Critica del Giudizio

Immanuel Kant (1790)


Parte seconda.
CRITICA DEL GIUDIZIO TELEOLOGICO

§ 61. Della finalità oggettiva della natura.

Secondo i principii trascendentali si ha buona ragione di ammettere una finalità soggettiva della natura nelle sue leggi particolari, rispetto alla sua intelligibilità per il Giudizio umano e alla possibilità di collegare le esperienze particolari in un sistema; nel che poi, tra i molti prodotti naturali, si può aspettare anche la possibilità di tali che, come se fossero fatti proprio pel nostro Giudizio, contengano una forma specifica appropriata a questa facoltà, in modo che la varietà e l’unità che sono in essi servano come a rinforzare e ad intrattenere le facoltà dell’animo (che sono in giuoco nell’esercizio del Giudizio), e cui si attribuisce perciò il nome di belle forme.

Ma che le cose della natura servano l’una all’altra come mezzi a fini, e che la loro possibilità stessa sia sufficientemente intelligibile solo per via di tale specie di causalità, sono affermazioni di cui non troviamo alcuna ragione nell’idea universale della natura come insieme degli oggetti dei sensi. Perché, difatti, nel caso precedente, la rappresentazione delle cose, essendo qualche cosa in noi, poteva ben essere pensata, anche a priori, come appropriata e adatta a produrre l’accordo finale interno delle nostre facoltà conoscitive; ma come dei fini, che non sono nostri, e che neppure convengono alla natura (che noi non ammettiamo come un essere intelligente), possano o debbano costituire una specie particolare di causalità, o almeno una singolare regolarità di questa, non si può presumere a priori con qualche fondamento. E, inoltre, l’esperienza stessa non ci può provare la loro realtà; bisognerebbe che con un procedimento sofistico si fosse già introdotto il concetto dello scopo nella natura delle cose, ma senza derivarlo dagli oggetti e dalla loro conoscenza per via d’esperienza; allora lo si adopera più per concepire la natura per analogia con un principio soggettivo del legame delle rappresentazioni in noi, che per conoscerla mediante principii oggettivi.

Inoltre, la finalità oggettiva, come principio della possibilità delle cose naturali, è tanto lungi dall’esser connessa necessariamente col concetto della natura stessa, che anzi è proprio essa che s’invoca a preferenza per provare la contingenza di questa e della sua forma. Così, per esempio, nel parlare della struttura d’un uccello, delle cavità che sono nelle sue ossa, della disposizione delle sue ali al movimento, della sua coda destinata a far da timone, etc., si dice che tutto ciò è contingente in supremo grado quando si guarda al semplice nexus effectivus della natura, e non si ricorre ancora ad una specie particolare di causalità, cioè a quella dei fini (nexus finalis); vale a dire che la natura, considerata come semplice meccanismo, avrebbe potuto configurarsi in mille altri modi, senza che le capitasse di giungere proprio all’unità secondo un tale principio, e che quindi non si può sperare di trovarne neppure la menoma ragione nel concetto di natura, ma solo fuori di esso.

Tuttavia il giudizio teleologico è applicato a ragione, almeno problematicamente, all’investigazione della natura; ma soltanto per sottoporla a principii di osservazione ed investigazione mediante l’analogia con la causalità secondo fini, e senza pretendere di poterla spiegare. Sicché esso appartiene al Giudizio riflettente, non al Giudizio determinante. Il concetto dei legami e delle forme della natura secondo fini è almeno’ un principio di più per ricondurre a regole i suoi fenomeni, dove non bastano le leggi della causalità puramente meccanica. Perché, difatti, noi introduciamo un principio teleologico quando attribuiamo al concetto di un oggetto una causalità rispetto all’oggetto stesso, come se il concetto si trovasse nella natura (non in noi), o meglio quando ci rappresentiamo la possibilità dell’oggetto, per analogia con una simile causalità (che troviamo in noi), e quindi pensiamo la natura come tecnica per virtù propria; mentre quando non le attribuiamo tale modo di azione, la sua causalità dovrebbe essere rappresentata come cieco meccanismo. Se invece supponessimo, nella natura, cause che agiscono con intenzione, e quindi mettessimo a fondamento della teleologia non un principio puramente regolativo pel giudizio dei fenomeni, cui la natura potrebbe esser pensala come sottoposta secondo le sue leggi particolari, ma anche un principio costitutivo della derivazione dei suoi prodotti dalle sue cause, — il concetto d’uno scopo naturale non apparterrebbe più al Giudizio riflettente, ma al Giudizio determinante; ma allora in realtà esso non apparterrebbe propriamente al Giudizio (come il concetto della bellezza in quanto finalità soggettiva formale), sibbene, come concetto della ragione, introdurrebbe una nuova causalità nella scienza della natura, che però noi deriviamo solo da noi stessi, ed attribuiamo ad altri esseri senza tuttavia volerli assimilare a noi.

Sezione Prima
ANALITICA DEL GIUDIZIO TELEOLOGICO

§ 62. Della finalità oggettiva che è semplicemente formale, a differenza di quella materiale.

Tutte le figure geometriche tracciate secondo un principio mostrano una finalità oggettiva molteplice e spesso meravigliosa, vale a dire contengono la possibilità della soluzione di molti problemi secondo un unico principio, cd anche di ciascuno di essi in infiniti modi diversi. La finalità qui è evidentemente oggettiva ed intellettuale, non puramente soggettiva ed estetica. Perché essa esprime la proprietà, che ha la figura, di produrre molte figure proposte, ed è riconosciuta dalla ragione. Ma la finalità tuttavia non rende possibile il concetto dell’oggetto stesso, vale a dire questo non è considerato come possibile soltanto relativamente a quest’uso.

In una figura così semplice qual è il cerchio sta il principio della soluzione di una quantità di problemi, di cui ciascuno esigerebbe da solo molte operazioni, mentre la sua soluzione si offre quasi spontaneamente come una delle infinite e bellissime proprietà della figura stessa. Così, per esempio, quando si debba costruire un triangolo di cui sia data la base e l’angolo opposto ad essa, il problema è indeterminato, cioè si può risolvere in infiniti modi diversi. Ma il cerchio comprende tutte queste soluzioni, come luogo geometrico di tutti i triangoli che soddisfano a quelle condizioni. Oppure due rette si debbano tagliare tra loro in modo che il rettangolo formato dalle due parti dell’una sia eguale al rettangolo formato dalle due parti dell’altra: il problema presenta in apparenza molta difficoltà. Ma tutte le rette che, limitate dalla circonferenza, si tagliano nell’interno del cerchio, si dividono spontaneamente in quella proporzione. Le altre linee curve forniscono a loro volta altre soluzioni appropriate, cui non si era pensato nella regola che costituisce la loro costruzione. Tutte le sezioni coniche, per quanto sia semplice la definizione che determina il loro concetto, per se stesse, o paragonate tra loro, sono feconde di principii per la soluzione di una quantità di problemi possibili. — È un vero piacere vedere il fervore con cui gli antichi geometri ricercavano le proprietà di questa specie di linee, senza lasciarsi sconcertare dalla domanda dei cervelli limitati: a che servirà questa conoscenza? Così, per esempio, ricercavano la proprietà della parabola senza conoscere la legge della gravità sulla terra, che loro avrebbe potuto fornire l’applicazione della parabola alla traiettoria dei corpi pesanti (la cui direzione della gravità può essere considerata come parallela a se stessa durante il movimento); oppure studiavano le proprietà dell’ellisse, senza sospettare che vi fosse anche una gravitazione pei corpi celesti, e senza conoscere la loro legge circa le diverse distanze dal punto di attrazione, la quale fa sì che essi descrivano con un movimento libero tale linea. Mentre che così, senza saperlo, lavoravano per la posterità, si compiacevano di trovare una finalità nell’essenza delle cose che pure potevano rappresentare interamente a priori nella sua necessità. Platone, maestro egli stesso di questa scienza, era preso dall’entusiasmo per questa costituzione originaria delle cose, a scoprire la quale possiamo far di meno d’ogni esperienza, e per la facoltà dell’animo di ricavare l’armonia degli esseri dal loro principio soprasensibile (comprese anche le proprietà dei numeri, con cui l’anima gioca nella musica); e questo entusiasmo lo innalzava dai concetti dell’esperienza alle idee, che gli apparivano spiegabili solo mediante una comunione intellettuale col principio di tutti gli esseri. Nessuna meraviglia che egli escludesse dalla sua scuola gli ignoranti della geometria, quando pensava di derivare dalla pura intuizione, intimamente inerente allo spirito umano, ciò che Anassagora desumeva dagli oggetti dell’esperienza e dal loro legame finale. Poiché nella necessità di ciò che è finale ed è fatto in modo come se fosse destinato con intenzione al nostro uso, ma sembra appartenere originariamente all’essenza delle cose, senza riguardo all’uso nostro, sta la ragione della grande ammirazione che suscita la natura, non soltanto fuori di noi, ma nella nostra propria ragione; onde si può ben scusare l’errore per cui questa ammirazione può a poco a poco elevarsi fino al fantasticare.

Ma, sebbene questa finalità intellettuale sia oggettiva (e non soggettiva come la finalità estetica), la si può bensì concepire, circa la sua possibilità, come puramente formale (non reale), vale a dire come una finalità cui non è necessario di porre a fondamento uno scopo, e quindi una teleologia, ma solo in generale. Il cerchio è un’intuizione determinata dall’intelletto secondo un principio; l’unità di questo principio che io assumo arbitrariamente e che pongo come concetto fondamentale, applicato ad una forma dell’intuizione (lo spazio), che si trova in me come semplice rappresentazione e propriamente a priori, fa comprendere l’unità di molte regole che derivano dalla costruzione di tale concetto, e che son conformi a molti scopi possibili, senza che sia necessario supporre uno scopo o qualunque altro fondamento in quella finalità. Non è in tal caso come quando io trovo l’ordine e la regolarità in un insieme limitato di cose fuori di me; come per esempio in un giardino, l’ordine e la regolarità degli alberi, delle aiuole, dei viali, etc., che io non posso sperare di dedurre a priori dalla limitazione di uno spazio da me fatta, secondo una regola arbitraria; perché si tratta di cose esistenti, che debbono esser date empiricamente per poter essere conosciute, e non semplicemente di una mia rappresentazione determinata secondo un principio a priori. Perciò quest’ultima finalità (che è empirica), in quanto reale, dipende dal concetto d’uno scopo.

Ma si vede bene e appare legittima l’ammirazione anche per una finalità che è percepita nell’essenza delle cose (in quanto i loro concetti possono esser costruiti). Le molteplici regole, la cui unità (fondata su di un principio) suscita questa ammirazione, son tutte sintetiche, e non derivano da un concetto dell’oggetto, per esempio del circolo, ma esigono che l’oggetto sia dato nell’intuizione. Ma quest’unità prende così l’aspetto di avere empiricamente un principio di regole estraneo e diverso dalla nostra facoltà rappresentativa, sicché pare che l'accordo dell’oggetto con quell’esigenza delle regole, che è propria dell’intelletto, sia in se stesso accidentale, e quindi possibile soltanto mediante uno scopo diretto espressamente a ciò. Ora tale armonia, poiché malgrado tutta questa finalità non è conosciuta empiricamente, ma a priori, dovrebbe appunto condurci da se stessa a questa conclusione: che lo spazio, la determinazione del quale soltanto rendeva possibile l’oggetto (mediante l’immaginazione e conformemente a un concetto), non è una proprietà delle cose fuori di me, ma un semplice mio modo di rappresentare; e che quindi nella figura che costruisco conformemente ad un concetto, vale a dire nella mia propria maniera di rappresentarmi ciò che mi è dato esternamente, checché sia in se stesso, io introduco la finalità, senza esserne istruito empiricamente dal dato stesso, e per conseguenza senza aver bisogno di uno scopo particolare esistente fuori di me nell’oggetto. Ma, poiché questa riflessione esige già un uso critico della ragione, e quindi non può essere implicita nel giudizio dell’oggetto secondo le sue proprietà, questo giudizio non mi fornisce immediatamente se non l’unione di regole eterogenee (anche in ciò che hanno di eterogeneo) in un principio, che è riconosciuto da me come vero a priori, senza aver bisogno di un principio particolare che stia a priori fuori del mio concetto e, in generale, della mia rappresentazione. Ora lo stupore nasce quando l’animo urta nell’impossibilità di conciliare una rappresentazione e la regola data da questa, coi principii che in esso sono fondamentali, in modo che gli nasce il dubbio se abbia ben visto o giudicato; ma l'ammirazione è uno stupore che si rinnova sempre, anche quando scompare questo dubbio. Per conseguenza, l’ammirazione è un effetto del tutto naturale di quella finalità che osserviamo nell’essenza delle cose (in quanto fenomeni), e che non può esser biasimata: perché non soltanto è inesplicabile per noi come l’unione di quella forma dell’intuizione sensibile (che si chiama lo spazio) con la facoltà dei concetti (l’intelletto) sia proprio quella e non altra; ma l’unione stessa estende l’animo e gli fa quasi presentire qualcosa che sta al di là di quelle rappresentazioni sensibili e in cui si può trovare l’ultimo principio, sebbene a noi sconosciuto, di quell’accordo. Noi non abbiamo bisogno, è vero, di conoscerlo, quando si tratta semplicemente della finalità formale delle nostre rappresentazioni a priori; ma anche la sola necessità di guardare al di là suscita l’ammirazione per l’oggetto, che vi ci costringe.

Si suol chiamare bellezza l’insieme delle proprietà mentovate, così nelle figure geometriche, come nei numeri, per una certa loro finalità a priori rispetto ad usi diversi della conoscenza, che non si aspettava dalla semplicità della loro costruzione; si parla così, per esempio, di questa o quella bella proprietà del cerchio, che si scoprirebbe in questo o quel modo. Ma il giudizio con cui le troviamo finali, non è punto un giudizio estetico; non è un giudizio senza concetto, che denota una semplice finalità soggettiva nel libero giuoco delle nostre facoltà di conoscere; ma è un giudizio intellettuale secondo concetti, il quale ci fa conoscere chiaramente una finalità oggettiva, vale a dire la adeguatezza a scopi d’ogni genere (infinitamente diversi). Si dovrebbe chiamarla piuttosto una perfezione relativa che una bellezza delle figure matematiche. Anche la denominazione di bellezza intellettuale in generale non può essere ammessa; perché allora la parola bellezza perderebbe ogni significato definito, o il piacere intellettuale perderebbe ogni superiorità sul piacere sensibile. Piuttosto si potrebbe chiamar bella una dimostrazione di quelle proprietà, perché con essa l’intelletto, come facoltà dei concetti, e l’immaginazione, come facoltà dell’esibizione dei concetti stessi, si sentono fortificati a priori (il che, insieme con la precisione introdotta dalla ragione, vien detto l’eleganza della dimostrazione): qui almeno il piacere, sebbene sia fondato sopra concetti, è soggettivo, mentre la perfezione implica un piacere oggettivo.

§ 63. Della finalità relativa della natura, a differenza della finalità interna.

L’esperienza conduce il nostro Giudizio al concetto di una finalità oggettiva e materiale, vale a dire al concetto di uno scopo della natura, soltanto quando vi sia da giudicare un rapporto di causa ad effetto*1, che noi non ci sentiamo capaci di considerare conforme a leggi senza supporre, a fondamento della causalità della causa, l’idea dell’effetto come condizione della possibilità dell’effetto stesso. Ma ciò può avvenire in due modi: o consideriamo l’effetto immediatamente come prodotto di un’arte, oppure come semplice materiale per l’arte di altri possibili esseri della natura; sicché o come scopo, o come mezzo per l’impiego finale di altre cause. Quest’ul-tima finalità si chiama utilità (rispetto agli uomini) o convenienza (per ogni altra natura), ed è semplicemente relativa; mentre la prima è una finalità interna dell’essere naturale.

I fiumi, per esempio, trasportano varie terre utili alla vegetazione, che depositano qualche volta nei paesi che attraversano, oppure alla foce. I flutti spandono questa specie di fango su parecchie coste, o lo depositano sul lido; e, specialmente quando gli uomini procurano di non farlo riportar via dal riflusso, aumenta l’estensione del terreno coltivabile, e la vegetazione prende il posto che prima era dimora dei pesci e dei crostacei. La maggior parte degli accrescimenti di terra sono stati prodotti in tal modo dalla natura stessa, la quale continua ancora, sebbene lentamente, questo lavoro. — Ora si tratta di sapere se queste cose siano da giudicarsi come fini della natura, poiché contengono un’utilità per gli uomini; giacché non è da parlare di utilità pel regno vegetale stesso, posto che quello che torna a vantaggio della terra, è tolto alle creature marine.

Oppure, per dare un esempio della convenienza di certe cose della natura rispetto ad altre creature (quando si considerano come mezzi), non vi è terreno più propizio ai pini di un terreno sabbioso. Ora l’alta marea, prima di ritirarsi dalla terra, ha lasciato molti strati sabbiosi nelle nostre contrade del nord, onde su questo suolo, prima così inadatto ad ogni cultura, hanno potuto elevarsi estese foreste di pini, che noi accusiamo spesso i nostri antenati di avere abbattute senza ragione; e si può domandare se questo antico deposito di strati di sabbia era uno scopo della natura rispetto alle foreste di pini che potevano crescervi. Certo, se si ammettono come scopo della natura le foreste di pini, anche quella sabbia si deve ammettere come scopo, ma come scopo soltanto relativo, di cui a loro volta erano mezzi l’antica riva del mare e il ritirarsi delle acque; poiché nella serie dei membri reciprocamente subordinati di un legame finale, ogni membro deve esser considerato come scopo (sebbene non come scopo finale), di cui è mezzo la causa più prossima. Così, se nel mondo dovevano esservi buoi, pecore, cavalli, etc., doveva anche esservi dell’erba sulla terra, ma nei deserti di sabbia doveva anche crescere il riscolo, se dovevano esservi dei camelli; e, ancora, queste ed altre specie di bestie erbivore si dovevano trovare in abbondanza, se dovevano esistere lupi, tigri e leoni. Perciò la finalità oggettiva, che si fonda sulla convenienza, non è una finalità oggettiva delle cose in se stesse, come sarebbe se la sabbia non potesse essere concepita per sé, come effetto della sua causa, il mare, senza attribuire a quest’ultimo uno scopo e considerare l’effetto, cioè la sabbia, come un prodotto d’arte. È una causalità puramente relativa e solo accidentale rispetto alla cosa stessa cui è attribuita; e, sebbene, tra gli esempli citati, l’erba debba esser giudicata per sé come un prodotto organizzato della natura, e quindi come fatto con arte, rispetto agli animali che se ne nutrono dev’esser considerata come semplice materia bruta.

Ma, quando infine l’uomo, mediante la libertà della sua causalità, trova la convenienza delle cose naturali rispetto ai suoi scopi — spesso stolti (si serve delle penne colorate degli uccelli come ornamento del vestire, delle terre colorate e dei succhi delle piante come belletti), ma talvolta anche ragionevoli, come quando adopera il cavallo per cavalcare, il bue e, come a Minorca, perfino l’asino e il maiale per l’aratura, — non si può ammettere neanche qui uno scopo relativo della natura (rispetto a questo uso). Perché la sua ragione sa accordare le cose con fantasie arbitrarie, cui egli stesso non era predestinato dalla natura. Soltanto se si ammette che degli uomini debbono vivere sulla terra, non debbono mancare almeno i mezzi senza i quali essi non potrebbero sussistere in quanto animali, o anche in quanto animali ragionevoli (per quanto in minimo grado); ma allora quelle cose naturali, che sono indispensabili per quest’uso, dovrebbero anche essere riguardate come fini della natura.

Da ciò si vede chiaramente che la finalità esterna (la convenienza d’una cosa per un’altra) non può essere considerata come uno scopo esterno della natura, se non alla condizione che l’esistenza della cosa cui essa, da vicino o da lontano, si riferisce, sia per se stessa uno scopo della natura. Ma, poiché ciò non può mai essere deciso dalla semplice considerazione della natura, la finalità relativa, sebbene accenni ipoteticamente a fini naturali, non autorizza alcun giudizio teleologico assoluto.

La neve, nei paesi freddi, protegge le semenze dal gelo; facilita la comunicazione tra gli uomini (per mezzo delle slitte); il lappone ha per quest’uso certi animali (le renne), che trovano sufficiente nutrimento in un musco secco che da se stessi sanno trarre da sotto la neve, e si lasciano facilmente domare e sottrarre a quella libertà in cui avrebbero potuto benissimo conservarsi. Nella stessa zona glaciale il mare contiene per altri popoli una ricca provvista di animali che, oltre il nutrimento e il vestito, forniscono loro materie infiammabili, con le quali riscaldano le loro capanne costruite col legno che dal mare stesso ricevono. V’è qui un meraviglioso concorso di molte relazioni della natura ad uno scopo, che è il groenlandese, il lappone, il samoiedo, il iacuto, etc. Ma in generale non si vede perché in quei luoghi debbano vivere uomini. Così sarebbe un giudizio molto ardito ed arbitrario il dire che ivi i vapori cadono sotto forma di neve, il mare ha correnti che trasportano il legno cresciuto nei paesi caldi, e si trovano grossi animali marini contenenti olio, perché la causa che produce tutte le cose della natura si è basata sull’idea del vantaggio di certe povere creature. Giacché se anche non esistessero tutti questi vantaggi naturali, per noi le cause della natura non sarebbero punto insufficienti in questo senso; anzi a noi stessi sembrerebbe temerario ed inconsiderato domandare alla natura una simile disposizione e l’attribuirle un tale scopo (visto che solo la massima discordia degli uomini tra loro li ha potuti spingere fino a paesi così inospitali).

§ 64. Del carattere proprio delle cose in quanto fini della natura.

Per comprendere che una cosa non è possibile se non come fine, vale a dire che la causalità della sua origine deve essere cercata non nel meccanismo della natura, ma in una causa il cui potere è determinato ad agire da concetti, è necessario che la sua forma non sia possibile secondo semplici leggi naturali, cioè tali che possono esser conosciute da noi col solo intelletto applicato agli oggetti dei sensi, ma che la sua conoscenza empirica stessa, circa la causa e l’effetto, presupponga concetti della ragione. Questa contingenza della sua forma, in tutte le leggi empiriche relativamente alla ragione — poiché la ragione, che di ogni forma d’un prodotto naturale deve riconoscere anche la necessità, anche quando vuol considerare soltanto le condizioni legate con la produzione di esso, non può ammettere tale necessità in quella forma data, — è per se stessa un argomento per considerare la sua casualità come possibile soltanto mediante la ragione; ma la ragione è allora la facoltà di agire secondo fini (una volontà); e l’oggetto, che è rappresentato come possibile soltanto per mezzo di questa facoltà, sarebbe rappresentato come possibile solamente in quanto fine.

Se qualcuno scoprisse una figura geometrica, per esempio un esagono regolare, disegnata sulla sabbia, in un. paese che gli sembra disabitato, la sua riflessione, cercando di farsene un concetto, noterebbe mediante la ragione, se pure oscuramente, l’unità del principio con cui fu prodotta, e, conformemente alla ragione stessa, non giudicherebbe come principio della possibilità della figura, la sabbia, il mare vicino, i venti, o anche le impronte dei piedi degli animali, o qualunque altra causa priva di ragione; perché la contingenza dell’accordo della figura con un tal concetto possibile solo nella ragione gli sembrerebbe così infinitamente grande, che sarebbe proprio come se non vi fosse alcuna legge della natura capace di produrlo: e per conseguenza gli sembrerebbe che la causalità di un simile effetto non possa essere contenuta in alcuna causa del semplice meccanismo della natura, ma solo nel concetto dell’oggetto, in quanto concetto che solo la ragione può dare e a cui può confrontare l’oggetto; e quindi che l’effetto possa essere considerato come fine, ma non come un fine naturale, sibbene come un prodotto dell’arte (vestigium hominis video).

Ma per giudicare come un fine, e quindi come un fine della natura, qualche cosa che si riconosce come un prodotto naturale, si richiede, se non vi è qui nulla di contradittorio, qualche cosa di più. Io direi, per ora, che una cosa esiste come fine della natura quando e la causa e l’effetto di se stessa (sebbene in doppio significato); perché vi è qui una causalità che non può essere congiunta col semplice concetto d’una natura, senza attribuire a questa uno scopo, e che però, se può essere pensata senza contradizione, non può essere concepita. Prima di esporla completamente, vogliamo chiarire con un esempio la determinazione di questa idea d'uno scopo naturale.

In primo luogo, un albero ne produce un altro secondo una legge naturale conosciuta. Ma l’albero prodotto è della stessa specie; e così l’albero si produce da sé relativamente alla specie, nella quale, da un lato come effetto, dall’altro come causa, prodotto incessantemente da se stesso, e quindi producendo sovente se stesso, si conserva costantemente, in quanto specie.

In secondo luogo, un albero si produce da sé come individuo. Questa specie di effetto noi veramente la chiamiamo semplicemente crescita; ma questa crescita bisogna intenderla nel senso che è interamente diversa da ogni altro accrescimento secondo leggi meccaniche, e, sebbene sotto un altro nome, va considerata come una produzione. Questa pianta elabora la materia che si appropria in modo da darle la qualità che ad essa è specificamente propria e che il meccanismo della natura ad essa esterna non può fornire; e si sviluppa così mediante una materia che, relativamente alla composizione, è un suo proprio prodotto. Perché se, per ciò che riguarda le parti costitutive che trae dalla natura esterna, questa materia deve esser considerata come un’eduzione, si trova però, circa la scelta e nuova composizione della materia rozza, tanta originalità in questa specie di esseri naturali nella facoltà di scegliere e di comporre, che ogni arte ne resta infinitamente lontana, quando cerca di ricostituire quei prodotti del regno vegetale con gli elementi ottenuti dall’analisi di essi, o con la materia che la natura fornisce per nutrirli.

In terzo luogo, una parte di questa creatura si produce da sé in modo che la conservazione della parte e la conservazione del tutto dipendono l’una dall’altra. Un occhio preso dalla foglia d’un albero e innestato sul ramo di un altro albero, produce sopra un ceppo estraneo una pianta della sua specie, e così l’innesto sopra un altro tronco. Perciò anche nello stesso albero si può considerare ogni ramo o foglia come semplicemente innestato o innocchiato, quindi come un albero che sussiste per se stesso, e che soltanto è attaccato ad un altro e si nutre da parassita. Così le foglie sono, è vero, produzioni dell’albero, ma a loro volta lo conservano; perché si distruggerebbe l’albero spogliandolo ripetutamente delle sue foglie, e la sua crescita dipende dal loro effetto sul tronco. Menzionerò qui solo di sfuggita, sebbene appartengano alle proprietà più meravigliose delle creature organizzate, quel soccorso che la natura dà spontaneamente alle piante private di qualche parte necessaria alla conservazione delle parti vicine, sostituendola con altre parti; e quei difetti di organizzazione, o quelle deformità acquistate nella crescita, in cui certe parti, a causa dei difetti e degli ostacoli, si formano in una maniera del tutto nuova, per conservare ciò che vi è e produrre una creatura anormale.

§ 65. Le cose, in quanto fini della natura, sono esseri organizzati.

Secondo il carattere indicato nel paragrafo precedente, una cosa che deve esser riconosciuta come un prodotto naturale, ma nel tempo stesso come possibile soltanto in quanto fine della natura, deve essere rispetto a se stessa, a vicenda, causa ed effetto; ma è questa una espressione alquanto impropria ed indeterminata, che dev’essere derivata da un concetto definito.

Il legame causale, in quanto è pensato semplicemente dall’intelletto, è un legame che costituisce una serie (di cause ed effetti), che va sempre all’in giù; e le cose stesse, che in quanto effetti ne presuppongono altre come cause, non possono nello stesso tempo esser cause di queste. Questo legame causale si chiama delle cause efficienti (nexus effectivus). Ma si può anche pensare, invece, una relazione causale secondo un concetto della ragione (di fini), che, quando la si consideri come serie, implicherebbe una dipendenza ascendente e discendente, in modo che la cosa che una volta è designata come effetto, risalendo, meriti il nome di causa di quell’altra cosa di cui è effetto. Nella pratica (o nell’arte) si trova facilmente un simile legame: per esempio, la casa è bensì la causa del danaro che si riceve pel fitto, ma viceversa la rappresentazione di questo introito possibile fu la causa della sua costruzione. Un tal legame causale è detto delle cause finali (nexus finalis). Forse il primo si potrebbe chiamar meglio legame delle cause reali, e il secondo legame delle cause ideali, perché queste denominazioni fanno comprendere che non possono esservi se non queste due specie di causalità.

In una cosa in quanto fine della natura si richiede in primo luogo che le parti (relativamente alla loro esistenza e alla loro forma) siano possibili soltanto mediante la loro relazione col tutto. Perché la cosa stessa è un fine, e quindi è compresa sotto un concetto o un’idea, che deve determinare a priori tutto ciò che in essa dev’essere contenuto. Ma una cosa, in quanto è pensata come possibile soltanto in questo modo, è semplice-mente un’opera d’arte; vale a dire, è il prodotto di una causa ragionevole distinta dalla materia della cosa (le parti), e la cui causalità (nella raccolta e nella composizione delle parti) è determinata dalla sua idea di un tutto possibile (e quindi non dalla natura esteriore).

Ma se una cosa, in quanto prodotto della natura, deve contenere in se stessa e nella sua possibilità interna una relazione a fini, vale a dire deve essere possibile soltanto come fine della natura e senza la causalità dei concetti di esseri ragionevoli ad essa esterni, si richiede in secondo luogo che le parti si leghino a formare l’unità del tutto in modo da essere reciprocamente causa ed effetto della loro forma. Perché solo in tal modo è possibile che a sua volta l’idea del tutto determini la forma e il legame di tutte le parti: non in quanto causa — perché allora si avrebbe un prodotto dell’arte — ma, per colui che giudica, come fondamento della conoscenza dell’unità sistematica della forma e del legame di tutto il molteplice contenuto nella materia data.

Sicché in un corpo che, in se stesso e secondo la sua possibilità interna, dev’essere giudicato come un fine della natura, si richiede che le parti tutte insieme si producano reciprocamente, circa la loro forma e il loro legame, e producano così, in forza della propria causalità, un tutto, di cui il concetto a sua volta (in un essere che possegga la causalità secondo concetti, adeguata ad un tale prodotto) è causa del prodotto secondo un principio, in modo che perciò il legame delle cause efficienti possa esser giudicato nel tempo stesso come effetto mediante cause finali.

In un simile prodotto della natura ogni parte è pensata come esistente solo per mezzo delle altre, e perle altre e il tutto, vale a dire come uno strumento (organo); il che però non basta (perché potrebbe essere anche uno strumento dell’arte, e quindi essere rappresentata solo come uno scopo possibile in generale); dev’essere pensata come un organo che produce le altre parti (ed è reciprocamente prodotto da esse), mentre nessuno strumento dell’arte può essere così, ma solo quello della natura che fornisce tutta la materia agli strumenti (anche a quelli dell’arte); solo allora e solo per questo un tale prodotto, in quanto essere organizzato e che si organizza da sé, può esser chiamato un fine della natura.

In un orologio, una parte è lo strumento che serve al movimento delle altre; ma una ruota non è la causa efficiente della produzione delle altre; una parte esiste bensì in vista delle altre, ma non per mezzo di esse. Perciò la causa produttrice dell’orologio e della sua forma non è contenuta nella natura (di questa materia), ma sta fuori di esso, in un essere che può agire secondo le idee di un tutto possibile mediante la sua causalità. Se quindi nell’orologio una ruota non produce l’altra, ancor meno un orologio produrrà un altro orologio, impiegando altra materia (organizzandola); perciò non rimpiazzerà da sé le parti mancanti, o riparerà, mediante le altre, ai difetti della costruzione primitiva di certe parti, o si correggerà spontaneamente quando si trova in disordine: tutte cose che invece ci possiamo aspettare dalla natura organizzata. — Un essere organizzato non è dunque una semplice macchina, che non ha altro che la forza motrice: possiede una forza formatrice, tale che la comunica alle materie che non l’hanno (le organizza): una forza formatrice, che si propaga, e che non può essere spiegata con la sola facoltà del movimento (il meccanismo).

Si dice assai poco della natura e della facoltà che essa dimostra nei prodotti organizzati, quando questa si chiama un analogo dell’arte; perché allora si pensa l’artista (un essere ragionevole) fuori di essa. La natura invece si organizza da sé, e, in ogni specie dei suoi prodotti organizzati, secondo uno stesso esemplare; ma anche con quelle opportune deviazioni, che esige la conservazione di se stessa, secondo le circostanze. Forse ci si avvicina di più a questa proprietà impenetrabile, quando la si chiama un analogo della vita: ma allora o bisogna dotare la materia, in quanto semplice materia, di una proprietà (l’ilozoismo), che ripugna alla sua essenza, oppure bisogna associarle un principio estraneo (un’anima), che stia in comunione con essa; nel qual caso, se un tale prodotto deve essere un prodotto naturale, o si deve presupporre già la materia organizzata come strumento di quell’anima, e allora non la si spiega affatto, oppure bisogna far dell’anima l’artista di quest’opera sottraendone la produzione alla natura (corporea). Rigorosamente parlando, l’organizzazione della natura non ha dunque alcuna analogia con qualche causalità che noi conosciamo*2. La bellezza della natura, che è attribuita agli oggetti solo relativamente alla riflessione sulla intuizione esterna di essi, e quindi soltanto per la forma della loro superficie, può esser detta con ragione un analogo dell’arte. Ma la perfezione interna della natura, quale la posseggono quelle cose che son possibili solo come fini della natura, e si chiamano perciò esseri organizzati, non si può pensare e spiegare con alcuna analogia con qualche facoltà fisica o naturale che conosciamo, e, sebbene noi stessi, nel senso più largo, apparteniamo alla natura, neppure con una stretta analogia con l’arte umana.

Il concetto d’una cosa, come fine della natura in sé, non è dunque un concetto costitutivo dell’intelletto o della ragione; ma può essere un concetto regolativo pel Giudizio riflettente, dirigendo la ricerca sugli oggetti di questa specie, e permettendo la riflessione sul loro principio supremo, per via di lontana analogia con la nostra causalità secondo fini in generale; il che veramente non è a vantaggio della conoscenza della natura o della sua origine, ma piuttosto a vantaggio di quella stessa facoltà pratica della ragione con la quale analogicamente consideriamo la causa di quella finalità.

Gli esseri organizzati son dunque i soli nella natura che, anche quando siano considerati per sé e senza rapporto ad altre cose, devono essere pensati come possibili scopi di essa; son quelli che dànno la prima volta una realtà oggettiva al concetto d’uno scopo, che non sia uno scopo pratico, ma uno scopo della natura, e forniscono perciò alla scienza della natura un fondamento per una teleologia, cioè per un modo di considerare gli oggetti della natura secondo un principio particolare, che altrimenti non si sarebbe assolutamente autorizzati ad introdurvi (perché la possibilità di una simile specie di causalità non si può scorgere punto a priori).

§ 66. Del principio del giudizio sulla finalità interna negli esseri organizzati.

Questo principio, che è nel tempo stesso la definizione della finalità interna, dice: è un prodotto organizzato della natura quello in cui tutto è reciprocamente scopo e mezzo. Nulla in esso è vano, senza scopo, o da attribuirsi ad un cieco meccanismo della natura.

Questo principio, veramente, se si guarda all’occasione della sua origine, è da ritenersi derivato dall’esperienza, cioè da quella esperienza istituita metodicamente e che si chiama osservazione; ma per la universalità e la necessità, che esso afferma di una tale finalità, non può riposare semplicemente sopra principii dell’esperienza, e deve avere a fondamento qualche principio a priori, sia pure soltanto regolativo, e ammesso pure che quei fini risiedano soltanto nell’idea di colui che giudica e non in qualche causa efficiente. Il principio suddetto si può chiamare perciò una massima del giudizio della finalità interna degli esseri organizzati.

È noto che gli anatomisti delle piante e degli animali, per studiarne la struttura, e per poter riconoscere perché e a qual fine furono date loro quelle parti, quella disposizione e quel legame delle parti stesse, e proprio quella forma interna, ammettono come imprescindibilmente necessaria la massima, che niente è inutile in tali creature, e le accordano lo stesso valore che al principio della scienza generale della natura, cioè che nulla avviene a caso. E, in realtà, essi non possono rinunziare a questo principio teleologico, più che non possano rinunciare al principio generale della fisica; perché, come con l'abbandono di quest’ultimo non resta più possibile l’esperienza in generale, così con l’abbandono del primo principio non resta più alcuna norma per l’osservazione d’una specie di cose naturali, che abbiamo pensate una volta teleologicamente sotto il concetto di fini della natura.

Perché, difatti, questo concetto conduce la ragione in rutt’altro ordine di cose che non sia un semplice meccanismo della natura, che qui non ci può più soddisfare. A fondamento della possibilità del prodotto della natura dev’esservi un’idea. Ma, poiché un’idea è un’assolùta unità di rappresentazione, mentre la materia è una molteplicità di cose, che per se stessa non può fornire alcuna unità determinata della composizione, se quell’unità dell’idea deve servire pure come principio che determini a priori una legge naturale della causalità di una tale forma del composto, lo scopo della natura si estende a tutto ciò che è contenuto nel suo prodotto. E, difatti, dal momento che noi riferiamo interamente questo effetto ad un fondamento soprasensibile, al di là del cieco meccanismo della natura, lo dobbiamo giudicare interamente secondo questo principio; e non v’è alcuna ragione per ammettere che la forma di una tale cosa dipenda ancora in parte dall’altro principio, perché allora nel miscuglio di principii eterogenei non resterebbe più alcuna regola sicura del giudizio.

Senza dubbio, per esempio, nel corpo di un animale, parecchie parti possono essere concepite come concrezioni secondo leggi puramente meccaniche (come la pelle, le ossa, i capelli). Però la causa che fornisce la materia adatta, la modifica in tal modo, la forma, e la depone nei posti appropriati dev’essere giudicata sempre teleologicamente in modo che tutto in questo corpo deve essere considerato come organizzato, e tutto a sua volta come organo in un certo rapporto con la cosa stessa.

§ 67. Del principio del giudizio teleologico sulla natura considerata in generale come un sistema di fini.

Della finalità esterna delle cose della natura abbiamo detto avanti che essa non basta ad autorizzarci a considerare queste cose come fini della natura per spiegare la loro esistenza, e ad usare i loro effetti, accidentalmente finali rispetto all’idea, come fondamenti della loro esistenza secondo il principio delle cause finali. Così i fiumi, perché favoriscono la comunione tra i popoli nell’interno dei paesi, le montagne perché contendono le sorgenti di questi fiumi e le provviste di neve per conservarli nei tempi in cui non piove, l’inc1inazione dei terreni che trasporta queste acque lasciando asciutte le terre, non possono essere tenuti senz’altro per fini della natura; poiché, sebbene questa forma della superficie terrestre sia molto necessaria alla formazione e alla conservazione del regno vegetale ed animale, non ha in sé nulla la cui possibilità ci obblighi ad ammettere una causalità secondo fini. Lo stesso vale per le piante che l’uomo adopera pel suo bisogno e pel suo piacere: degli animali, il camello, il bue, il cavallo, il cane, etc., di cui l’uomo usa in tanti modi, sia pel suo nutrimento, sia pel suo servizio, e di cui in gran parte non può far da meno. Delle cose di cui non si ha alcuna ragione di considerarle per se stesse come fini, il rapporto esterno può esser giudicato come finale soltanto in via d’ipotesi.

Giudicare una cosa come fine della natura, a causa della sua forma interna, è tutt’altro che considerare come line della natura l’esistenza di questa cosa. In quest’ultimo caso abbiamo bisogno non soltanto del concetto di uno scopo possibile, ma della conoscenza dello scopo finale (scopus) della natura, il quale implica un rapporto della natura a qualcosa di soprasensibile, che trascende di molto tutta la nostra conoscenza teleologica della natura; perché lo scopo dell’esistenza della natura stessa deve essere cercato al di sopra della natura. La forma interna di un semplice filo d’erba può dimostrare a sufficienza per la nostra umana facoltà di giudicare, che la sua origine è possibile soltanto secondo la regola dei fini. Ma, se si prescinde da ciò, e si guarda soltanto all’uso che ne fanno altri esseri naturali, se si tralascia quindi la considerazione dell’organizzazione interna, e si guarda solo alle relazioni finali esterne, come il fatto che l’erba sia necessaria qual mezzo d’esistenza pel bestiame, e questo per l’uomo; e se non si vede perché è necessario che esistano degli uomini (al che non sarebbe tanto facile rispondere, se si pensa agli abitanti della Nuova Olanda o a quelli della Terra del Fuoco); non si arriva ad alcun fine categorico: ma tutta questa relazione di finalità riposa su di una condizione che si deve porre sempre più in alto, e che, in quanto incondizionata (l’esistenza di una cosa come scopo finale), sta interamente fuori della considerazione fisico-teleologica del mondo. Ma allora una tal cosa non è uno scopo della natura; perché non la si può considerare (o considerare tutta la sua specie) come un prodotto della natura.

Solo la materia, in quanto organizzata, implica quindi necessariamente nel proprio concetto uno scopo naturale, perché questa sua forma specifica è nel tempo stesso un prodotto della natura. Ma questo concetto conduce necessariamente all’idea dell’intera natura come un sistema secondo la regola dei fini; alla quale idea deve essere subordinato, secondo principii della ragione, tutto il meccanismo della natura (perché si possano almeno studiare i fenomeni naturali). Tutto nel mondo è utile a qualche cosa, niente vi esiste invano, è un principio inerente alla ragione solo soggettivamente, vale a dire in quanto massima; e dall’esempio che la natura dà nei suoi prodotti organizzati, si è autorizzati, anzi invitati, a non aspettare da essa e dalle sue leggi niente che, nell’insieme, non abbia carattere finalistico.

Si comprende che questo non è un principio pel Giudizio determinante, ma soltanto pel Giudizio riflettente; che è regolativo e non costitutivo; e che perciò noi riceviamo da esso solo una guida per considerare le cose della natura, relativamente a un fondamento di determinazione già dato, secondo un nuovo ordine di leggi, e per estendere la scienza della natura secondo un altro principio, cioè quello delle cause finali, senza pregiudizio, per altro, di quello del meccanismo della sua causalità. Del resto, in tal modo non si decide punto, se una cosa che giudichiamo secondo questo principio sia uno scopo intenzionale della natura; se l’erba esista pel bue o per la pecora, e se questi animali e le altre cose della natura esistano per gli uomini. È bene considerare anche da questo lato le cose che ci sono spiacevoli, ed anche contrarie sotto certi rispetti. Così, per esempio, si potrebbe dire che l’insetto che travaglia l’uomo stando nei suoi abiti, nei capelli e nel letto, è, per una saggia disposizione della natura, uno stimolo alla nettezza, che per se stessa è già un mezzo importante per la conservazione della salute. Oppure che le zanzare e gli altri insetti pungenti, che rendono così penosi ai selvaggi i deserti dell’America, siano tanti assilli per spingere l’attività di questi uomini inesperti a rasciugar le paludi, a diradare le folte foreste che arrestano la luce, e a rendere così, mediante anche la cultura del suolo, più sano il loro soggiorno. Perfino ciò che nell’organizzazione interna dell’uomo pare contrario alla sua natura, riguardato in questo modo, ci apre una veduta interessante, e qualche volta anche istruttiva, sopra un ordine teleologico delle cose, cui non ci condurrebbe mai, senza un tal principio, la semplice considerazione fisica. Allo stesso modo che alcuni giudicano il verme solitario esser stato dato all’uomo o all’animale, in cui abita, quasi a compensare un certo difetto dei suoi organi vitali, io domanderei se i sogni (che accompagnano sempre il sonno, sebbene ce ne ricordiamo raramente) non possano essere una disposizione finalistica della natura, in quanto servono cioè, nel rilassamento di tutte le forze motrici del corpo, a muovere intimamente gli organi vitali per mezzo dell’immaginazione e della sua grande attività (che in tale stato arriva spesso fino all’affetto); l’immaginazione, d’ordinario, nel sonno notturno gioca con tanto maggiore vivacità, quando per la pienezza dello stomaco, quei movimenti son tanto più necessarii; e quindi, senza questa forza che muove dall’interno, e senza quell’inquietudine faticosa di cui accusiamo i sogni (che forse in realtà sono intanto dei rimedii), il sonno, anche nello stato sano, sarebbe una totale estinzione della vita.

Anche la bellezza della natura, vale a dire il suo accordo col libero giuoco delle nostre facoltà conoscitive nell’apprensione e nel giudizio dei suoi fenomeni, può esser considerata in tal modo come una finalità oggettiva della natura, in quanto questa nel suo insieme può essere un sistema, di cui l’uomo è un membro, dappoiché il giudizio teleologico della natura stessa mediante quei fini che ci forniscono gli esseri organizzati, ci ha autorizzati all’idea di un grande sistema di fini naturali. Noi possiamo considerare come un favore*3 della natura, che essa abbia, oltre l’utile, dispensato con tanta ricchezza le bellezze e le attrattive, ed amarla perciò, allo stesso modo che la consideriamo con stima per la sua immensità, e che da questa considerazione ci sentiamo nobilitati, proprio come se la natura avesse stabilito ed ornato, precisamente per questo scopo, il suo magnifico teatro.

In questo paragrafo noi vogliamo dire soltanto questo: che cioè dal momento che nella natura abbiamo scoperto una facoltà di formare prodotti, che possono essere pensati da noi solo secondo il concetto delle cause finali, noi andiamo oltre, e possiamo giudicare come appartenenti ad un sistema di fini anche quelle cose (o il loro rapporto, sebbene finale), che non rendono necessario, per spiegare la loro possibilità, il cercare un altro principio al di là del meccanismo delle cieche cause efficienti; perché già la prima idea, per ciò che riguarda il suo principio, ci conduce al di là del mondo sensibile, giacché l’unità del principio soprasensibile non dev’essere considerata come valida soltanto per certe specie di esseri naturali, ma valida allo stesso modo per l’insieme della natura in quanto sistema.

§ 68. Del principio della teleologia come principio interno della scienza della natura.

I principii d’una scienza o sono interni ad essa, e si dicono nativi (principia domestica); o sono fondati sopra concetti che possono trovar posto soltanto fuori di essa, e sono principii stranieri (peregrina). Le scienze, che contengono questi ultimi, pongono a fondamento delle loro dottrine dei lemmi (lemmata); vale a dire, prendono in prestito da un’altra scienza un concetto, e con questo un principio pel loro ordinamento.

Ogni scienza è per se stessa un sistema: e in essa non è sufficiente costruire secondo principii, e quindi procedere tecnicamente; ma è necessario trattarla architettonicamente, come un edificio per sé stante, non come ima dipendenza o una parte di un altro edificio, ma come un tutto; sebbene dopo si possa costruire un passaggio da essa a un’altra scienza, o viceversa.

Se, dunque, nel contesto della scienza della natura si introduce il concetto di Dio, per spiegare la finalità naturale, e quindi si adopera a sua volta questa finalità per dimostrare che esiste un Dio, ciascuna delle due scienze resta senza intima consistenza, ed un circolo vizioso le rende incerte entrambe, per aver esse confuso i loro limiti.

L’espressione di fine della natura previene già abbastanza questa confusione, da non farci confondere la scienza della natura, e l’occasione che ci dà al giudizio teleologico dei suoi oggetti, con la considerazione di Dio e quindi con una deduzione teologica; e non si deve riguardare come insignificante lo scambiare quell’espressione con l’altra di uno scopo divino nell’ordinamento della natura o darla come più appropriata ad un’anima pia, giacché infine si dovrebbe sempre arrivare alla deduzione di quelle forme finali della natura da un saggio creatore del mondo; ma bisogna scrupolosamente e modestamente limitarsi a quell’espressione che non dice più di quello che sappiamo, cioè all’espressione di fine naturale. Perché difatti, prima di domandarci qual è la causa della natura, noi troviamo, in essa e nel corso della sua produzione, prodotti che son formati secondo leggi dell’esperienza a noi note e secondo le quali la scienza della natura deve giudicare i suoi oggetti, e quindi cercarne la causalità nella natura stessa secondo la regola dei fini. Essa perciò non deve superare i propri limiti per introdurre in se stessa, come principio nativo, ciò il cui concetto non può essere adeguato ad alcuna esperienza, e che non si può osare d’introdurre se prima la scienza della natura non sia completa.

Le qualità della natura, che si possono dimostrare a priori e di cui perciò la possibilità si può scorgere per via di principii universali senza il concorso dell’esperienza, non possono essere riferite alla teleologia della natura, in quanto è un metodo di risolvere le questioni appartenenti alla fisica, perché, sebbene esse implichino una finalità tecnica, sono però assolutamente necessarie. Le analogie aritmetiche e geometriche, come pure le leggi generali della meccanica, per quanto si presenti strana e meravigliosa l’unione di regole diverse e in apparenza indipendenti luna dall’altra, in un unico principio, non contengono alcun diritto per essere principii esplicativi nella fisica; e, se meritano di essere prese in considerazione nella teoria generale della finalità delle cose naturali, sarebbe questa una considerazione che vien da un’altra parte, che appartiene alla metafisica, e non costituisce un principio inerente alla scienza della natura; come, invece, quando si tratta delle leggi empiriche dei fini della natura negli esseri organizzati, è non soltanto permesso, ma inevitabile, di adoperare il giudizio teleologico come principio della scienza della natura relativamente ad una classe particolare dei suoi oggetti.

Ora la fisica, per tenersi strettamente nei suoi limiti, prescinde totalmente dalla questione se i fini della natura siano o no intenzionali, perché questo significherebbe impacciarsi d’un compito estraneo (cioè di quello della metafisica). Basta che vi siano oggetti spiegabili unicamente secondo leggi che noi possiamo pensare solo prendendo come principio l’idea di fine, e conoscibili solo così nella loro forma interna, anzi soltanto internamente. Per non incorrere nel sospetto che si pretenda anche menomamente di mischiare tra i nostri principii di conoscenza qualche cosa che non appartiene punto alla fisica, cioè una causa sopranaturale, nella teleologia si parla bensì della natura come se la finalità in essa fosse intenzionale, ma nello stesso tempo se ne parla in modo da attribuire quell’intenzione alla natura, vale a dire alla materia; con che si vuol mostrare (giacché un malinteso non è possibile, non potendo nessuno attribuire ad una materia inanimata l’intenzione nel senso proprio della parola), che qui questa parola significa solo un principio del Giudizio riflettente, non del Giudizio determinante: e quindi non introduce un principio particolare di causalità, ma aggiunge soltanto all’uso della ragione un’altra specie d’investigazione, diversa da quella secondo le leggi meccaniche, allo scopo di compensare la deficienza di queste ultime nella stessa ricerca empirica di tutte le leggi particolari della natura. Perciò nella teleologia, in quanto si riferisce alla fisica, si parla giustamente della saggezza, dell’economia, della preveggenza, della beneficenza della natura, senza però farne un essere ragionevole (il che sarebbe assurdo), ma anche senza ardire di mettere al disopra di essa un altro essere intelligente, come artefice, perché ciò sarebbe temerario*4 ; si designa solamente una specie di causalità della natura secondo una analogia con la causalità nostra nell’uso tecnico della ragione, affine di aver davanti agli occhi la tegola con cui debbono essere studiati certi prodotti naturali.

Ma perché la teleologia non costituisce d’ordinario una parte speciale della scienza teoretica della natura, ed è riferita alla teologia come una propedeutica o un passaggio? Questo avviene per mantenere fermo lo studio della natura, nel suo meccanismo, a ciò che possiamo sottoporre alla nostra osservazione e ai nostri esperimenti, in modo che possiamo produrre noi stessi come la natura, o almeno con analogia con le sue leggi; perché si comprende perfettamente solo quello che si può fare da sé e realizzare secondo concetti. Ma l’organizzazione, come fine interno della natura, supera infinitamente ogni facoltà di produrre un’esibizione simile per mezzo dell’arte: e per ciò che riguarda quelle disposizioni esterne della natura che son tenute come finali (per esempio, i venti, la pioggia, etc.), la fisica ne considera bensì il meccanismo, ma non può mostrare la loro relazione a fini, in quanto questi debbono essere una condizione inerente necessariamente alla causa, perché questa necessità del legame riguarda i nostri concetti e non la natura delle cose.

Sezione Seconda
DIALETTICA DEL GIUDIZIO TELEOLOGICO

§ 69. Che cos’è un’antinomia del Giudizio?

Il Giudizio determinante non ha per se stesso principii che fondino concetti d’oggetti. Non è autonomo; perché sussume soltanto a leggi date o a concetti, presi come principii. Appunto perciò non è esposto al pericolo di un’antinomia propria e ad una contradizione dei suoi principii. Così il Giudizio trascendentale, che conteneva le condizioni per la sussunzione sotto le categorie, vedemmo che per se stesso non era nomotetico; non faceva che enunciare le condizioni dell’intuizione sensibile, sotto le quali può esser data realtà (applicazione) ad un concetto dato, in quanto legge dell’intelletto; e in ciò non poteva mai trovarsi in disaccordo con se stesso (almeno secondo i principii).

Ma il Giudizio riflettente deve sussumere sotto una legge che non è ancora data, e quindi in realtà non è se non un principio della riflessione su oggetti, per i quali oggettivamente ci manca affatto una legge, o un concetto dell’oggetto che possa essere principio sufficiente pei casi che si presentano. Ora, poiché nessun uso delle facoltà conoscitive può sussistere senza principii, il Giudizio riflettente in tali casi dovrà fare da principio a se stesso: il quale principio, non essendo oggettivo, e n°n potendo fondare una conoscenza dell’oggetto sufficiente allo scopo, deve servire soltanto, come principio puramente soggettivo, all’uso finale delle facoltà conoscitive, cioè per riflettere sopra una certa specie di oggetti. Sicché per questi casi il Giudizio riflettente ha le sue massime, e massime necessarie, dirette alla conoscenza delle leggi naturali nell’esperienza, e a raggiungere, per mezzo di tali leggi, dei concetti, che possono essere anche concetti della ragione, quando il Giudizio ne abbia assoluta-mente bisogno per imparare a conoscere la natura secondo le sue leggi empiriche. — Ora, tra queste massime necessarie del Giudizio riflettente può esserci una contradizione, e quindi un’antinomia; su cui si fonda una dialettica, che, se ciascuna delle due massime contradittorie ha il suo fondamento nella natura delle facoltà conoscitive, può esser chiamata una dialettica naturale, e un’illusione inevitabile, la quale, perché non inganni, dev’essere scoperta e risoluta dalla critica.

§ 70. Esposizione di questa antinomia.

In quanto si applica alla natura come insieme degli oggetti dei, sensi esterni, la ragione può fondarsi sopra leggi che l’intelletto in parte prescrive da sé a priori alla natura, e in parte può estendere all’infinito per mezzo delle determinazioni empiriche che presenta l’esperienza. Per l’applicazione della prima specie di leggi, cioè delle leggi universali della natura materiale in generale, il Giudizio non ha bisogno di un principio particolare di riflessione, perché, in tal caso, è determinante essendogli dato un principio oggettivo mediante l’intelletto. Ma per ciò che riguarda le leggi particolari, che solo l’esperienza può farci conoscere, può esservi in esse tanta varietà ed eterogeneità, che il Giudizio deve servir da principio a se stesso anche solo per ricercare ed investigare i fenomeni della natura secondo una legge; poiché di questa ha bisogno come di una guida, se deve anche soltanto sperare in una conoscenza coerente dell’esperienza, fondata sopra una regolarità generale della natura, e quindi nell’unità di questa secondo leggi empiriche. In questa unità accidentale delle leggi particolari può accadere che il Giudizio nella sua riflessione proceda da due massime, di cui l’una gli è fornita a priori dal semplice intelletto, mentre l’altra è occasionata da esperienze particolari che pongono in giuoco la ragione, in modo da impostare secondo un particolare principio il giudizio della natura corporea e delle sue leggi. Si trova allora che queste due massime di tipo diverso non sembra che possano star bene insieme; e ne nasce una dialettica, che confonde il Giudizio nel principio della sua riflessione.

La prima massima del giudizio è la tesi: Ogni produzione di cose materiali e delle loro forme deve essere giudicata possibile secondo leggi puramente meccaniche.

La seconda massima è l’antitesi: Alcuni prodotti della natura materiale non possono esser giudicati possibili secondo leggi puramente meccaniche (il loro giudizio esige una legge di causalità del tutto diversa, cioè quella delle cause finali).

Se questi principii, che son regolativi per l’investigazione della natura, si convertissero in principii costitutivi della possibilità degli oggetti stessi, suonerebbero così:

Tesi: Ogni produzione di cose materiali è possibile secondo leggi puramente meccaniche.

Antitesi: La produzione di alcune cose materiali non è possibile secondo leggi puramente meccaniche.

Enunciate in tal modo, come principii oggettivi pel Giudizio determinante, queste due proposizioni si contradirebbero, ed una sarebbe necessariamente falsa; si avrebbe allora un’antinomia, ma non un’antinomia del Giudizio, bensì una contradizione nella legislazione della ragione. Ma la ragione non può dimostrare né l’uno né l'altro di questi principii, perché non possiamo avere a priori alcun principio determinante della possibilità delle cose secondo leggi della natura puramente empiriche.

In quanto invece alla prima massima citata di un Giudizio riflettente, essa in realtà non contiene alcuna contradizione. Perché quando dico: io debbo giudicare possibili secondo leggi puramente meccaniche tutti i fatti della natura materiale, e quindi tutte le forme che ne sono il prodotto; non dico implicitamente che tali cose son possibili solo in questo modo (con l’esclusione di ogni altra specie di causalità); voglio indicare solamente che debbo riflettere su di esse sempre secondo il principio del puro meccanismo della natura, e che perciò questo meccanismo debbo studiarlo quanto più è possibile, perché se non lo si mette a fondamento della ricerca, non si può avere una vera conoscenza della natura. Ciò non impedisce di applicare la seconda massima, quando se ne presenti l’occasione, vale a dire di investigare e di riflettere su certe forme della natura (e all’occasione di queste anche su tutta la natura) secondo un principio che è interamente diverso dall’esplicazione col meccanismo naturale, cioè il principio delle cause finali. Perché così non è abolita la riflessione secondo la prima massima, ché anzi è comandato di seguirla finché si può; e nemmeno è detto che quelle forme non fossero possibili secondo il semplice meccanismo della natura. Si afferma soltanto che la ragione umana, seguendo questo principio del meccanismo in questo modo, potrà ben trovare altre conoscenze di leggi naturali, ma non si formerà mai il minimo concetto di ciò che costituisce il carattere specifico di uno scopo naturale; lasciando così indeciso se nel fondamento interno, da noi ignorato, della natura, possano riunirsi in un principio unico la relazione fisico-meccanica e la relazione finalistica delle cose medesime: e si dice solo che la nostra ragione non è capace di operare questa unione, e quindi il Giudizio, in quanto riflettente (in base a un fondamento soggettivo), e non in quanto determinante (conformemente a un principio oggettivo della possibilità delle cose in sé), è obbligato a pensare a fondamento della possibilità di certe forme della natura un altro principio, diverso da quello del meccanismo naturale.

§ 71. Preparazione alla soluzione della precedente antinomia.

Noi non possiamo punto dimostrare l’impossibilita della produzione dei prodotti naturali organizzati mediante diante il puro meccanismo della natura, perché non possiamo scorgere nel suo primo fondamento interno l’infinita varietà delle leggi particolari di natura, che son per noi accidentali, essendo conosciute solo empiricamente, e quindi non possiamo assolutamente raggiungere il principio interno, e interamente sufficiente della possibilità di una natura (principio che risiede nel soprasensibile). Se dunque la potenza produttrice della natura sia sufficiente a ciò che noi giudichiamo come formato o connesso secondo l’idea di fini, proprio come sufficiente a ciò per cui crediamo di aver bisogno di un semplice meccanismo della natura; e se, in realtà, le cose che consideriamo come veri fini della natura (come dobbiamo giudicarle necessariamente) hanno a fondamento una specie del tutto diversa di causalità originaria, che non può essere contenuta nella natura materiale o nel suo sostrato intelligibile, vale a dire un intelletto architettonico: sono questioni di cui non ci può dare assolutamente alcuna notizia la nostra ragione, la quale è strettamente limitata rispetto al concetto di causalità, quando questo deve essere specificato a priori. — Ma questo è indubbiamente certo, che, relativamente alla nostra facoltà di conoscere, il semplice meccanismo della natura non può fornire nessun principio esplicativo per la produzione degli esseri organizzati. Sicché pel Giudizio riflettente è un principio giustissimo, che pel legame, così manifesto, delle cose secondo le cause finali, si debba pensare una causalità diversa dal meccanismo, cioè quella di una causa del mondo che agisca secondo fini (intelligente); per quanto anche questo principio possa essere precipitato e indimostrabile pel Giudizio determinante. Nel primo caso, esso è una mera massima del Giudizio, in cui il concetto di questa causalità è una semplice idea, alla quale non si pretende affatto di attribuire realtà, ma che si usa soltanto come guida della riflessione, che resta sempre aperta a tutte le esplicazioni meccaniche e non esce dal mondo sensibile; nel secondo caso, il principio dovrebbe essere oggettivo, Prescritto dalla ragione, e il Giudizio vi si dovrebbe sottoporre come se fosse determinante, passando così dal mondo sensibile al trascendente, forse per smarrirvisi.

Tutta l’apparenza d’un’antinomia tra la massima dell’esplicazione propriamente fìsica (meccanica) e quella dell’esplicazione teleologica (tecnica), riposa su questo, che si converte un principio del Giudizio riflettente in un principio del Giudizio determinante, e l’autonomia del primo (che vale solo soggettivamente per l’uso della nostra ragione relativamente alle leggi particolari dell’esperienza) si cambia con l’eteronomia dell’altro (che deve regolarsi sulle leggi universali o particolari), date dall’intelletto.

§ 72. Dei diversi sistemi sulla finalità della natura.

Nessuno ha ancora dubitato della verità di questo principio, che cioè si debbano giudicare secondo il concetto delle cause finali certe cose della natura (gli esseri organizzati) e la loro possibilità; anche quando si cerca soltanto un filo conduttore per imparare a conoscere la loro costituzione mediante l’osservazione, senza innalzarsi fino alla ricerca della loro origine prima. La questione così si riduce a sapere se quel principio è valido solo soggettivamente, cioè non è altro che una massima del nostro Giudizio, oppure è un principio oggettivo della natura, pel quale ad essa conviene, oltre il suo meccanismo (secondo le semplici leggi del movimento) un’altra specie di causalità, vale a dire quella delle cause finali, rispetto a cui quelle leggi (delle forze motrici) sarebbero solo cause intermediarie.

Tale questione, o questo problema della speculazione, si potrebbe lasciare interamente indecisa ed irresoluta; perché, se ci contentiamo di restare nei limiti della semplice conoscenza della natura, in quelle massime abbiamo abbastanza per studiare ed investigare i segreti più riposti della natura, fin dove è consentito alle forze umane. Vi è dunque un certo presentimento della nostra ragione, o come un cenno che ci è dato dalla natura, i quali ci indicano che, mediante quel concetto delle cause finali, noi potremmo elevarci al disopra della natura e riattaccare la natura stessa al punto supremo della serie delle cause, se abbandonassimo l’investigazione della natura (pur non essendo andati ancora in essa molto lontano), o almeno la sospendessimo per un poco, per cercar prima di sapere dove ci conduce quel principio estraneo alla scienza della natura, cioè il concetto dei fini naturali.

Ora quella massima incontestata qui dovrebbe mutarsi in un problema, che apre un largo campo alle contestazioni: se cioè la connessione finalistica nella natura prova una specie particolare di causalità nella natura stessa; oppure se, considerata in sé e secondo principii oggettivi, non è piuttosto identica al meccanismo della natura, o riposa con esso sopra un unico fondamento: soltanto che quest’unico fondamento, essendo spesso troppo profondamente nascosto alla nostra investigazione in molti prodotti naturali, proviamo ad usare un principio soggettivo, quello dell’arte, cioè della causalità secondo idee, per attribuirla alla natura per analogia; e questo espediente riesce in molti casi, ma in alcuni sembra fallire, e in tutti i casi non autorizza ad introdurre nella scienza della natura una particolare specie di azione, differente dalla causalità secondo semplici leggi meccaniche della natura stessa. Poiché chiamiamo tecnica il procedimento (la causalità) della natura, per quella specie di finalità che troviamo nei suoi prodotti, vogliamo dividerla in intenzionale (technica intentionalis) ed inintenzionale (technica naturalis). La prima significherà che la potenza produttiva della natura secondo cause finali deve esser tenuta come una specie particolare di causalità; la seconda, che essa in fondo è identica col meccanismo della natura, e che l’accordo accidentale coi nostri concetti d’arte e con le loro regole, in quanto condizione puramente soggettiva di giudicarla, è considerato falsamente come una specie particolare di produzione della natura.

Se ora noi parliamo dei sistemi che spiegano la natura dal punto di vista delle cause finali, dobbiamo notar bene questo: che tutti quanti disputano tra loro dommaticamente, vale a dire sopra principii oggettivi della possibilità delle cose, sia ammettendo cause efficienti intenzionali, sia ammettendo cause efficienti puramente inintenzionali; e non disputano sulla massima soggettiva, che prescrive di giudicare semplicemente della causa di questi prodotti finali; in quest’ultimo caso si potrebbero ben conciliare principii disparati, mentre, nel primo, principii opposti contradittoriamente si distruggono a vicenda e non possono sussistere l’uno accanto all’altro.

I sistemi relativi alla tecnica della natura, vale a dire alla sua forza produttiva secondo la regola dei fini sono di due specie: sistemi dell’ idealismo e sistemi del realismo dei fini della natura. Ai primi è propria la tesi che ogni finalità della natura è inintenzionale; ai secondi che una parte di questa finalità (quella degli esseri organizzati) è intenzionale; donde si potrebbe anche trarre come ipotesi questa conseguenza, che la tecnica della natura, anche per ciò che concerne tutti gli altri suoi prodotti relativamente all’insieme della natura, è intenzionale, cioè fine.

1) L’idealismo della finalità (intendo qui sempre la finalità oggettiva) è o quello della causalità o quello della fatalità della determinazione della natura nella forma finalistica dei suoi prodotti. Il primo principio riguarda il rapporto della materia alla causa fisica della sua forma, cioè le leggi del movimento; il secondo riguarda il rapporto della materia alla causa iperfisica della materia e di tutta la natura. Il sistema della causalità, che si attribuisce ad Epicuro o a Democrito, preso alla lettera, è così evidentemente assurdo, che non ci può nemmeno intrattenere; il sistema della fatalità invece (di cui si fa autore Spinoza, sebbene molto probabilmente sia assai più antico), che riposa su qualche cosa di soprasensibile cui non arriva la nostra veduta, non può essere confutato tanto facilmente, perché il suo concetto dell’essere originario non può esser compreso. Ma è chiaro questo, che in esso il legame finale nel mondo deve esser considerato come inintenzionale (perché deriva da un essere originario, ma non dal suo intelletto, e quindi non da una sua intenzione, bensì dalla necessità della sua natura e dall’unità del mondo che ne consegue), e che, per conseguenza, il fatalismo della finalità è nel tempo stesso un idealismo della medesima finalità.

2) Il realismo della finalità della natura è an-ch’esso fisico o iperfisico. Il primo fonda i fini della natura sull’analogo di una facoltà che agisce con intenzione, cioè sulla vita della materia (che è nella materia stessa, oppure è prodotto da un principio animatore interno, un’anima del mondo); e si chiama ilozoismo. Il secondo deriva i fini dal fondamento originario dell’universo, in quanto è un essere intelligente (originariamente vivente) e che produce con intenzione; ed è il teismo*5 .

§73. Nessuno dei precedenti sistemi mantiene ciò che promette.

Che vogliono tutti questi sistemi? Vogliono spiegare i nostri giudizi teleologici sulla natura, e lo fanno in modo che alcuni negano la verità di tali giudizii, e quindi li spiegano con un idealismo della natura (rappresentata come arte), ed altri li riconoscono come veri, e promettono di dimostrare la possibilità d’una natura secondo l'idea delle cause finali.

1) I sistemi, che sostengono l’idealismo delle cause finali nella natura, ammettono, da una parte, una causalità secondo le leggi del movimento nel principio delle cause finali (per cui le cose esistono conformemente a fini della natura); ma negano in essa l’intenzionalità, vale a dire che essa sia determinata intenzionalmente a questa sua produzione finale, o, in altri termini, negano che la causa sia uno scopo. Tale è la spiegazione di Epicuro, con la quale vien negata del tutto la differenza tra una tecnica della natura e la semplice meccanica, ed il cieco caso è preso come principio esplicativo, non soltanto per l’accordo dei prodotti naturali coi nostri concetti di fine, e quindi per la tecnica, ma anche per la determinazione delle cause di questa produzione secondo le leggi del movimento, e quindi per la loro meccanica; sicché non spiega nulla, nemmeno l’apparenza che è nel nostro giudizio teleologico, e per conseguenza il suo preteso idealismo non è affatto dimostrato.

Spinoza, d’altra parte, vuol dispensarci da ogni ricerca sul principio della possibilità dei fini della natura, togliendo a questa idea ogni realtà, per farli valere in generale non come prodotti, ma come accidenti inerenti ad un essere primo, e attribuendo a questo essere, come sostrato di quelle cose naturali, non la causalità rispetto ad esse, ma la semplice sostanzialità; e (a cagione della necessità incondizionata di questo essere, come di tutte le cose naturali in quanto accidenti che gli sono inerenti) egli assicura bensì alle forme della natura l’unità del fondamento che è richiesta da ogni finalità, ma nel tempo stesso toglie loro la contingenza, senza la quale non si può concepire un’unità di scopo, e quindi esclude ogni intenzionalità, come nega ogni intelligenza al fondamento originario delle cose naturali.

Ma lo spinozismo non giunge a ciò che vorrebbe. Vorrebbe dare un principio esplicativo del legame finale (che non nega) nelle cose della natura, e non fa se non nominare l’unità del soggetto al quale sono inerenti. Ma, anche se gli si concede questo modo di esistere per gli esseri del mondo, tuttavia quell’unità ontologica non è già per questo un’unità di fini, e non fa comprendere affatto questa. Quest’ultima, difatti, è una specie tutta particolare di unità, che non deriva dalla connessione delle cose (gli esseri del mondo) in un soggetto (l’essere primo), ma implica assolutamente la relazione ad una causa intelligente, in modo che, se anche si riunissero tutte queste cose in un soggetto semplice, non si avrebbe mai una relazione finale: a meno che non si concepiscano in primo luogo queste cose come effetti interni della sostanza in quanto causa, e poi questa causa stessa come causa mediante la sua intelligenza. Senza queste condizioni formali ogni unità è semplice necessità di natura; e, applicata anche alle cose che ci rappresentiamo l’una fuori dell’altra, è cieca necessità. Se poi si vuol chiamare finalità della natura ciò che la scuola chiama perfezione trascendentale delle cose (relativamente alla loro propria essenza), e per cui ogni cosa ha in sé tutto quello che è necessario per essere tale e non altra, significa giocare puerilmente con le parole prendendole per concetti. Perché, se tutte le cose debbono essere pensate come fini, e quindi essere una cosa è lo stesso che essere un fine, in fondo non vi è più nulla che meriti di esser rappresentato particolarmente come scopo.

Da ciò si vede bene che Spinoza, riconducendo i nostri concetti di finalità nella natura alla coscienza che abbiamo noi stessi di appartenere ad un essere che comprende tutto (ma nel tempo stesso semplice), e cercando quella forma soltanto nell’unità di questo, dovette aver la mira di affermare non il realismo, ma semplicemente l’idealismo della finalità della natura; e che però non poteva effettuare questo sistema, giacché la semplice rappresentazione dell’unità del sostrato non può mai produrre l’idea di una finalità, anche non intenzionale.

2) Quelli che non soltanto affermano il realismo dei fini naturali, ma pensano anche di poterlo spiegare, credono di poter scorgere una specie particolare di causalità, cioè quella di cause efficienti intenzionali, almeno per ciò che riguarda la sua possibilità; altrimenti non potrebbero presumere d’imprenderne la spiegazione. Perché, difatti, anche l’ipotesi più ardita esige che almeno sia certa la possibilità di ciò che si assume come principio, e che al concetto di questo principio si possa assicurare la sua realtà oggettiva.

Ma la possibilità d’una materia vivente (il cui concetto implica una contradizione, perché l’assenza di vita, inertia, costituisce il carattere essenziale della materia) non si può neppure pensarla; quella di una materia animata, e di tutta la natura come un animale, potrebbe essere usata tutt’al più (per un’ipotesi della finalità della natura, in grande), se l’esperienza ce la rendesse manifesta nell’organizzazione della natura, in piccolo, ma non se ne potrebbe scorgere affatto a priori la possibilità. La spiegazione si aggirerà dunque in un circolo, quando si vuol derivare la finalità della natura negli esseri organizzati dalla vita della materia, e questa vita a sua volta non si conosce che negli esseri organizzati, e per conseguenza senza una simile esperienza non è possibile farsi un concetto della loro possibilità. L’ilozoismo non mantiene dunque ciò che promette.

Il teismo finalmente non può meglio stabilire dom-maticamente la possibilità dei fini naturali come una chiave per la teleologia; sebbene tra tutti i principii esplicativi abbia il vantaggio di sottrarre nel miglior modo all’idealismo la finalità della natura, per via di un’intelligenza che attribuisce all’essere primo, e di introdurre una causalità intenzionale per la produzione della finalità. Infatti, dovrebbe essere prima dimostrata a sufficienza pel Giudizio determinante l’impossibilità dell’unità dei fini nella materia mediante il suo semplice meccanismo, per essere autorizzati a porne il fondamento determinatamente al di là della natura. Ma noi non possiamo dire altro se non che, secondo la natura e i limiti delle nostre facoltà conoscitive (poiché non scorgiamo il primo fondamento interno di questo meccanismo), non dobbiamo cercare in alcun modo nella materia un principio di determinate relazioni finali; e che non ci resta, invece, nessuna maniera di giudicare la produzione dei prodotti naturali in quanto fini della natura, oltre quella che è fornita da un’intelligenza suprema come causa del mondo. Ma questo è un principio soltanto pel Giudizio riflettente, non pel Giudizio determinante, e non può assolutamente giustificare una affermazione oggettiva.

§ 74. La causa dell’impossibilità di trattare dommatica-mente il concetto d’una tecnica della natura e l'inesplicabilità d’uno scopo naturale.

Si tratta dommaticamente un concetto (anche quando sottosta a condizioni empiriche), quando lo consideriamo come contenuto sotto un altro concetto dell’oggetto, il quale costituisce un principio della ragione, e lo determiniamo conformemente a questo. Trattiamo un concetto solo criticamente, quando lo consideriamo semplicemente in relazione con la nostra facoltà di conoscere, e quindi con le condizioni soggettive di pensarlo, senza pretendere di decider nulla sul suo oggetto. Il procedimento dommatico rispetto a un concetto è dunque quello che è legittimo per il Giudizio determinante; il procedimento critico è quello che è legittimo solo per il Giudizio riflettente.

Ora il concetto d’una cosa come fine naturale è un concetto che sussume la natura ad una causalità pensabile soltanto dalla ragione, per farci giudicare secondo questo principio di ciò che è dato dell’oggetto nell’esperienza. Ma, per applicare dommaticamente questo concetto al Giudizio determinante, dovremmo esserci assicurati prima della sua realtà oggettiva, perché altrimenti non vi potremmo sussumere nessuna cosa della natura. Ora il concetto di una cosa come fine della natura è bensì condizionato empiricamente, cioè non è possibile che sotto certe condizioni date nell’esperienza; ma non può essere astratto da esse, ed è possibile, solo secondo un principio della ragione nel giudicare dell’oggetto. Per conseguenza, in quanto tale, di esso non si può scorgere e stabilire dommaticamente la realtà oggettiva (vale a dire, che un oggetto è possibile conformemente ad esso); e non sappiamo se è un semplice concetto ragionante ed oggettivamente vuoto (conceptus ratiocinans), oppure un concetto della ragione, che fonda una conoscenza ed è confermato dalla ragione (conceptus ratiocinatus). Sicché esso non può essere trattato dommaticamente pel Giudizio determinante; vale a dire non soltanto non si può decidere se le cose della natura, considerate come fini naturali, esigano o no per la loro produzione una specie particolare di causalità (quella intenzionale), ma non si può nemmeno porre la questione, perché la realtà oggettiva del concetto d’un fine naturale non è dimostrabile dalla ragione (cioè questo concetto non è costitutivo pel Giudizio determinante, ma semplicemente regolativo pel Giudizio riflettente).

Che però non sia costitutivo, risulta chiaro da ciò che, in quanto concetto d’un prodotto naturale, esso implica, nella stessa cosa considerata come fine, la necessità della natura e, nel tempo stesso, la contingenza della forma dell’oggetto (relativamente alle semplici leggi della natura); e che, per conseguenza, se qui non ve contradizione, esso deve contenere un principio della possibilità della cosa in natura, ed anche un principio della possibilità di questa natura stessa e del suo rapporto a qualcosa che non è natura conoscibile empiricamente (a qualcosa di soprasensibile), e quindi non conoscibile da noi, perché lo si possa giudicare secondo una specie di causalità diversa dal meccanismo della natura, quando vogliamo decidere della sua possibilità. Poiché dunque il concetto di una cosa in quanto fine della natura è trascendente pel Giudizio determinante, quando si considera l’oggetto mediante la ragione (sebbene esso possa essere immanente pel Giudizio riflettente circa gli oggetti dell’esperienza), e quindi non gli si può attribuire la realtà oggettiva pei giudizii determinanti, si comprende come tutti i sistemi che si possono immaginare per trattare dommaticamente il concetto di fine naturale e della natura in quanto un tutto coerente in virtù di cause finali, oggettivamente non possano decidere niente, né affermativamente, né negativamente; perché, difatti, quando si sussumono delle cose sotto un concetto che è semplicemente problematico, i predicati sintetici di questo concetto (qui, per esempio, la questione se il fine della natura che concepiamo per spiegare la produzione della cosa, sia intenzionale o no) debbono fornire giudizii anche problematici dell’oggetto, affermativi o negativi che siano, giacché non si sa se si giudica di qualche cosa o di niente. Il concetto d’una causalità mediante fini (dell’arte) ha certamente una realtà oggettiva, proprio come quella di una causalità secondo il meccanismo della natura. Ma il concetto d’una causalità della natura secondo la regola dei fini, e ancor più di un essere che non può esserci dato nell’esperienza, cioè di un essere che è considerato come fondamento originario della natura, può essere pensato senza contradizione, ma non determinato dommaticamente; perché, non potendo esser tratto dall’esperienza, né essendo necessario alla possibilità dell’esperienza stessa, non v’è modo di assicurare la sua realtà oggettiva. Ma si ammetta anche questo; e allora cose che son date in maniera determinata come prodotti dell’arte divina, come posso metterle tra i prodotti della natura, la cui incapacità a produrre tali cose secondo le proprie leggi rende appunto necessario l’invocare una causa distinta da essa?

§ 75. Il concetto d’una finalità oggettiva della natura è un principio critico della ragione pel Giudizio riflettente.

V’è un’assoluta differenza tra il dire che la produzione di certe cose della natura, o anche di tutta la natura, non è possibile se non mediante una causa che si determina ad agire intenzionalmente, e il dire che, s e -condo la particolare natura della mia facoltà conoscitiva, io non posso giudicare della possibilità di quelle cose e della loro produzione se non pensando una causa che agisce intenzionalmente, e quindi un essere che produce analogamente alla causalità di un intelletto. Nel primo caso voglio affermare qualcosa dell’oggetto, e sono tenuto a dimostrare la realtà oggettiva d’un concetto ch’io ammetto; nel secondo, la ragione non fa se non determinare l’uso delle mie facoltà conoscitive, conformemente alla loro natura e alle condizioni essenziali della loro portata e dei loro limiti. Sicché il primo è un principio oggettivo pel Giudizio determinante, il secondo un principio soggettivo, che serve semplice-mente pel Giudizio riflettente, e quindi una massima che gli è assegnata dalla ragione.

Dunque, ci è necessario assolutamente supporre il concetto di uno scopo nella natura, quando vogliamo anche soltanto studiare i suoi prodotti organizzati con un’osservazione continuata, e questo concetto, per conseguenza, è già per l’uso empirico della nostra ragione una massima assolutamente necessaria. È chiaro che, quando abbiamo ammessa una volta e trovata valida questa guida per studiare la natura, dobbiamo almeno cercare di applicare tale massima del Giudizio anche all’insieme della natura, perché con essa si potrebbero trovare molte altre leggi della natura, le quali altrimenti ci resterebbero nascoste per la limitazione della nostra facoltà di penetrare nell’intimo del meccanismo naturale. Circa quest’ultimo uso quella massima del Giudizio è certamente utile, ma non è indispensabile, perché la natura nel suo insieme non c’è data come organizzata (nel senso stretto della parola indicato avanti). La stessa massima del Giudizio riflettente invece è assolutamente necessaria, relativamente a quei prodotti della natura che debbono esser giudicati come formati così e non altrimenti solo in virtù d’una intenzione, quando della loro interna natura si voglia anche soltanto conseguire una conoscenza d’esperienza; poiché è impossibile anche il pensarli come cose organizzate, senza associarvi il pensiero di una produzione intenzionale.

Ora il concetto d’una cosa, di cui ci rappresentiamo l’esistenza o la forma come possibile sotto la condizione d’uno scopo, è congiunto indissolubilmente col concetto della contingenza di questa cosa (relativamente alle leggi della natura). Perciò anche le cose naturali, che troviamo possibili solo come fini, costituiscono la migliore prova della contingenza dell’universo, e sono, così per l’intelligenza comune come pei filosofi, l’unica prova della dipendenza e dell’origine dell’universo da un essere che è fuori del mondo e intelligente (a causa di quella forma finale), per cui la teleologia non trova la perfetta conclusione delle sue investigazioni che in una teologia.

Ma, infine, che cosa prova la teleologia anche più perfetta? Prova forse che esiste un tale essere intelligente? No; non prova altro che, secondo la natura delle nostre facoltà conoscitive, e quindi nell’unione dell’esperienza coi principii supremi della ragione, noi non possiamo farci assolutamente un concetto della possibilità di questo mondo, senza concepire una causa suprema che agisce con intenzione. Oggettivamente quindi non possiamo dimostrare la proposizione: vi è un essere primo intelligente; solo soggettivamente possiamo ammetterla per l’uso del nostro Giudizio nella sua riflessione su quei fini della natura, i quali non possono esser pensati secondo un altro principio che non sia quello di una causalità intenzionale d’una causa suprema.

Se volessimo dimostrare dommaticamente la suddetta proposizione, mediante ragioni teleologiche, ci troveremmo avviluppati in difficoltà da cui non potremmo distrigarci. Perché allora bisognerebbe mettere a fondamento di quei ragionamenti la proposizione: gli esseri organizzati nel mondo sono possibili soltanto mediante una causa che agisce con intenzione. Dovremmo allora inevitabilmente affermare che, siccome noi possiamo considerare queste cose nel loro legame causale e conoscere questo nelle sue leggi soltanto per mezzo dell’idea di fine, siamo anche autorizzati ad ammettere ciò come necessario per ogni essere pensante e conoscente, e quindi come una condizione inerente all’oggetto e non semplicemente al nostro soggetto. Ma con questa affermazione non risolviamo nulla. Perché, siccome i fini della natura in quanto intenzionali noi propriamente non li osserviamo, ma soltanto nella riflessione sui suoi prodotti vi aggiungiamo col pensiero questo concetto, come una guida del Giudizio, i fini stessi non ci son dati dall’oggetto. A priori per noi è perfino impossibile giustificare l’ammissibilità di un tal concetto, per ciò cbe riguarda la sua realtà oggettiva. E resta così una proposizione che riposa assolutamente sopra condizioni soggettive, vale a dire sulle condizioni del Giudizio che riflette conformemente alle nostre facoltà di conoscere; una proposizione, che, se le si attribuisse un valore oggettivo-dommatico, suonerebbe così: Dio esiste; ma a noi uomini non è permessa se non questa espressione limitata: non possiamo concepire e comprendere la finalità, che deve esser posta essa stessa a fondamento della nostra conoscenza della possibilità interna di molte cose naturali, senza rappresentarcela, e rappresentarci il mondo in generale, come un prodotto d’una causa intelligente (di un Dio).

Ora, se questa proposizione, fondata sopra una massima assolutamente necessaria del nostro Giudizio, soddisfa perfettamente all’uso speculativo e pratico della nostra ragione, da ogni punto di vista umano, io vorrei ben sapere che cosa ci manca se non possiamo dimostrarla valida per esseri superiori, cioè mediante principii puramente oggettivi (che disgraziatamente trascendono le nostre facoltà). Difatti, è assolutamente certo che noi non possiamo imparare a conoscere sufficientemente, e tanto meno a spiegare gli esseri organizzati e la loro possibilità interna, secondo i principii puramente meccanici della natura; e questo è così certo che si potrebbe dire arditamente che è umanamente assurdo anche soltanto il concepire una simile impresa, o lo sperare che un giorno possa sorgere un Newton, che faccia comprendere sia pure la produzione d’un filo d’erba per via di leggi naturali non ordinate da alcun intento: assoluta-mente bisogna negare agli uomini questa veduta. Ma, al contrario, giudicheremmo troppo temerariamente se dicessimo che, anche potendo penetrare fino al principio della natura nella specificazione delle sue leggi universali che conosciamo, non possa affatto trovarsi nascosto in essa un principio sufficiente a spiegare la possibilità di esseri organizzati, senza ammettere un disegno nella loro produzione (e quindi col semplice meccanismo): perché come facciamo a saperlo? Le verosimiglianze non hanno valore, quando si tratta di giudizii della ragion pura. — Sicché noi oggettivamente non possiamo giudicare affatto, né affermando né negando, della questione: se vi sia, come principio di ciò che a ragione chiamiamo scopi naturali, un essere che agisce secondo intenzioni in quanto causa (e quindi autore) del mondo; quello che è certo almeno è questo, che se noi giudichiamo secondo ciò che alla nostra propria natura è permesso di scorgere (secondo le condizioni e i limiti della nostra ragione), non possiamo porre come principio della possibilità di quei fini naturali se non un essere intelligente: solo questo è conforme alla massima del nostro Giudizio riflettente, e per conseguenza ad un principio soggettivo, ma inerente necessariamente al genere umano.

§ 76. Nota.

Questa osservazione, che merita di essere ampiamente svolta nella filosofia trascendentale, qui entra solo episodicamente come schiarimento (non come dimostrazione di ciò che si espone).

La ragione è una facoltà dei principii e la sua ultima esigenza è l’incondizionato; l’intelletto invece è al suo servigio sempre soltanto sotto una condizione che deve esser data. Ma, senza i concetti dell’intelletto, cui deve esser data una realtà oggettiva, la ragione non può punto giudicare oggettivamente (sinteticamente); e, in quanto teoretica, per se stessa non contiene assolutamente alcun principio costitutivo, ma principii soltanto regolativi. Si comprende subito che, quando l’intelletto non può susseguire, la ragione diventa trascendente, e si manifesta con idee che hanno sì un fondamento (in quanto principii regolativi), ma non con concetti validi oggettivamente; mentre l’intelletto che non può procedere di pari passo, ma che sarebbe necessario per la validità oggettiva, limita la validità di quelle idee della ragione solamente al soggetto, estendendola però universalmente a tutti i soggetti della stessa specie; vale a dire, la sottopone alla condizione che, secondo la natura della nostra (umana) facoltà di conoscere, o, in generale, secondo il concetto che ci possiamo fare in generale delle facoltà di un essere ragionevole finito, non altrimenti che così si possa e si debba pensare: senza affermare tuttavia che il fondamento di tale giudizio stia nell’oggetto. Citeremo qui degli esempii, i quali hanno in verità troppa importanza e presentano anche troppe difficoltà perché si possano subito imporre al lettore come proposizioni dimostrate; ma possono fornirgli materia alla riflessione, e servire di schiarimento a quello che qui è propriamente il nostro compito.

All’intelletto umano è indispensabilmente necessario distinguere la possibilità e la realtà delle cose. La ragione di ciò è nel soggetto e nella natura della sua facoltà di conoscere. Perché, difatti, se all’esercizio di questa non fossero necessarii due elementi del tutto eterogenei, l’intelletto pei concetti, e l’intuizione sensibile per gli oggetti che corrispondono a quei concetti, non vi sarebbe quella distinzione (tra il possibile e il reale). Se cioè il nostro intelletto fosse intuitivo, non avrebbe altri oggetti che il reale. Tanto i concetti (che concernono semplicemente la possibilità di un oggetto) che le intuizioni sensibili (che ci danno qualche cosa, senza perciò farcela conoscere come oggetto), scomparirebbero. Ora tutta la nostra distinzione del semplicemente possibile dal reale riposa su questo, che il primo significa soltanto la posizione della rappresentazione d’una cosa relativamente al nostro concetto e, in generale, alla facoltà di pensare, mentre il secondo significa la posizione della cosa in se stessa, al di fuori di questo concetto. Sicché la distinzione tra le cose possibili e le reali è tale che vale solo soggettivamente per l’intelletto umano, perché possiamo sempre pensare qualche cosa, sebbene non esista, o rappresentarci qualcosa come dato, sebbene non ne abbiamo ancora alcun concetto. Così le proposizioni che le cose possono esser possibili senza essere reali, e che, per conseguenza, non si può concludere dalla possibilità alla realtà, valgono giustamente per la ragione umana, senza che sia dimostrato che tale differenza stia nelle cose stesse. Perché, difatti, che non si possa trarre questa conseguenza, e che quindi quelle proposizioni valgano certamente anche per gli oggetti, in quanto la nostra facoltà di conoscere come sensibilmente condizionata si occupa pure di oggetti dei sensi, ma non valgano per le cose in generale, — risulta chiaro dall’esigenza imprescindibile della ragione, di ammettere qualcosa che esista in una maniera assolutamente necessaria (il fondamento originario), in cui più non si distinguono la possibilità e la realtà, e per l’idea del quale il nostro intelletto non ha assolutamente alcun concetto, cioè non può trovare un modo di rappresentarsi una simile cosa e la sua maniera di esistere. Poiché se lo si pensa (può pensarlo come vuole), è rappresentato come semplicemente possibile. Se ne ha coscienza come di qualche cosa che è data nell’intuizione, allora è reale, ma l’intelletto in questo caso non ne pensa per nulla la possibilità. Perciò il concetto d’un essere assolutamente necessario è bensì un’idea inevitabile della ragione, ma è un concetto irraggiungibile e problematico per l’intelletto umano. Ha però un valore per l’uso delle nostre facoltà conoscitive, considerate nella loro natura particolare; non ne ha alcuno rispetto all’oggetto e per ogni essere capace di conoscere; perché io non posso supporre, in ogni essere capace di conoscere, il pensiero e l’intuizione, come due condizioni diverse dell’esercizio delle sue facoltà conoscitive, e quindi della possibilità e della realtà delle cose. Un intelletto pel quale non esistesse questa distinzione, direbbe: tutti gli oggetti che io conosco, sono (esistono); e la possibilità di alcuni oggetti che tuttavia non esistono, vale a dire la contingenza di essi, quando esistono, e perciò anche la necessità, che va distinta da quella contingenza, non potrebbero neppure esser concepite da un tale essere. Ma tanta difficoltà, che il nostro intelletto trova qui nel trattare i suoi concetti come fa la ragione, sta semplicemente in questo, che per l’intelletto, in quanto intelletto umano, è trascendente (cioè impossibile per le condizioni soggettive della sua conoscenza) ciò di cui la ragione fa un principio nel considerarlo come appartenente all’oggetto. — Ora qui vale sempre la massima che tutti gli oggetti, la cui conoscenza supera la facoltà dell’intelletto, noi li pensiamo secondo le condizioni soggettive nostre (cioè della natura umana), inerenti necessariamente all’esercizio delle nostre facoltà: e se i giudizii pronunziati in tal modo (come non può essere altrimenti anche circa i concetti trascendenti) non possono essere principii costitutivi, che determinano l’oggetto qual è, restano tuttavia come principii regolativi, immanenti e sicuri nell’esercizio che se ne fa, adeguati ai fini dell’uomo.

Allo stesso modo che la ragione nella considerazione teoretica della natura, deve ammettere l’idea di una necessità incondizionata d’un fondamento originario, essa presuppone anche dal punto di vista pratico una propria incondizionata causalità (relativamente alla natura), vale a dire la libertà, pel fatto stesso che ha coscienza del suo imperativo morale. Ora, poiché qui la necessità oggettiva dell’azione, in quanto dovere, è opposta a quella necessità che essa, in quanto avvenimento, dovrebbe avere, se il suo principio fosse nella natura e non nella libertà (cioè nella causalità della ragione): e poiché l’azione moralmente necessaria in modo assoluto è considerata fisicamente come del tutto accidentale (vale a dire, che ciò che dovrebbe avvenire necessariamente, spesso non avviene); è chiaro che deriva unicamente dalla natura soggettiva della nostra facoltà pratica il fatto, che le leggi morali debbono essere rappresentate come comandi (e le azioni conformi ad esse come doveri), e la ragione esprime questa necessità non con un essere (accadere) ma con un dover essere; il che non potrebbe verificarsi, se la ragione, nella sua causalità, si considerasse senza la sensibilità (come condizione soggettiva della sua applicazione agli oggetti della natura), per conseguenza come causa in un mondo intelligibile consono sempre alla legge morale, in modo che in questo mondo non vi sarebbe più alcuna differenza tra il dovere e il fare, tra la legge pratica che determina ciò che per opera nostra è possibile, e la legge teoretica che determina ciò che per opera nostra è reale. Ora, sebbene un mondo intelligibile nel quale tutto ciò che è possibile (in quanto buono) sarebbe perciò stesso reale, e la libertà stessa di questo mondo, come sua condizione formale, sia per noi un concetto trascendente, che non è atto a fornire alcun principio costitutivo per determinare un oggetto e la sua realtà oggettiva; tuttavia, la libertà secondo la costituzione della nostra natura (in parte sensibile) e della nostra facoltà, serve — per noi e per tutti gli esseri ragionevoli in relazione col mondo sensibile, in quanto possiamo rappresentarceli secondo la natura della nostra ragione, — come un principio regolativo universale, che non determina oggettivamente la natura della libertà come forma di causalità, ma nondimeno, con non minore validità, e come se quella determinazione vi fosse, prescrive ad ognuno come un comando la regola delle azioni secondo quell’idea.

Allo stesso modo, per ciò che riguarda il caso di cui ci occupiamo, si può concedere che non troveremmo alcuna differenza tra il meccanismo della natura e la tecnica della natura, cioè il legame dei fini nella natura, se il nostro intelletto non fosse fatto in modo che deve andare dall’universale al particolare, e il Giudizio per conseguenza non può riconoscere alcuna finalità circa il particolare, e non può pronunziare giudizii determinati, senza avere una legge universale cui poter sussumere il particolare stesso. Ma, poiché il particolare, come tale, rispetto all’universale contiene qualcosa di contingente, e tuttavia la ragione nel legame delle leggi particolari della natura esige anche l’unità, e quindi una conformità a leggi (che, applicata al contingente, si chiama finalità) giacché pure è impossibile derivare a priori, con la determinazione del concetto dell’oggetto, le leggi particolari dalle universali, relativamente a ciò che le prime contengono di contingente; il concetto della finalità della natura nei suoi prodotti è un concetto necessario al Giudizio umano relativamente alla natura, ma che non riguarda la determinazione degli oggetti stessi, ed è perciò un principio soggettivo della ragione pel Giudizio, e che, in quanto regolativo (non costitutivo), è necessario pel nostro Giudizio umano come se fosse un principio oggettivo.

§ 77. Della proprietà dell’intelletto umano per cui il concetto d’un fine della natura è possibile per noi.

Nella nota precedente abbiamo indicato le proprietà della nostra facoltà di conoscere (anche della facoltà superiore), che noi siamo inclinati a trasportare nelle cose stesse come predicati oggettivi; ma esse concernono idee cui non si può dare nell’esperienza alcun oggetto adeguato, e che quindi potrebbero servire soltanto come principii regolativi nelle ricerche empiriche. Del concetto di un fine naturale è come di ciò che concerne la causa della possibilità di un tal predicato, che può stare solo nell’idea: ma l’effetto conforme a quest’idea (il prodotto stesso) è dato in natura, e il concetto d’una causalità della natura, considerata come un essere che agisce secondo fini, sembra fare dell’idea di un fine naturale un principio costitutivo di questo; e in ciò tale idea ha qualcosa per cui si distingue da tutte le altre.

Questa differenza sta in ciò, che essa non è un principio razionale per l’intelletto, ma pel Giudizio, e quindi è unicamente l’applicazione di un intelletto in generale a possibili oggetti d’esperienza; e proprio dove il giudizio non può essere determinante, ma semplicemente riflettente, e dove, perciò, l’oggetto è dato nell’esperienza, ma su di esso, conformemente all’idea, non si può giudicare determinatamente (ben lungi dal giudicare in modo pienamente adeguato), e si può solo riflettere.

Si tratta dunque d’una proprietà del nostro (umano) intelletto, relativa al Giudizio nella sua riflessione sulle cose della natura. Ma, se è così, bisogna che qui vi sia come fondamento un’idea di un altro intelletto possibile diverso dal nostro (allo stesso modo che nella critica della ragion pura dovemmo pensare un’altra possibile intuizione, quando dovemmo considerare la nostra come una specie particolare d’intuizione, vale a dire come un’intuizione per la quale gli oggetti valgono soltanto come fenomeni), affinché si possa dire che, secondo la particolare natura del nostro intelletto, certi prodotti naturali, per ciò che riguarda la loro possibilità, devono esser considerati da noi come prodotti intenzionali e come fini, senza però esigere che vi sia realmente una causa particolare determinata dalla rappresentazione di uno scopo, e quindi senza negare che un altro intelletto, diverso dall’intelletto umano, (più elevato), possa trovare il principio della possibilità di tali prodotti anche nel meccanismo della natura, cioè in un legame causale di cui non si cerca esclusivamente la causa in un intelletto.

Sicché qui si tratta del rapporto del nostro intelletto col Giudizio, e precisamente noi cerchiamo di mettere in luce una certa contingenza della costituzione del nostro intelletto, per distinguerlo, con questa sua caratteristica, da altri intelletti possibili.

Questa contingenza si trova del tutto naturalmente nel particolare che il Giudizio deve ricondurre all’universale dei concetti dell’intelletto; perché coll’universale del nostro (umano) intelletto il particolare non è determinato; e son contingenti i vari modi in cui cose diverse, che però si accordano in un carattere comune, possono presentarsi alla nostra percezione. Il nostro intelletto è una facoltà di concetti, cioè un intelletto discorsivo, per il quale devono esser contingenti la specie e le differenze del particolare che gli è dato nella natura e che può esser ricondotto ai suoi concetti. Ma, poiché alla conoscenza appartiene anche l’intuizione, e una facoltà d'intuizione perfettamente spontanea sarebbe una facoltà di conoscere distinta e del tutto indipendente dalla sensibilità, cioè un intelletto nel senso più largo della parola, si può anche concepire un intelletto intuitivo (negativamente, cioè, soltanto come non discorsivo), che non vada dall’universale al particolare e quindi al singolare (mediante concetti), e pel quale non esista quella contingenza nell’accordo della natura, nei suoi prodotti determinati secondo leggi particolari, con l’intelletto, la quale rende così difficile all’intelletto nostro il ricondurre all’unità della conoscenza la varietà' della natura; un compito, che il nostro intelletto può effettuare soltanto mediante l’accordo, assai contingente, dei caratteri della natura con la nostra facoltà dei concetti, e di cui un intelletto intuitivo non ha punto bisogno.

Il nostro intelletto, dunque, ha questo di particolare rispetto al Giudizio, che nella conoscenza che esso fornisce, il particolare non è determinato mediante l’universale, e quindi il primo non può esser derivato dal secondo soltanto: sebbene però questo particolare, che è nella varietà della natura, debba accordarsi coll’universale (per via di concetti e di leggi), affinché vi si possa sussumere; ma tale accordo, in queste circostanze, deve essere del tutto accidentale e senza alcun principio determinato pel Giudizio.

Ora, per poter almeno pensare la possibilità di tale accordo delle cose naturali col Giudizio (che noi ci rappresentiamo come contingente, e quindi possibile soltanto mediante uno scopo a ciò diretto), dobbiamo pensare nel tempo stesso un altro intelletto, rispetto al quale, prima di attribuirgli qualche fine, possiamo rappresentarci come necessario quell’accordo delle leggi della natura col nostro Giudizio, che dall’intelletto nostro è pensabile solo mediante il legame dei fini.

Il nostro intelletto, cioè, ha la proprietà, che nella sua conoscenza, per esempio della causa d’un prodotto, deve andare dall’universale analitico (dei concetti) al particolare (dell’intuizione empirica data); per cui, relativamente alla varietà del particolare, non determina niente, ma deve aspettare questa determinazione, che serve al Giudizio, dalla sussunzione dell’intuizione empirica (quando l’oggetto è un prodotto naturale) al concetto. Ma noi possiamo concepire anche un intelletto che, non essendo discorsivo come il nostro, ma intuitivo, vada dall’universale sintetico (dell’intuizione d’un tutto come tale) al particolare, vale a dire dal tutto alle parti; il quale perciò, e con esso la sua rappresentazione del tutto, non contenga la contingenza del legame delle parti per rendere possibile una forma determinata del tutto, di cui ha bisogno il nostro intelletto, che deve procedere dalle parti, come principii universalmente pensati, alle diverse forme possibili che vi si debbono sussumere, come conseguenze. Invece, secondo la costituzione del nostro intelletto, un tutto reale della natura deve essere considerato solo come l’effetto delle forze motrici concorrenti delle parti. Sicché se vogliamo rappresentarci, non la possibilità del tutto come dipendente dalle parti, come sarebbe conforme al nostro intelletto discorsivo, ma, secondo il modello dell’intelletto intuitivo (archetipo), la possibilità delle parti (secondo la loro natura e il loro legame) come dipendente da tutto; ciò non potrà avvenire, appunto per la stessa proprietà del nostro intelletto, in modo che il tutto sia il principio della possibilità del legame delle parti (il che sarebbe contradittorio in una conoscenza di tipo discorsivo), ma solo in modo che la rappresentazione di un tutto contenga il principio della possibilità della sua forma e del relativo legame delle parti. Ma, poiché allora il tutto sarebbe un effetto (un prodotto), la cui rappresentazione è considerata come la causa della sua possibilità, e poiché si chiama scopo il prodotto d’una causa la cui ragione determinante è semplicemente la rappresentazione dell’effetto, ne segue che dipende dalla particolare costituzione del nostro intelletto il fatto per cui ci rappresentiamo come possibili certi prodotti della natura secondo un’altra specie di causalità, diversa da quella delle leggi naturali della materia, cioè secondo la causalità dei fini e delle cause finali; e che questo principio non concerne la possibilità stessa di tali cose (anche considerate come fenomeni) secondo questo modo di produzione, ma solo la possibilità del giudizio del nostro intelletto sulle cose stesse. Da ciò vediamo ancora perché nella scienza della natura noi siamo ben lungi dall’esser sodisfatti di una spiegazione dei prodotti naturali mediante la causalità secondo fini: è perché in questa spiegazione non pretendiamo di giudicar la produzione della natura se non conformemente alla nostra facoltà di giudicarla, vale a dire al Giudizio riflettente, e non di giudicar le cose stesse pel Giudizio determinante. Qui non è neppure necessario dimostrare la possibilità di un tale intellectus archetypus, ma basta provare che dal confronto del nostro intelletto discorsivo, che ha bisogno d’immagini (intellectus ectypus), con la contingenza di questa sua natura, siamo condotti per via di paragone a quell’idea (di un intellectus archetypus), e che questa non contiene alcuna contradizione.

Ora, se noi consideriamo, nella sua forma, un tutto materiale, come un prodotto delle parti, delle loro forze e delle loro proprietà di congiungersi spontaneamente (e di aggregarsi altre materie), ci rappresentiamo un modo meccanico di produzione. Ma questo modo di produzione non dà luogo ad alcun concetto di un tutto come scopo, di un tutto la cui possibilità interna suppone assoluta-mente l’idea del tutto stesso, da cui dipendono la natura e il modo d’agire delle parti, in quel modo che dobbiamo rappresentarci un corpo organizzato. Da questo però non segue, come è stato dimostrato, che la produzione meccanica di questo corpo è impossibile; perché sarebbe come dire che è impossibile (cioè contradittorio) per ogni intelletto rappresentarsi tale unità nell’unione del molteplice, senza considerare la sua idea come sua causa produttrice, vale a dire senza ammettere una produzione intenzionale. Il che avverrebbe realmente se fossimo autorizzati a considerar gli esseri materiali come cose in se. Perché allora l’unità, che costituisce il fondamento della possibilità delle formazioni naturali, sarebbe unicamente l’unità dello spazio, il quale però non è un fondamento reale delle produzioni, ma soltanto la loro condizione formale, sebbene abbia qualche affinità col fondamento reale che cerchiamo, perché in esso nessuna parte può essere determinata senza riferimento al tutto (di cui perciò la rappresentazione è il fondamento della possibilità delle parti). Ma, giacché è almeno possibile considerare il mondo materiale come semplice fenomeno, e pensare come sostrato qualche cosa in sé (che non è fenomeno), per la quale però si suppone una intuizione intellettuale corrispondente (che pure non è la nostra); potrebbe sussistere un fondamento reale soprasensibile, sebbene per noi inconoscibile, della natura di cui noi stessi facciamo parte, e nella quale quindi considereremmo secondo leggi meccaniche tutto ciò che è necessario in essa come oggetto dei sensi; ma la concordanza e l’unità delle leggi particolari e delle forme ad esse corrispondenti, che noi dobbiamo giudicare contingenti rispetto alle leggi meccaniche, le considereremmo nello stesso tempo secondo leggi teleologiche, nella natura come oggetto della ragione (anzi la totalità della natura come sistema); la natura verrebbe quindi giudicata secondo due diversi principii, senza che la spiegazione teleologica escluda quella meccanica, come se fossero tra loro contradittorie.

Da ciò si può anche vedere ciò che si poteva presumere facilmente, ma difficilmente poteva essere affermato e dimostrato con certezza, che cioè il principio d’una derivazione meccanica dei prodotti finali della natura può sussistere accanto al principio teleologico, ma che questo non si potrebbe rendere inutile: vale a dire, che in una cosa, che dobbiamo giudicar come un fine naturale (un essere organizzato), possiamo cercare tutte le leggi conosciute e ancora da scoprire della produzione meccanica, ed anche sperare di riuscire per questa via, ma non possiamo mai dispensarci, per spiegare la possibilità di un tale prodotto, dall’invocare un principio di produzione interamente diverso, cioè quello della causalità mediante fini; e assolutamente non v’è nessuna ragione umana (ed anche nessuna ragione finita molto superiore alla nostra per grado, ma simile per la qualità), che possa sperare di comprendere semplicemente secondo cause meccaniche la produzione sia pure di un filetto d’erba. Perché, difatti, se pel Giudizio è inevitabile il legame teleologico di cause ed effetti, per spiegare la possibilità di un tale oggetto, od anche per studiarlo soltanto col filo conduttore dell’esperienza; se per gli oggetti esterni, in quanto fenomeni, non si può trovare un principio relativo a fini, che sia sufficiente, ed invece questo principio, che sta anche nella natura, deve essere cercato soltanto nel sostrato soprasensibile, che però non possiamo per nulla comprendere: ci è assolutamente impossibile spiegare i legami finali mediante principii derivanti dalla natura stessa, e, data la costituzione della facoltà conoscitiva umana, è necessario cercare il principio supremo in un intelletto originario, concepito come causa del mondo.

§ 78. Dell’unione del principio del meccanismo universale della materia col principio teleologico nella tecnica della natura.

È della massima importanza per la ragione non perdere di vista il meccanismo nei prodotti naturali, e non trascurarlo nella spiegazione di questi; perché senza di esso non si può affatto giungere a comprendere la natura delle cose. Se anche ci si concedesse che un supremo architetto ha creato immediatamente le forme della natura, quali esistono da tempo immemorabile, o ha predeterminate quelle che nel corso della natura si realizzano continuamente secondo lo stesso modello, la nostra conoscenza della natura non se ne avvantaggerebbe menomamente; perché noi non conosciamo affatto la maniera di agire di quell’essere, e le sue idee che debbono contenere i principii della possibilità delle cose naturali, né possiamo spiegare con esso la natura dall’alto in basso (a priori). Ma se, partendo dalle forme degli oggetti d’esperienza, e procedendo quindi dal basso in alto (a posteriori), vogliamo appellarci a una causa operante secondo fini per spiegare la finalità che crediamo di scorgere nelle forme stesse, daremo una spiegazione del tutto tautologica, ed inganneremo la ragione con parole, per non confessare che, quando con questa specie di spiegazione ci smarriamo nel trascendente, dove la conoscenza della natura non ci può seguire, la ragione è indotta a fantasticare poeticamente, vale a dire è indotta a ciò che è suo massimo dovere di evitare.

D’altra parte, è una massima egualmente necessaria della ragione di non trascurare il principio dei fini nei prodotti della natura; poiché, se esso non ci fa meglio comprendere il modo di formarsi di questi prodotti, è però un principio euristico per ricercare le leggi particolari della natura; posto anche che non si voglia farne uso per spiegare in tal modo la natura stessa, continuando sempre ad adoperare l’espressione fini della natura, sebbene questa mostri apertamente un’unità di fini intenzionali, vale a dire non cercando al di là della natura il principio della possibilità di essi. Ma, poiché, infine, bisogna arrivare alla questione di questa possibilità, a spiegarla è necessario pensare una specie particolare di causalità che non si trova nella natura, proprio come la meccanica delle cause naturali ha la sua, perché la recettività che mostra la materia per parecchie altre forme oltre quelle di cui è capace secondo il meccanismo, suppone la spontaneità di una causa (che quindi non può esser materia), senza la quale di quelle forme non può esser data alcuna ragione. La ragione, è vero, prima di far questo passo deve procedere cautamente, e non deve cercare di spiegare teleologicamente ogni tecnica della natura, cioè quella sua facoltà produttiva di figure che mostrano finalità alla semplice apprensione (come i corpi regolari); deve riguardarla sempre, finché può, come possibile solo meccanicamente; ma, al di là di questo, volere escludere interamente il principio teleologico, e pretender di seguire sempre il semplice meccanismo dove la finalità, alla ricerca che fa la ragione della possibilità delle forme naturali, mostra incontestabilmente di riferirsi con le sue cause ad un’altra specie di causalità, significherebbe abbandonare la ragione a divagazioni sopra le impenetrabili potenze della natura, divagazioni fantastiche e chimeriche non meno di quelle cui potrebbe esser trascinata da un’esplicazione puramente teleologica, che non facesse alcun conto del meccanismo naturale.

In una stessa cosa della natura non si possono congiungere entrambi i principii, in modo che si possa spiegare l’uno con l’altro (o dedurre l’uno dall’altro); vale a dire, non si possono unire come principii dominatici e costitutivi della conoscenza della natura pel Giudizio determinante. Se per esempio ammetto che un verme si debba considerare come un prodotto del semplice meccanismo della materia (della conformazione nuova che si produce da sé quando gli elementi della materia son messi in libertà dalla putrefazione), non potrò derivare lo stesso prodotto dalla stessa materia come una causalità che opera secondo fini. Reciprocamente, se considero lo stesso prodotto come un fine naturale, non potrò contare su di una sua origine meccanica, e ammetterla come principio costitutivo del giudizio sulla possibilità del prodotto, unendo così i due principii. Giacché una spiegazione esclude l’altra; anche ammesso che oggettivamente i due fondamenti della possibilità di tale prodotto riposino sopra un fondamento unico, al quale noi non pensiamo. Il principio, che deve rendere possibile l’unione di entrambi, nel giudizio della natura secondo i principii stessi, deve esser messo in qualcosa che è fuori di loro (e per conseguenza anche fuori della possibile rappresentazione empirica della natura), ma che contenga il fondamento di entrambi, vale a dire nel soprasensibile, e i due modi di spiegazione debbono essergli riferiti. Ora, poiché del soprasensibile non possiamo avere altro concetto che quello, indeterminato, d’un fondamento che rende possibile il giudizio della natura secondo leggi empiriche, e non può essere determinato ulteriormente con alcun predicato, l’unione dei due principii non può riposare sopra un principio dell’ esplicazione della possibilità d’un prodotto secondo leggi date per il Giudizio determinante, ma soltanto di un principio dell’ esposizione della possibilità stessa per il Giudizio riflettente. — Infatti, spiegare significa derivare da un principio, che perciò deve potersi conoscere e mostrare chiaramente. Ora il principio del meccanismo della natura e quello della sua causalità tecnica debbono, è vero, in uno stesso prodotto naturale riunirsi in un unico principio superiore, e derivare entrambi da esso, perché altrimenti nella considerazione della natura non potrebbero sussistere l’uno accanto all’altro. Ma, se questo principio, che è oggettivamente comune ad entrambi, e che quindi giustifica la conciliazione delle massime che ne derivano per l’investigazione della natura; se questo principio è tale che può essere indicato, ma non mai può esser conosciuto determinatamente e mostrato con chiarezza per esser usato nei casi che si presentano, da esso non si può trarre alcuna spiegazione, vale a dire nessuna chiara e determinata derivazione della possibilità d’un prodotto naturale, che è possibile secondo quei due principii eterogenei. Ora il principio comune della derivazione meccanica da una parte, e della derivazione teleologica dall’altra, è il soprasensibile, che, dobbiamo porre alla base della natura in quanto fenomeno. Ma di questo, dal punto di vista teoretico, non possiamo farci il minimo concetto affermativamente determinato. Non si può quindi spiegare col soprasensibile come principio, come la natura (nelle sue leggi particolari) costituisca per noi un sistema che si può riconoscere come possibile tanto secondo il principio della produzione delle cause fisiche che secondo quello delle cause finali; ma soltanto quando si presentano oggetti della natura, di cui, senza appoggiarci su principii teleologici, non possiamo pensare la possibilità secondo il principio del meccanismo (che avanza sempre il suo dritto su una cosa della natura), ammettiamo che si possano studiare fiduciosamente le leggi naturali secondo i due principii (dopo che l’intelletto ha riconosciuto la possibilità del loro prodotto mediante l’uno o l’altro principio), senza lasciarsi arrestare dall’apparente contradizione tra i principii del giudizio; perché è certa almeno la possibilità che entrambi si possano unire anche oggettivamente in un sol principio (giacché si applicano a fenomeni, che suppongono un fondamento soprasensibile).

Sebbene, dunque, il meccanismo e la tecnica teleologica (intenzionale) della natura, relativamente ad un medesimo prodotto e alla sua possibilità, possano stare sotto un principio superiore comune della natura considerata secondo leggi particolari, tuttavia, poiché questo principio è trascendente, data la limitazione del nostro intelletto, non possiamo riunire i due principii nella spiegazione dello stesso prodotto naturale, anche quando la possibilità interna di questo non è comprensibile se non mediante una causalità secondo fini (come avviene per la materia organizzata). Sicché resta sempre la massima enunciata dalla teleologia, che cioè, secondo la costituzione dell’intelletto umano, per la possibilità degli esseri organizzati nella natura non si può ammettere se non una causa operante intenzionalmente, e che il semplice meccanismo naturale non può esser sufficiente a spiegare tali prodotti; senza pretendere peraltro di decidere, con questa massima, della possibilità stessa di queste cose.

Ma, poiché questa è una massima solo del Giudizio riflettente, non del Giudizio determinante, ed ha quindi soltanto un valore soggettivo per noi, non un valore oggettivo per la possibilità stessa di questa specie di cose (in cui i due modi di produzione potrebbero ben accordarsi in un unico principio); e poiché, inoltre, se a questo modo di produzione, che si concepisce come teleologico, non si potesse aggiungere il concetto d’un meccanismo della natura, che vi si deve anche trovare, una simile produzione non potrebbe essere giudicata come appartenente alla natura: la massima precedente implica la necessità di un’unione dei due principii nel giudizio delle cose in quanto fini della natura, non però allo scopo di sostituire interamente, o in alcune parti, l’uno all’altro. Perché al posto di ciò che (almeno da noi) è pensato come possibile soltanto secondo un fine, non si può mettere alcun meccanismo, né al posto di ciò che secondo il meccanismo è conosciuto come necessario, una contingenza che avrebbe bisogno d’uno scopo come fondamento determinante: si può solo subordinare l’uno (il meccanismo) all’altro (la tecnica intenzionale), il che può ben avvenire secondo il principio trascendentale della finalità della natura.

Difatti, dove si pensano dei fini come principii della possibilità di certe cose, si debbono anche ammettere dei mezzi la cui legge d’azione per sé non abbisogni di nulla che presupponga uno scopo, e che quindi possa esser meccanica, pur essendo una causa subordinata ad effetti intenzionali. È perciò che anche nei prodotti organici della natura, specialmente quando, per la loro infinita quantità, ammettiamo l’elemento intenzionale nel legame delle cause naturali operanti secondo leggi particolari, e ne facciamo (almeno come ipotesi permessa) il principio universale del Giudizio riflettente per la totalità della natura (il mondo), si può pensare una connessione grande ed anche universale delle leggi meccaniche con quelle teleologiche nelle produzioni naturali, senza confondere i principii del giudizio e mettere l’uno al posto dell’altro; perché, in un giudizio teleologico, anche quando la forma che prende la materia è giudicata possibile soltanto secondo un fine, questa materia, considerata nella sua natura e conformemente alle leggi meccaniche, può esser subordinata come mezzo rispetto al fine proposto: sebbene, poiché il fondamento di questa unione sta in qualche cosa che non è né l’uno né l’altro (né il meccanismo, né il legame finale), ma è il sostrato soprasensibile della natura di cui non possiamo conoscere niente, la nostra (umana) ragione non debba fondere i due modi di rappresentarsi la possibilità di tali oggetti, e non possiamo giudicarli fondati in un intelletto supremo se non mediante il legame delle cause finali, in modo perciò che non vien tolto nulla all’esplicazione teleologica.

Ora, poiché è interamente indeterminato, e per sem-pre indeterminabile per nostra ragione, fin dove il meccanismo della natura operi come mezzo in ogni fine naturale, e poiché, per l’enunciato principio intelligibile della possibilità d’una natura in generale, si può ammettere che questa è interamente possibile secondo un accordo universale delle due specie di leggi (le leggi fisiche e quelle delle cause finali), sebbene non possiamo scorgere il modo di tale accordo; noi non sappiamo nemmeno fin dove si estende il modo di spiegazione meccanica possibile per noi, e solo questo è certo, che, per quanto lontano possiamo arrivare per questa via, essa sarà sempre insufficiente per le cose che abbiamo riconosciute una volta come fini naturali, e quindi, secondo la natura del nostro intelletto, quei principii dobbiamo subordinarli tutti ad un principio teleologico.

Su ciò si fonda il diritto, e, data l’importanza che ha lo studio della natura secondo il principio del meccanismo per l’uso teoretico della nostra ragione, anche il dovere di spiegare meccanicamente, per quanto è in nostro potere (di cui in questo punto non possiamo determinare i limiti), tutti i prodotti e gli avvenimenti della natura, anche quelli che rivelano la più grande finalità; senza però perdere mai di vista che quelle cose che possiamo sottoporre all’investigazione della ragione soltanto sotto il concetto di scopo, infine, conformemente alla natura essenziale della nostra ragione, malgrado le cause meccaniche, debbono esser subordinate alla causalità secondo fini.

Appendice
METODOLOGIA DEL GIUDIZIO TELEOLOGICO

§ 79. Se la teleologia debba esser trattata come appartenente alla scienza della natura.

Ogni scienza deve avere il suo posto determinato nell’enciclopedia di tutte le scienze. Se si tratta di una scienza filosofica, deve avere il suo posto nella parte teoretica o nella parte pratica della filosofia, e, nel primo caso, dev’essere assegnata o alla scienza della natura, in quanto questa studia ciò che può essere oggetto d’esperienza (per conseguenza o alla fisica o alla psicologia, o alla cosmologia generale) oppure alla teologia (in quanto scienza del fondamento originario del mondo, considerato come insieme di tutti gli oggetti d’esperienza).

Ora si domanda: qual posto spetta alla teleologia? Appartiene essa alla scienza della natura (propriamente detta) o alla teologia? Non può appartenere se non al-l’una o all’altra; nessuna scienza appartiene al passaggio dall’una all’altra, perché questo passaggio indica solo l'articolazione o l’organizzazione del sistema, e non un posto nel sistema stesso.

È evidente che non può formare parte della teologia, sebbene questa possa farne un uso importantissimo. Giacché essa ha per oggetto le produzioni della natura e la causa di tali produzioni; e, sebbene tenda ad un principio che è fuori e al disopra della natura (a un creatore divino), non fa questo pel Giudizio determinante, ma semplicemente pel Giudizio riflettente rivolto alla considerazione della natura (soltanto per dirigere il giudizio delle cose del mondo con questa idea come principio regolativo, adeguatamente all’intelletto umano).

Non pare che possa appartenere meglio alla scienza della natura, la quale abbisogna di principii determinanti e non puramente riflettenti per mostrare ragioni oggettive degli effetti della natura. In realtà, la teoria della natura, o la spiegazione meccanica dei suoi fenomeni mediante le loro cause efficienti, non guadagna nulla, quando questi si considerano secondo la relazione dei fini. L’esposizione dei fini della natura nei suoi prodotti, in quanto costituiscono un sistema secondo concetti teleologici, non appartiene propriamente se non alla descrizione della natura composta con una norma speciale; in che la ragione compie un ufficio nobile, istruttivo e praticamente utile sotto molti rispetti, ma non ci dà alcuna spiegazione sull’origine e la possibilità interna di queste forme, che è poi il compito proprio della scienza teoretica della natura.

La teleologia, come scienza, non appartiene dunque ad alcuna dottrina, ma solo alla critica, e alla critica di una particolare facoltà di conoscere, cioè alla critica del Giudizio. Ma, in quanto contiene principii a priori, può e deve fornire il metodo con cui si deve giudicare della natura secondo il principio delle cause finali: e così la sua metodologia ha almeno un’influenza negativa sulla condotta della scienza teoretica della natura, ed anche sul rapporto che questa può avere nella metafisica con la teologia, come propedeutica di quest’ultima.

§ 80. Della subordinazione necessaria del principio del meccanismo al principio teleologico nell’esplicazione di una cosa come fine della natura.

Il dritto di mirare ad una spiegazione puramente meccanica in tutti i prodotti naturali è in se stesso illimitato; ma il potere di giungere, con questa spiegazione soltanto, a risultati soddisfacenti è non solo molto limitato, ma anche delimitato con molta chiarezza dalla natura del nostro intelletto, in quanto si occupa delle cose come fini naturali; secondo un principio del Giudizio infatti il primo procedimento per sé solo non può fornire affatto l’esplicazione di tali cose, e perciò dobbiamo sempre subordinare ad un principio teleologico il giudizio di questi prodotti.

È perciò ragionevole, ed anche meritorio, seguire il meccanismo per spiegare i prodotti naturali, finché si può fare con verosimiglianza, e non abbandonare questa ricerca perché sia di per sé impossibile incontrare per questa via la finalità della natura, ma soltanto perché è impossibile per noi in quanto uomini: giacché a ciò sarebbe necessaria un’intuizione diversa dall’intuizione sensibile ed una conoscenza determinata del sostrato intelligibile della natura, sulla cui base si potesse dar ragione perfino del meccanismo dei fenomeni secondo le loro leggi particolari, ciò che supera affatto ogni nostra facoltà.

Affinché dunque l’osservatore della natura non lavori in pura perdita, bisogna che egli, nel giudizio delle cose di cui il concetto è indubbiamente fondato su fini della natura (gli esseri organizzati), si basi sempre su qualche organizzazione originaria, che si vale di quel meccanismo per la produzione di altre forme organizzate, o per sviluppare la propria in nuove forme (che derivano però sempre da quello scopo e gli sono conformi).

È bello percorrere, con l’anatomia comparata, la grande creazione degli esseri organizzati per vedere se non si trovi una specie di sistema, proprio secondo il principio genetico, in modo da non esser obbligati ad attenerci al semplice principio del giudizio (che non chiarisce punto la produzione di questi esseri) e a rinunziare scoraggiati ad ogni pretesa di comprendere la natura in questo campo. L’accordo di tante specie animali in un certo schema comune, che sembra aver presieduto non soltanto alla struttura del loro scheletro, ma anche alla disposizione delle altre parti, e in cui una meravigliosa semplicità di disegno, col raccorciamento di una parte e l’allungamento di un’altra, con l’inviluppare questa e sviluppare quella, ha potuto produrre una varietà così grande di specie, lascia cader nell’anima un raggio, sia pur debole, di speranza, di poter conseguire qualche cosa col principio del meccanismo della natura, senza del quale una scienza della natura non è possibile. Questa analogia delle forme, che con tutta la loro diversità sembrano esser state prodotte conformemente ad un tipo comune, fortifica l’ipotesi di una loro reale parentela nella genesi da una madre comune, col mostrarci l’avvicinamento graduale di una specie ad un’altra, da quella in cui il principio dei fini sembra attuato al massimo grado cioè l’uomo, fino al polipo, e da questo ai muschi e alle alghe, e finalmente al più basso grado che possiamo conoscere della natura, la materia bruta, da cui, e dalle cui forze, secondo leggi meccaniche (simili a quelle con cui essa opera nella cristallizzazione), sembra derivare tutta la tecnica della natura, la quale è così incomprensibile per noi negli esseri organizzati, che ci crediamo obbligati a pensarne un altro principio.

Qui l’archeologo della natura è libero di derivare, mediante il meccanismo che gli è noto o che ha più ragione di supporre, dalle tracce che hanno lasciato i più antichi cataclismi naturali, tutta quella famiglia di creature (perché così bisogna rappresentarsela, se deve avere un fondamento questa generale parentela). Dal grembo della terra, la quale uscì anch’essa dal suo stato caotico (quasi come un grande animale), egli può far nascere in principio delle creature la cui forma ha un grado minimo di finalità, e da queste altre che si conformano in modo più appropriato al loro luogo di nascita e ai loro rapporti reciproci: finché questa matrice stessa, irrigidita, ossificata, non limita i suoi parti a specie definite che non dovranno più degenerare, e lascia così quella varietà che ha prodotto, come se fosse giunta al termine dell’operazione di quella feconda forza formatrice. — Ma, infine, egli dovrà pure attribuire a questa madre universale un’organizzazione che abbia per iscopo tutte queste creature; altrimenti, non si potrebbe pensare la possibilità della forma finale nei prodotti del regno animale e vegetale*6. Ed allora egli non avrebbe fatto altro che differirne la spiegazione, e non potrebbe pretendere di aver resa indipendente la produzione dei due regni dalla condizione delle cause finali.

I cambiamenti stessi, che subiscono accidentalmente certi individui delle specie organizzate, dei quali il carattere così modificato diventa ereditario ed è adottato dalla forza generatrice, non possono esser meglio considerati che come lo sviluppo occasionale di una disposizione finalistica esistente originariamente nella specie e destinata alla sua conservazione; perché, nella finalità interna generale di un essere organizzato, la generazione di esseri della stessa specie è strettamente legata alla condizione che non si deve ammettere nulla nella forza generatrice che non' appartenga anche, in un tale sistema di fini, a una delle disposizioni originarie non ancora sviluppate. Difatti, quando si prescinde da questo principio, non si può sapere con certezza se parecchie parti, della forma ora rinvenibile in una specie, abbiano un’origine accidentale e senza scopo; e il principio della teleologia, per cui in un essere organizzato nulla di ciò che si conserva nella propagazione deve essere giudicato inutile, diventerebbe così molto incerto nella sua applicazione, e sarebbe valido solo pel ceppo originario (che però non conosciamo più).

Hume, a quelli che per tutti questi fini naturali trovano necessario ammettere un principio teleologico del giudizio, vale a dire un intelletto architettonico, obietta che con egual diritto si potrebbe domandar loro com’è possibile un intelletto simile; vale a dire, come si possono trovar riunite così opportunamente in un essere le diverse facoltà e proprietà, che costituiscono la possibilità di un intelletto che possiede anche la potenza di eseguire ciò che concepisce. Ma questa obiezione non vale. Perché, difatti, tutta la difficoltà della questione circa la prima produzione d’una cosa che contiene in sé dei fini ed è concepibile solo per via di questi, riposa sulla questione di sapere qual è in questo prodotto l’unità del principio del legame dei molteplici elementi esterni l’uno all’altro; giacché, se questo principio si pone nell’intelletto d’una causa produttrice come sostanza semplice, la questione, dal punto di vista teleologico, è sufficientemente risoluta; ma, se invece la causa si ricerca soltanto nella materia, in quanto aggregato di molte sostanze esterne l’una all’altra, viene a mancare interamente l’unità del principio per la forma finale interna della sua formazione; e l’autocrazia della materia, nei prodotti che dal nostro intelletto possono esser concepiti solo come fini, è una parola priva di senso.

Perciò coloro i quali cercano un principio supremo della possibilità delle forme oggettivamente finali della materia, senza concedere ad esso una intelligenza, fanno dell’universo o una sostanza unica che comprende tutto (panteismo), oppure (ciò che è soltanto una spiegazione più determinata del sistema precedente) un insieme di molte determinazioni inerenti ad un’unica sostanza semplice (spinozismo), non per altro che per ricavare quella condizione di ogni finalità, che è l’unità del principio; con che sodisfano, è vero, ad una condizione del problema, spiegando cioè l’unità nel legame dei fini mediante il concetto puramente ontologico di una sostanza semplice, ma trascurano l'altra condizione, il rapporto di questa sostanza al suo effetto come fine, con cui quel fondamento ontologico deve avere una determinazione più precisa, e quindi non rispondono a tutta la questione. La quale (per la nostra ragione) resta assolutamente insolubile, se non ci rappresentiamo quel fondamento originario delle cose come una sostanza semplice, e l’attributo di questa, su cui si fonda la qualità specifica delle forme della natura, cioè l’unità dei fini, come l’attributo di una sostanza intelligente; e il rapporto di quelle forme a questa sostanza (a causa della contingenza che troviamo in tutto ciò che concepiamo come possibile solo in quanto scopo) come il rapporto d’una causalità.

§81. Dell’associazione del meccanismo col principio teleologico nella spiegazione d’un fine della natura, considerato come prodotto naturale.

Come abbiamo visto nel paragrafo precedente che il meccanismo della natura non può bastare a farci pensare la possibilità d’un essere organizzato, ma (almeno secondo la natura della nostra facoltà conoscitiva) deve essere subordinato originariamente a una causa intenzionale, così il fondamento puramente teleologico di questo essere non basta a farcelo considerare e giudicare anche come un prodotto naturale, se non vi si associa il meccanismo della natura, come lo strumento d’una causa intenzionale, ai cui fini la natura è subordinata nelle sue leggi meccaniche. La nostra ragione non comprende la possibilità di questa unione di due specie interamente diverse di causalità, della causalità della natura nella sua conformità alle sue leggi universali, con un’idea che le limita ad una forma particolare, di cui per se stesse non contengono il fondamento; questa possibilità risiede nel sostrato soprasensibile della natura di cui non possiamo determinare altro affermativamente, se non che esso è la cosa in sé di cui conosciamo soltanto l’apparenza. Ma questo principio, che cioè tutto quello che consideriamo come appartenente a questa natura (phaenomenon) e come suo prodotto, deve esser anche pensato come legato ad essa secondo leggi meccaniche, non perde punto della sua forza, perché, senza questa specie di causalità, gli esseri organizzati, in quanto fini della natura, non sarebbero prodotti naturali.

Ora, quando si ammette il principio teleologico per la produzione di questi esseri (come non potrebbe essere altrimenti), si può porre a fondamento della causa della loro forma finale interna o l’occasionalismo o il prestabilismo. Nel primo caso, la causa suprema del mondo, conformemente alla sua idea, e all’occasione di ogni accoppiamento, darebbe immediatamente alla materia che vi si mescola la conformazione organica; nel secondo, essa avrebbe posto nei primi prodotti di questa sua saggezza soltanto quella disposizione, per cui un essere organico produce il suo simile, e la specie si conserva sempre, mentre la natura continuamente ripara la perdita degli individui, lavorando nel tempo stesso alla loro distruzione. Quando si ammette l’occasionalismo per la produzione degli esseri organizzati, ogni natura va interamente perduta, e con essa ogni uso della ragione nel giudizio sulla possibilità di tali prodotti; perciò si può supporre che questo sistema non sarà ammesso da alcuno, che dia qualche importanza alla filosofia.

Il prestabilismo, a sua volta, può procedere in due modi. Esso considera cioè ogni essere organico generato dal suo simile o per eduzione o produzione. Il sistema, che considera la generazione come una semplice eduzione, si chiama sistema della preformazione individuale, o anche teoria dell’evoluzione; quello della generazione come produzione è detto sistema dell’ epigenesi; o anche della preformazione generica, perché la potenza produttrice degli esseri che generano, e quindi la forma specifica, sarebbe preformata virtualiter, secondo le disposizioni finali interne, assegnate originariamente alla specie stessa. Conformemente a ciò, la teoria opposta della preformazione individuale si potrebbe chiamar meglio teoria dell’involuzione.

I fautori della teoria dell’evoluzione, che sottraggono tutti gli individui alla potenza formatrice della natura per farli uscire immediatamente dalle mani del creatore, non osano spiegare ciò con l’ipotesi dell’occasionalismo, in modo che l’accoppiamento sarebbe una semplice formalità, con la quale una causa suprema intelligente del mondo avrebbe deciso di formare essa stessa immediatamente un feto, lasciandone alla madre soltanto lo sviluppo e la nutrizione. Essi si son dichiarati per la preformazione, come se non fosse proprio lo stesso, quando queste forme si spiegano in modo sopranaturale, farle nascere al principio o nel corso del mondo; mentre la creazione occasionale risparmierebbe una grande quantità di disposizioni sopranaturali, che sarebbero necessarie per salvare dalle forze distruttrici della natura, e conservare intatto, per tutto il tempo fino al suo sviluppo, l’embrione formato al principio del mondo; e parimenti un numero enorme di esseri così preformati, infinitamente più grande di quello degli esseri destinati un giorno a svilupparsi, ed altrettante creazioni insieme, diventerebbero inutili e senza scopo. Ma essi vollero lasciare qualche cosa almeno alla natura, per non cadere nella completa iperfisica, che può prescindere da ogni spiegazione naturale. Si tennero, è vero, sempre attaccati alla loro iperfisica, trovando perfino nei mostri (che tuttavia è impossibile riguardare come fini naturali) una ammirevole finalità, anche non dovesse avere altro scopo che quello di urtare qualche volta l’anatomico con una finalità in apparenza senza scopo, ed ispirargli un triste stupore. Ma non riuscirono assolutamente a conciliare col sistema della preformazione la produzione dei bastardi, e dovettero attribuire al seme delle creature mascoline, cui peraltro non avevano accordato se non la proprietà meccanica di fornire il primo alimento all’embrione, una virtù formatrice finale, la quale però, relativamente al prodotto della generazione di due creature della stessa specie, non volevano concedere né all’una né all’altra.

E invece, se anche non si riconoscesse al fautore dell’epigenesi il grande vantaggio che ha sui partigiani della teoria precedente, relativamente alla facoltà di servirsi dell’esperienza come prova della sua teoria, la ragione sarebbe già pregiudizialmente orientata a guardare con maggior favore la sua esplicazione, perché questa considera la natura, rispetto a quelle cose di cui non possiamo rappresentarci la possibilità originaria se non mediante la causalità dei fini, come produttrice per sé, almeno per ciò che concerne la propagazione, e non come semplice-mente capace di sviluppare; e in tal modo, servendosi quanto meno è possibile del sopranaturale, lascia alla natura tutto ciò che segue al primo incominciamento (ma senza determinare nulla di questo, nel quale la fisica deve naufragare, qualunque sia la catena di cause con cui voglia tentare di giungervi).

Nessuno più di J. F. Blumenbach1 si è adoperato per questa teoria dell’epigenesi, sia per dimostrarla, sia per stabilire i veri principii della sua applicazione ed anche moderarne l’abuso. Egli comincia ogni spiegazione fisica delle formazioni di cui ci occupiamo dalla materia organizzata. Perché giustamente egli riguarda come assurdo che la materia bruta si sia originariamente data forma da sé secondo leggi meccaniche, che la vita sia sorta dalla natura inanimata, e che la materia abbia potuto assumere spontaneamente la forma d'una finalità che si conserva da sé; ma nel tempo stesso, subordinata-mente al principio per noi impenetrabile di una organizzazione originaria, egli lascia al meccanismo della natura una parte che non si può determinare, ma che non si può neanche disconoscere; onde la potenza della materia in un corpo organizzato (a differenza della forza formatrice puramente meccanica che la materia possiede in generale), vien chiamata da lui una tendenza alla formazione (la quale anche sta sotto l’alta direzione e guida di quella).

§ 82. Del sistema teleologico nei rapporti esterni degli esseri organizzati.

Per finalità esterna intendo quella per cui una cosa della natura sta ad un’altra come mezzo a fine. Ora, le cose che non hanno una finalità interna, o di cui la possibilità non ne suppone alcuna, per esempio la terra, l’aria, l’acqua, etc. possono avere una grande finalità esterna, vale a dire relativamente ad altri esseri; ma questi ultimi debbono esser sempre esseri organizzati, cioè fini della natura, perché altrimenti i primi non potrebbero essere giudicati come mezzi. Così l’acqua, l’aria e la terra non possono esser considerate come mezzi relativamente all’ammassamento delle montagne, perché queste non implicano nulla che esiga un principio della loro possibilità secondo fini, e quindi la loro causa non possiamo mai rappresentarcela sotto il predicato di un mezzo (utile a quei fini).

La finalità esterna è un concetto del tutto diverso da quello della finalità interna, la quale è congiunta con la possibilità di un oggetto, a prescindere dalla considerazione se l’esistenza stessa dell’oggetto è o no un fine. Di un essere organizzato si può domandare perché esiste, ma non è facile fare la stessa domanda per le cose in cui si riconosce semplicemente l’effetto del meccanismo della natura. Perché negli esseri organizzati noi ci rappresentiamo già una causalità secondo fini per spiegare la loro possibilità interna, un intelletto creatore, e riferiamo questa potenza attiva alla sua causa determinante, allo scopo. Non v’è che un’unica finalità esterna che sia connessa con la finalità interna dell’organizzazione, e che stia nel rapporto esterno di mezzo a fine, senza che sia necessario domandare a quale scopo debba esistere un essere così organizzato. È l’organizzazione dei due sessi nel rapporto reciproco per la propagazione della loro specie; perché qui, proprio come per un individuo, si potrebbe sempre domandare perché dovrebbe esistere tale coppia. La risposta è che questa costituisce un tutto organizzante, sebbene non un tutto organizzato in un corpo solo.

Ora, quando si domanda perché una cosa esiste, la risposta è, o che la sua esistenza e la sua produzione non hanno alcun rapporto con una causa che agisce secondo fini, e allora si riporta sempre la sua origine al meccanismo-delia natura, oppure che vi è un principio intenzionale della sua esistenza (in quanto essere naturale contingente), e questo pensiero difficilmente si può separare dal concetto d’una cosa organizzata; perché, siccome noi dobbiamo ammettere per la sua possibilità interna una causalità di cause finali ed un’idea che sia il fondamento di questa, non possiamo pensare l’esistenza di questo prodotto altrimenti che come fine. Difatti, si chiama scopo l’effetto rappresentato, la cui rappresentazione è nel tempo stesso il principio che determina la causa intelligente ed efficiente a produrlo. In questo caso perciò si può dire, o che lo scopo dell’esistenza di tale essere naturale è in lui stesso, vale a dire che esso non è semplicemente scopo, ma anche scopo finale, oppure che lo scopo finale sta fuori in altri esseri naturali, cioè l’oggetto ha un’esistenza conforme al fine, non come scopo finale, ma come mezzo necessario.

Ma, se noi percorriamo tutta la natura, non troveremo in essa, in quanto natura, alcun essere che possa pretendere al privilegio di essere lo scopo finale della creazione; e si può dimostrare anche a priori che ciò che in qualche modo potrebbe essere uno scopo ultimo della natura, con tutte le determinazioni e le proprietà di cui si potrebbe corredarlo, non può esser mai, come cosa della natura, uno scopo finale.

Quando si considera il regno vegetale, per l’immensa fecondità con cui si espande quasi su ogni suolo, si potrebbe essere indotti da principio a riguardarlo come un semplice prodotto di quel meccanismo della natura, che questa rivela nelle formazioni del regno minerale. Ma una conoscenza più approfondita dell’inesprimibile saggezza dell’organizzazione di questo regno non ci permette di fermarci a questo pensiero, e suscita invece la domanda: perché esistono queste creature? Se si risponde che esistono pel regno animale, che se ne nutre, e perciò ha potuto espandersi sulla terra in specie tanto diverse, risorge la domanda: perché esistono questi animali che si cibano di piante? La risposta potrebbe essere che esistono pei carnivori, che si possono nutrire soltanto di ciò che è vivo. Infine si presenta la questione: a che servono questi animali con tutti i precedenti regni della natura? Per l’uomo, pei diversi usi che la sua intelligenza gli insegna a fare di tutte quelle creature; e qui sulla terra egli è lo scopo ultimo della creazione, perché è l’unico essere, tra quelli che qui si trovano, il quale possa farsi un concetto di scopo, e di un aggregato di cose formate secondo un fine possa fare con la sua ragione un sistema di fini.

Si potrebbe anche, col cavalier Linneo, seguire la via in apparenza opposta, e dire che gli animali erbivori esistono per moderare la vegetazione lussureggiante del regno vegetale, da cui parecchie specie sarebbero state soffocate; che i carnivori esistono per porre un freno alla voracità dei primi; e finalmente l’uomo, perché, perseguitando questi ultimi e scemandoli di numero, stabilisca un certo equilibrio tra le forze produttrici e distruttrici della natura. E così l’uomo, per quanto sotto un certo rispetto sia degno di esser considerato come un fine, non avrebbe, sotto altro rispetto, se non il grado di un mezzo.

Se si assume come principio una finalità oggettiva nella varietà delle specie delle creature terrestri e nel rapporto esterno di queste specie tra loro, in quanto esseri costruiti secondo fini, è conforme alla ragione concepire anche una certa organizzazione in questo rapporto, ed un sistema di tutti i regni della natura secondo cause finali. Ma l’esperienza qui sembra contradire apertamente alla massima della ragione, specialmente per ciò che concerne uno scopo ultimo della natura, il quale tuttavia è necessario per la possibilità di tale sistema, e noi non possiamo riporlo altrove che nell’uomo: perché anzi rispetto a quest’ultimo, considerato come una delle molte specie animali, la natura non ha fatto la minima eccezione circa le forze distruttrici e produttrici, per sottoporre tutto al suo meccanismo, senza alcuno scopo.

La prima cosa che dovrebbe essere stabilita espressamente sulla terra, in un ordinamento diretto a formare un insieme finalistico degli esseri naturali, sarebbe certo il loro domicilio, il suolo e l’elemento su cui e in cui dovrebbero avere il loro sviluppo. Ma una conoscenza più esatta del modo come è costituita questa condizione essenziale di tutti i prodotti organici, non mostra se non cause che agiscono del tutto ciecamente, e piuttosto distruttrici che favorevoli alla produzione, all’ordine e ai fini. La terra e il mare non contengono soltanto le testimonianze delle antiche e potenti devastazioni, da cui furono colpiti insieme con tutte le creature che vi si trovavano, ma tutta la loro struttura, gli strati della terra e i limiti del mare hanno perfettamente l’apparenza di essere stati prodotti da forze selvagge ed onnipotenti della natura operante in uno stato caotico. Per quanto ora sembrino ben appropriate la figura, la struttura e la pendenza delle terre a ricevere le acque del cielo, le sorgenti che scorrono tra strati di diverse specie (destinati a diversi prodotti), e il corso dei torrenti, nondimeno un esame più approfondito di tali cose dimostra che esse sono state prodotte semplicemente, in parte da eruzioni vulcaniche, in parte da inondazioni o da sollevazioni dell’oceano; e così si spiegano e la prima formazione di questa figura, e specialmente la sua trasformazione successiva, come, nel tempo stesso, la sparizione delle prime produzioni organiche*7. Ora, se il domicilio di tutte queste creature, se il suolo della terra e il grembo del mare non ci mostrano se non un meccanismo interamente cieco, come e con qual diritto possiamo domandare e affermare un’altra origine delle creature stesse? Sebbene l’uomo, come (secondo Camper) sembra dimostrarlo l’esame più approfondito dei resti di quelle devastazioni della natura, non sia stato compreso in tali rivoluzioni, tuttavia egli è così dipendente dalle altre creature della terra, che, ammettendo per queste un meccanismo generale della natura, bisognerebbe includervelo: sebbene la sua intelligenza (in gran parte almeno) abbia potuto salvarlo da quelle devastazioni.

Questo argomento pare che oltrepassi lo scopo proposto, provando cioè non soltanto che l’uomo non possa essere lo scopo ultimo della natura, e che, per la stessa ragione, l’insieme delle cose organizzate naturali non possa essere un sistema di fini; ma anche che quelle produzioni, che prima si consideravano come fini naturali, non possano avere altra origine che il meccanismo della natura.

Ma, nella soluzione data avanti dell’antinomia dei principii del modo meccanico e del modo teleologico di produzione degli esseri organizzati, abbiamo visto che questi principii, relativamente alla natura formatrice secondo le sue leggi particolari (di cui non possiamo penetrare la connessione sistematica), non sono altro che principii del Giudizio riflettente, e che cioè non determinano in sé l’origine di questi esseri, ma significano solo che, data la costituzione del nostro intelletto e della nostra ragione, non possiamo pensarla altrimenti che secondo cause finali; il massimo sforzo, e perfino l’ardimento, nei tentativi per spiegarla meccanicamente, ci sono non soltanto permessi, ma sollecitati dalla ragione, sebbene sappiamo che non potremo mai riuscirvi per la natura particolare e la limitazione del nostro intelletto (e non perché il meccanismo della produzione contradica in sé all’origine secondo fini); e, finalmente, l’unione di questi due modi di rappresentarsi la possibilità della natura può stare nel principio soprasensibile della natura (così fuori di noi come in noi), perché l’esplicazione secondo cause finali non è se non una condizione soggettiva dell’uso della nostra ragione, quando essa non vuol giudicare degli oggetti in quanto semplici fenomeni, ma vuol riferirli, insieme coi loro principii, al sostrato soprasensibile, per spiegare la possibilità di certe leggi della loro unità, che non può rappresentarsi se non mediante fini (e la ragione stessa ne contiene tali, che sono soprasensibili).

§ 83. Dello scopo ultimo della natura in quanto sistema teleologico.

Abbiamo dimostrato precedentemente che, secondo i principii della ragione, vi sono motivi sufficienti, non pel Giudizio determinante, è vero, ma pel Giudizio riflettente, per considerare l’uomo non soltanto come un fine della natura, come tutti gli esseri organizzati, ma come Io scopo ultimo di essa sulla terra, in modo che rispetto a lui tutte le altre cose naturali costituiscono un sistema di fini. Ora, se si deve trovare nell’uomo stesso ciò che deve esser elevato a fine mediante il suo legame con la natura, questo fine o sarà tale che possa esser soddisfatto dalla beneficenza della natura, oppure consisterà nell’attitudine e l’abilità rispetto ad ogni specie di fini, con cui l’uomo possa usar della natura (esternamente ed internamente). Il primo scopo della natura sarebbe la felicità, il secondo la coltura dell’uomo.

Il concetto della felicità non è tale che l’uomo lo tragga dai suoi istinti, e lo derivi così da ciò che in lui è animalità; è la semplice idea di uno stato che egli vuol rendere adeguato agli istinti sotto condizioni puramente empiriche (il che è impossibile). Egli se la forma da sé, e in tante maniere diverse, mediante il suo intelletto impigliato nell’immaginazione e nei sensi, e la cambia così spesso che, se la natura fosse sottomessa interamente al suo arbitrio, per accordarsi con questo concetto oscillante e quindi con lo scopo che ciascuno arbitrariamente si pone, non potrebbe assolutamente accogliere alcuna legge determinata, universale e fissa. Ma, anche se noi volessimo o abbassare questo concetto ai veri bisogni della nostra natura, nei quali la nostra specie si mostra interamente d’accordo con se stessa, oppure elevare la nostra capacità di realizzare tutti gli scopi immaginati, l’uomo non raggiungerebbe mai quello che intende per felicità, e che è in realtà il suo fine ultimo naturale (non fine della libertà); perché la sua natura non è tale da fermarsi e contentarsi nel possesso e nel godimento. D’altra parte, la natura è tanto lungi dall’averlo adottato come il suo particolare favorito, e d’avergli concesso il benessere a preferenza di tutti gli altri animali, che essa, nei suoi effetti rovinosi, la peste, la fame, l’inondazione, il freddo, l’ostilità di altri animali grandi e piccoli, e simili, non lo risparmia più di qualunque altro animale: e per di più le contradizioni delle sue disposizioni naturali lo gettano in pene immaginarie, mentre altre tribolazioni proprie della sua specie, con lo spirito di dominazione, la barbarie della guerra, etc., lo riducono in tale miseria, ed egli stesso, per quanto è in lui, si adopera tanto per la rovina della propria specie, che se anche il fine della più benefica natura esterna fosse riposto nella felicità della nostra specie, questa sulla terra non raggiungerebbe un sistema di felicità, perché la sua natura non ne è capace. L’uomo perciò è sempre soltanto un anello nella catena dei fini naturali: è principio bensì relativamente a certi fini a cui la natura, nella sua disposizione, sembra averlo destinato, in quanto egli stesso si pone come fine; ma è anche mezzo per la conservazione della finalità nel meccanismo degli altri membri. Come l’unico essere che sulla terra abbia un’intelligenza, e quindi una facoltà di porsi volontariamente degli scopi, egli è, in verità, il ben titolato signore della natura; e, se questa si considera come un sistema teleologico, egli ne è, per la sua destinazione, lo scopo ultimo; ma sempre condizionatamente, cioè a condizione che sappia e voglia dare alla natura e a se stesso una finalità sufficiente per se stessa e indipendente dalla natura, e che quindi possa essere uno scopo finale, il quale però non deve esser cercato nella natura.

Ma per trovare dove bisogna riporre questo scopo ultimo della natura, relativamente all’uomo almeno, dobbiamo cercare quello che la natura può fare per prepararlo a ciò che egli stesso deve fare per essere uno scopo, e dobbiamo separarlo da tutti i fini di cui la possibilità riposa su cose che si possono aspettare soltanto dalla natura. Tale sarebbe la felicità sulla terra, con che s’intende l’insieme di tutti i fini dell’uomo, possibili per mezzo della natura esterna ed interna a lui; cioè la materia di tutti i suoi fini sulla terra, che, se egli ne fa l’unico suo scopo, lo rende incapace a dare alla sua esistenza uno scopo finale e ad accordarsi con esso. Sicché di tutti i suoi fini nella natura non resta se non la condizione formale, soggettiva, vale a dire la facoltà di porsi dei fini in generale, e (indipendentemente, nella determinazione dei suoi fini, dalla natura) di servirsi della natura come mezzo conformemente alle massime dei suoi liberi scopi in generale: il che la natura può fare relativamente allo scopo finale che è fuori di essa, e che può esser riguardato perciò come il suo scopo ultimo. Là produzione, in un essere ragionevole, della capacità di proporsi fini arbitrarli in generale (e quindi nella sua libertà), è la coltura. Sicché la coltura soltanto può essere lo scopo ultimo che la natura abbia ragione di porre relativamente alla specie umana (non la sua felicità sulla terra, o semplicemente il privilegio di essere il principale istrumento dell’ordine e dell’armonia nella natura esterna priva di ragione).

Ma non ogni coltura è sufficiente per questo scopo ultimo della natura. La coltura dell’abilità è senza dubbio la condizione soggettiva principale della capacità di promuovere dei fini in generale; ma non è sufficiente a promuovere la volontà2 nella determinazione e nella scelta dei suoi fini, che tuttavia fa parte essenziale della nostra facoltà di proporci degli scopi. L’ultima condizione di questa capacità, che si potrebbe chiamare coltura dell’educazione (della disciplina), è negativa; e consiste nella liberazione della volontà dal despotismo degli appetiti, per cui, stando attaccati a certe cose della natura, diventiamo incapaci perfino di scegliere, perché cangiamo in catene gli stimoli che la natura ci ha dato soltanto per avvertirci di non trascurare o di non ledere la destinazione dell’animalità che è in noi, mentre pur siamo liberi abbastanza di ritenerli o rilasciarli, di estenderli o diminuirli, secondo ciò che esigono i fini della ragione.

L’abilità non può essere bene sviluppata nella specie umana che per mezzo dell’ineguaglianza tra gli uomini; perché il più gran numero di essi cura le necessità della vita quasi meccanicamente, senza aver bisogno d’un’arte particolare, e pel comodo e il divertimento degli altri, i quali lavorano per gli elementi meno necessarii della coltura, la scienza e l’arte, tenendo i primi in uno stato di oppressione, nel quale lavorano duramente e godono poco, mentre però a poco a poco si propaga tra essi parte della coltura della classe superiore. I mali però crescono egualmente da ambo le parti col progresso di questa coltura (che si chiama lusso quando il bisogno del superfluo comincia già a nuocere al necessario), nell'una per l’oppressione, nell’altra per l’intima insoddisfazione; ma la miseria dorata si trova tuttavia congiunta con lo sviluppo delle disposizioni naturali nella specie umana, e il fine della natura stessa, se non il fine nostro, è raggiunto in questa maniera. La condizione formale sotto cui soltanto la natura può raggiungere questo suo scopo finale, è quella costituzione nei rapporti degli uomini tra loro, che in un tutto che si chiama società civile, oppone un potere legittimo alle infrazioni reciproche della libertà; perché solo in tale costituzione si può effettuare il massimo sviluppo delle disposizioni naturali. Ma, se anche gli uomini fossero tanto accorti da trovarla, e saggi abbastanza per sottoporsi di buon grado alla sua costrizione, sarebbe ancora necessario un tutto cosmopolita, vale a dire un sistema di tutti gli stati, che sono esposti al pericolo di danneggiarsi reciprocamente. In mancanza di questo sistema, e per gli ostacoli che l’ambizione, il desiderio di dominare e la cupidità, specialmente presso quelli che hanno in mano il potere, oppongono anche alla possibilità di un tal disegno, è inevitabile la guerra (in cui o degli stati si dividono e risolvono in stati minori, oppure uno stato se ne aggrega altri più piccoli, tendendo a formare un tutto più grande); la guerra che però, se è un’impresa sconsiderata degli uomini (suscitata dalle loro passioni sfrenate), forse nasconde profondamente qualche disegno della saggezza suprema, almeno per preparare, se non per stabilire, la conciliazione della legalità con la libertà negli stati, e quindi l’unione di questi in un sistema moralmente fondato; e, malgrado le calamità terribili con cui essa opprime il genere umano, e i mali forse maggiori che derivano dalla sua costante preparazione in tempo di pace, è uno stimolo di più a sviluppare fino al più alto grado tutti i talenti che servono alla coltura (in quanto viene sempre più allontanata la speranza della calma nella felicità pubblica).

Per ciò che concerne la disciplina delle inclinazioni, — alle quali risponde pienamente, riguardo alla nostra destinazione in quanto siamo una specie animale, la disposizione naturale, ma che rendono molto difficile lo sviluppo dell’umanità, — anche in questa seconda esigenza della coltura si mostra una tendenza finalistica della natura ad uno sviluppo che ci rende atti a scopi più alti di quelli che la natura stessa può fornire. Non si può contrastare al predominio dei mali che, suscitando una quantità di inclinazioni insaziabili, spandono su noi il raffinamento del gusto spinto fino alla sua idealizzazione, ed anche il lusso nelle scienze, in quanto alimento della vanità: ma non si può neanche disconoscere il fine della natura, diretto a vincere sempre più la rozzezza e la violenza di quelle inclinazioni (al godimento) che più appartengono alla nostra animalità e più si oppongono alla coltura della nostra destinazione più alta, e a far posto allo sviluppo dell’umanità. Le belle arti e le scienze, che col loro piacere comunicabile universalmente, e con l’urbanità e il raffinamento che portano nella società, se non fanno l’uomo moralmente migliore, lo rendono costumato, sottraggono molto alla tirannia delle tendenze fisiche e preparano perciò l’uomo alla signoria assoluta della ragione, mentre i mali di cui ci affligge in parte la natura, in parte l’intollerabile egoismo degli uomini, chiamano a raccolta le forze dell’anima, le elevano, le temprano, perché non soggiacciano a quelli; e ci fanno sentire così un’attitudine per fini più alti, la quale si trova nascosta in noi*8 .

§ 84. Dello scopo finale dell’esistenza d’un mondo, vale a dire della creazione stessa.

Scopo finale è quello che non ne richiede alcun altro come condizione della sua possibilità.

Se per spiegare la finalità della natura non si ammette altro principio che il suo semplice meccanismo, non si può domandare per qual fine le cose esistono nel mondo; perché allora, in questo sistema idealistico, non si tratta che della possibilità fisica delle cose (che sarebbe insensato e vano pensare come fini): si potrebbe spiegare questa forma delle cose col caso, o con la cieca necessità, ma in tutti i due modi quella domanda sarebbe vana. Ma, se ammettiamo il legame finalistico nel mondo come reale, e con esso una specie particolare di causalità, cioè quella d’una causa che agisce intenzionalmente, non possiamo fermarci alla questione di sapere per qual fine le cose del mondo (gli esseri organizzati) hanno questa o quella forma, sono state messe tra loro in questo o quel rapporto dalla natura; quando si è pensato una volta un intelletto, che deve esser considerato come la causa della possibilità di tali forme, quali si trovano effettivamente nelle cose, si deve anche domandare quale principio oggettivo abbia potuto determinare questa intelligenza produttrice ad un effetto di questa specie; principio che è poi lo scopo finale per cui queste cose esistono.

Ho detto avanti che lo scopo finale non è tale che la natura sia sufficiente ad effettuarlo e a produrlo conformemente alla sua idea, perché è incondizionato. Perché difatti non v’è nulla in natura (in quanto essere sensibile) di cui il principio determinante, che si trova nella natura stessa, non sia a sua volta condizionato; e questo vale non soltanto per la natura esterna (materiale), ma anche per la natura interna (pensante), in quanto, s’intende, considero in me soltanto ciò che è natura. Ma una cosa che deve esistere necessariamente, in virtù della sua natura oggettiva, come lo scopo finale d’una causa intelligente, dev'esser tale che, nell’ordine dei fini, non dipenda da nessun’altra condizione che non sia semplice-mente la sua idea.

Ora noi non abbiamo nel mondo se non un’unica specie di esseri, la cui causalità sia teleologica, cioè diretta a scopi, e tali tuttavia che si rappresentino la legge secondo cui debbono determinare i proprii fini, come posta incondizionatamente da loro stessi e indipendentemente dalle condizioni della natura, eppure come in se stessa necessaria. L’essere di questa specie è l’uomo, ma considerato come noumeno; è l’unico essere della natura in cui possiamo riconoscere, come suo carattere proprio, una facoltà soprasensibile (la libertà) ed anche la legge della causalità e l’oggetto di questa che egli si può proporre come fine supremo (il sommo bene nel mondo).

Ora, dell’uomo (e così di ogni essere ragionevole del mondo), in quanto essere morale, non si può domandare ancora per qual fine (quem in finem) esiste. La sua esistenza ha in se stessa lo scopo supremo, al quale, per quanto è in sua facoltà, egli può sottomettere l’intera natura, o, almeno, rispetto al quale non c’è alcuna influenza contraria della natura, a cui l’uomo debba ritenersi soggetto. — Ora, se le cose del mondo, in quanto esseri condizionati relativamente alla loro esistenza, abbisognano di una causa suprema che agisca secondo fini, l’uomo sarà lo scopo finale della creazione: perché senza di esso la catena dei fini subordinati l’uno all’altro non avrebbe un vero principio, e solamente nell’uomo, ma nell’uomo in quanto soggetto della moralità, si può trovare questa legislazione incondizionata relativamente ai fini, che rende lui solo capace di essere uno scopo finale, cui la natura sia teleologicamente subordinata*9 .

§ 85. Della fisico-teologia.

La fisico-teologia è il tentativo, che fa la ragione, di concludere dai fini della natura (i quali possono esser conosciuti solo empiricamente) alla causa suprema della natura, e alle proprietà di tale causa. Una teologia morale (etico-teologia) sarebbe il tentativo della ragione di concludere dal fine morale (che può esser conosciuto a priori) degli esseri naturali ragionevoli, alla causa medesima e alle sue proprietà.

La prima precede naturalmente la seconda. Perché, quando vogliamo concludere teleologicamente dalle cose del mondo a una causa di esso, debbono prima esserci dati degli scopi della natura, pei quali dopo abbiamo da cercare uno scopo finale, e quindi il principio della causalità di questa causa suprema.

Secondo il principio teleologico, possono e debbono darsi molte investigazioni della natura, senza che si abbia ragione di curarsi del fondamento della possibilità di quell’agire finalistico, che troviamo in diversi prodotti naturali. Ma, se anche di ciò si vuole avere un concetto, non abbiamo un punto di vista più esteso di quello che è fornito dalla massima del Giudizio riflettente: che, cioè, se ci fosse dato anche un sol prodotto organico della natura, non potremmo, data la costituzione della nostra facoltà conoscitiva, pensare di esso altro fondamento che quello di una causa della natura stessa (di tutta la natura, o anche soltanto di questa sua parte), che ne contenga la causalità in quanto intelligenza; un principio di giudizio col quale veramente non procediamo affatto nella spiegazione delle cose naturali e della loro origine, ma che tuttavia ci apre sulla natura un punto di vista, col quale forse possiamo determinar più addentro il concetto, altrimenti così sterile, d’un essere originario.

Ora io dico che la fisico-teologia, per quanto sia spinta lontano, non ci può rivelare nulla di uno scopo finale della natura; perché essa non arriva a porre tale questione. Di modo che essa può bensì giustificare il concetto d'una causa intelligente del mondo, in quanto è un concetto soggettivo — valido unicamente per la costituzione della nostra facoltà di conoscere — della possibilità delle cose che possiamo spiegarci secondo scopi; ma non può ulteriormente determinare il concetto stesso, né dal punto di vista teoretico né dal punto di vista pratico; il suo tentativo non raggiunge lo scopo di fondare una teologia, ma essa resta sempre non altro che una teologia fisica: perché in essa la relazione dei fini è, e dev’essere, sempre considerata come condizionata dalla natura, e quindi non può sorgere la questione dello scopo per cui la natura stessa esiste (il cui principio deve essere cercato fuori della natura), mentre dall’idea determinata di tale scopo dipende il concetto determinato di quella causa superiore e intelligente del mondo, e quindi la possibilità di una teologia.

Qual è l’utilità reciproca delle cose del mondo; come il molteplice di una cosa è utile alla cosa stessa; come perfino si abbia ragione di ammettere che nulla è vano nel mondo, e tutto invece nella natura serve a qualche cosa data la condizione che certe cose (come fini) debbono esistere, — una questione, cioè, in cui la ragione non può offrire al Giudizio nessun altro principio della possibilità dell’oggetto del suo inevitabile giudizio teleologico, oltre quello di subordinare il meccanismo della natura all’architettonica di un creatore intelligente del mondo: tutto ciò è fornito eccellentemente e con grande nostra ammirazione dalla considerazione teleologica del mondo. Ma, poiché i dati, e quindi i principii, che servono a determinare quel concetto di una causa intelligente del mondo (come artista supremo), sono empirici, non lasciano concludere alcuna proprietà di là da ciò che scopre l’esperienza negli effetti della causa stessa; e poiché l’esperienza non può mai abbracciare l’intera natura in quanto sistema, essa deve spesso urtare (secondo l'apparenza) contro quel concetto e contro argomenti reciprocamente contradittorii; e, anche se fossimo capaci di cogliere empiricamente l’intero sistema, per ciò che concerne la sola natura, l’esperienza non ci potrebbe mai elevare al disopra della natura medesima, fino allo scopo dell’esistenza di questa, e quindi fino al concetto determinato di quell’intelligenza superiore.

Se si riducono i termini della questione, di cui si cerca la soluzione in una fisico-teologia, la soluzione stessa appare facile. Se si sciupa cioè il concetto di una divinità per indicare un qualunque essere intelligente che possiamo pensare, di cui può esservene uno o più, che ha molti e grandissimi attributi, ma non proprio tutti quelli che son necessarii in generale a costituire una natura che si accordi col più grande scopo possibile; oppure si crede qualcosa d’indifferente il supplire con aggiunte arbitrarie, in una teoria, alla mancanza di ciò che dev’es-ser fornito dalle dimostrazioni, e, dove si ha ragione di riconoscere molta perfezione (e che cosa è molto per noi?), ci si crede autorizzati a supporre tutta la perfezione possibile: allora la teleologia fisica ha forti pretese alla gloria di fondare una teologia. Ma, se ci si domanda di mostrare ciò che ci spinge e, soprattutto, ciò che ci autorizza a fare simili aggiunte, noi cercheremo invano il fondamento della nostra giustificazione nei principii dell’uso teoretico della ragione, il quale esige in modo assoluto che nel definire un oggetto dell’esperienza non si attribuiscano ad esso più proprietà di quanti siano i dati empirici che si possono rinvenire per fondarne la possibilità. Un esame più approfondito ci mostrerebbe che vi è a priori in noi un’idea di un essere supremo, che riposa su di un uso del tutto diverso della ragione (il pratico), il quale ci spinge a completare e ad elevare la manchevole rappresentazione che una teleologia fisica dà del fondamento originario degli scopi della natura, fino al concetto di una divinità: e non immagineremmo erroneamente di aver prodotto tale idea, e con essa una teologia, mediante l’uso teoretico della ragione applicato alla conoscenza fisica del mondo, e ancora meno di averne dimostrato la realtà.

Non si possono biasimare troppo gli antichi né d’aver pensato tante divinità, e diverse per le loro facoltà, i loro scopi e i loro propositi, né di averle tutte costrette alla condizione umana, non escluso perfino il loro capo. Perché, di fatti, quando essi osservano la disposizione e il processo delle cose nella natura, si trovavano bensì sufficientemente autorizzati ad ammetterne come causa qualcosa di più d’un meccanismo, e a supporre dietro la macchina di questo mondo i disegni di certe cause superiori, che non si potevano pensare se non come cause sovrumane. Ma, poiché essi trovavano che nel mondo, almeno dal nostro punto di vista, il male è mescolato col bene, la finalità con il suo opposto, e non potevano permettersi di ammettere, in favore dell’idea arbitraria di un creatore perfettissimo, che alla loro base fossero tuttavia nascosti fini saggi e benefici, di cui però non vedevano le prove: il loro giudizio della causa suprema del mondo difficilmente poteva esser diverso, in quanto essi, cioè, procedevano con perfetta conseguenza secondo le massime dell’uso puramente teoretico della ragione. Altri, che in quanto fisici pretendevano d’essere anche teologi, pensarono di trovare la soddisfazione della ragione, cercando per l’assoluta unità del principio delle cose naturali, che essa esige, l’idea di un essere al quale, come sostanza unica, sarebbero inerenti come determinazioni tutte le le cose della natura: questa sostanza non sarebbe la causa del mondo per via dell’intelligenza, ma tutta l’intelligenza degli esseri del mondo starebbe in essa, come soggetto; non sarebbe quindi un essere che produce qualcosa secondo fini, ma in cui tutte le cose debbono, anche senza scopo né disegno, necessariamente accordarsi tra loro, in virtù dell’unità del soggetto, di cui sono semplici determinazioni. Così introdussero l’idealismo delle cause finali, sostituendo all’unità, così difficile a. spiegare, di una quantità di sostanze legate tra loro secondo fini e dipendenti dalla causalità d’una sostanza l’inerenza in una sostanza; e questo sistema, che in seguito, considerato dal lato degli esseri del mondo inerenti, fu il panteismo, e dal lato dell’unico soggetto per sé stante come prima causa, fu (più tardi) lo spinozismo, annullava, più che non risolvesse la questione del fondamento primo della finalità della natura, in quanto, togliendo a quest’ultimo concetto tutta la sua realtà, lo riduceva semplicemente ad una falsa interpretazione del concetto ontologico universale di una cosa in generale.

In base ai principii puramente teoretici dell’uso della ragione (sul quale soltanto si fonda la fisico-teologia), non si può dunque mai desumere il concetto di una divinità, che basti al nostro giudizio teleologico della natura. Perché, difatti, o noi consideriamo ogni teleologia come una semplice illusione della facoltà del giudizio, nel giudicare il legame causale delle cose, e ci rifugiamo nel solo principio di un semplice meccanismo della natura, la quale, in virtù dell’unità della sostanza, di cui essa non è che il molteplice delle determinazioni, ci dà una semplice apparenza di finalità universale; oppure, se, lasciando questo idealismo delle cause finali, vogliamo attenerci al principio fondamentale del realismo di questa specie particolare di causalità, possiamo ammettere come base dei fini della natura, molti esseri originarii intelligenti, o anche uno solo: finché per fondare il concetto di questo essere non possederemo altro che i principii dell’esperienza, derivati dalla finalità reale che è nel mondo, non potremo, da una parte, trovare alcun rimedio contro il disordine che in molti esempii la natura presenta riguardo all’unità degli scopi, e, d’altra parte, non potremo mai derivare da quei principii il concetto di un’unica causa intelligente, così come lo desumiamo sull’autorità della semplice esperienza, e che sia sufficientemente determinato per una teologia utile, di qualunque specie essa sia (teoretica o pratica).

La teleologia fisica ci spinge, è vero, a cercare una teologia, ma non può produrne alcuna, per quanto profondamente investighiamo la natura per via dell’esperienza, e per quanto possiamo suffragare il legame finale che vi scopriamo, per mezzo di idee della ragione (le quali nelle questioni fisiche debbono essere teoretiche). A che giova — si domanderà con ragione — porre come fondamento di tutte queste disposizioni una grande, e per noi incommensurabile intelligenza che ordina questo mondo secondo fini, se la natura non ci dice, né può dirci niente dello scopo finale, senza il quale non possiamo riferire tutti questi fini naturali ad un punto comune, e formarci un principio teleologico sufficiente, sia per conoscere tutti questi fini in un sistema, sia per farci dell’intelligenza suprema, in quanto causa di tale natura, un concetto che possa servir di misura al nostro Giudizio che riflette teleologica mente sulla natura stessa? Si avrebbe allora è vero, un intelletto artefice per fini isolati; non si avrebbe la sapienza per uno scopo finale, il quale propriamente è quello che deve contenere il fondamento determinante di quella intelligenza. Ma, mancando uno scopo finale, che solo la ragion pura può fornire a priori (poiché tutti i fini nel mondo sono condizionati empiricamente, e non possono contener nulla che sia assolutamente buono, ma soltanto ciò che è buono rispetto a questo o a quello scopo contingente), e che solo mi insegnerebbe quali proprietà, quale grado e quale rapporto della causa suprema della natura debbo pensare per giudicare la natura come un sistema teleologico; come e con quale diritto posso ampliare a piacere e completare, fino a giungere all’idea di un essere infinito onnisciente, il mio limitatissimo concetto di quell’intelletto originario (che io posso fondare solo sulla mia ristretta conoscenza del mondo), o ancora della potenza di questo essere nel realizzare le sue idee, della sua volontà di farlo, etc.? Affinché ciò fosse teoreticamente possibile, bisognerebbe presupporre in me stesso l’onniscienza, in modo che potessi vedere gli scopi della natura nella loro connessione totale, e potessi inoltre pensare tutti gli altri possibili disegni rispetto ai quali il disegno attuale dovrebbe essere giudicato con ragione come il migliore. Perché, senza questa completa conoscenza dell’effetto, non posso arrivare ad un concetto determinato della causa suprema, il quale non si può trovare se non in quello d’una intelligenza infinita sotto tutti i rispetti, cioè nel concetto di una divinità, e non posso dare un fondamento alla teologia.

Sicché, per quanto ampliamo la teleologia fisica, secondo il principio esposto avanti, possiamo bene affermare che, data la costituzione e i principii della nostra facoltà di conoscere, noi non possiamo pensare la natura, in quei suoi ordinamenti finali che ci sono noti, se non come il prodotto di un’intelligenza cui essa è subordinata. Ma, se questa intelligenza ha avuto anche uno scopo finale nel produrre l’insieme della natura (uno scopo che non risiederebbe più nella natura del mondo sensibile), non potrà mai rivelarcelo l’investigazione teoretica della natura; qualunque sia la conoscenza che deriva da questa, resta sempre indeciso se quella causa suprema ha prodotto dappertutto secondo uno scopo finale, o se non piuttosto mediante una intelligenza determinata alla produzione di certe forme dalla sola necessità della sua natura (analogamente a ciò che negli animali chiamiamo istinto artefice), senza che perciò sia necessario attribuirle la sapienza, e, ancor meno, una sapienza suprema e connessa con tutte le altre proprietà necessarie alla perfezione della sua opera.

La fisico-teologi a è dunque una teleologia fisica malintesa, utile alla teologia soltanto come preparazione (propedeutica), e non è sufficiente a tale scopo se non con l’aiuto di un principio estraneo, al quale si appoggia, ma non per se stessa, come il suo nome vorrebbe mostrare.

§ 86. Dell’etico-teologia.

Anche la più comune intelligenza, quando riflette sull’esistenza delle cose del mondo, e del mondo stesso, non può evitare questo giudizio: che, cioè, tutte le diverse creature, per quanto sia grande l’arte con cui sono disposte, e per quanto sia varia la loro connessione e correlazione finale reciproca ed anche la totalità di tanti loro sistemi, che impropriamente diciamo mondi, esisterebbero invano, se non vi fossero tra le creature stesse degli uomini (degli esseri ragionevoli in generale); vale a dire che, senza uomini, tutta la creazione sarebbe un semplice deserto3, vano e senza scopo finale. Ma non è in relazione alla facoltà di conoscere (la ragion teoretica) che l’esistenza di tutte le altre cose del mondo riceve il suo valore, come perché vi sia qualcuno che possa contemplare il mondo. Giacché, difatti, se questa contemplazione del mondo non gli rappresenta altro che cose senza uno scopo finale, la loro esistenza pel solo fatto che esse sono conosciute, non acquista alcun valore; e si deve prima supporre in esse uno scopo finale, rispetto a cui la contemplazione stessa del mondo abbia un valore. Non è neppure il sentimento di piacere e della Somma di piaceri, relativamente al quale pensiamo come dato uno scopo finale della creazione, vale a dire non è il benessere, il godimento (sia corporale o spirituale), la felicità in una parola, il criterio con cui stabiliamo quell’assoluto valore. Perché dal fatto che l’uomo, esistendo, fa della felicità il suo scopo finale, non risulta alcun concetto del fine per cui egli esista in generale e che valore egli abbia, per meritare che gli si renda piacevole la propria esistenza. Bisogna dunque che egli sia già presupposto come scopo finale della creazione, perché si abbia un fondamento razionale per ritenere che la natura debba accordarsi con la sua felicità, quando la si consideri secondo i principii dei fini come un tutto assoluto. — Sicché soltanto la facoltà di desiderare, non quella che rende l’uomo dipendente dalla natura (mediante impulsi sensibili), e rispetto a cui il valore della sua esistenza riposa su ciò che egli subisce e gode, ma il valore che solo egli può dare a se stesso, e che Consiste in ciò che egli fa, nel modo e nei principii delle sue azioni, non in quanto membro della natura, ma nella libertà della sua facoltà di desiderare: una buona volontà, ecco dunque la sola cosa che può dare alla sua esistenza un valore assoluto, e rispetto alla quale l’esistenza del mondo può avere uno scopo finale.

Anche il giudizio più comune degli uomini di buon senso per poco che sia richiamato su tale questione e sia lasciato a riflettervi, si accorda perfettamente nel ritenere che l’uomo può essere uno scopo finale della creazione solo in quanto essere morale. A che giova — si dirà — che quest’uomo abbia tanto talento, e sia pure tanto attivo con esso, eserciti perciò un utile influsso sulla comunità, ed abbia un grande valore rispetto ai proprii interessi e all’utile degli altri, se egli non possiede una buona volontà? È un oggetto degno di disprezzo, se lo si considera nel suo interno; e, a meno che la creazione non sia assolutamente senza uno scopo finale, bisogna che egli, che in quanto uomo appartiene alla creazione, e che in quanto uomo cattivo sta tuttavia in un mondo sottoposto a leggi morali, in conformità di queste fallisca il suo scopo soggettivo (la felicità), come l’unica condizione sotto cui la sua esistenza può concordare con lo scopo finale.

Ora, quando noi scopriamo nel mondo un ordine di fini, e, come la ragione esige inevitabilmente, subordiniamo i fini soltanto condizionati ad uno scopo ultimo incondizionato, cioè ad uno scopo finale, è evidente in primo luogo che non si tratta allora di uno scopo (interno) della natura, in quanto essa esiste, ma dello scopo della sua esistenza con tutte le sue disposizioni, e quindi dello scopo ultimo della creazione, e, in questo, propriamente della condizione suprema sotto cui soltanto può darsi uno scopo finale (vale a dire il motivo che determina un’intelligenza suprema a produrre gli esseri del mondo).

Ora, poiché riconosciamo l’uomo come scopo della creazione, solo in quanto essere morale, abbiamo in primo luogo un motivo, o almeno la condizione principale per considerare il mondo come una totalità finalisticamente connessa e come un sistema di cause finali; ma abbiamo soprattutto, relativamente al rapporto, per noi necessario in virtù della costituzione della nostra ragione, dei fini della natura con una causa intelligente del mondo, un principio, il quale ci permette di pensare la natura e le proprietà di questa causa prima come il supremo principio nel regno dei fini, e così di determinare il concetto; ciò che non poteva fare la teleologia fisica la quale non poteva produrre se non concetti indeterminati, e, appunto perciò, inutili tanto per l’uso teoretico che pel pratico.

In base a questo principio così determinato della causalità dell’essere originario, dovremo pensarlo non soltanto come intelligenza e legislatore per la natura, ma anche come il capo legislatore in un regno morale dei fini. Relativamente al sommo bene, possibile sotto il suo impero, cioè riguardo all’esistenza di esseri ragionevoli sotto leggi morali, penseremo questo essere originario come onnisciente, perché in tal modo non gli sia nascosto l’intimo delle intenzioni (che costituisce il vero valore morale delle azioni degli esseri ragionevoli); lo penseremo come onnipotente, perché possa adeguare tutta la natura a questo scopo supremo; come a s -solutamente buono e nel tempo stesso giusto, perché questi due attributi (che insieme danno la saggezza) costituiscono le condizioni della causalità d’una causa suprema del mondo, in quanto sommo bene sotto il dominio delle leggi morali; e così in essi dobbiamo anche pensare gli altri attributi trascendentali, come l’eternità, l’onnipresenza, etc. (poiché la bontà e la giustizia sono attributi morali)4, che debbono essere presupposti relativamente a tale scopo finale. In tal modo la teleologia morale colma le lacune della teleologia fisica e viene a fondare una teologia; perché, se la teleologia fisica non prendesse in prestito qualcosa inavvertitamente dalla teleologia morale, e dovesse procedere con coerenza, da sola non potrebbe fondare se non una demonologia, la quale è incapace di ogni concetto determinato.

Ma, data la finalità morale di certi esseri del mondo, il principio del rapporto del mondo a una causa suprema, in quanto divinità, non fonda soltanto una teo-logia, perché completa la prova fisico-teleologica e quindi l’assume necessariamente come fondamento; ma è sufficiente a ciò per se stesso; dirige l’attenzione ai fini della natura, e promuove lo studio di quella grande e incomprensibile arte che si nasconde dietro le forme naturali, per trovare nei fini della natura una conferma accessoria delle idee, che son fornite dalla ragion pura pratica. Perché il concetto di esseri del mondo sottoposti a leggi morali, è un principio a priori, secondo il quale l’uomo deve necessariamente giudicare. Che, inoltre, se vi è dovunque una causa del mondo la quale agisce con intenzione ed è diretta ad uno scopo, quel rapporto morale deve essere la condizione della possibilità di una creazione, tanto necessariamente quanto quello che si fonda su leggi fisiche (se cioè quella causa intelligente ha anche uno scopo finale), — è riconosciuto anche a priori dalla ragione, come un principio che le è necessario per giudicare teleologicamente dell’esistenza delle cose. Ora si tratta soltanto di questo, cioè di sapere se noi abbiamo un principio sufficiente per la ragione (sia speculativa, sia pratica), per attribuire uno scopo finale alla causa suprema che agisce secondo fini. Perché, difatti, che questo scopo, secondo la costituzione soggettiva della nostra ragione, e secondo anche ciò che possiamo pensare della ragione di altri esseri, non possa essere altro che l’uomo sottoposto a leggi morali, possiamo tenerlo come certo a priori; mentre invece è impossibile conoscere a priori i fini della natura nell’ordine fisico, e specialmente non si può comprendere in alcun modo come una natura non possa esistere senza di essi.

NOTA

Considerate un uomo nel momento che il suo animo è disposto al sentimento morale. Se, circondato da una bella natura, egli si sente in un godimento calmo e sereno della propria esistenza, sentirà anche in sé un bisogno di esserne riconoscente a qualcuno. Oppure, un’altra volta, egli si trova nella stessa disposizione d’animo, costretto da doveri che non può e non vuole compiere se non mediante un sacrificio volontario: allora sente in sé un bisogno e con ciò di aver eseguito come un ordine e di aver obbedito ad un signore supremo. Oppure egli ha agito senza riflessione contro il suo dovere, senza però giungere a doverne rispondere davanti agli uomini; e nondimeno i rigorosi rimproveri interni levano in lui una voce, che pare quella di un giudice al quale egli ne debba render ragione. In una parola, egli ha bisogno di un’Intelligenza morale, perché, per lo scopo della sua esistenza ci sia un essere, che, conformemente allo scopo medesimo, sia la causa di lui e del mondo. È inutile architettare motivi dietro tali sentimenti; perché essi sono legati immediatamente con le più pure intenzioni morali, giacché la riconoscenza, l’obbedienza e l’umiltà (la sottomissione ad un castigo meritato) sono particolari disposizioni dell’animo al dovere, e l’animo, che è inclinato ad estendere la sua disposizione morale, qui non fa altro che pensare volontariamente un oggetto, che non esiste nel mondo, per compiere il suo dovere anche verso di esso, quando sia possibile. È dunque almeno una cosa possibile, e di cui il principio si trova nel nostro carattere morale, il rappresentarsi un puro bisogno morale dell’esistenza di un essere, pel quale la nostra moralità o acquista maggior forza, o anche (almeno secondo la nostra rappresentazione) maggiore estensione, cioè guadagna un nuovo oggetto per la sua attività; vale a dire, l’ammettere un essere moralmente legislatore, fuori del mondo, senza pensare a prove teoretiche, e ancor meno al nostro interesse personale, in virtù d’un motivo puramente morale e libero da ogni influsso estraneo (ma puramente soggettivo), per la semplice raccomandazione di una ragione pratica pura, che è legislatrice per sé sola. E, sebbene tale stato d’animo si produca raramente e non duri a lungo, sia fugace e senza effetto durevole, e passi senza che ci applichiamo a riflettere sull’oggetto rappresentato in quella specie d’ombra, sforzandoci di ridurlo sotto concetti chiari, esso ha tuttavia un fondamento inconfondibile, e cioè la disposizione morale che è in noi, come principio soggettivo, a non contentarci della finalità per via di cause naturali, nella contemplazione del mondo, ma di porle a fondamento una causa suprema che domini la natura secondo principii morali. — A questo si aggiunga che dalla legge morale noi ci sentiamo obbligati a tendere ad un supremo fine universale, mentre poi sentiamo che, come tutta la natura, siamo insufficienti a raggiungerlo; e che, soltanto in quanto tendiamo ad esso, possiamo giudicare di conformarci allo scopo finale di una causa intelligente del mondo (se tale causa esiste); e in tal modo è dato alla ragion pratica un fondamento puramente morale per ammettere questa causa (perché ciò può avvenire senza contradizione), sicché non corriamo più il pericolo di considerare come del tutto vani gli effetti del nostro sforzo5 e di lasciarlo perciò illanguidirsi.

Da tutto ciò qui non si può concludere se non questo: se da principio, certo, il timore ha potuto produrre gli dei (i demonii), è stata però la ragione che prima, mediante i suoi principii morali, ha prodotto il concetto di Dio (anche quando si era molto ignoranti, come d’ordinario, nella teleologia della natura, o molto incerti per la difficoltà di spiegare con un principio sufficientemente provato i fenomeni contradi ttorii che la natura presenta); e l’intima finalità morale della nostra esistenza compensa ciò che manca alla conoscenza della natura, prescrivendoci cioè di pensare, per lo scopo finale dell’esistenza di tutte le cose, il cui principio non può soddisfare la ragione se non in quanto è etico, la causa suprema con gli attributi che la rendono capace di sottomettere tutta la natura a quell’unico scopo (di cui questa non è che lo strumento), vale a dire come una divinità.

§ 87. Della prova morale dell'esistenza di Dio.

Vi è una teleologia6 fisica che fornisce al nostro Giudizio teoretico riflettente una prova sufficiente per ammettere l’esistenza di una causa intelligente del mondo. Ma noi troviamo in noi stessi, e ancor più nel concetto in generale di un essere ragionevole dotato di libertà (della sua causalità), anche una teleologia morale, la quale però, poiché la relazione finale insieme con le sue leggi in noi stessi può essere determinata a priori, e quindi riconosciuta come necessaria, non ha bisogno, per stabilire questa finalità interna, di una causa intelligente fuori di noi: proprio come, quando troviamo qualcosa di finale (per ogni possibile applicazione nell’arte) nelle proprietà geometriche delle figure, non abbiamo bisogno di ricorrere ad un’intelligenza suprema, che l’abbia loro assegnato. Ma questa teleologia morale ci riguarda in quanto siamo esseri del mondo, e quindi esseri legati con le altre cose del mondo: e le stesse leggi morali c’impongono di giudicare queste cose o come fini o come oggetti rispetto ai quali noi stessi siamo scopo finale. Ora da questa teleologia morale, che riguarda il rapporto della nostra propria causalità con dei fini ed anche con uno scopo finale, cui noi dobbiamo mirare nel mondo, e parimenti il rapporto reciproco del mondo con quello scopo morale e la possibilità esterna della sua realizzazione (di cui una teleologia fisica non ci può dir nulla); — da questa teleologia nasce necessariamente la questione, se cioè essa obblighi il nostro giudizio razionale a trascendere il mondo e a cercare, per quel rapporto della natura con la nostra moralità, un principio supremo intelligente, per rappresentarci la natura come finale anche relativamente alla legislazione morale interna e alla possibile esecuzione di questa. Per conseguenza, vi è certamente una teleologia morale; ed è legata con la nomotetica della libertà da una parte, e con quella della natura dall’altra, tanto necessariamente quanto la legislazione civile è legata con la questione di sapere dove si debba cercare il potere esecutivo; e in generale è connessa con tutto ciò in cui la ragione deve fornire il principio della realtà di un certo ordine legale delle cose, possibile solo secondo idee. — Vogliamo mostrare anzitutto il passaggio della ragione, da questa teleologia morale e dal suo rapporto con la teleologia fisica, alla teologia; e dopo faremo alcune considerazioni sulla possibilità e la validità di questa maniera di ragionare.

Quando si considera contingente l’esistenza di certe cose (o anche soltanto di certe forme delle cose), e quindi possibile soltanto mediante qualcos’altro, in quanto causa, si può cercare il fondamento supremo di questa causalità, e quindi il fondamento incondizionato del condizionato, o nell’ordine fisico o nell’ordine teleologico (secondo il nexus effectivus o il nexus finalis). Vale a dire, si può domandare, o qual è la causa produttrice suprema di queste cose, o qual è il loro fine supremo (assolutamente incondizionato), cioè lo scopo finale che ha determinato quella causa a produrre questi o, in generale, tutti i suoi prodotti. Nel qual caso evidentemente questa causa deve essere pensata come capace della rappresentazione dei fini, e quindi come un essere intelligente, o almeno, per noi, come agente secondo le leggi di un tale essere.

Ora, se si considera l'ordine teleologico, è un principio al quale anche la ragione più ordinaria deve immediatamente aderire, che, se vi è in generale uno scopo finale, che la ragione può fornire a priori, esso non può essere altro che l’uomo (o qualunque essere ragionevole del mondo), sottoposto alle leggi morali*10. Perché (così giudica ognuno), se il mondo si componesse di esseri inanimati, o anche in parte di esseri animati, ma privi di ragione, la sua esistenza non avrebbe alcun valore, perché in esso non esisterebbe alcun essere che avesse il minimo concetto d’un valore. Se invece vi fossero Anche esseri ragionevoli, ma la loro ragione ponesse il valore dell’esistenza delle cose soltanto nella relazione della natura ad essi (al loro benessere), e non sapesse crearsi da sé originalmente un valore (nella libertà); vi sarebbero, è vero, dei fini (relativi) nel mondo, ma non vi sarebbe uno scopo finale (assoluto); giacché l’esistenza di tali esseri ragionevoli sarebbe sempre senza scopo. Ma è nella natura propria delle leggi morali il prescrivere alla ragione qualcosa come scopo incondizionatamente e per conseguenza proprio come è richiesto dal concetto di uno scopo finale; e l’esistenza di una tale ragione che, nell’ordine dei fini, può essere a se stessa la legge suprema, in altri termini, l’esistenza di esseri ragionevoli sottoposti a leggi morali, è ciò che soltanto può essere pensato come lo scopo finale dell’esistenza di un mondo. Se non fosse così, o resistenza del mondo non avrebbe uno scopo per sua causa, o avrebbe per fondamento dei fini senza uno scopo finale.

La legge morale, come condizione razionale formale dell’uso della nostra libertà, ci obbliga per sé sola, senza dipendere da qualche scopo in quanto condizione materiale; ma essa ci determina anche, e a priori, uno scopo finale, al quale c’impone di tendere, e che è il sommo bene possibile nel mondo mediante la libertà.

La condizione soggettiva per cui, sotto la legge morale, l’uomo (e, secondo tutti i nostri concetti, anche ogni essere ragionevole finito) può porsi uno scopo finale, è la felicità. Per conseguenza, il sommo bene fisico possibile nel mondo, e che deve essere perseguito come scopo finale, per quanto è in noi, è la felicità: sotto la condizione oggettiva, che l’uomo si accordi con la legge della moralità, come con quella che lo rende degno d’es-ser felice.

Ma queste due esigenze dello scopo finale che ci è assegnato dalla legge morale, non possiamo, con tutte le facoltà della nostra ragione, rappresentarcele come riunite mediante semplici cause naturali, e conformi all’idea di questo scopo finale. Sicché il concetto della necessità pratica di tale scopo mediante l’applicazione delle nostre forze, non si accorda col concetto teoretico della possibilità fisica della sua realizzazione, se non uniamo alla nostra libertà alcun’altra causalità (intermediaria), oltre quella della natura.

Dobbiamo dunque ammettere una causa morale del mondo (un autore del mondo), per proporci uno scopo finale, conformemente alla legge morale; e per quanto questo scopo è necessario, altrettanto (vale a dire allo stesso grado e per la stessa ragione) è necessario ammettere quella causa: cioè che vi è un Dio*11.

Questa prova, cui si può adattare facilmente la forma della precisione logica, non vuol dire che è tanto necessario l’ammettere l’esistenza di Dio quanto il riconoscere la validità della legge morale; in modo che colui, che non si convince della prima, possa giudicarsi libero dal-l’obbligazione della seconda. No! Soltanto che allora si dovrebbe rinunziare a tendere allo scopo finale da attuare nel mondo con l’osservanza della legge morale (all’accordo di quest’ultima con la felicità degli esseri ragionevoli, in quanto sommo bene nel mondo). Ogni essere ragionevole dovrebbe ancor sempre giudicarsi strettamente obbligato al precetto della moralità; perché le leggi di questa sono formali e comandano incondizionatamente, senza riguardo a scopi (come la materia della volontà). Ma la sola esigenza dello scopo finale, quale la ragion pratica lo prescrive agli esseri del mondo, è uno scopo che è loro imposto irresistibilmente dalla loro natura (di esseri finiti), e che la ragione vuol sottoporre solo alla legge morale in quanto condizione inviolabile, o vuol vederlo derivare universalmente da tale legge, ponendo in tal modo come scopo finale il conseguimento della felicità d’accordo con la moralità. Il tendere a tale scopo, per quanto è in nostro potere, ci è imposto dalla legge morale; qualunque sia il risultato di questo sforzo. Il compimento del dovere consiste nella forma del serio volere, non nei mezzi della riuscita.

Poniamo dunque che un uomo, sia per la debolezza dei tanto lodati argomenti speculativi, sia per le diverse irregolarità che ha trovato nella natura e nel mondo morale, si convinca che non esiste un Dio; egli sarebbe però ai propri occhi un essere miserabile, se in conseguenza di ciò volesse tenere per puramente immaginarie, senza valore e senza virtù di obbligare, le leggi del dovere, e volesse decidersi arditamente a violarle. Se quest’uomo in seguito potesse convincersi di ciò di cui aveva dubitato in principio, resterebbe pur sempre, con quel modo di pensare, un miserabile, qualora compisse tanto puntualmente il suo dovere quanto si può desiderare, circa gli effetti esterni, ma per timore, o per la speranza d’una ricompensa, senza alcuna intenzione di rispetto pel dovere stesso. Se viceversa, in quanto credente, egli compie secondo coscienza il suo dovere sinceramente e disinteressatamente, e nondimeno, ogni volta che pensa al caso che un giorno potrebbe convincersi che Dio non esiste, crede che allora sarebbe libero da ogni obbligazione morale; la cosa dovrebbe andar male per ciò che riguarda la sua disposizione morale interna.

Possiamo dunque supporre un uomo onesto (come per esempio Spinoza)8 il quale sia fermamente convinto che Dio non esiste, né esiste una vita futura (perché circa l’oggetto della moralità la conseguenza è identica); come giudicherà egli la sua destinazione interna a un fine mediante la legge morale, che egli operosamente onora? Dall’osservanza di essa egli non desidera per sé alcun vantaggio, né in questo mondo né in un altro; vuole anzi effettuare disinteressatamente soltanto quel bene, cui quella santa legge indirizza tutte le sue forze. Ma il suo sforzo è limitato; e se dalla natura può aspettarsi un concorso accidentale, non può mai sperare un concorso legale e regolarmente costante (come sono, e debbono essere, le sue massime interne) a vantaggio dello scopo che egli si sente obbligato e spinto ad attuare. La frode, la violenza, l’invidia dominano sempre intorno a lui, sebbene egli sia onesto, pacifico e benevolente; e gli onesti, che ancora gli è dato d’incontrare, malgrado tutto il loro diritto d’esser felici, sono sottoposti dalla natura, che non fa tali considerazioni, a tutti i mali della miseria, delle malattie e d’una morte prematura, come gli altri animali della terra e lo rimangono finché un vasto sepolcro li inghiottisce tutti insieme (onesti e disonesti, non importa), e li rigetta, essi che potrebbero credersi lo scopo finale della creazione, nell’abisso del cieco caos della materia, da cui erano usciti. — Sicché quest’uomo di buoni sentimenti dovrebbe abbandonare assolutamente come impossibile quello scopo che, seguendo la legge morale, aveva, e doveva avere, davanti agli occhi; o, se vuol restar fedele ancora alla voce della sua destinazione morale interna: e se non vuole indebolire il rispetto ispiratogli dalla legge morale nello spronarlo immediatamente all’obbedienza, ritenendo vano l’unico scopo ideale adeguato alla sua alta esigenza (ciò che non può avvenire senza scapito del sentimento morale), allora egli dovrà ammettere — e questo e possibile, perché almeno non è contradittorio — dal punto di vista pratico, cioè per farsi almeno un concetto della possibilità dello scopo finale che gli è moralmente prescritto, l’esistenza di un autore morale del mondo, cioè di Dio.

§ 88. Limitazione della validità della prova morale.

La ragion pura, in quanto facoltà pratica, cioè in quanto facoltà di determinare il libero uso della nostra causalità per mezzo d’idee (concetti razionali puri), comprende non soltanto nella legge morale un principio re-golativo delle nostre azioni, ma dà anche in questo modo un principio soggettivamente costitutivo nel concetto di un oggetto, che solo la ragione può pensare, e che secondo quella legge dev’essere realizzato nel mondo mediante le nostre azioni. L’idea d’uno scopo finale nell’uso della libertà secondo leggi morali, ha dunque una realtà soggettivamente pratica. Noi siamo determinati a priori dalla ragione a promuovere con tutte le nostre forze il sommo bene del mondo, il quale consiste nell’unione del massimo bene fisico possibile negli esseri ragionevoli del mondo, con la suprema condizione del bene morale, vale a dire dell’universale felicità con la più rigorosa moralità.

In questo scopo finale la possibilità d’una parte, cioè della felicità, è condizionata empiricamente, cioè dipende dalla costituzione della natura (secondo che questa si accorda o no con lo scopo stesso), ed è quindi problematica dal punto di vista teoretico; mentre la possibilità dell’altra parte, cioè della moralità, rispetto a cui siamo indipendenti dall’azione della natura, sussiste a priori ed è dommaticamente certa. La realtà oggettiva teoretica del concetto dello scopo finale degli esseri ragionevoli del mondo esige dunque, non solo che noi abbiamo uno scopo finale prescritto a priori, ma anche la creazione, vale a dire il mondo stesso, abbia uno scopo finale rispetto alla sua esistenza, che, se potesse esser dimostrato a priori, aggiungerebbe la realtà oggettiva a quella soggettiva dello scopo finale. Poiché se la creazione ha dappertutto uno scopo finale, noi non possiamo pensarlo altrimenti che come necessariamente d’accordo con la moralità (la quale sola rende possibile il concetto d’uno scopo). Ora certamente noi troviamo dei fini nel mondo: e la teleologia fisica ce ne scopre tanti che, giudicando secondo ragione, infine abbiamo motivo di ammettere come principio dell’investigazione della natura, che in essa niente è senza scopo; ma invano cerchiamo lo scopo finale della natura nella natura stessa. Perciò questo, anche dal punto di vista della sua possibilità oggettiva, in quanto la sua idea sta soltanto nella ragione, può e deve essere cercato soltanto negli esseri ragionevoli. Ma la ragion pratica di questi esseri non dà solamente questo scopo finale: ne determina anche il concetto circa le condizioni, sotto le quali soltanto da noi può esser pensato uno scopo finale della creazione.

Ora la questione è di sapere se la realtà oggettiva del concetto di uno scopo finale della creazione possa essere dimostrata anche in modo da soddisfare sufficientemente le esigenze teoretiche della ragion pura, e, se non apoditticamente pel Giudizio determinante, almeno a sufficienza per le massime del Giudizio teoretico riflettente. È questo il minimo che si può chiedere alla filosofia speculativa, la quale s’impegna di congiungere lo scopo morale coi fini della natura mediante l’idea d’un unico scopo; ma anche questo poco è molto più di quanto essa possa fornire.

Secondo il principio del Giudizio teoretico riflettente, diremmo questo: se pei prodotti finali della natura abbiamo ragione di ammettere una causa suprema della natura stessa, la cui causalità, circa la realtà di quest’ultima (della creazione), deve esser pensata come d’una specie diversa da quella che è richiesta dal meccanismo della natura, cioè come la causalità d’una intelligenza, abbiamo anche sufficiente ragione di pensare in questo essere originario non soltanto dei fini per tutto ciò che esiste nella natura, ma anche uno scopo finale, e se non per dimostrare l’esistenza di tale essere almeno (come si è visto nella teleologia fisica) per convincersi che non possiamo spiegarci la possibilità di un tal mondo soltanto mediante fini, ma unicamente supponendo alla base, della sua esistenza uno scopo finale.

Ma lo scopo finale non è se non un concetto della nostra ragion pratica, e non può essere desunto da alcun dato dell’esperienza che serve al giudizio teoretico della natura, né essere applicato alla conoscenza di questa. Non è possibile alcun uso di questo concetto, oltre quello della ragion pratica secondo le leggi morali; e scopo finale della creazione è quella costituzione del mondo che si accorda con ciò che noi possiamo determinare solo mediante leggi, cioè con lo scopo finale della nostra ragion pura pratica, e in quanto dev’essere pratica. — Ora, dalla legge morale, che ci assegna questo scopo, noi siamo autorizzati dal punto di vista pratico, cioè per applicare le nostre forze all’attuazione di esso, ad ammetterne la possibilità (l’attuabilità) e quindi anche una natura delle cose che vi si accordi (perché, senza il concorso della natura in una condizione di questa attuabilità che non è in nostro potere, la realizzazione dello scopo sarebbe impossibile). Sicché abbiamo una ragione morale per pensare che nel mondo ci sia anche uno scopo finale della creazione.

Questa non è ancora l’inferenza dalla teleologia morale ad una teologia, vale a dire all’esistenza di un autore morale del mondo, ma soltanto ad uno scopo finale della creazione, determinato in tal modo. Che poi per questa creazione, cioè per l’esistenza delle cose conformemente ad uno scopo finale, si debba ammettere un essere intelligente, e non solo intelligente (quale era necessario a spiegare la possibilità delle cose naturali, che eravamo obbligati a giudicare come fini), ma nel tempo stesso morale, come autore del mondo, e quindi un Dio; è questa una seconda inferenza, che è così costituita, che si vede esser tratta semplicemente pel Giudizio secondo concetti della ragion pratica, e, come tale, non già pel Giudizio determinante, ma pel riflettente. Perché, difatti, noi non possiamo pretendere di comprendere che sebbene i principii della ragion moralmente pratica siano in noi essenzialmente diversi da quelli della ragione tecnicamente pratica, lo stesso debba essere nella causa suprema del mondo, quando sia ammessa come una intelligenza, e che una particolare specie di causalità, diversa da quella che serve semplicemente pei fini della natura, sia ad essa necessaria per lo scopo finale; e che, per conseguenza, nel nostro scopo finale non abbiamo solo una ragione morale per ammettere uno scopo finale della creazione (in quanto effetto), ma per ammettere anche un essere morale come fondamento originario della creazione. Ma possiamo ben dire che, secondo la natura della nostra ragione, ci è impossibile concepire la possibilità d’una tale finalità relativa alla legge morale ed al suo oggetto, quale si trova in questo scopo finale, senza un autore e sovrano del mondo che sia nel tempo stesso un legislatore morale.

La realtà di un supremo autore e legislatore morale del mondo è dunque dimostrata a sufficienza soltanto per l’uso pratico della nostra ragione, senza che qualcosa sia determinato teoreticamente circa la sua esistenza. Difatti la ragione, per la possibilità del suo scopo, che anche senza ciò ci è assegnato dalla sua propria legislazione, ha bisogno di una idea con cui sia tolto (in modo sufficiente pel Giudizio riflettente) l’ostacolo, che consiste nell’impossibilità di conseguire lo scopo medesimo secondo il concetto puramente naturale del mondo; e questa idea raggiunge così una realtà pratica, se pure alla conoscenza speculativa manchino del tutto i mezzi per darle una realtà dal punto di vista teoretico, per la spiegazione della natura e la determinazione della causa suprema. La teleologia fisica ha provato a sufficienza pel Giudizio riflettente teoretico, fondandosi sui fini della natura, una causa intelligente del mondo; la teleologia morale fa lo stesso pel Giudizio riflettente pratico, mediante il concetto d’uno scopo finale, che essa dal punto di vista pratico è obbligata ad attribuire alla creazione. La realtà oggettiva dell’idea di Dio, in quanto autore morale del mondo, non può, veramente, essere dimostrata solo per mezzo di scopi fisici; ma, se la conoscenza di tali scopi è congiunta con quella dello scopo finale morale, gli scopi medesimi, in virtù della massima della ragion pura, di perseguire cioè per quanto è possibile l’unità dei principii, sono di una grande importanza per suffragare la realtà pratica di quell’idea mediante quella che la ragione dal punto di vista teoretico fornisce al Giudizio.

Qui ora, ad evitare un facile malinteso, è assoluta-mente necessario notare che, in primo luogo, noi possiamo pensare queste proprietà dell’essere supremo solo per analogia. Perché, come vorremmo penetrare la sua natura, se l’esperienza non ci può mostrare niente di simile? In secondo luogo, mediante quegli attributi lo possiamo soltanto pensare, ma non conoscere, e non glieli possiamo riferire teoreticamente; perché questo spetterebbe al Giudizio determinante, dal punto di vista speculativo della nostra ragione, allo scopo di comprendere che cosa è in sé la causa suprema del mondo. Ma qui si tratta solo di sapere quale concetto dobbiamo farci di questo essere, secondo la natura delle nostre facoltà conoscitive, e se dobbiamo ammettere la sua esistenza per potere attribuire non altro che una realtà pratica ad uno scopo che la ragion pura pratica, senza tale presupposizione, ci dà a priori affinché lo attuiamo con tutte le nostre forze, vale a dire per poter solo pensare come possibile un effetto voluto. Quel concetto sarà trascendente per la ragione speculativa; le proprietà che attribuiamo a questo essere pensato in tal modo, usate oggettivamente, nasconderanno un antropomorfismo; ma lo scopo del loro uso non è di determinare la sua natura, per noi irraggiungibile, sibbene noi stessi e la nostra volontà. Allo stesso modo che noi designamo una causa secondo il concetto che abbiamo del suo effetto (ma solo circa la sua relazione con questo), senza perciò voler determinare intimamente la costituzione di essa mediante quelle proprietà che nelle cause di questa specie sono le uniche che possono essere conosciute, e debbono esser date dall’esperienza; — allo stesso modo che, per esempio, attribuiamo all’anima, tra le altre proprietà, una vis locomotiva, perché si producono effettivamente dei movimenti del corpo, la cui causa sta nelle sue rappresentazioni, senza perciò pretendere di attribuirle l’unico modo col quale conosciamo le forze in movimento (cioè mediante l’attrazione, la pressione, l’urto, e quindi il movimento che presuppongono sempre un essere esteso): — così dobbiamo ammettere qualche cosa, che contenga il fondamento della possibilità e della realtà pratica, cioè dell’attuabilità, di uno scopo finale moralmente necessario. Ma noi possiamo pensare questo qualche cosa, secondo la natura dell’effetto che ne aspettiamo, come un essere saggio e che governa il mondo secondo leggi morali, e, conformemente alla costituzione delle nostre facoltà conoscitive, dobbiamo pensarlo come una causa delle cose distinta dalla natura, soltanto per esprimere il rapporto di questo essere, che trascende tutte le nostre facoltà di conoscere, all’oggetto della nostra ragion pratica: senza pretendere però di attribuirgli teoretica-mente l’unica causalità di questa specie che conosciamo, cioè un’intelligenza ed una volontà, e nemmeno di distinguere oggettivamente, in questo essere stesso, la causalità che pensiamo in lui relativamente a ciò che è scopo finale per noi, da quella che è relativa alla natura (e alla sua finalità in generale), mentre possiamo ammettere tale distinzione solo come soggettivamente necessaria, per la costituzione della nostra facoltà di conoscere, e come valida pel Giudizio riflettente, non pel Giudizio oggettivamente determinante. Ma, quando si tratta del punto di vista pratico, un principio regolativo (per la prudenza o la saggezza), come questo, — considerare, cioè, come scopo ciò che, secondo la natura delle nostre facoltà conoscitive, può esser pensato da noi come possibile soltanto in una certa maniera, — è nel tempo stesso costitutivo, vale a dire praticamente determinante; mentre il principio stesso, in quanto principio del Giudizio della possibilità oggettiva delle cose, non è in alcun modo teoreticamente determinante (non determina cioè se anche all’oggetto convenga quell’unico modo di possibilità che conviene alla nostra facoltà di pensare), ma è un principio semplicemente regolativo pel Giudizio riflettente.

NOTA

Questa prova morale non è cosa trovata adesso, ma soltanto un argomento nuovamente discusso, perché essa era nella ragione umana anteriormente al suo primo sviluppo, e si è sviluppata sempre più con la progressiva coltura della ragione medesima. Non appena gli uomini cominciarono a riflettere sul giusto e sull’ingiusto, in un tempo in cui, indifferenti, non facevano ancor caso alla finalità della natura, e se ne servivano senza figurarsi altro che il corso ordinario della natura medesima, dovette inevitabilmente intervenire questo giudizio, che cioè infine non possa mai essere indifferente che un uomo si sia condotto rettamente o falsamente, che sia stato giusto o prepotente, quantunque fino alla fine della sua vita egli non abbia ricevuto, almeno visibilmente, alcuna felicità per le sue virtù o alcun castigo per i suoi misfatti. Era come se avessero inteso in se stessi una voce che diceva loro che non doveva esser così; e quindi dovette anche nascondersi in loro, sebbene oscura, la rappresentazione di qualche cosa cui si sentivano obbligati di tendere, e con la quale non si poteva accordare tale risultato, o non sapevano congiungere quella disposizione interna del loro animo ad un fine, quando riguardavano il corso del mondo come l’unico ordine delle cose. Potevano rappresentarsi in varii modi ancor grossolani la soluzione di tale irregolarità (contro cui l’animo umano deve ribellarsi, assai più che contro il cieco caso, che si voleva porre come principio del giudizio della natura); ma non potevano mai escogitare altro principio della possibilità dell’unione della natura con la loro legge morale intima, che non fosse una causa suprema dominante il mondo secondo leggi morali; perché sono contradittorii nell’uomo uno scopo finale interno prescritto come dovere, e fuori di lui una natura senza scopo finale, in cui però quello scopo deve essere effettuato. Sull’intima natura di quella causa del mondo potevano immaginare molte assurdità; rimase però sempre lo stesso quel rapporto morale del governo del mondo, che è comprensibile universalmente anche dalla ragione meno coltivata, in quanto si considera come pratica, e col quale invece la ragione speculativa non può affatto procedere di pari passo. — Inoltre, secondo ogni verosimiglianza, questo interesse morale attirò l’attenzione sulla bellezza e i fini della natura, che servirono allora eccellentemente a rinforzare quell’idea, senza che tuttavia la potessero fondare, ma ancor meno che potessero prescindere da quell’aiuto, perché l’investigazione dei fini della natura solo in rapporto con lo scopo morale raggiunge quell’interesse immediato, che si dimostra così altamente nell’ammirazione per la natura stessa, senza riguardo a qualche vantaggio che se ne può ricavare.

§ 89. Dell’utilità dell’argomento morale.

La limitazione della ragione, circa tutte le idee del soprasensibile, alle condizioni del suo uso pratico, ha, per ciò che riguarda l’idea di Dio, questa utilità indiscucibile: impedisce che la teologia si elevi alla teosofia (a concetti trascendenti in cui la ragione si smarrisce), o cada nella demonologia (in una rappresentazione antropomorfica dell’essere supremo); che la religione si converta in teurgia (quella illusione fantastica per cui si crede di poter avere un sentimento di altri esseri soprasensibili ed un influsso su di essi), o in idolatria (quell’illusione superstiziosa per cui si crede di poter riuscire graditi all’essere supremo per via di altri mezzi, anziché con l’intenzione morale)12.

Perché, difatti, se alla vanità o alla temerità del sofisticare su ciò che supera il mondo sensibile si concede la facoltà di determinare teoreticamente anche la minima cosa (e in modo che estenda la conoscenza); se si permette che si vanti della sua conoscenza dell’esistenza e della costituzione della natura divina dell’intelletto e della volontà di questi, delle leggi di questi due attributi e delle proprietà che ne derivano nel mondo: io vorrei ben saper dove e in qual punto si vorranno arrestare le pretese della ragione; giacché, quando siano ammesse tali conoscenze, se ne possono aspettare ancora parecchie altre (sol che, come si crede, vi si costringa la riflessione). La limitazione di tali pretese dovrebbe però esser data da un principio certo, non dalla semplice ragione che finora tutte le ricerche in questo senso sono fallite; perché ciò non dimostra niente contro la possibilità di un miglior risultato. Ma qui non v’è altro principio possibile oltre l’ammettere, o che relativamente al soprasensibile non possa esser determinato assolutamente niente dal punto di vista teoretico (se non in modo puramente negativo), oppure che la nostra ragione contenga una miniera, non ancora utilizzata, di chi sa quali grandi conoscenze estensive riservate per noi e la nostra posterità. Ma per ciò che riguarda la religione, cioè a dire la morale in rapporto con Dio in quanto legislatore, se la conoscenza teoretica di Dio dovesse precedere, la morale dovrebbe regolarsi sulla teologia; e non soltanto ad una legislazione interna necessaria della ragione verrebbe a sostituirsi quella esterna ed arbitraria di un essere supremo: ma tutto ciò che v’è di difettoso nella nostra conoscenza di questo essere, si estenderebbe al precetto morale, rendendo cosi immorale e pervertendo la religione.

Riguardo alla speranza d’una vita futura, se, invece dello scopo finale che dobbiamo realizzare secondo il precetto della legge morale, noi domandiamo alla nostra facoltà della conoscenza teoretica la norma del giudizio razionale sulla nostra destinazione (che quindi è considerato come necessario, o ammissibile, solo nel rapporto pratico), la scienza dell’anima, come prima la teologia, non ci dà altro che un concetto negativo del nostro essere pensante: ci dice cioè che nessuna delle sue azioni o delle manifestazioni del suo senso interno può essere spiegata materialisticamente; che quindi sulla sua natura separata, sul durare o perire della sua personalità dopo la morte, non è assolutamente possibile per noi alcun giudizio determinante ed estensivo fondato su principii speculativi, anche se impieghiamo tutta la nostra facoltà teoretica di conoscere. Poiché qui dunque tutto resta affidato al giudizio teleologico, che considera la nostra esistenza da un punto di vista pratico e necessario, ed ammette la nostra sopravvivenza come la condizione richiesta dallo scopo finale che ci è assegnato assoluta-mente dalla ragione, si vede nel tempo stesso questa utilità (che a prima vista ci sembrava un danno), che, cioè, allo stesso modo che la teologia non poteva diventar mai per noi teosofia, la psicologia razionale non può mai diventar pneumatologia come scienza estensiva, mentre d’altra parte è sicura di non cadere nel materialismo; che essa è piuttosto una semplice antropologia del senso interno, vale a dire una conoscenza del nostro io pensante durante la vita, e, come conoscenza teoretica resta anche puramente empirica; che invece la psicologia razionale, per ciò che concerne la questione della nostra esistenza eterna, non è punto una scienza teoretica, ma riposa su di un’unica conclusione della teleologia morale, per cui tutto il suo uso non è necessario che a quest’ultima, cioè per la nostra destinazione pratica.

§ 90. Della qualità dell'adesione ad una prova teleologica dell’esistenza di Dio.

In primo luogo, ogni prova o sia fornita dall’immediata esibizione empirica di ciò che deve esser dimostrato (come nel caso d’una prova mediante l’osservazione dell’oggetto o l’esperimento), o sia data a priori dalla ragione per via di principii, deve non soltanto persuadere, ma convincere, o almeno tendere alla convinzione; vale a dire il principio o la conclusione, non dev’essere un motivo puramente soggettivo (estetico) dell’assenso (una semplice apparenza), ma deve avere una validità oggettiva ed essere un fondamento logico della conoscenza: perché altrimenti l’intelletto sarebbe abbindolato, ma non convinto. A tale specie di prova illusoria appartiene quella che, forse a fin di bene, ma per nascondere premeditatamente la sua debolezza, si adopera nella teologia naturale, quando s’invoca la grande quantità di argomenti che stanno in favore di una causa delle cose naturali secondo il principio d’uno scopo, e si utilizza quel principio puramente soggettivo della ragione umana, cioè quella tendenza che le è propria, la quale la spinge ad ammettere un solo principio invece di parecchi, sempre che non vi sia contradizione, e, quando in questo Principio si trovano già alcune o anche molte delle condizioni richieste per la determinazione d’un concetto, — la spinge ad aggiungervi le rimanenti, e a completare arbitrariamente il concetto della cosa. E difatti, in verità, quando incontriamo nella natura tanti prodotti, che sono segni per noi di una causa intelligente, perché, invece di. molte di tali cause, non ne dobbiamo pensare una sola e perché in questa non dobbiamo pensare invece di un’intelligenza, una potenza, etc., semplicemente grandi, l’onniscienza, l’onnipotenza, e pensarla, in una parola come principio sufficiente di tutte le cose possibili, mediante tali attributi? E, inoltre, perché non attribuiremmo a questo essere unico ed onnipotente, non soltanto l’intelligenza per le leggi e i prodotti della natura, ma anche, in quanto causa morale del mondo, la suprema ragione moralmente pratica? Giacché, completato in tal modo questo concetto, si avrebbe un principio sufficiente per la comprensione della natura e insieme per la saggezza morale, e nessun rimprovero in qualche modo fondato potrebbe più esser rivolto contro tale idea. Se nello stesso tempo sono sollecitati gli impulsi morali dell’animo, e vien loro aggiunto un vivace interesse con la forza dell’eloquenza (di cui sono ben degni), deriverà da tutto ciò una persuasione della sufficienza oggettiva della prova, ed anche (nella maggior parte dei casi in cui questa viene usata) un’illusione salutare, che si dispensa interamente da ogni esame della forza logica di essa, rigettandolo anzi con orrore e ripugnanza, come fondato su di un dubbio temerario. — Ora contro ciò non v'è nulla da dire, se si guarda propriamente all’utilità popolare. Ma, poiché non bisogna, e non si può, dimenticare che questa prova contiene due parti differenti, quella che appartiene alla teleologia fisica e quella che appartiene alla teleologia morale, e la confusione di esse non permette di conoscere dov’è la vera forza della dimostrazione, in quale parte e come dovrebbe essere elaborata, per poterne sostenere la validità contro l’esame più rigoroso (anche se in una parte si fosse obbligati a riconoscere la debolezza della nostra ragione); è un dovere pel filosofo (posto pure che egli non tenga in conto l’esigenza della sincerità) il rivelare l’illusione, per quanto salutare, che può nascere da tale confusione, e il separare ciò che appartiene alla persuasione da ciò che conduce alla convinzione (che sono due determinazioni dell’assenso, diverse non soltanto nel grado, ma nella qualità), allo scopo di mostrare in tutta la sua chiarezza lo stato dell’animo in questa prova, e di sottoporre francamente questa al più severo esame.

Ma una prova diretta alla convinzione può essere a sua volta di due specie, perché o deve determinare che cosa l’oggetto è in sé, o ciò che è per noi (per gli uomini in generale), secondo i principii razionali del suo giudizio per noi necessarii (una prova ϰατʾ ἀλήθειαν o ϰατʾ ἄνθρωπον, quest’ultima espressione intesa nel suo universale significato per gli uomini in generale). Nel primo caso essa è fondata su principii sufficienti pel Giudizio determinante, nel secondo su principii che bastano soltanto pel Giudizio riflettente. E in quest’ultimo caso, riposando su principii puramente teoretici, non può mai influire sulla convinzione; ma se ha a fondamento un principio razionale pratico (che vale quindi universalmente e necessariamente), può ben pretendere ad una convinzione sufficiente dal punto di vista pratico puro, cioè ad una convinzione morale. Una prova può influire sulla convinzione senza tuttavia convincere. quando è posta su questa via, vale a dire quando contiene solo principii oggettivi che, sebbene non ancora sufficienti per la certezza, non servono semplicemente alla persuasione, come principii soggettivi del giudizio.

Tutte le prove teoretiche si riducono o 1) alla prova mediante un ragionamento logicamente rigoroso; o, dove questo manchi, 2) al ragionamento per analogia; o ancora, se anche questo non ha luogo, 3) all’opinione verosimile; o finalmente, che è il minimo che si possa avere, 4) all’ammissione di un principio esplicativo semplicemente possibile, come ipotesi. — Ora io dico che tutte le prove in generale, che tendono alla convinzione teoretica, non possono produrre alcuna adesione9 di questa specie, dal primo all'ultimo grado di essa, quando si debba dimostrare la proposizione dell’esistenza di un essere originario, in quanto Dio, nel senso adeguato a tutto il contenuto di questo concetto, cioè in quanto creatore morale del mondo, e quindi tale che con esso è dato nello stesso tempo lo scopo finale della creazione.

1) Per ciò che riguarda la prova logica rigorosa, che va dall’universale al particolare, è stato sufficientemente dimostrato nella critica, che, poiché al concetto di un essere che va cercato al di là della natura, non corrisponde alcuna possibile intuizione, e il concetto stesso per conseguenza, in quanto dev’esser determinato teoreticamente mediante predicati sintetici, resta per noi sempre problematico, non può esservi assolutamente alcuna conoscenza di esso (che estenda anche minimamente il nostro sapere teoretico), e non si può sussumere il particolare concetto di un essere soprasensibile ai principii universali della natura delle cose, per concludere da questi a quello; perché quei principii valgono unicamente per la natura come oggetti dei sensi.

2) Di due cose eterogenee, proprio in ciò che costituisce la loro eterogeneità, si può pensare l’una secondo una analogia *13 con l’altra; ma, in base a ciò che costituisce la loro eterogeneità, non si può concludere dall’una all’altra per analogia: vale a dire, non può trasferire dall’una all’altra questo segno della differenza specifica. Così, posso anche pensare la comunità dei membri d’una repubblica istituita secondo le regole del dritto, per analogia con la legge dell’equilibrio dell’azione e della reazione nella scambievole attrazione e repulsione dei corpi; ma non posso trasferire quelle determinazioni specifiche (l’attrazione e la repulsione materiale) in questo campo, ed attribuirle ai cittadini, per costituire un sistema che si chiama Stato. — Proprio allo stesso modo possiamo pensare la causalità dell’essere originario rispetto alle cose del mondo in quanto fini della natura, per analogia con un’intelligenza in quanto principio delle forme di certi prodotti, che chiamiamo opere d’arte (perché ciò si fa solo a vantaggio dell’uso teoretico o pratico della nostra facoltà conoscitiva che dobbiamo fare di questo concetto, relativamente alle cose naturali nel mondo, secondo un certo principio); ma dal fatto, che tra gli esseri del mondo si deve attribuire l’intelligenza alla causa d’un effetto che è giudicato come un’opera d’arte, non possiamo concludere punto per analogia, che anche a quell’essere, che è interamente distinto dalla natura convenga, rispetto alla natura stessa, proprio quella causalità che troviamo nell’uomo; perché ciò riguarda proprio quello che costituisce l’eterogeneità che noi pensiamo tra una causa sensibilmente determinata, relativamente ai suoi effetti, e l’essere soprasensibile nei concetto stesso che ne abbiamo, e quindi quella causalità non può essere trasferita a quest’ultimo. — Appunto nel fatto che io debbo pensare la causalità divina soltanto per analogia con un intelletto (facoltà che non conosciamo in nessun altro essere fuorché nell’uomo, che è sensibilmente determinato), sta il divieto di attribuire all’essere supremo questa intelligenza in senso proprio*14.

3) L’opinione non trova luogo nei giudizi a priori, perché con questi o si conosce qualcosa come interamente certa, o non si conosce nulla. Ma anche quando le prove date, dalle quali muoviamo (come qui i fini del mondo), sono empiriche, con l’aiuto di esse non si può opinare niente su ciò che è al di là del mondo sensibile, ed accordare a tali giudizii arrischiati il minimo dritto alla verosimiglianza. Poiché, difatti, la verosimiglianza è una parte di una certezza possibile in una certa serie di ragioni (le ragioni in essa stanno alla ragione sufficiente come le parti ad un tutto), dalle quali deve poter essere completata quella ragione insufficiente. Ma se esse, come ragioni determinanti la certezza di uno stesso giudizio, debbono essere omogenee, altrimenti nel loro insieme non costituirebbero una grandezza (e la certezza è tale), non è possibile che una parte di esse stia nei limiti dell’esperienza possibile ed un’altra fuori di ogni possibile esperienza. Quindi, poiché le prove puramente empiriche non conducono a niente di soprasensibile, e ciò che manca nella loro serie non può essere supplito da niente, col tentativo che si fa con esse per raggiungere il soprasensibile e una conoscenza del soprasensibile, non si arriva alla minima approssimazione, e per conseguenza non può esservi nemmeno verosimiglianza in un giudizio sul soprasensibile fondato sopra argomenti tratti dall’esperienza.

4) Di ciò che deve servire come ipotesi per spiegare la possibilità di un dato fenomeno bisogna che sia almeno interamente certa la possibilità. È sufficiente che circa un’ipotesi io rinunzii alla conoscenza della realtà (che è sempre affermata in un’opinione presentata come probabile): non posso sacrificare più di questo; la possibilità di ciò che metto a fondamento di una spiegazione dev’essere almeno sottratta ad ogni dubbio, perché altrimenti non vi sarebbe un termine per le vuote fantasie. Ma sarebbe una supposizione interamente infondata l’ammettere la possibilità di un essere soprasensibile determinato secondo certi concetti; poiché in tal caso non è data nessuna delle condizioni richieste da una conoscenza per ciò che in essa riposa sull’intuizione, e quindi non resta altro criterio della possibilità che il principio di contradizione (il quale può dimostrare solo la possibilità del pensiero, ma non quella dell’oggetto pensato stesso).

Il risultato di tutto ciò è, che per la ragione umana, relativamente all’esistenza di un essere originario in quanto Dio, e all’anima in quanto spirito immortale, non è possibile assolutamente alcuna prova dal punto di vista teoretico, sia pure per produrre il minimo grado di adesione; e ciò per la ragione evidentissima, che non abbiamo alcuna materia per la determinazione delle idee del soprasensibile, e dovremmo trarla dalle cose del mondo sensibile, in modo che poi non riuscirebbe adeguata all’oggetto che si vuole applicare; e che, per conseguenza, tolta ogni determinazione, non resta altro che il concetto di qualcosa di non sensibile, che contiene il fondamento ultimo del mondo sensibile, ma non costituisce alcuna conoscenza (in quanto estensione del concetto) della sua interna costituzione.

§ 91. Della qualità dell’adesione per mezzo di una fede pratica.

Quando noi guardiamo semplicemente al modo col quale qualche cosa può essere un oggetto di conoscenza (res cognoscibilis) per noi (secondo la natura soggettiva delle nostre facoltà rappresentative), i concetti non sono messi a riscontro degli oggetti, ma soltanto delle nostre facoltà conoscitive e dell’uso che queste possono fare della rappresentazione data (dal punto di vista teoretico o pratico); e la questione di sapere se qualcosa è o no un essere conoscibile, non concerne la possibilità della cosa stessa, ma la possibilità della nostra conoscenza di essa.

Ora le cose conoscibili sono di tre specie: cose d’opinione (opinabile), cose di fatto (scibile) e cose di fede (mere credibile).

1) Gli oggetti delle pure idee della ragione, i quali non possono essere esibiti alla conoscenza teoretica in qualche esperienza possibile, non sono, in quanto tali, neppure cose conoscibili, e quindi riguardo ad essi non può esservi un’ opinione; poiché l’opinare a priori è già in se stesso un assurdo ed apre la via a vere e proprie fantasime. La nostra proposizione a priori, quindi, o è certa, o non contiene nulla per l’adesione. Così le cose d’opinione sono sempre oggetti di una conoscenza d’esperienza almeno in se stessa possibile (oggetti del mondo sensibile), ma impossibile per noi solo relativamente al grado in cui possediamo questa facoltà. Per esempio, l’etere dei fisici moderni, fluido elastico che penetra tutte le altre materie (è loro intimamente mescolato), non è se non una cosa d’opinione, in modo però, che, se i sensi esterni fossero resi acuti in grado supremo, potrebbe essere percepito, sebbene nessuna osservazione od esperienza possa esibirlo. L’ammettere abitatori ragionevoli negli altri pianeti, è una cosa d’opinione; perché, se potessimo avvicinarci di più ad essi, il che è possibile in sé, decideremmo con l’esperienza se vi sono o no; ma non ci avvicineremo mai tanto, e così la cosa resta nell’opinione. Ma l’opinare che vi siano nell’universo materiale spiriti pensanti puri, senza corpo (se cioè, come è giusto, si rifiutano certe loro pretese apparizioni), questo si chiamerebbe fantasticare, e non sarebbe cosa d’opinione, ma una semplice idea, quella che resta quando da un essere pensante si astrae tutto ciò che è materiale e gli si lascia tuttavia il pensiero. Noi però allora non possiamo decidere se il pensiero sussiste (giacché il pensiero lo conosciamo solo nell’uomo, cioè congiunto con un corpo). Una tale cosa è un essere sofisticato (ens rationis ratiocinantis), non un essere razionale (ens rationis ratiocinatae); e del concetto di quest’ultimo è possibile dimostrare sufficientemente la realtà oggettiva, almeno rispetto all’uso pratico della ragione, perché quest’uso, che ha i suoi principii a priori particolari e apoditticamente certi, esige (postula) il concetto medesimo.

2) Gli oggetti dei concetti, di cui può esser provata la realtà oggettiva (sia mediante la ragione, sia mediante l’esperienza, e, nel primo caso, secondo dati teoretici o pratici, ma in ogni caso per mezzo di un’intuizione loro corrispondente), sono cose di fatto (res facti)*15. Tali sono le proprietà matematiche delle grandezze (nella geometria), perché sono suscettibili di una esibizione a priori per l’uso teoretico della ragione. Son tali anche le cose, o le qualità di esse, che possono essere provate mediante l’esperienza (la propria, o l’altrui mediante una testimonianza). — Ma ciò che è molto notevole è, che tra le cose di fatto si trovi anche un’idea della ragione (che in sé non è capace di alcuna esibizione nell’intuizione, e quindi di nessuna dimostrazione teoretica della sua possibilità); ed è questa l’idea della libertà, la cui realtà, come una specie particolare di causalità (il cui concetto sarebbe trascendente dal punto di vista teoretico), si può dimostrare mediante le leggi pratiche della ragion pura, e, conformemente a queste, nelle azioni reali, e quindi nell’esperienza. — Tra tutte le idee della ragion pura è l’unica di cui l’oggetto sia una cosa di fatto, e debba esser messa tra gli scibilia. 3) Gli oggetti che, relativamente all’uso conforme al dovere, della ragion pratica pura (sia come conseguenze, sia come principii), debbono essere pensati a priori, ma sono trascendenti per l’uso teoretico di questa facoltà, sono semplici cose di fede. Tale è il sommo bene da attuarsi nel mondo mediante la libertà; la realtà oggettiva del concetto del sommo bene non può esser dimostrata in nessuna esperienza per noi possibile, e quindi sufficientemente per l’uso teoretico della ragione; ma la ragion pratica pura ce ne comanda l’uso per la miglior realizzazione possibile di quello scopo, e quindi deve essere ammessa come possibile. Questo effetto comandato, ed insieme le sole condizioni della sua possibilità che possiamo pensare, cioè l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, sono cose di fede (res fidei), e, tra tutti gli oggetti, gli unici che si possano chiamar in tal modo*16. Perché, difatti, sebbene anche ciò che possiamo apprendere solo dall’esperienza altrui per mezzo di una testimonianza, deve essere creduto, non è perciò stesso una cosa di fede; per uno di quei testimoni quella cosa fu oggetto d’esperienza propria e cosa di fatto, o si suppone che sia stata tale. Inoltre, per questa via (della fede storica) dev’esser possibile raggiungere la scienza; e gli oggetti della storia possibile di sapere secondo la natura delle nostre facoltà conoscitive, non appartengono alle cose di fede, ma alle cose di fatto. Solo gli oggetti della ragion pura possono essere oggetti di fede, ma non in quanto oggetti semplicemente della ragione speculativa pura; perché allora è impossibile classificarli con sicurezza tra le cose, cioè tra gli oggetti di quella conoscenza possibile per noi. Sono idee, vale a dire concetti di cui non si può garantire teoreticamente la realtà oggettiva. Invece lo scopo finale supremo che dobbiamo realizzare, e che solo può renderci degni di essere noi stessi lo scopo finale d’una creazione, è un’idea che, dal punto di vista pratico, ha per noi una realtà oggettiva, ed è una cosa; ma, poiché non possiamo trovare per questo concetto la stessa realtà dal punto di vista teoretico, esso è una cosa di fede per la ragion teoretica, e son cose di fede con esso Dio e l’immortalità, come le condizioni sotto cui solo possiamo pensare, secondo la natura della nostra ragione (umana) la possibilità di quell’effetto dell’uso legittimo della nostra libertà. Ma l’adesione nelle cose di fede è un’adesione dal punto di vista puramente pratico, vale a dire una fede morale, la quale non prova qualcosa per la conoscenza della ragion pura teoretica, ma semplicemente per la ragion pura pratica in vista del compimento dei suoi doveri, e non estende punto la speculazione o le regole pratiche della prudenza secondo il principio dell’amore di sé10. Se il principio supremo di tutte le leggi morali è un postulato, si trova postulata perciò la possibilità del loro oggetto supremo, e quindi anche la condizione sotto cui possiamo pensare questa possibilità. Ora la conoscenza di quest’ultima non ci dà né sapere né opinione dell’esistenza e della natura di tali condizioni, in quanto conoscenza teoretica, ma è una semplice supposizione da un Punto di vista pratico ed obbligatorio per l’uso morale della nostra ragione.

Se anche potessimo fondare apparentemente sui fini della natura, che ci fornisce in tanta copia la teleologia fisica, un concetto determinato di una causa intelligente del mondo, l’esistenza di questo essere non sarebbe però una cosa di fede. Perché, non essendo ammesso a vantaggio del compimento del mio dovere, ma solo per spiegare la natura, sarebbe semplicemente l’opinione o l’ipotesi più adatta alla nostra ragione. Ora quella teleologia non conduce appunto ad un concetto determinato di Dio, che invece si trova soltanto in quello d’un creatore morale, perché solo questo dà lo scopo finale, al quale non possiamo ammettere di appartenere noi stessi, se non in quanto ci conduciamo conformemente a ciò che ci prescrive e quindi ci impone la legge morale come scopo finale. Per conseguenza, il concetto di Dio soltanto in virtù del rapporto con l’oggetto del nostro dovere, in quanto condizione della possibilità di raggiungere lo scopo finale del dovere stesso, ha il privilegio di valere nella nostra adesione come cosa di fede; mentre lo stesso concetto non può dare al suo oggetto il valore di una cosa di fatto: perché, sebbene la necessità del dovere sia ben chiara per la ragion pratica, tuttavia il conseguimento dello scopo finale di questo, in quanto non è interamente in nostro potere, è ammesso solo a vantaggio dell’uso pratico della ragione, e quindi non è praticamente necessario come il dovere stesso*17.

La fede (come habitus, non come actus) è il modo di pensare morale della ragione nell’adesione a ciò che è irraggiungibile dalla conoscenza teoretica. È dunque principio costante dell’animo di tener per vero ciò che è necessario supporre come condizione del supremo scopo finale morale, a ragione dell’obbligo stesso che ci lega a questo*18 , sebbene di quella condizione non si possa da noi vedere né la possibilità né l’impossibilità. La fede (semplicemente detta) è la fiducia che abbiamo nel raggiungimento d’uno scopo, cui tendere è dovere, ma di cui non possiamo scorgere la possibilità (e per conseguenza nemmeno la possibilità delle sole condizioni per noi pensabili). La fede, quindi, che si riferisce ad oggetti particolari, che non sono oggetti di possibile scienza od opinione (in quest’ultimo caso, specialmente nel campo della storia, dovrebbe chiamarsi credulità e non fede), è interamente morale. È una libera adesione, non a ciò di cui si trovano prove dommatiche pel Giudizio teoreticamente determinante, né a ciò cui ci teniamo obbligati, ma a ciò che ammettiamo a vantaggio d’uno scopo che è secondo le leggi della libertà; e che ammettiamo non come un’opinione, senza ragione sufficiente, ma come fondato nella ragione (sebbene soltanto circa il suo uso pratico ) in modo sufficiente per lo scopo di questa facoltà; perché senza ciò il pensiero morale, mancando di rispondere alle esigenze della ragion teoretica che vuol le prove (della possibilità degli oggetti della moralità), non ha niente di fisso e di costante ed oscilla tra gli imperativi pratici e i dubbii teoretici. Essere incredulo significa attenersi alla massima di non credere in generale alle testimonianze; non ha fede, invece, colui che nega ogni valore a quelle idee della ragione, perché manca loro la realtà teoreticamente fondata. Egli così giudica dommaticamente. Ma un’assenza dommatica di fede non può coesistere con un modo di pensare dominato dalle massime morali (perché la ragione non può comandare di tendere ad uno scopo, che è riconosciuto come vano e chimerico); può coesistere invece una fede dubbia, cui è solo di ostacolo la mancanza della convinzione per via di principii della ragione speculativa, ma alla quale una conoscenza critica dei limiti di quest’ultima può togliere ogni influsso sulla condotta, e compensarla con un’adesione pratica preponderante.

Quando nella filosofia al posto di certi tentativi falliti si vuol addurre un altro principio e dargli influenza, perché si abbia la più grande soddisfazione basta vedere come e perché quelli dovevano fallire.

Dio, la libertà e l’immortalità dell’anima sono quei problemi alla cui soluzione tendono, come al loro ultimo ed unico scopo, tutti gli apparecchi della metafisica. Ora si credeva che la dottrina della libertà fosse necessaria alla filosofia pratica soltanto come condizione negativa, e che invece quella di Dio e della natura dell’anima, come appartenenti alla filosofia teoretica, dovessero essere dimostrate per sé e separatamente, per essere poi riunite con ciò che esige la legge morale (che è possibile solamente sotto la condizione della libertà), e produrre così una religione. Ma si può veder presto che questi tentativi dovevano fallire. Perché da semplici concetti ontologici di cose in generale, o dell’esistenza di un essere necessario, non si può derivare assolutamente un concetto di un essere originario determinato mediante predicati che possano trovarsi nell’esperienza e servire così alla conoscenza della finalità fisica; ma, a sua volta, il concetto fondato sull’esperienza della finalità fisica della natura non poteva dare alcuna prova sufficiente per la morale, e quindi per la conoscenza di Dio. Proprio allo stesso modo la conoscenza che abbiamo dell’anima mediante l’esperienza (che non va al di là di questa vita), non poteva dare un concetto della sua natura spirituale ed immortale, e perciò sufficiente per la morale. La teologia e la pneumatologia, come indagini a servigio delle scienze di una ragione speculativa, non possono risultare da dati e predicati empirici, perché il loro concetto è trascendente per ogni nostra facoltà conoscitiva. — La determinazione di questi due concetti, così di Dio come dell’anima (circa la sua immortalità), non può avvenire se non mediante predicati, i quali, sebbene siano possibili solo per un principio soprasensibile, debbono tuttavia dimostrare la loro realtà nell’esperienza; perché solo così essi possono render possibile la conoscenza di esseri interamente soprasensibili. — Ora l’unico concetto di questa specie che sia nella ragione umana è il concetto della libertà dell’uomo sottoposto alle leggi morali, insieme con lo scopo finale, che la ragione gli prescrive mediante le leggi stesse; le leggi morali possono farci attribuire al creatore della natura, e lo scopo finale all’uomo, quelle proprietà che contengono la condizione necessaria della possibilità di entrambi, in modo che da questa idea si può inferire resistenza e la natura di questi due esseri, altrimenti nascosti interamente per noi.

Sicché la ragione per cui sono falliti i tentativi per provare in via semplicemente teoretica Dio e l’immortalità, sta nel fatto ebe per tale via (dei concetti della natura) non è possibile alcuna conoscenza del soprasensibile. Se invece essi riescono per la via morale (del concetto della libertà), la ragione è questa: qui il soprasensibile che fa da fondamento (la libertà) non fornisce soltanto, per mezzo di una legge determinata della causalità che deriva da esso, la materia per la conoscenza dell’altro soprasensibile (dello scopo finale morale e delle condizioni della sua attuabilità), ma, in quanto cosa di fatto, dimostra anche la sua realtà nelle azioni, sebbene appunto perciò non possa fornire se non una prova valida solo dal punto di vista pratico (che è anche l’unico di cui abbia bisogno la religione).

Resta sempre molto notevole questo, che fra le tre idee pure della ragione, Dio, la libertà e l’immortalità, quello della libertà è l’unico concetto del soprasensibile che dimostri la sua realtà oggettiva nella natura (per mezzo della causalità che vi è pensata) mediante gli effetti che può avere in essa, e appunto perciò renda possibile il legame delle altre due con la natura e di tutte e tre in una religione; che quindi abbiamo in noi un principio capace di determinare l’idea del soprasensibile in noi, e perciò anche quella del soprasensibile fuori di noi, in modo da darne un conoscenza, sebbene possibile solo dal punto di vista pratico, e di cui doveva dubitare la filosofia puramente speculativa (che anche della libertà non poteva dare se non un concetto puramente negativo): per conseguenza, il concetto della libertà (in quanto concetto fondamentale di ogni legge incondizionatamente pratica) può estendere la ragione al di là di quei limiti nei quali ogni concetto (teoretico) della natura dovrebbe restare rinchiuso senza speranza.

NOTA GENERALE ALLA TELEOLOGIA

Se si domanda quale posto spetti tra gli altri, nella filosofia, all’argomento morale, il quale dimostra resistenza di Dio soltanto come cosa di fede per la ragion pura pratica, si può misurare facilmente tutto il possesso della filosofia: donde risulta, che qui non v’è da scegliere, ma la portata teoretica della filosofia stessa, davanti ad una critica imparziale, deve abbandonare da sé le proprie pretese.

Essa deve fondare ogni adesione in primo luogo sopra cose di fatto, se non vuol essere interamente destituita di fondamento; e quindi l’unica differenza che può esservi nella prova è se su queste cose di fatto possa essere fondata un’adesione alla conseguenza che ne deriva, o in quanto scienza, per la conoscenza teoretica, o semplicemente in quanto fede per la conoscenza pratica. Tutte le cose di fatto appartengono o al concetto della natura, che prova la sua realtà negli oggetti dei sensi dati (o che possono esser dati) avanti a tutti i concetti della natura; oppure al concetto della libertà, che dimostra sufficientemente la sua realtà mediante la causalità della ragione, relativamente a certi effetti che questa può produrre nel mondo sensibile e che essa postula in modo inoppugnabile nella legge morale. Ora il concetto della natura (che appartiene semplicemente alla conoscenza teoretica) o è metafisico, e interamente a priori; o è fisico, vale a dire a posteriori, e non può esser pensato se non necessariamente mediante un’esperienza determinata. Il concetto metafisico della natura (che non suppone alcun’esperienza determinata) è, dunque, ontologico.

La prova ontologica dell’esistenza di Dio mediante il concetto di un essere originario o è quella che da predicati ontologici, che soli fanno pensare questo essere come completamente determinato, conclude all’esistenza assolutamente necessaria, o è quella che conclude ai predicati dell’essere originario dall’assoluta necessità dell’esistenza di qualche cosa, qualunque essa sia: perché, difatti, al concetto di un essere originario appartiene (affinché non sia derivato) la necessità incondizionata della sua esistenza, e (affinché questa ce la possiamo rappresentare) la determinazione completa dell’essere stesso per mezzo del suo concetto. Entrambe le condizioni si credette di trovarle nel concetto dell’idea ontologica di un essere reale in grado supremo: e così sorsero due prove metafìsiche.

La prova fondata su di un concetto della natura puramente metafìsico (la prova ontologica propriamente detta) conclude dal concetto dell’essere reale in grado supremo alla sua esistenza assolutamente necessaria; perché (si dice) se esso non esistesse, gli mancherebbe una realtà, cioè l’esistenza. — L’altra (che è detta pure prova metafisico-cosmologica) conclude dalla necessità dell’esistenza di qualche cosa (il che si deve ammettere, poiché nella coscienza di noi stessi ci è data una esistenza) alla determinazione completa di quell’essere, in quanto reale in grado supremo: perché tutto ciò che esiste dev’essere completamente determinato, ma ciò che è assolutamente necessario (vale a dire ciò che dobbiamo riconoscere come tale, e quindi a priori) deve essere determinato completamente mediante il proprio concetto: il che si può trovare soltanto nel concetto di una cosa reale in grado supremo. Qui non è necessario scoprire il carattere sofistico delle due conclusioni, cosa che abbiamo fatto altrove; ma è necessario soltanto notare che, se tali prove si possono difendere con ogni sorta di sottigliezze dialettiche, esse non potrebbero mai passare dalla scuola al pubblico, e avere il minimo influsso sul semplice senso comune.

La prova, che riposa su di un concetto della natura il quale non può essere se non empirico, ma che intanto deve condurre al di là dei limiti della natura in quanto insieme degli oggetti sensibili, non può essere altra che quella dei fini della natura: il concetto di tali fini non può esser dato a priori, ma solo per via dell’esperienza, e tuttavia promette un concetto della causa prima della natura tale che esso solo, fra tutti quelli che possiamo pensare, conviene al soprasensibile, cioè il concetto di una intelligenza suprema come causa del mondo; e mantiene effettivamente la promessa, secondo i principii del Giudizio riflettente, cioè secondo la costituzione della nostra (umana) facoltà di conoscere. — Ma, se questa prova abbia facoltà di ricavare dagli stessi dati questo concetto di un essere supremo, cioè indipendente e intelligente, anche come Dio, vale a dire come creatore di un mondo sottoposto a leggi morali, e quindi sufficientemente determinato per l’idea di uno scopo finale dell’esistenza del mondo: è questa una questione cui si riduce tutto, sia che desideriamo un concetto dell’essere originario teoreticamente sufficiente circa l’uso di tutta la conoscenza della natura, sia che ne vogliamo un concetto pratico per la religione.

Quest’argomento dedotto dalla teleologia fisica è degno di rispetto. Nel riguardo della convinzione, esso produce lo stesso effetto sull’intelligenza ordinaria e sul pensatore più sottile; e Reimarus, nella sua opera non anche superata, ha acquistato un merito immortale dove espone largamente questa prova con la solidità e la chiarezza che gli son proprie. — Ma donde quest’argomento trae un influsso così potente sull’animo, specialmente quando si giudica mediante la fredda ragione (giacché si potrebbe considerare l’emozione e l’elevazione in forza delle meraviglie della natura come appartenenti piuttosto alla persuasione che non alla convinzione), e su di un consenso calmo e fondato interamente sulla ragione stessa? Non dai fini fisici, che rinviano tutti ad un’intelligenza impenetrabile nella causa del mondo; essi sono insufficienti a ciò, perché non soddisfano l’esigenza della ragione e non rispondono ai suoi interrogativi. Difatti (domanda questa), a che scopo tutte queste cose naturali fatte con arte; a che scopo l’uomo stesso, al quale ci dobbiamo arrestare come allo scopo ultimo della natura per noi pensabile; perché tutta la natura, e qual è lo scopo finale di un’arte così grande e così varia? La ragione non può contentarsi di sentire che tutto ciò è fatto pel godimento, o per essere intuito, osservato ed ammirato (l’ammirazione, quando vi s’indugi, non è altro che una specie particolare di godimento), e che è questo lo scopo finale per cui esiste il mondo e l’uomo stesso perché la ragione suppone un valore personale che solo l’uomo può darsi, come condizione sotto cui soltanto l’uomo stesso e la sua esistenza può essere uno scopo finale. Mancando tale valore (che solo è capace di un concetto definito), i fini della natura non bastano all’esigenza della ragione, specialmente perché non possono fornire un concetto determinato dell’essere supremo in quanto essere sufficiente a tutto (e appunto perciò unico, e che meriti d’esser chiamato supremo), e delle leggi secondo cui un’intelligenza è causa del mondo.

Se dunque la prova fisico-teleologica convince come se fosse nel tempo stesso una prova teologica, non è per il fatto che le idee dei fini naturali facciano l’ufficio di tante prove empiriche di un’intelligenza suprema, ma perché la prova morale, che è in ogni uomo e lo muove così intimamente, si mescola inavvertitamente alla conclusione con la quale egli attribuisce uno scopo finale, e quindi la saggezza, a quell’essere che si manifesta con un’arte così impenetrabile nei fini della natura (sebbene a ciò non sia autorizzato dalla percezione di essi), e così riempie arbitrariamente le lacune, che ancora restano in quella prova. Effettivamente solo la prova morale produce la convinzione, e soltanto dal punto di vista morale, al quale ognuno intimamente aderisce; la prova fisicoteleologica non ha che il merito d’indirizzare l’animo, nella contemplazione del mondo, sulla via dei fini, e perciò verso un creatore intelligente del mondo; perché allora il rapporto morale ai fini e l’idea di un tale legislatore e creatore del mondo, in quanto concetto teologico12 , pur essendo una pura addizione, sembrano sorgere spontaneamente da quella prova.

Nel discorso ordinario si può anche non chiedere altro. Perché all’intelletto comune e sano riesce d’ordinario difficile, quando la separazione richiede molta riflessione, distinguere come eterogenei i diversi principii che esso confonde, e di cui segue in realtà legittima-mente uno solo. Ma la prova morale dell’esistenza di Dio non è già che completi semplicemente la prova fisicoteleologica per renderla perfetta; è essa stessa una prova particolare, che supplisce al difetto di convinzione che è nell’altra: giacché questa in realtà non può far altro che volgere la ragione, nel suo giudizio sul fondamento della natura, e sull’ordine contingente, ma ammirevole, della natura stessa, che solo per via dell’esperienza possiamo conoscere, alla causalità di una causa che contiene il principio della natura secondo fini (una causa che noi, secondo la costituzione della nostra facoltà di conoscere, dobbiamo concepire come intelligente), e, richiamandovi l’attenzione, renderla più suscettiva della prova morale. Difatti, ciò che è richiesto da quest’ultima prova13 è così essenzialmente diverso da tutto ciò che contengono e possono insegnare i concetti della natura, che son necessarii un argomento e una dimostrazione particolari, indipendenti del tutto dai precedenti, per dare ad una teologia un concetto sufficiente dell’essere originario, e concludere alla sua esistenza. — La prova morale (che dimostra, è vero, l’esistenza di Dio solo dal punto di vista pratico della ragione, ma in maniera imprescindibile) conserverebbe perciò sempre la sua forza, anche se nel mondo non trovassimo affatto, o trovassimo m modo dubbio la materia per la teleologia fisica. Si può pensare che gli esseri ragionevoli si vedano circondati da una natura che non offre alcuna traccia evidente di organizzazione, ma soltanto gli effetti di un semplice meccanismo della materia bruta, e che perciò, e per la mutevolezza di alcune forme e rapporti finali solo contingenti, pare che non dia alcuna ragione per concludere ad un creatore intelligente; nella quale per conseguenza non vi sarebbe alcuno spunto per la teleologia fisica: e nondimeno la ragione, che in tal caso non riceve alcun indirizzo da concetti della natura, troverebbe nel concetto della libertà e, nelle idee morali che vi si fondano, un principio praticamente sufficiente, per postulare il concetto dell’essere originario conformemente a tali idee, vale a dire come una divinità, e la natura (anche la nostra propria esistenza) come uno scopo finale e conforme a tale essere e alle sue leggi; e precisamente per postularlo in rapporto all’imprescindibile comando della ragion pratica. — Ma il fatto che nel mondo reale v’è per gli esseri ragionevoli una ricca materia per la teleologia fisica (il che non sarebbe punto necessario), serve alla desiderata conferma dell’argomento morale, per quanto la natura può presentare qualcosa di analogo alle idee (morali) della ragione. Difatti, il concetto di una causa suprema che sia intelligente (la qual cosa è ben lungi però dal bastare ad una teologia), riceve in tal modo una realtà sufficiente pel Giudizio riflettente; ma non è necessario per fondare la prova morale: né questa serve a completare, fino a farne una prova, quel concetto stesso, che per sé solo non rinvia alla moralità, sviluppandolo con continuato ragionamento secondo un unico principio. Due principii così eterogenei come la natura e la libertà non possono dare se non due specie diverse di prove, per cui il tentativo di derivare il secondo dal primo risulta insufficiente per ciò che deve essere provato.

Sarebbe molto soddisfacente per la ragione speculativa se l’argomento fisico-teleologico bastasse alla prova cercata; perché si avrebbe la speranza di fondare una teosofia (si dovrebbe chiamar così la conoscenza teoretica della natura divina e della sua esistenza, sufficiente a spiegare la costituzione del mondo, e nel tempo stesso a determinare le leggi morali). Allo stesso modo, se la psicologia fosse sufficiente a raggiungere la conoscenza dell’immortalità dell’anima, renderebbe possibile una pneu-matologia, che sarebbe egualmente gradita alla ragione speculativa. Ma entrambe, per quanto anche ciò possa esser grato alla presunzione del nostro desiderio di sapere, non sodisfano il desiderio che ha la ragione di una teoria, che dovrebbe esser fondata sulla conoscenza della natura delle cose. È poi un’altra questione, che qui non è necessario esaminare oltre, se cioè la prima, in quanto teologia, e la seconda in quanto antropologia, risponderebbero meglio al loro ultimo scopo oggettivo, se si fondassero sul principio morale, cioè della libertà, e procedessero quindi conformemente all’uso pratico della ragione.

Ma la prova fisico-teleologica non basta alla teologia perché non dà, né può dare, a tal uopo un concetto sufficientemente determinato dell’essere originario, e questo dev’essere derivato da tutt’altra parte; oppure alle deficienze di tale prova bisogna supplire con un’addizione arbitraria. Voi, dalla grande finalità delle forme naturali e delle loro relazioni concludete ad una causa intelligente del mondo; ma qual grado avrà questa intelligenza? Senza dubbio, non potete lusingarvi di arrivare alla suprema intelligenza possibile; perché ciò richiederebbe che voi riteneste impensabile una intelligenza più grande di quella di cui percepite le prove del mondo: il che significherebbe attribuire a voi stessi l’onniscienza. Allo stesso modo voi concludete dalla grandezza del mondo ad una potenza molto grande del suo creatore; ma dovrete convenire che ciò ha un senso relativamente alla vostra facoltà di comprendere, e, poiché non conoscete tutto il possibile per confrontarlo con la grandezza del mondo quale la conoscete, non potete desumere da una misura così piccola l’onnipotenza del creatore; e così di seguito. Perciò in tal modo non raggiungete un concetto determinato, e sufficiente per la teologia, d’un essere originario; giacché questo concetto si può trovare soltanto in quello della totalità delle perfezioni compatibili con un’intelligenza, e a questo riguardo i dati puramente empirici non vi possono aiutare affatto; e senza un concetto così determinato non potete nemmeno concludere ad una causa intelligente unica, ma ammetterla solamente (per qualunque uso si voglia). — Certo vi si può ben concedere (poiché la ragione non ha niente di fondato in contrario) di aggiungere arbitrariamente che, quando si trova tanta perfezione, si possano ammettere tutte le perfezioni riunite in una causa unica del mondo; perché la ragione, teoreticamente e praticamente, viene meglio a capo del suo compito con un principio così determinato. Ma non potete tuttavia far valere questo concetto dell’essere primo come dimostrato da voi, perché Io avete ammesso solo a vantaggio di un migliore uso della ragione. Sicché ogni lamento ed ogni collera impotente contro la pretesa temerità di mettere in dubbio il rigore dei vostri ragionamenti, è una vana iattanza, che potrebbe far credere che si riguarda come un dubbio sulla santa verità quello che si esprime liberamente contro il vostro argomento, soltanto per dissimulare l’impotenza di questo.

La teleologia morale invece, che non è fondata meno solidamente della teleologia fisica, e gode anzi il privilegio di riposare a priori su principii inseparabili dalla nostra ragione, conduce a ciò che è richiesto dalla possibilità di una teologia, cioè ad un concetto determinato della causa suprema, come causa del mondo secondo leggi morali, e quindi tale che basta al nostro scopo finale morale: a che si richiedono non meno che l’onniscienza, l’onnipotenza, l’onnipresenza, etc., come attributi inerenti alla sua natura, i quali debbono essere pensati come congiunti con lo scopo finale morale, che è infinito, e quindi adeguati ad esso; e così da sola la teleologia morale può fornire il concetto di un unico creatore del mondo, che è adatto per una teologia.

In tal modo una teologia conduce anche immediatamente alla religione, vale a dire alla conoscenza dei nostri doveri in quanto ordini divini; perché la conoscenza del nostro dovere, e dello scopo finale che con questo la ragione ci assegna, poté in principio produrre determinatamente il concetto di Dio, che così già alla sua origine è inseparabile dall’obbligazione verso questo essere; mentre invece, se anche il concetto dell’essere primo potesse essere trovato determinatamente per via puramente teoretica (vale a dire come semplice causa della natura), dopo sarebbe molto difficile, e forse addirittura impossibile, attribuirgli con una prova fondata una causalità secondo leggi morali, senza esser costretti a farvi qualche aggiunta arbitraria; e tuttavia, senza quella causalità, quel preteso concetto teologico non può costituire un fondamento per la religione. Anche se una religione potesse essere fondata con questo metodo teoretico, per ciò che riguarda il sentimento (che costituisce il suo elemento essenziale) essa sarebbe veramente diversa da quella in cui il concetto di Dio e la convinzione (pratica) della sua esistenza derivano da idee (ondamentali della moralità. Perché, difatti, se dovessimo supporre l’onnipotenza, l’onniscienza, etc., di un creatore, come concetti datici in qualche altro modo, per applicar poi semplicemente i nostri concetti dei doveri al nostro rapporto con lui, questi concetti stessi presenterebbero molto fortemente l’aspetto della costrizione e della sottomissione forzata; mentre se la legge morale, con la stima che ci ispira e conformemente al precetto della nostra propria ragione, ci rappresenta lo scopo finale della nostra destinazione, noi ammettiamo tra le nostre vedute morali una causa che si accorda con questo scopo e con la sua attuabilità, e ci sottomettiamo volontariamente ad essa con quella venerazione, che è del tutto diversa dal timore patologico*19.

Se si domanda perché c’importi di avere una teologia in generale, si vede chiaramente che essa non è necessaria saria all’estensione o alla rettificazione della nostra conoscenza della natura, e in generale a qualche teoria, ma unicamente alla religione, vale a dire all’uso pratico, cioè morale della ragione, dal punto di vista soggettivo. Ora, quando si trova che l’unico argomento che conduce ad un concetto determinato della teologia, è l’argomento morale, non bisogna meravigliarsene non solo, ma non si chiederà altro circa la sufficienza dell’adesione che produce questa prova rispetto allo scopo della teologia, quando si ammetta che tale argomento dimostra sufficientemente l’esistenza di Dio soltanto per la nostra destinazione morale, cioè dal punto di vista pratico, e la speculazione non entra punto in esso, né allarga i confini del suo dominio. Anche la meraviglia, o la pretesa contradizione tra la possibilità qui affermata di una teologia, e ciò che diceva delle categorie la critica della ragione speculativa, che cioè queste possono produrre una conoscenza soltanto quando siano applicate agli oggetti dei sensi, ma non quando sono applicate al soprasensibile, spariscono, se si considera che qui le categorie sono usate per una conoscenza di Dio, ma non dal punto di vista teoretico (per sapere che cosa è in se stessa la sua natura per noi impenetrabile), ma unicamente dal punto di vista pratico. — A questo proposito, per metter fine alla falsa interpretazione di quella dottrina della critica che è così necessaria, e che, anche a dispetto dei dommatici ciechi, riconduce la ragione nei suoi limiti, aggiungerò il seguente chiarimento.

Quando io attribuisco ad un corpo la forza motrice, e quindi lo penso mediante la categoria della causalità, perciò stesso lo conosco, vale a dire determino il suo concetto, in quanto oggetto in generale, con ciò che gli conviene per sé (come condizione della possibilità di quella relazione), in quanto oggetto dei sensi. Poiché, difatti, la forza motrice che gli attribuisco è una forza di repulsione, a questo corpo bisogna un luogo nello spazio (se anche non gli pongo accanto un altro corpo su cui esercitarla), ed anche un’estensione, cioè uno spazio in lui stesso, e riempito dalla forza revulsiva delle parti; inoltre gli serve la legge con la quale deve riempirlo (che cioè la forza repulsiva delle parti deve decrescere nella stessa proporzione in cui cresce l’estensione del corpo e lo spazio che esso riempie con le parti stesse mediante questa forza). — Invece, quando penso un essere soprasensibile come primo motore, e quindi mediante la categoria della causalità rispetto alla stessa determinazione del mondo (il movimento della materia), non debbo pensarlo in qualche luogo dello spazio, e tanto meno come esteso, e neppure posso pensarlo come esistente nel tempo e coesistente con altri esseri. Sicché non ho alcuna delle determinazioni che potrebbero farmi intendere la condizione della possibilità del movimento per mezzo di questo essere come causa. Per conseguenza, col predicato della causa (come primo motore) non lo conosco menomamente in se stesso; ma ho soltanto la rappresentazione di qualche cosa, che contiene il principio dei movimenti del mondo; e la relazione di questi movimenti a quell’essere, come alla loro causa, poiché non mi fornisce altrimenti niente che appartenga alla natura della cosa che è causa, lascia il concetto di questa interamente vuoto. E la ragione sta in questo, che, coi predicati che trovano il loro oggetto soltanto nel mondo sensibile, io posso arrivare all’esistenza di qualche cosa che deve contenere il fondamento di questo mondo, ma non alla determinazione del suo concetto in quanto essere soprasensibile, al quale ripugnano tutti quei predicati. Sicché con la categoria della causalità, quando la determino mediante il concetto d’un primo motore, non conosco menomamente che cosa è Dio; ma forse mi riuscirà meglio se prendo occasione dall’ordine del mondo non soltanto per pensare la sua causalità come quella d’una intelligenza suprema, ma per conoscerlo anche mediante questa determinazione del concetto in questione: perché allora cade la pesante condizione dello spazio e dell’estensione. — Certamente la grande connessione di fini che troviamo nel mondo ci obbliga a pensare una causa suprema di esso, e la sua causalità come quella d’una intelligenza; ma non perciò siamo autorizzati ad attribuirle tale intelligenza (come, per esempio, a pensare l’esistenza di Dio in ogni tempo, perché altrimenti non potremmo farci alcun concetto della semplice esistenza in quando grandezza, vale a dire in quanto durata; oppure a pensare l’onnipresenza divina come esistenza in tutti i luoghi, per concepire la presenza immediata per cose che sono esterne l’una all’altra, senza tuttavia poter attribuire una di queste determinazioni a Dio, come qualcosa che di lui ci sia conosciuta). Quando io determino la causalità dell’uomo, relativamente a certi prodotti che si possono spiegare solo con una finalità intenzionale, pensandola come la sua intelligenza, non ho bisogno di arrestarmi a questo punto, ma gli posso attribuire questo predicato come una sua proprietà ben conosciuta, e quindi conoscerlo. Perché io so che all’uomo sono date le intuizioni dei sensi, e queste sono sottoposte dal suo intelletto ad un concetto, e perciò ad una regola; che questo concetto contiene solo il carattere comune (tralasciando il particolare), ed è quindi discorsivo; che le regole, per sottoporre ad una coscienza in generale le rappresentazioni date, sono date da quell’intelletto prima delle intuizioni; e via discorrendo. Sicché io attribuisco all’uomo questa facoltà come tale che per suo mezzo lo conosco. Ma se ora voglio pensare un essere soprasensibile (Dio) come intelligenza, ciò non soltanto mi è permesso, da un certo punto di vista dell’uso della mia ragione, ma è anche inevitabile; quello che non mi è permesso è attribuirgli l’intelligenza e il lusingarmi di poterlp perciò conoscere mediante questa sua proprietà; perché allora debbo abbandonare tutte quelle condizioni sotto le quali soltanto conosco un intelletto, e quindi quel predicato, che serve solo alla determinazione dell’uomo, non può essere punto riferito ad un essere soprasensibile, e non si può conoscere, per mezzo di una causalità così determinata, che cosa è Dio. Ed è lo stesso di tutte le categorie, che non possono avere alcun significato per la conoscenza, dal punto di vista teoretico, se non sono applicate ad oggetti di una possibile esperienza. — Ma, per analogia con un intelletto, posso, anzi debbo pensare, sotto un altro punto di vista, un essere soprasensibile, senza pretendere tuttavia di conoscerlo perciò teoreticamente; quando cioè questa determinazione della sua causalità concerne un effetto nel mondo, il quale contenga uno scopo moralmente necessario, ma irraggiungibile dagli esseri sensibili; perché allora è possibile una conoscenza di Dio e della sua esistenza (una teologia), mediante proprietà e determinazioni della sua causalità pensate in lui soltanto per analogia; una conoscenza che, nel rapporto pratico, ma soltanto da questo punto di vista (morale), ha tutta la realtà necessaria. — È dunque ben possibile un’etico-teologia; giacché la regola della morale può bensì sussistere, ma non può sussistere lo scopo finale che viene imposto da quella regola, senza la teologia; salvo che non si rinunzii ad ogni applicazione della ragione in questo campo. Ma un’etica teologica (della ragion pura) è impossibile; perché le leggi che non sono date originariamente dalla ragione, e di cui essa non effettua l’esecuzione in quanto facoltà pratica pura, non possono essere morali. Allo stesso modo una fisica teologica sarebbe un assurdo, perché non esporrebbe leggi naturali, ma gli ordinamenti di una volontà suprema; mentre una teologia fìsica (propriamente fisico-teleologica) può almeno servir di propedeutica ad una vera teologia, dando luogo, con la considerazione dei fini della natura di cui offre una ricca materia, all’idea di uno scopo finale, che la natura non può stabilire; e quindi può far sentire il bisogno di una teologia, che determini sufficientemente il concetto di Dio per l’uso pratico supremo della ragione, sebbene non possa produrla e fondarla in modo sufficiente sulle sue prove.


Note di Kant

*1. Poiché nella matematica pura non si tratta dell’esistenza, ma soltanto della possibilità delle cose, cioè di un’intuizione corrispondente al loro concetto, e quindi non si può parlare di causa ed effetto, tutta la finalità che vi si osserva dev’essere considerata soltanto come formale, e non mai come uno scopo della natura.

*2. Si può invece dar lume, mediante un’analogia coi fini suddetti della natura, ad una certa connessione, che però si trova più nell’idea che nella realtà. Così, trattandosi dell’impresa di una totale trasformazione di un grande popolo in uno stato, si è adoperata spesso e molto opportunamente la parola organizzazione per designare l’assettamento delle magistrature, ere., e perfino di tutto il corpo dello stato. Perché in un tutto come questo ogni membro dev’essere non soltanto mezzo, ma anche scopo; e, mentre concorre alla possibilità del tutto, è determinato a sua volta dall’idea del tutto, relativamente al suo posto e alla sua funzione.

*3. Nella parte estetica si disse che noi guardiamo con favore alla bella natura, provando per la sua forma un piacere interamente libero (disinteressato). Perché, difatti, in questo semplice giudizio di gusto non si considera per quale scopo esistano queste bellezze naturali: se per eccitare in noi un piacere, o senza nessun rapporto a noi come scopo. Ma in un giudizio teleologico badiamo anche a questa relazione; e allora possiamo considerare come un favore della natura che essa abbia voluto giovare alla nostra cultura con l’esposizione di tante belle figure.

*4. La parola tedesca vermessen (temerario) è una parola bella e piena di senso. Un giudizio in cui si dimentichi di calcolare la Portata delle nostre forze (dell’intelletto), può apparire qualche volta molto umile, e tuttavia aver grandi pretese ed esser molto temerario. Di questa specie sono la maggior parte dei giudizii con cui si pretende d’innalzare la saggezza divina, attribuendole, nelle opere della creazione e nella conservazione di queste opere, intenzioni che veramente possono fare onore solo alla saggezza di colui che almanacca in questo modo.

*5. Da questo si vede che nella maggior parte delle cose speculative della ragion pura, in quanto ad affermazioni dommatiche, le scuole filosofiche d’ordinario hanno cercato per ogni quistione tutte le soluzioni possibili. Così per spiegare la finalità della natura si è ricorso ora ad una materia inanimata, ora ad un Dio inanimato, ora ad una materia vivente, ora ad un Dio vivente. A noi non resta, se è necessario, altro che abbandonare tutte queste affermazioni oggettive, ed esaminare criticamente il nostro giudizio solo in rapporto con le nostre facoltà conoscitive, per dare al principio di queste, se non un valore dom-matico, almeno il valore di una massima sufficiente ad un uso sicuro della ragione.

*6. Un’ipotesi di questa specie si può chiamare un’ardita avventura della ragione: e a pochi naturalisti, anche dei più penetranti, non sarà passata per capo qualche volta. Perché essa non è propriamente assurda come quella generatio aequivoca, con la quale la produzione d’un essere organizzato si spiega con la meccanica della materia bruta inorganica. Sarebbe sempre una generatio univoca, nel senso più ampio della parola, in quanto ammette che qualcosa di organico può esser solo prodotto da un’altra cosa organica, sebbene il prodotto sia specificamente diverso; che, per esempio, certi animali acquatici si trasformano a poco a poco in animali palustri, e questi, dopo alcune generazioni, in animali terrestri. A priori, nel giudizio della pura ragione, in ciò non v’è niente di contradittorio. Ma l’esperienza non ne dà alcun esempio; e invece la produzione che noi conosciamo è generatio homonyma, non semplicemente univoca, in opposizione alla produzione dalla materia inorganica; non solo, ma essa dà anche un prodotto della stessa specie del produttore anche nell’organizzazione e, per quanto si estenda la nostra conoscenza sperimentale della natura, non si trova mai la generatio heteronyma.

*7. Se la denominazione accettata di storia naturale deve restare a designare la descrizione della natura, si può chiamare archeologia della natura, in opposizione con quella dell’arte, ciò che mostra la storia naturale, presa alla lettera, vale a dire una rappresentazione dell’antico stato della terra, fondato sopra congetture, le quali a ragione si possono avanzare, sebbene non si abbia alcuna speranza di certezza. All’archeologia della natura apparterrebbero le pietrificazioni, come a quella dell’arte appartengono le pietre intagliate, etc. Perché, siccome in realtà si lavora costantemente a costruire questa scienza (sotto il nome di teoria della terra), sebbene il lavoro, com’è giusto, sia lungo, non si darebbe tal nome ad un’investigazione della natura puramente immaginaria, ma si dà ad uno studio cui la natura stessa c’invita e ci esorta.

*8. Quale valore abbia la vita per noi è facile vederlo quando si assume come misura ciò che si gode (il fine naturale dell’insieme di tutte le nostre inclinazioni, la felicità). Esso è al disotto di niente; perché chi vorrebbe ricominciar da capo la sua vita sotto le stesse condizioni, o anche secondo un nuovo piano disegnato da lui stesso (conforme però al corso della natura), che non avesse altro scopo che il godimento? Abbiamo mostrato precedentemente quale valore abbia la vita per ciò che essa contiene quando sia condotta conformemente allo scopo che la natura ripone in noi, e che consiste in ciò che si fa (non in ciò che si gode semplicemente), e in cui non siamo se non mezzi per uno scopo finale indeterminato. Non resta dunque altro che il valore che diamo noi stessi alla nostra vita mediante ciò che facciamo non solo, ma che facciamo in vista d’un fine così indipendentemente dalla natura, che anche l’esistenza della natura non può essere un fine che sotto questa condizione.

*9. Sarebbe possibile che la felicità degli esseri ragionevoli nel mondo fosse un fine della natura, e allora sarebbe anche il suo scopo ultimo. Per lo meno non si può vedere a priori perché la natura non dovrebbe essere indirizzata a questo fine, se questo è possibile mediante il suo meccanismo, almeno per quanto noi ne sappiamo. Ma la moralità, ed una causalità secondo fini ad essa subordinata, è assolutamente impossibile per via di cause naturali; perché il principio della sua determinazione ad agire è soprasensibile, ed è quindi nell’ordine dei fini l’unico, che sia assolutamente incondizionato relativamente alla natura, e che dia perciò al suo soggetto la qualità di scopo finale della creazione, cui l’intera natura sia subordinata. — La felicità invece, come con la testimonianza dell’esperienza è stato dimostrato nel paragrafo precedente, non è punto un fine della natura relativamente all’uomo, a preferenza delle altre creature: ben lungi dall’essere uno scopo finale della creazione. Gli uomini possono sempre farsi di essa il loro scopo ultimo soggettivo. Ma quando, ricercando lo scopo finale della creazione, io domando per qual fine han dovuto esistere degli uomini, si tratta di un fine supremo oggettivo, quale l’esigerebbe la ragione suprema per la sua creazione. Se si risponde che esistono perché vi siano degli esseri cui quella causa suprema possa far del bene, si contradice alla condizione cui la ragione stessa dell’uomo sottomette il suo più intimo desiderio di felicità (cioè l’accordo con la propria legislazione morale interna). Il che dimostra che la felicità non può essere se non uno scopo condizionato, e che quindi l’uomo, solo in quanto essere morale, può essere scopo finale della creazione; ma che, per ciò che riguarda il suo stato, la felicità non è congiunta con la moralità se non come una conseguenza, in proporzione dell’accordo con quel fine, in quanto fine della sua esistenza.

*10. Dico di proposito: sottoposto alle leggi morali. Non l’uomo che vive secondo le leggi morali, cioè tale che agisce conformemente ad esse, è lo scopo finale della creazione. Perché, esprimendoci in tal modo, diremmo più di quello che sappiamo, cioè che stia in potere di un autore del mondo di far sì che l’uomo si conduca sempre conformemente alle leggi morali, il che presuppone un concetto della libertà e della natura (per la quale ultima non si può pensare che un autore esterno), concetto che dovrebbe implicare una cognizione del sostrato soprasensibile della natura e della sua identità con ciò che è reso possibile nel mondo dalla causalità libera; e ciò supera di molto la portata della nostra ragione. Solo dell’uomo sottoposto alle leggi morali possiamo dire, senza oltrepassare i limiti della nostra conoscenza, che la sua esistenza costituisce lo scopo finale del mondo. Ciò si accorda anche perfettamente col giudizio della ragione umana, che riflette moralmente sull’andamento del mondo. Noi crediamo di scorgere, anche nel male, le tracce di una saggia finalità, quando vediamo che lo scellerato non muore prima di aver ricevuto il meritato castigo dei suoi misfatti. Secondo i nostri concetti della libera causalità, la condotta buona o cattiva dipende da noi; ma la somma saggezza nel governo del mondo la poniamo nel fatto, che la condotta buona abbia la sua causa, e tanto essa quanto la cattiva abbiano il risultato, in conformità delle leggi morali. In ciò consiste propriamente la gloria di Dio, che perciò i teologi non a torto hanno chiamata lo scopo ultimo della creazione. — Bisogna notare ancora che, quando ci serviamo della parola creazione, non intendiamo altro che ciò che qui è stato detto, cioè la causa dell’esistenza di un mondo, o delle cose che si trovano in questo (delle sostanze); come vuole il concetto proprio di questa parola (actuatio substantiae est creatio): il che, per conseguenza, non implica ancora la supposizione di una causa che agisca liberamente, e quindi intelligente (di cui vogliamo provar l’esistenza).

*11. Questo argomento morale non deve fornire alcuna prova oggettivamente valida dell’esistenza di Dio, e dimostrare allo scettico che un Dio esiste; lo obbliga però ad ammettere questa proposizione tra le massime della sua ragion pratica, se vuol pensare moralmente con coerenza. — Tale argomento perciò non vuol dire nemmeno che per la moralità sia necessario ammettere la felicità di tutti gli esseri ragionevoli del mondo conformemente alla loro buona condotta; ma che ciò è necessariamente richiesto dalla moralità. È quindi un argomento soggettivo, sufficiente per gli esseri morali7.

*12. Idolatria nel senso pratico è ancor sempre quella religione che concepisce l’essere supremo con attributi tali, che, secondo essi, potrebbe esservi qualche altra cosa che non sia la moralità, come condizione dell’accordo con la volontà dell’essere supremo, in ciò che l’uomo può fare. Perché, per quanto quel concetto, dal Punto di vista teoretico, sia concepito puro e indipendente da immagini sensibili, dal punto di vista pratico è rappresentato sempre come un idolo, vale a dire, relativamente alla natura della sua volontà, antropomorficamente.

*13. L’analogia (in senso qualitativo) è l’identità del rapporto tra principii e conseguenze (tra cause ed effetti), in quanto ha luogo malgrado la differenza specifica delle cose, o delle qualità in sé (vale a dire, considerate fuori di quel rapporto), che contengono il principio di conseguenze simili. Così, confrontando le azioni industriose degli animali con quelle dell’uomo, pensiamo il fondamento delle prime, che non conosciamo, mediante il fondamento di azioni simili nell’uomo (la ragione), che conosciamo, come qualcosa di analogo alla ragione; e con ciò vogliamo mostrare nel tempo stesso che il fondamento dell’industria animale, che va sotto il nome di istinto, è in realtà specificamente diverso dalla ragione, ma ha un rapporto simile col suo effetto (come si vede comparando le costruzioni del castoro con quelle dell’uomo). — Ma dal fatto che l’uomo per le sue costruzioni si serve della ragione, non posso concludere che anche il castoro debba avere una facoltà simile, e chiamar questa una conclusione per analogia. Comparando però le azioni degli animali (di cui non possiamo percepire immediatamente il principio) con quelle simili dell’uomo (di cui siamo coscienti immediatamente), possiamo secondo l’analogia concludere con tutta esattezza che anche gli animali operano secondo rappresentazioni (non sono macchine, come vuole Cartesio), e, malgrado la differenza specifica, sono identici all'uomo riguardo al genere (in quanto esseri viventi). La legittimità di tale conclusione sta nell’identità del principio per cui si considerano dello stesso genere gli animali, relativamente a que sta specie di determinazioni, e gli uomini in quanto uomini, quando si confrontano esternamente gli uni e gli altri secondo le loro azioni: par ratio. Allo stesso modo, comparando i prodotti finalistici della causa suprema del mondo nel mondo medesimo, con le opere d’arte dell’uomo, posso concepire la causalità di questa causa secondo l’analogia con un intelletto, ma non posso concludere in quella le proprietà di questo, per analogia; perché qui manca interamente il principio della possibilità di tale conclusione, ctoc la paritas rationis, per riportare ad un unico genere l’essere supremo e l’uomo (relativamente alla loro rispettiva causalità). La causalità degli esseri del mondo, che è sempre sensibilmente condizionata (la causalità mediante l’intelletto è così), non può essere trasferita ad un essere che non ha in comune con essi altro concetto di genere, oltre quello di essere pensato come una cosa in generale.

*14. Con ciò non si lascia a desiderare la minima cosa nella rappresentazione di rapporti di questo essere col mondo, tanto relativamente alle conseguenze teoretiche, quanto relativamente alle conseguenze pratiche, che derivano da questo concetto. Volete indagare che cosa sia in se stesso è un eccesso di curiosità inutile quanto vano.

*15. Io do qui con ragione, a quel che mi sembra, un significato più esteso dell’ordinario al concetto espresso dalle parole: cosa di fatto. Perché non è necessario, né possibile, limitare quest’espressione soltanto all’esperienza reale, quando si tratta del rapporto delle cose alle nostre facoltà conoscitive, giacché un’esperienza puramente possibile è già sufficiente perché si possa parlar delle cose come di oggetti di una specie determinata di conoscenza.

*16. Ma le cose di fede non sono articoli di fede, quando con questi s’intendano quelle cose di fede di cui possa essere imposta la confessione (interna od esterna): la teologia naturale non contiene niente di simile. Perché, non potendo queste cose, in quanto cose di fede, fondarsi su prove teoretiche (come le cose di fatto), l'adesione è libera; e anche solo a questa condizione può accordarsi con la moralità del soggetto.

*17. Lo scopo finale, che la legge morale ci dà da seguire, non è il principio del dovere, perché questo principio risiede nella legge morale, la quale, in quanto principio pratico formale, ci dirige categoricamente, indipendentemente dagli oggetti della facoltà di desiderare (dalla materia della volontà), e quindi indipendentemente da ogni scopo. Questa qualità formale delle mie azioni (la subordinazione di esse al principio della validità universale), in cui unicamente consiste il loro valore morale interno, è interamente in mio potere; ed io posso ben astrarre dalla possibilità, o dall'inattuabilità, dei fini che sono obbligato a seguire secondo quella legge (poiché nell’una e nell’altra sta solo il valore esterno delle mie azioni), come da qualche cosa che non è mai interamente in mio potere, per guardare unicamente a ciò che dipende dalla mia azione. Ma appunto la legge del dovere ci prescrive di perseguire lo scopo finale di ogni essere ragionevole (la felicità in quanto è possibile d’accordo col dovere). La ragione speculativa però non ne vede la possibilità (né dalla parte del nostro proprio potere fisico, né nella cooperazione della natura), e piuttosto, per quanto possiamo giudicare razionalmente, deve ritenere come un’attesa infondata e vana, se anche ispirata da buona intenzione, l’ammettere che da tali cause derivi, pel semplice effetto della natura (in noi e fuori di noi), e senza Dio e l'immortalità, un simile risultato della nostra buona condotta; e, se di questo giudizio potesse essere interamente certa, considererebbe la legge morale stessa come una semplice illusione della nostra ragione dal punto di vista pratico. Ma, poiché la ragione speculativa è convinta che ciò non può mai avvenire, e che invece quelle idee, il cui oggetto sta al di là della natura, possono essere pensate senza contraddizione, le riconoscerà come reali per la propria legge pratica e pel compito che ne deriva, e quindi da un punto di vista morale, per non cadere in contradizione con se medesima.

*18. È una fiducia nella promessa della legge morale; non come tale che sia contenuta in questa, ma che io introduco per una ragione moralmente sufficiente11. Perché nessuno scopo finale può essere comandato da una legge della ragione, se questa nel tempo stesso non ne prometta la raggiungibilità. sia pure in una maniera incerta, e quindi giustifichi anche l’adesione alle sole condizioni sotto cui la nostra ragione può concepirla. È ciò che già esprime la parola fides; ma può parer pericoloso che s'introducano nella filosofia morale quest’espressione e quest’idea particolare, che furono introdotte dal Cristianesimo, e l’ammetterle potrebbe sembrare forse solo una lusinghevole imitazione del suo linguaggio. Non è questo però l’unico caso in cui questa meravigliosa religione, con la suprema semplicità del suo discorso, abbia arricchita la filosofia di concetti della moralità più definiti e più puri di quelli che la filosofia stessa avesse forniti, e che, una vota nati, sono liberamente approvati dalla ragione ed ammessi come tali che essa stessa avrebbe potuto o dovuto trovarli ed introdurli.

*19. L’ammirazione della bellezza, come pure quell’emozione che un animo meditativo è capace di sentire dai fini così molteplici della natura, antecedentemente alla conoscenza chiara di un creatore intelligente del mondo, hanno qualcosa che somiglia al sentimento religioso. Tali cose perciò sembra che prima abbiano un effetto sul sentimento morale, per mezzo di una specie di giudizio analogo al giudizio morale (producendo la riconoscenza e il rispetto per la causa sconosciuta), e poi sull’animo, suscitandovi le (dee morali, quando ispirano quell’ammirazione che è legata con un interesse ben diverso da quello che può produrre la contemplazione semplicemente teoretica.


Note

1. Blumenbach (1752-1840), distinto fisiologo ed anatomico di Gottinga [T.].

2. lª ed. la libertà [T.].

3. «un semplice deserto» manca nella lª ed. [T.].

4. Le parole in parentesi mancano nella 1ª ed. [T.].

5. Nella lª ed.: «del tutto vano il nostro sforzo» [T.].

6. Nella lª ed.: «teologia» [T.].

7. Questa nota manca nella 1ª ed. [T.].

8. Le parole in parentesi mancano nella 1ª ed. [T.].

9. «Fürwahrhalten», tener per vero, consentirvi, aderirvi, termine che traduciamo con quello di «adesione» [T.].

10. Nella 1ª ed. manca «o le regole pratiche della prudenza secondo il principio dell’amore di sé» [T.].

11. «Non come tale, etc.» è aggiunta della 2ª e 3ª ed. [T.].

12. La 2ª ed. ha «teoretico» invece di «teologico» [T.].

13. La correzione è di Erdmann; Kant ha «concetto» invece di «prova» [T.].



Ultima modifica 2024.01