Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza*1

Immanuel Kant (1783)


[255] PREFAZIONE1

Questi Prolegomeni sono scritti non per i novizi, ma per i futuri maestri2, ed ancora devono servire a questi non ad ordinare l’esposizione d’una disciplina già esistente, ma a ritrovare da sè medesimi questa scienza stessa.

Vi sono dei dotti che fanno consistere la loro filosofia nella storia della filosofia3 (antica e moderna): questi Prolegomeni non sono per loro. Attendano essi fino a che coloro i quali sono occupati ad attingere direttamente dalle sorgenti della ragione abbiano compiuta l’opera loro; ed allora verrà la lor volta di dar notizia al mondo di quello che è stato fatto. Diversamente non si potrà dire nulla che secondo la loro opinione non sia già stato detto altra volta; ed in verità questo si può predire senza tema d’errare anche per il futuro, perchè l’intelletto umano ha fantasticato in varia guisa per tanti secoli su innumerevoli oggetti che certamente riuscirà ben diffìcile non trovare ad ogni novità qualche cosa d’antico che abbia con essa una certa analogia.

Il mio proposito è di convincere tutti coloro, che reputano opportuno occuparsi di metafisica, di questa verità: che è assolutamente necessario sospendere provvisoriamente il loro lavoro, considerare tutto ciò che si è fatto come non fatto, e porre anzi ogni altra cosa la questione: “è possibile in genere ciò che si dice metafisica?„.

Se essa è scienza, come avviene che non riesce, come altre discipline, ad affermarsi universalmente e stabilmente? Se non è scienza, come avviene che non cessa di glorificarsi come scienza e di trattenere l’intelletto umano con speranze non mai morte, [256] ma non mai realizzate? Sia dunque che si debba decidere che è sapere o che non è sapere, è necessario venire una volta ad una conclusione sicura sopra questa pretesa scienza: perchè su questo piede non è possibile durarla con essa più a lungo. Sembra perfino qualche cosa di ridicolo che mentre ogni altra scienza senza cessa progredisce, in questa che vuol essere la sapienza in persona, che ogni uomo interroga come un oracolo, noi ci aggiriamo sempre sullo stesso punto, senza mai fare un passo innanzi. Onde non è meraviglia che i suoi seguaci siano diminuiti di numero e che coloro i quali si sentono abbastanza forti per brillare in altre scienze non vogliano arrischiare la loro fama in questa, dove ciascuno, per ignorante che sia nel resto, si arroga un giudizio sovrano, perchè in realtà in questo campo non si è ancor trovato una misura ed un criterio sicuro per distinguere la ricerca solida e seria dalle chiacchiere superficiali.

Non è però una cosa tanto strana che, dopoché una scienza ha subito una lunga elaborazione, quando si pensa di esser giunti chissà a quali meravigliosi risultati, venga uno e ponga la questione se e come tale scienza sia in genere possibile4. Perchè la ragione umana è così pronta nelle sue costruzioni che già più volte ha eretto l’edificio e poi ha dovuto di nuovo demolirlo per vedere come erano costruite le fondamenta. Non è mai troppo tardi per diventare saggio e ragionevole: certo però è sempre più difficile, quando il giudizio arriva tardi, rimettersi in carreggiata.

Il chiedere se una scienza sia possibile presuppone che si dubiti della sua realtà. Ma un tal dubbio offende tutti quelli il cui avere si riduceva forse a questo creduto gioiello; onde colui che si lascia sfuggire questo dubbio dovrà sempre attendersi una viva resistenza da tutte le parti. Alcuni, nella superba coscienza del loro antico e perciò creduto legittimo possesso, con i loro compendii metafisici alla mano guarderanno verso di lui con disprezzo: altri, che non sono capaci di vedere se non ciò che è uguale a ciò che hanno già altre volte veduto, non lo comprenderanno: e tutto rimarrà per qualche tempo nello stato di prima, come se non fosse accaduto nulla che facesse temere o sperare un prossimo mutamento.

Io ardisco tuttavia predire che colui il quale avrà letto e ponderato questi Prolegomeni non solo dubiterà della sua creduta scienza, [257] ma sarà in appresso perfettamente convinto che una tale scienza non è possibile senza che prima si sia soddisfatto alle esigenze qui esposte dalle quali dipende la sua possibilità, e che, poiché finora ciò non è mai stato fatto, una vera metafisica non esiste ancora in nessun modo. Poiché nondimeno non è assolutamente possibile abbandonare queste ricerche5, alle quali è troppo intimamente unito l’interesse della ragione umana universale*2, egli riconoscerà che una completa riforma o piuttosto una rinascita della metafisica secondo un piano del tutto nuovo è inevitabile ed imminente, qualunque sia la resistenza che ad essi si voglia per un certo tempo opporre.

Dopo i tentativi di Locke e di Leibniz, anzi meglio dopo il sorgere della metafisica, fin dove arriva la sua storia, non vi è stato alcun avvenimento che avrebbe potuto esser più decisivo in riguardo al destino di questa scienza, dell’attacco mosso contro di essa da Davide Hume6. Egli non portò nessuna luce nuova in questo genere di conoscenze, ma accese una scintilla, dalla quale avrebbe potuto aver origine molta luce, se avesse trovato un'esca appropriata e di questa il lento ardore fosse stato accuratamente conservato ed accresciuto.

Hume partì essenzialmente da un unico, ma importante concetto della metafisica, dal concetto della connessione tra causa ed effetto (includendovi perciò anche i concetti derivati della forza e dell’azione, etc.) e sfidò la ragione, che nella metafisica pretende di averlo generato dal proprio seno, a dargli contezza del come essa possa pensare che una cosa sia così costituita, che, posta la stessa, venga per ciò posto necessariamente anche qualcosa d’altro: chè questo esprime il concetto di causa. Egli dimostrò inconfutabilmente che alla ragione è affatto impossibile pensare a priori, deducendolo da concetti, un tale rapporto, perchè questo contiene necessità: ora non si vede per nulla come dal fatto che qualche cosa è, derivi necessariamente l’esistenza di un’altra cosa, come cioè si possa introdurre a priori il concetto d’un tale collegamento. Da ciò egli dedusse che la ragione si inganna a partito nel ritenere questo concetto come una propria creatura, mentre esso non è altro che un illegittimo parto7 [258] dell’immaginazione, la quale, fecondata dall’esperienza, ha collegato fra loro certe rappresentazioni sotto la legge dell’associazione e quindi vorrebbe far passare la necessità soggettiva, cioè l’abitudine, che ne deriva, per una necessità obbiettiva rivelantesi al pensiero. Di qui egli concluse che la ragione non abbia facoltà alcuna di pensare, anche solo in generale, tali collegamenti, perchè i suoi concetti sarebbero sue creazioni arbitrarie e tutte le sue pretese conoscenze a priori non sarebbero che esperienze comuni travestite; il che equivale a dire che non vi è e non vi può essere in alcun modo una metafisica*3.

Per quanto affrettata ed illegittima questa deduzione fosse, essa aveva almeno il merito di fondarsi su d’una seria ricerca e questa avrebbe ben meritato che gli intelletti più eminenti di quel tempo si fossero uniti per dare una miglior soluzione, se possibile, al problema così come Hume l’aveva posto; donde avrebbe potuto ben presto sorgere una riforma totale della metafisica.

Ma il destino, a questa sempre avverso, volle che egli non venisse inteso da nessuno. Non si può vedere, senza sentirne una certa pena, come i suoi avversarli, Reid, Oswald, Beattie ed anche Priestley8 mancarono totalmente il vero punto della questione, e quindi, accettando sempre come dato ciò che egli negava e prendendo a dimostrare con grande calore, anzi spesso con arroganza, ciò che egli non aveva mai pensato a mettere in dubbio, perdettero talmente di vista la via da lui aperta ad un rinnovamento della metafisica, che tutto rimase nello stato di prima, come se nulla fosse avvenuto. La questione non era se il concetto di causa sia legittimo, utile, anzi indispensabile nella conoscenza naturale, perchè questo non era stato mai da Hume messo in dubbio; bensì se esso venga posto dalla ragione [259] a priori e perciò possegga una verità propria indipendente dall’esperienza e possa ricevere un’applicazione più estesa, non limitata soltanto agli oggetti dell’esperienza; quest’era il punto che Hume aspettava gli fosse chiarito. Si trattava dell’origine di questo concetto, non del suo indispensabile uso: messa in chiaro l’origine, sarebbe stata risolta anche la questione delle condizioni della sua applicazione e dei limiti entro i quali essa è legittima.

Ma gli avversari dell’illustre filosofo avrebbero dovuto, per assolvere degnamente il loro compito, penetrare profondamente nella natura della ragione, in quanto facoltà del pensiero puro: ciò che ad essi tornava malagevole. Essi trovarono quindi un mezzo più comodo per poter altezzosamente trionfare, senza bisogno di maggiori lumi — e cioè di appellarsi al buon senso9. Ora certo è un grande benefizio del cielo l’essere dotato d’un retto, d’un sano buon senso. Ma il buon senso bisogna dimostrarlo con i fatti, col dire e fare cose ragionevoli e sensate, non coll’appellarsi ad esso come ad un oracolo quando non si sa più che cosa addurre a propria giustificazione. L’appellarsi al buon senso comune solo quando (e non prima) si sente d’essere a corto d’intelligenza e di scienza è una di quelle sottili invenzioni moderne che servono al più insipido parolaio a tener testa, con una certa fortuna, allo spirito più solido e profondo. Ma finché resta un poco di chiaroveggenza, è bene guardarsi dal ricorrere a questo appello disperato. Ben considerato, infatti, questo richiamo al buon senso non è che un appello al giudizio della folla: il cui plauso fa arrossire il filosofo, gonfia ed insuperbisce il ciarlatano. È pur lecito supporre che Hume avesse un perfetto buon senso tanto quanto Beattie; e di più ancora qualche cosa che questi certo non aveva, e cioè una ragione critica capace di contenere nei suoi limiti l’intelletto comune affinchè non si avventuri in speculazioni, e, quando si tratta unicamente di speculare, non presuma di decidere, non essendo capace di giustificare sè stesso relativamente ai suoi principii; perchè così soltanto rimane veramente buon senso. Lo scalpello, la mazza, sono buoni per sgrossare un trave; ma per incidere nel rame ci vuole il bulino. Così tanto il buon senso quanto l’ingegno speculativo sono entrambi utili, [260] ma ciascuno nel suo genere; quello quando si tratta di giudizi che hanno la loro applicazione immediata nell’esperienza, questo quando si tratta di giudizi generali, astratti, come è il caso appunto nella metafisica, dove il così detto buon senso (spesso così detto pur troppo per antiphrasin), non ha competenza alcuna per giudicare.

Io lo confesso apertamente10: è stato l’avvertimento di Davide Hume11 che molti anni fa primamente ruppe in me il sonno dogmatico e diede alle mie ricerche nel campo della filosofia speculativa un tutt’altro indirizzo. Io era ben lontano dal seguirlo in tutte le sue deduzioni, le quali avevano la loro origine nel fatto che egli non si propose il problema nella sua totalità, ma ne vide solo una parte, la quale, quando non si afferri il tutto, non può condurre ad alcun risultato utile. Quando si parte da un principio ben fondato, sebbene non svolto, che altri ci ha lasciato, si può bene sperare, meditandovi sopra a lungo, di giungere con esso più lontano di quel sagace predecessore al quale dobbiamo la prima scintilla di questa luce.

Io ricercai dapprima se l’osservazione di Hume non potesse venir tradotta in una forma universale12 e trovai ben tosto che il concetto della connessione causale è ben lungi dall’essere il solo per mezzo del quale l’intelletto stabilisce a priori dei collegamenti fra le cose, che anzi la metafisica è interamente costituita da concetti di questo genere. Io cercai di assicurarmi del loro numero ed essendomi riuscito, secondo il mio desiderio, di derivarli tutti da un unico principio, procedetti quindi alla giustificazione di questi concetti, dei quali io era assicurato oramai, che non derivano, come Hume temeva, dall’esperienza, ma dall’intelletto puro. Questa giustificazione, che al mio acuto predecessore era parsa impossibile, alla quale nessuno prima di lui aveva pensato, sebbene ciascuno si serva tranquillamente di questi concetti senza chiedersi su che cosa poggi la loro validità obbiettiva, è l’opera più ardua che mai sia stata intrapresa per la metafìsica: e, ciò che è il peggio, la metafisica, o almeno quello che sotto questo nome abbiamo, non poteva porgermi il minimo aiuto, dovendo questa giustificazione mettere in chiaro appunto la possibilità d’una metafisica. Essendomi così riuscita la soluzione del problema posto da Hume, e non solo in un caso speciale, ma in rapporto a tutta la facoltà della ragione pura, [261] potei appresso, con progresso sicuro ma lento, determinare completamente secondo principii generali, i limiti e il contenuto della ragione pura in tutta l’estensione sua: il che è appunto ciò di cui la metafisica aveva bisogno per erigere il suo sistema secondo un piano sicuro.

Ma io temo che alla soluzione del problema di Hume nella sua formola più generale (cioè alla Critica della ragione pura) non accada la stessa cosa che al problema13, quando per la prima volta venne posto. La si giudicherà ingiustamente perchè non la si intende; non la si intenderà perchè si ha voglia di sfogliare il libro, non di meditarlo; e non si prenderà la pena di meditarlo perchè è arido, perchè è oscuro, perchè contraddice a tutti i concetti correnti e per di più è prolisso. Ora io confesso che mi sorprende il sentir rimproverare un filosofo perchè non è popolare, non è divertente, non è facile, quando si tratta dell’esistenza d’un sapere della più alta importanza, indispensabile all’umanità, il quale non può esserci messo in luce altrimenti che secondo i procedimenti più rigorosi d’una metodica esattezza: le esposizioni popolari potranno, se mai, venir dopo, non prima. Giusto è il rimprovero solo in riguardo ad una certa oscurità14 che viene dalla ampiezza del disegno, per la quale non è facile abbracciare d’uno sguardo i punti essenziali della trattazione: a questo difetto mi sono proposto di rimediare con i presenti Prolegomeni.

La prima opera, che tratta della ragione pura in tutta la sua estensione e dei suoi limiti, rimane certo sempre l’opera fondamentale a cui i Prolegomeni servono come d’introduzione: perchè è necessario che la critica della ragione sia stata costituita come scienza, sistematicamente e fino ai più minuti particolari, prima che si possa pensare ad erigere una metafisica od anche solo averne la più lontana speranza.

Già da molto tempo si è abituati a vedere servite come novità delle verità vecchie e banali, isolate dal loro contesto primitivo e rivestite, sotto nuovo titolo, d’un abito sistematico fatto alla moda che piace meglio; e la maggior parte dei lettori non si aspetterà niente d’altro anche dalla detta Critica. Ma questi Prolegomeni faranno veder loro [262] che si tratta invece d’una scienza affatto nuova, della quale nessuno aveva finora avuto non dico il disegno, ma neanche la più lontana idea, la quale non ha nessun antecedente al quale riattaccarsi se non l’accenno dato col suo dubbio dallo Hume; il quale però anch’egli non sospettò nemmeno la possibilità d’una scienza formale della ragione, ma preferì ritrarre la sua navicella al sicuro, sulla spiaggia (dello scetticismo), per lasciarla ivi giacere ed imputridire, mentre il proposito mio è stato quello di darle un pilota che munito d’una carta perfetta del mare e d’una bussola, sapesse guidarla fermamente, secondo i principii sicuri dell’arte nautica, derivata dalla conoscenza del globo, sulla via ch’egli ritiene migliore.

Addentrarsi in una scienza, che è affatto isolata ed unica nel suo genere, accompagnati dal preconcetto che si possa giudicarla sul fondamento di conoscenze che già si crede di possedere nello stesso campo, sebbene siano queste appunto che è necessario anzitutto revocare in dubbio, non conduce ad altro che a credere di vedere dappertutto quello che già si conosceva, perchè forse le espressioni hanno qualche somiglianza; soltanto si vede tutto deformato, travestito in un barbaro gergo e pieno di controsensi, perchè si vedono i pensieri dell’autore non in sè, ma traverso al modo proprio di pensare, diventato, per lunga abitudine, natura. Ma la lunghezza dell’opera — in quanto ha la sua ragione nella materia, non nella prolissità dell’esposizione — e il carattere suo inevitabilmente arido e metodico, per quanto siano pregi della materia in se stessa, nuocevano al libro certamente.

Ora non a tutti è dato di scrivere con tanta sottigliezza e nello stesso tempo con tanta grazia come Davide Hume, o di essere così eleganti e così profondi a un tempo come Mosè Mendelssohn15: ma anch’io avrei potuto dare (così mi lusingo almeno) alla mia esposizione una forma a tutti accessibile, se mi fossi proposto soltanto di abbozzare un disegno e di raccomandarne l'esecuzione ad altri e non avessi avuto tanto a cuore il bene della scienza che per tanti anni mi ha occupato: certo del resto vi è voluto una costanza non comune ed un certo spirito di sacrifizio per posporre le lusinghe d’un rapido successo alla speranza d’un trionfo più tardo, ma più duraturo.

Abbozzare disegni è una brillante, grandiosa occupazione dello spirito per mezzo della quale si acquista l’apparenza d’un genio creatore; [263] mentre si esige dagli altri ciò che non si è capaci di fare da sè, si biasima ciò che non si saprebbe far meglio e si propone ciò che non si sa nemmeno se sia possibile; per quanto anche solo un valido disegno d’una critica generale della ragione avrebbe già richiesto qualche cosa di più di quello che si creda, quando non fosse stato, come d’ordinario, una declamazione di pii desiderii. Ma la ragione pura costituisce una sfera così isolata e strettamente connessa in tutte le sue parti che non si può trattare nessuna delle sue parti senza toccare anche le altre e non si può determinare nulla senza aver assegnato prima a ciascuna il suo posto e la sua influenza sulle altre: poiché non essendovi nulla di esterno ad essa che possa guidare e correggere il nostro giudizio nello studio interno della ragione, il valore e la funzione d’ogni parte possono venir determinate solo dal rapporto in cui essa sta con le altre e, come in un organismo, la destinazione di ogni membro può venir derivata soltanto dal concetto definitivo del tutto. Quindi di una tale critica si può dire che essa non è mai sicura fino a quando non è stata condotta a termine completamente fino ai più minuti particolari della ragione pura, e che nella sfera di questa facoltà si deve determinare e decidere o tutto o nulla.

Ma se un tale disegno, precedendo la Critica della ragione pura, sarebbe stato incomprensibile, malsicuro ed inutile, esso sarà invece tanto più utile, quando venga dopo. Perchè così esso permetterà di abbracciare il tutto, di esaminare isolatamente i punti essenziali e di rendere in qualche punto l’esposizione migliore di quello che potesse essere in una prima redazione dell’opera.

In questo scritto il lettore ha un simile abbozzo esplicativo dell’opera completa: nel quale io ho potuto seguire il metodo analitico16, mentre l’opera stessa aveva dovuto essere redatta secondo il metodo sintetico, perchè la scienza mettesse bene in evidenza, nella loro connessione naturale, tutte le sue articolazioni e quasi riproducesse nella sua disposizione l’organizzazione della ragione stessa. Chi poi trovasse ancora oscuro questo disegno che io mando innanzi come Prolegomeni ad ogni metafisica futura, pensi che non è necessario che tutti studiino metafisica, che vi sono ingegni i quali possono riuscire benissimo in scienze profonde, anche ardue, ma più vicine all’intuizione, e pure non riescono nelle ricerche fondate su puri concetti astratti [264] e che è bene in questo caso applicare il proprio talento in altro campo; ma che colui il quale si accinge a giudicare di metafìsica od anche ad erigerne una, dovrà assolutamente soddisfare alle esigenze qui da me poste, sia che a ciò si disponga con l’accogliere la mia soluzione o col confutarla a fondo sostituendone un’altra — perchè eliminarla senz’altro non è possibile; — e infine che quell’oscurità contro la quale tanto si grida (sovente solo per nascondere la propria pigrizia o la propria incapacità) ha anche il suo vantaggio: perchè tanti, mentre nelle altre scienze mantengono un prudente silenzio, nelle questioni metafisiche si atteggiano a maestri e trinciano sentenze solo perchè la loro ignoranza qui non urta così duramente contro il sapere dei competenti; ma ben urterà anche qui contro i principii della vera filosofia critica, dei quali si potrà dire quindi:

Ignavum, fucos, pecus a praesepibus arcent.17

Virg., Georg., IV, 168.


Note di Kant

*1. I numeri tra parentesi corrispondono alle pagine dell’ed. dell'Accademia di Berlino (vol. 42).

*2.

Rusticus exspectat dum defluat amnis, at ille

Labitur et labetur in omne volubilis aevum.

Orazio [Epist., I, 2, 42 ss.],

*3. Tuttavia Hume chiamava metafisica questa medesima filosofia distruttrice e le annetteva un alto valore. “La metafìsica e la morale, dice egli (Saggi, p. 4), sono i rami più importanti della scienza: la matematica e le scienze della natura non hanno la metà del valore„. Il sagace uomo aveva però qui l'occhio soltanto al vantaggio negativo derivante dalla limitazione delle pretese eccessive della ragione e dall’eliminazione completa di tante interminabili ed aspre controversie che confondono il genere umano; ma nello stesso tempo perdeva di vista il danno positivo che sorge quando si preclude alla ragione la visione dei vasti orizzonti ai quali soltanto essa può ispirarsi nell’imporre alla volontà il fine supremo di tutte le sue aspirazioni.


Note di Piero Martinetti

1. La prefazione comprende quattro parti: nella prima Kant mostra la necessità di una riforma e perciò d’un esame critico della metafisica; nella seconda tratta dell’unico tentativo fatto prima di lui in questo senso da Davide Hume; nella terza presenta la sua critica della metafisica come un’estensione a tutti i principii della ragione del problema posto da Hume in rapporto al solo principio di causa; nella quarta dà ragione della nuova esposizione contenuta nei Prolegomeni.

2. I [pag. 19, linea 2]. Questi Prolegomeni non sono scritti, dice Kant ironicamente, per coloro che riducono la filosofìa ad una compilazione eclettica di reminiscenze storiche, ma per coloro che pensano da sè, affine di persuaderli che, prima di affrontare qualunque problema metafìsico, è innanzi tutto necessario chiedersi: è possibile la metafisica? Questa domanda è resa necessaria dallo stato di questa disciplina: essa non progredisce e sembra avvolgersi in continui errori: d’altra parte lo spirito umano non può rinunziare ad occuparsi dei problemi che ne sono l’oggetto. Per mezzo di questa indagine noi vedremo fino a qual punto ed a quali condizioni essa è possibile: e così quali riforme è necessario introdurre in essa per farla risorgere.

3. [p. 19, 6]. La filosofia è conoscenza ex principiis, costruzione razionale, non esposizione storica. Kant dirige qui la sua ironia contro i filosofi eclettici del suo tempo che sostituivano con l'erudizione l’assenza d’un pensiero personale; e che avevano creduto di aver giudicato definitivamente Kant col classificarlo tra gli idealisti accanto a Berkeley.

4. [p. 20,20]. Kr. r. Vern., 32: “È un destino ordinario della ragione umana nella speculazione il condurre a termine al più presto il suo edilìzio per ricercare solamente in appresso se il fondamento sia ben posto„. Su questa metafora della “costruzione„ metafisica, frequente in Kant, v. Vaihinger, Comm. I, 233 ss.

5. [p. 21, 4]. Le soluzioni dogmatiche del problema metafisico non hanno valore: “non vi è ancora una metafisica„. Ma il bisogno metafisico dell’uomo è indistruttibile: colui che si aspetta che la filosofìa, come scienza illusoria, abbia fine è da Kant paragonato al rusticus di Orazio che aspetta sia passata tutta l’acqua del fiume. Questo concetto della perennità della metafisica è sovente espresso da Kant; cfr. Proleg., 367, 380; Kr. r. Vern., 11, 19 ss., 544-5.

6. II. [p. 21,10]. Il primo che nella storia della filosofia intravide la necessità di stabilire un’indagine circa la legittimità della metafisica è Davide Hume. Egli prese in esame uno dei più importanti principii della ragione, il principio di causa e dimostrò che, non potendosi dedurre analiticamente dalla causa l'effetto, la connessione dell’effetto con la causa non è conosciuta per mezzo della ragione, ma è il semplice risultato d’un’associazione empirica del tutto subbiettiva. Di qui trasse la conclusione generale che le pretese conoscenze razionali vengono anch’esse dall’esperienza, che non vi sono conoscenze razionali pure e che perciò, se per metafisica s'intende un sistema di verità derivate razionalmente da principii puri (cioè posti dalla ragione indipendentemente dall’esperienza), non vi è e non vi può essere una metafisica. Ma questo principio d’un esame critico della ragione non portò il frutto che doveva, perchè gli avversari lo fraintesero. Questi vollero mostrare contro Hume che noi dobbiamo accogliere come valido, nella costituzione dell’esperienza, il principio di causa: ciò che Hume non aveva contestato. Ma non indagarono invece con qual diritto la nostra ragione faccia uso di tale principio: e se potrebbe estenderlo anche al di là dell’esperienza. Essi trovarono invece più comodo giustificarlo con un appello al buon senso: come se in queste materie spettasse al buon senso decidere.

7. [p. 21,33]. La stessa immagine in Kr. r. Vern. 499.

8. [p. 22,17]. Th. Reid, l’illustre fondatore della scuola scozzese (1710-1796). La sua “Inquiry into the human mind„ (1764) era apparsa, tradotta in tedesco, nel 1782. — James Oswald, ecclesiastico scozzese (1703-1793), propugnò contro Hume la filosofia del buon senso nel suo “An appeal to common sense in behalf of religion„ (1766-72). — James Beattie, professore di morale ad Edimburgo (1735-1803), fonda ogni certezza ed ogni valore sopra il senso comune. La sua opera contro Hume, “Essay on the nature and immutability of truth in Opposition to sophistry and scepticism„ (1770), era stata pubblicata, tradotta in tedesco, nel 1772. — Joseph Priestley, illustre fisico inglese (1733-1804), si occupò attivamente anche di questioni filosofiche e teologiche, combatte la filosofia del buon senso di Reid, Oswald e Beattie, ma combatte anche Hume nelle sue “Leiters to a philosophical unbeliever„ (1780-82, trad. ted. 1782).

9. [p. 23, 11]. Sul buon senso in filosofia v. anche Proleg. 369 ss., Reflex. II, 53.

10. III. [p. 23,38]. Fu l’avvertimento di Hume che mi svegliò dal sonno dogmatico e mi avviò sulla buona via. Io estesi la questione a tutti i principii razionali puri che la metafisica impiega e riuscii non solo a giustificarne l’applicazione nell’esperienza, ma anche a determinare razionalmente il numero di questi principii ed i limiti del loro uso: di qui ebbe origine la Critica della ragion pura.

11. [p. 23, 38]. La “Ricerca sull’intelletto umano„ di D. Hume (1748) era apparsa, tradotta in tedesco, nel 1755 ed è probabile che la prima influenza di Hume su Kant non cada molto appresso. La posizione decisa del problema critico in rispetto alla ragione, nel senso qui accennato, non ebbe luogo però che dopo il 1770. Sul suo rapporto con Hume Kant si estende a lungo in Kr. pr. Vern., 50-54; cfr. anche Kr. r. Vern., 105-6, 499 ss. Sul problema della causalità secondo Hume si veda qui appresso § 5 e § 27 ss.

12. [p. 24, 11]. Ueber die Fortschr. d. Metaph. (ed. Vorl.), 70: “Hume ha già il merito d’aver addotto un caso e cioè quello della legge di causalità, che mise in imbarazzo tutti i metafisici. Che sarebbe avvenuto se egli od altri avesse posto la questione in termini generali? La metafisica avrebbe dovuto esser lasciata in disparte finchè la questione fosse risolta„. Cfr. ib., 90. Il torto di Hume è stato in primo luogo di non aver esteso la sua ricerca anche agli altri concetti razionali puri (sostanza, ecc.): in secondo luogo di non averla estesa anche alle proposizioni della matematica; su quest’ultimo punto vedi Prol. § 2, Kr. r. Vern., 40.

13. IV. [p. 24,34]. Però alla Critica della ragion pura toccò lo stesso destino della teoria di Hume: non fu compresa perchè contraria alle idee vigenti e perciò fu giudicata difficile, pedantesca, oscura. Ma l’aridità e l’oscurità erano inevitabili in un’esposizione sistematica d’una scienza affatto nuova, che rompe con tutta la tradizione filosofica anteriore e che per di più vuole dare una determinazione minutale completa della funzione e del valore di tutte le attività della ragione. A rimediare in parte a questo inconveniente sono destinati i presenti Prolegomeni che dànno una veduta complessiva dei punti essenziali della Critica e così possono anche servire ad essa come introduzione. Chi poi trovasse oscuri anche questi Prolegomeni, lasci la metafisica: una certa oscurità nelle opere filosofiche (inevitabile sempre) ha il suo vantaggio appunto in questo, che essa tiene lontano il gregge pigro degli ignavi e degli incapaci.

14. [p. 25, 8]. L’oscurità dell’esposizione venne infatti rimproverata spesso a Kant acerbamente dai suoi avversari (v. p. es. L. Meiners, Grundr. d. Seelenlehre, 1786, Vorr.); gli stessi suoi amici e discepoli non si esprimono, nella sostanza, diversamente. Mendelssohn nella lettera 10 aprile 1783 chiama la Critica “dieses Nervensaftverzehrendes Werk„ (Briefw., I, 288) e Reinhold confessa di non aver compreso la Critica che. dopo replicate letture “con difficoltà indicibile„ (R. Keil, Wieland und Reinhold, 1885, 18). È noto del resto che anche i Prolegomeni non vennero giudicati diversamente.

15. [p. 26, 11]. Moses Mendelssohn (1729-1786], uno dei più illustri rappresentanti della filosofia eclettica, fu scrittore chiaro ed elegante, ma non merita certo, per la profondità, l’elogio che qui Kant amichevolmente gli rivolge.

16. [p. 27,8]. Sul metodo analitico si cfr. Proleg. § 4, Log., § 117, e la nota 46.

17. [p. 27,31]. Reflex., II, 15: “Se anche io avessi a mia disposizione, come Hume, tutti i lenocinii della forma, avrei tuttavia scrupolo di servirmene. È vero che l’aridità disgusta più d’un lettore. Ma non è bene tener lontano gli indegni?„



Ultima modifica 2021.07