ (ib., 300, 316), e non solo una composizione empirica di percezioni (ib., 310). In questo senso Kant ha distinto i giudizi di esperienza dai giudizi percettivi. Talora però è presa nel senso volgare di dato percettivo; così p. es. in Proleg., 268, 315: “L’esperienza è (per Kant) propriamente il prodotto comune della sensazione e dell’intelletto, il quale elabora la rozza materia offertagli dalla sensazione. Ma non raramente Kant, quando parla dell’esperienza, pensa più al fattore sensibile di questo prodotto. “Esperienza„ vale allora per lui all’incirca quanto percezione dei fenomeni esterni od interni od almeno quanto il ricco contenuto conoscitivo da tali percezioni ricevuto„ (I. Bona Meyer, Kant’s Psychol., 1870, 161). Si cfr. H. Benderr, Ueber d. Begriff d. Erfahrung bei Kant in Zeit. f. Philos, u. phil. Krit., 132, 255 ss. ↩
52) [p. 43,20]. Le ipotesi metafisiche sono ammissibili soltanto sotto la forma di fede razionale, come postulati inseparabili dall’attività morale; ma speculativamente non hanno valore. “La ragione isolata dall’esperienza può o tutto conoscere a priori e come necessario o non conoscere affatto: quindi il suo giudicare non è mai un opinare, ma o un astenersi da ogni giudizio o apodittica certezza„ (Kr. r. Vern., 505). ↩
53) [p. 43,22]. La filosofia trascendentale è precisamente quella critica preliminare della metafisica, che deve antecedere ogni ricostruzione sistematica e che Kant ha dato nella Critica della ragion pura. Ueber die Fortschr. d. Met., 98: “la filosofia trascendentale, cioè la dottrina della possibilità della conoscenza a priori in generale, in altre parole la Critica della ragion pura etc.„: si cfr. la nota 36. — La parola “trascendentale„ che nel senso tradizionale “notionem significat quae omnibus omnino rebus competit, quae sunt vel esse possunt (res, ens, verum, bonum, aliquid, unum)„ ed in questo senso è ancora usata da Spinoza, Eth., II, 11, presso Kant si applica in genere nel senso di “appartenente ai costituenti a priori dell’esperienza„ ed è specialmente riferita, come qui, alla conoscenza riflessa dell’uso obbiettivo dei costituenti a priori dell’esperienza (filosofia, estetica, logica, ricerca trascendentale etc.). Kant applica questa denominazione anche alle facoltà e funzioni conoscitive (immaginazione, appercezione etc.) ed ai loro atti (schema, principio, sintesi etc.) sempre però in quanto parliamo di essi come concorrenti a priori nella costituzione dell’esperienza; alla verità, all’errore, all’illusione che sono la necessaria conoscenza della nostra facoltà di conoscere a priori rispetto agli oggetti dell’esperienza; cfr. Proleg., 293, 374, nota; Kr. r. Vern., 43, 54, 78, 119. Chiara è pertanto la differenza fra trascendentale e trascendente: la stessa filosofia trascendentale è sempre ancora un sapere relativo all’esperienza, non un sapere trascendente (Proleg., 352 ss.). D’altro lato però il trascendentale si oppone nettamente all’empirico, come ciò che non solo non deriva dall’esperienza, ma non è legato all’esperienza e può venir pensato astrattamente (certo però non conosciuto obbiettivamente) per virtù del pensiero puro: in questo senso Kant parla dell’oggetto e del soggetto trascendentale, contrappone la realtà od idealità empirica del tempo e dello spazio alla realtà od idealità trascendentale (Kr. r. Vern., 56, 61). In quest’ultimo rispetto certo il concetto di “trascendentale„ si riavvicina al “trascendente onde non è meraviglia che il confine tra di essi diventi in Kant qualche volta assai incerto (p. es., Prol., § 55 e Kr. d. r. Vern., 225: “Ma quelle domande trascendentali che vanno al di là della natura etc.„). Si cfr. A. Gideon, Der Begriff Trascendental in Kants Kritik d. r. Vernunft, 1903. ↩
Indice dei Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza
Ultima modifica 2021.07