A proposito di un'edizione italiana della critica del Giudizio

Benedetto Croce (1907)


La Critica del giudizio di Emmanuele Kant – di cui si è ora fatta per opera del Gargiulo la prima traduzione italiana1 – appartiene certo alla serie di quei libri che non saran mai dimenticati, perché costituiscono come le pietre miliari nel cammino dello spirito umano. È un documento capitale della storia del pensiero filosofico, storia che a sua volta è così gran parte della storia totale dell'umanità. Se anche venisse un tempo in cui neppur una delle proposizioni di quel libro fosse più accettabile nel modo preciso in cui Kant la formulò, non perciò l'importanza storica e filosofica insieme di esso scemerebbe.

Ma io ora voglio pormi da un punto di vista più modesto e, per così dire, più contingente; e domandarmi, non tanto quel che la Critica del giudizio significhi nella storia delle idee estetiche, ma quale precipua utilità si possa cavarne nelle condizioni presenti della nostra cultura. Voglio considerarla come medicina mentis, e indicare contro qual morbo può servire da farmaco efficace.

Allorché Kant, nel 1790, pubblicò la Critica del giudizio, già quasi da un secolo duravano ininterrotte le indagini e le discussioni sul bello, sul gusto, sul genio, sull'arte. Ma – non tenendo ora conto di qualche gran tentativo, rimasto isolato e senza effetti – le disposizioni generali degli spiriti rispetto a quei problemi erano divise in due campi. C'era, da un lato, una minoranza, che diremo universitaria, degenerazione del leibnizianismo, la quale risolveva i fatti estetici in fatti di carattere intellettuale o morale; dall'altro, una maggioranza, formata principalmente da curiosi e indagatori, spregiudicati se non profondi, che li trattava come fatti di piacevole più o meno complicato e raffinato. La mente di Kant, aperta a tutte le forme del sapere nonché a tutti i problemi filosofici, non poteva disinteressarsi dei problemi concernenti il bello; e si può dire che, fin da giovane, egli vi andò sempre lavorando intorno. Per tutta la sua vita Kant lesse e studiò un'infinità di libri e libercoli sull'argomento, come è documentato dalle trascrizioni che ci son rimaste dei suoi corsi di lezioni, dove sono le tracce delle sue svariate letture. E ondeggiò per un pezzo tra l'indirizzo universitario, e l'altro che può chiamarsi mondano; ma quest'ultimo parse, alla fine, prevaler in lui; tanto che, talvolta, ai contemporanei egli parve sotto l'influsso diretto e decisivo degli scrittori empiristici inglesi. Nel 1780, ossia quando pubblicava la prima edizione della Critica della ragion pura, Kant credeva e affermava recisamente l'origine empirica delle regole e dei criterii del giudizio del bello, e quindi la loro incapacità a servir come leggi a priori; credenza in cui rimase ancora per alcuni anni.

Ma, ecco, questa credenza, che pareva così ferma, comincia a dar segni di oscillazione sul principio del 1787: alla fine di quell’anno, è bella e rovinata; nel 1790 vien fuori la Critica del giudizio, ove si sostiene la tesi affatto opposta. Una vera rivoluzione mentale, che, come tutte le rivoluzioni, ere stata preparata lentamente; e nessuna migliore prova di codesta lenta preparazione può aversi del fatto stesso, che Kant seguitava tenacemente ad occuparsi dell’argomento anche quando dichiarava l’inesistenza di principi a priori del bello, ossia l'impossibilita di una trattazione filosofica dei fatti estetici.

Kant, guidato dalla sua profonda coscienza del vero, era giunto con uno sforzo immane, attraverso folte e intricate difficoltà, dopo molti errori e molte cadute, a scoprire per suo conto un nuovo continente, una nuova cerchia di attività umana, del tutto distinta dalle altre che comunemente si ammettevano, e ch'ei stesso aveva ammesso dapprima, come le sole reali. Era quello, come gli parve, un territorio spirituale sui generis; difficile a caratterizzare in modo soddisfacente, ma sicuro e indubitabile nella realtà della sua esistenza. Giacché nell’animo umano vige – egli notava – una forma di giudizii non forniti di carattere logico; e – se per conoscitivo s’intende per l’appunto il logico – privi di carattere propriamente conoscitivo. E non forniti neppure di carattere pratico, se il pratico importa l'esistenza degli oggetti che si rappresentano e desiderano. Sono giudizii accompagnati da piacere; ma non sono quel piacevole che sorge dalla forma inferiore dell’appetizione, ciò che piace ai sensi nelle sensazioni. Per le stesse ragioni, escludendo ogni interesse volitivo, quei giudizii non sono di carattere morale e non hanno che fare col buono. Si potrebbero definire una funzione contemplativa; ma sarebbe, in ogni caso, una contemplazione non rivolta a concetti, e indipendente così dall’idea della finalità esterna o utilità, come dall’idea della finalità interna o perfezione. E, quantunque universali, l’universalità di quei giudizii è meramente soggettiva, non lascia scorgere alcun principio oggettivo. E, benché connessi con l'approvazione e disapprovazione del sentimento essi sono liberi da emozioni ed attrattive. Questo tipo sui generis di giudizii – diceva Kant – è il giudizio del gusto; i fatti, cui esso si riferisce, son la bellezza e l'arte; l'attività produttrice, con cui si collega, è il genio, che è tutt’altra cosa dall’ingegno scientifico. Certo, la via più comoda per negare il giudizio del gusto era, anche allora, appunto quella comune, che lo risolveva nel sentimento del piacevole. Ma tale sofisma non ingannava più il vecchio filosofo. Sarebbe assurdo – egli esclamava – negar l'evidenza, per la quale il giudizio del bello si distacca come per un abisso dal sentimento del piacere. Sarebbe ridicolo dir d'una poesia, d'una musica, di un edilizio, dei quali si deve giudicar, che essi sono belli per me! Le cose, che piaccionomi, importano a me, e non agli altri; ma chi pronunzia un giudizio di bellezza, chi dà per bella una cosa, esige che gli altri provino lo stesso piacere; non giudica solo per sè, ma anche per gli altri; e parla quindi della bellezza come se questa sia una qualità della cosa. Quando uno dice – tale cosa è bella, – è pronto a biasimare gli altri, se giudicano altrimenti; e nega loro il gusto, mentre insieme pretende che debbano averlo. Il detto: – A ad ognuno il suo gusto – appare inapplicabile in questo campo; ed è contraddetto in ogni attimo della vita del bello e dell’arte.

Questa, la scoperta alla quale Kant era pervenuto, e che espone e rafforza di analisi e ragionamenti nella prima parte della Critica del giudizio. Il mondo del bello era conquistato così, definitivamente, alla filosofia. Se non era stato ancora tutto circuito e penetrato e descritto, la sua realtà e indipendenza veniva stabilita in modo incontrastabile.

E dall’enunciata scoperta nasce l’utilità presente e viva del libro di Kant. Perché le condizioni storiche che Kant si trovò innanzi, e alle quali per molti anni della sua vita egli stesso soggiacque, sono ancora le condizioni presenti di moltissimi intelletti. Intelletti ancora erranti nella oscura selva del sensismo e positivismo; ancora proclivi a lasciar fluire, l’uno nell’altro, il jucundum e il pulcrum; insoddisfatti bensì della confusione, tanto che pur cercano di fissare un qualche criterio empirico per distinguere i due concetti; ma lo cercano, e non lo trovano, e ricadono nella confusione, e rinnovano i vani tentativi, e nessun Virgilio s'offre loro dinanzi a trarli fuori della selva oscura. In tutti i campi di studio abbondano, di certo, i libri cattivi; ma niun forse ne produce, proporzionalmente, in maggior numero di quel che accada nel campo dell’estetica; ove si è perpetuata per secoli una tradizione, che sta verso il metodo critico nel medesimo rapporto in cui la zoologia del Trésor di messer Brunetto si trova verso la zoologia moderna. Non è il caso di citar titoli e nomi; ma c'è anche oggi in Italia qualche caposcuola, che non dubita di porre tra i principii della sua filosofia l’identità di bello e di voluttuoso, dilfferenziantisi poi tra loro solamente nel grado; e qualche altro riattacca il piacere del bello all’istinto genesico: ignorando, senza dubbio, che codeste teorie stravaganti non sono nemmeno nuove, ed erano già note al tempo di Kant, anzi risalgono ad Ippia di Elide. Altri ancora – e son critici d'arte e di letteratura – asseriscono l'individualità e relatività del gusto, e fanno consistere la critica nell’effusione dei loro personali e accidentali sentimenti innanzi alle opere d’arte, negando così qualsiasi oggettività e ritornando alla formula de gustibus, distrutta da Kant. Ma coloro che, con leggiero bagaglio, s'accingono a risolvere i difficili problemi estetici, non posson sperare di produrre altro se non libercoli simiglianti in tutto (fuorché naturalmente nell'opportunità storica) ai saggi e trattatelli e dissertazioni che, prima di Kant, scrivevano i Burke e i Gerard, gli Home e gli Hume, gli Alison e i Platner: frutti ormai fuori di stagione e poco saporosi.

Se fra codesti intelletti erranti e perplessi se ne trova qualcuno disposto a fare uno sforzo virile per uscir dalla selva oscura del relativismo e del sensismo, egli saluterà nel Kant della Critica del giudizio il suo Virgilio, che gli verrà mostrando il vero viaggio da tenere. Studii e mediti questa terza delle Critiche; e, alla fine del suo studio, egli non conoscerà ancora, né compiutamente né precisamente, la scienza estetica; non avrà fissato la vera natura e funzione dell’arte; non avrà risoluto i molteplici problemi che con questa si collegano: no, perché Kant è solo un momento della storia dell'estetica, e dopo di Kant il pensiero umano ha assai camminato e progredito. Ma vi son cose di cui quegli che avrà studiato e meditato Kant, non dubiterà più: – che il dominio estetico né si può confondere col dominio logico né col pratico, e molto meno con la categoria psicologica del cosiddetto piacevole; – che esiste tra la scienza e la pratica una terza sfera di attività spirituale sui generis, contemplativa, fornita del carattere di necessità; – che questa sfera dev'esser oggetto di una terza critica, ossia di una speciale trattazione filosofica; – e che, se tale critica e trattazione viene ignorata, anche gli altri due dominii resteranno pieni di ombre e d’incertezze. Acquistando tale convinzione, lo studioso si sarà sbarazzato dei più grossi pregiudizi, e avrà posto un solido fondamento per le ulteriori costruzioni.

Ai malanni, dunque, del relativismo e positivismo estetici la Critica del giudizio si oppone, e si opporrà sempre, come rimedio di effetto sicuro.

Sulla Critica del giudizio non è lecito saltar: vi si provò lo Spencer, e fece un capitombolo, alquanto ridicolo come tutti i capitomboli. Trattazioni d'estetica, provenienti da persone che non hanno studiato Kant, possono trascurarsi, senza troppo rischio di grosse perdite mentali. Ma, dicendo questo, io dico insieme e ripeto che sarebbe un’altra pretesa insostenibile il volersi arrestare alla Critica del giudizio; la qual cosa Kant stesso non avrebbe fatto se ei non fosse Stato arrestato, contro sua voglia, dalla vecchiaia – e dalla morte. Quel libro, come si è osservato, è nato da uno sforzo immane; non è difficile scorgere che, dove l’autore è più risoluto e polemico, combatte un avversario il qual non è altro che lui stesso, cioè le sue vecchie credenze ed errori. E il risultato dello sforzo si assomma tutto in quello, importantissimo, che abbiamo brevemente ricordato: nella tesi dell’esistenza di una sfera spirituale estetica. Sul termine, «cui combattendo valse a raggiungere», Kant cadde; e nel cadere lasciò aperta una serie di nuovi problemi, o di problemi malamente e insufficientemente risoluti. Chi potrebbe ormai appagarsi della non giustificata coordinazione delle due analitiche, l'analitica del bello e quella del sublime? del giudizio del gusto, studiato pedantescamente secondo la qualità, la quantità, la relazione e la modalità? del bello, concepito come il libero giuoco di due diverse facoltà, l’intelletto e la fantasia; ovvero svelato, in ultimo, come simbolo della moralità? E della bellezza, divisa in bellezza vaga e bellezza aderente? Specialmente il rapporto dell’arte con la filosofia – su cui tanta luce aveva già proiettata la gran mente di Giambattista Vico – non viene dal Kant preso in esame e gli resta quasi affatto oscuro. Dall’esame di quel rapporto doveva svolgersi l’estetica posteriore.

Io ammiro l'improntitudine di coloro che credono di poter considerare come non accaduta la pubblicazione della Critica del giudizio, – che pure è un fatto che ebbe luogo, e propriamente nel 1790, pei tipi degli editori Lagarde e Friederich, a Berlino e a Libau. Ma non ammiro meno la paziente acquiescenza e la forza di stomaco degli altri, che, dopo più di un secolo, vogliono fermarsi a Kant, e si propongono di ingollare e digerire tutto intero quel volume: tutta l'analitica, la dialettica e la metodica del bello e del sublime.

Osservazioni analoghe a queste ora svolte potrebbero farsi per la seconda parte della Critica del giudizio, concernente, com'è noto, la critica del giudizio teleologico. L'effetto di tal seconda parte é di produrre la convinzione che: quella scienza esatta, naturalistica, meccanica, matematica, di cui Kant aveva studiato l’indole e i limiti nella Critica della ragion pura, non è, né può essere, il solo punto di vista dal quale si deve guardare la realtà. Perché quella scienza non è in grado di comprender la vita; eppure le creature viventi, gli organismi, ci stanno innanzi, nella realtà naturale, e domandano di essere accolte e comprese dall’intelligenza dell’uomo. Il vivente – diceva Hegel – è l’Idea stessa realizzata: e nella Critica del giudizio, Kant s’incontra per la prima volta con l’Idea, e non riesce a sfuggirle, anzi – leale pensatore qual egli era – non tenta neppur di sfuggirle. Il posteriore idealismo, appoggiandosi al concetto dell’organismo, e alla finalità interna che è considerata nel giudizio teleologico, giunse al risultato che: ciò che Kant poneva problematicamente come un secondo punto di vista, parallelo a quello della scienza e meramente regolativo, costituisce invece il vero punto di vista della filosofia; la quale in forza di esso e, e sarà sempre, distinta e diversa dalla scienza, ossia dalla considerazione naturalistica e meccanica.

B.C.


Note

1. EMMANUELE KANT, Critica del giudizio, tradotta da Alfredo Gargiulo, Bari, Laterza, 1907 (Classici della filosofia moderna, vol. III)



Ultima modifica 2024.01