Critica del Giudizio

Immanuel Kant (1790)


PREFAZIONE1

Si può chiamare ragion pura la facoltà della conoscenza mediante principii a priori, e critica della ragion pura l’esame della sua possibilità e dei suoi limiti in generale: quantunque s’intenda per questa facoltà la ragione soltanto nel suo uso teoretico, come per l’appunto fu fatto nella prima opera che reca quella denominazione, senza includere nell’esame la ragione stessa in quanto pratica, secondo i suoi particolari principiii. Intesa così, la critica della ragion pura riguarda solo l’esame della nostra facoltà di conoscere qualcosa a priori; si occupa quindi solo della facoltà di conoscere, prescindendo dal sentimento di piacere e dispiacere e dalla facoltà di desiderare2 ; e nella facoltà di conoscere essa non considera se non l’intelletto, secondo i suoi principii a priori, prescindendo dal Giudizio3 e dalla ragione (in quanto facoltà appartenenti egualmente alla conoscenza teoretica), perché nel seguito si trova che nessun’altra facoltà di conoscere, oltre l’intelletto, può fornire principii di conoscenza costitutivi a priori. Sicché la critica, che vaglia queste facoltà riguardo alla parte cììe ciascuna potrebbe pretendere di avere, per virtù propria, nell’effettivo possesso della conoscenza, non conserva altro che ciò che l’intelletto prescrive a priori, come legge, alla natura in quanto complesso di fenomeni (di cui la forma anche è data a priori); ma rimanda tutti gli altri concetti puri alle idee, che escono fuori dalla nostra facoltà teoretica di conoscere, e tuttavia non son punto inutili o superflue, ma servono come principii regolativi. Da una parte, così, essa raffrena le pericolose pretese dell’intelletto, che avendo facoltà di fornire a priori le condizioni della possibilità di tutte le cose che esso può conoscere, vorrebbe racchiudere in questi limiti anche la possibilità di ogni cosa in generale; e, dall’altra, guida l’intelletto stesso nell’osservazione della natura secondo un principio della completezza, sebbene esso non possa mai raggiungerla, e promuove in tal modo quello che è lo scopo finale di ogni conoscenza.

Era dunque veramente l’intelletto — che ha il suo proprio dominio nella facoltà di conoscere, in quanto esso contiene a priori principii costitutivi della conoscenza — che doveva essere messo, dalla critica designata in generale col nome di critica della ragion pura, nel suo sicuro possesso, contro tutti gli altri competitori. Allo stesso modo che alla ragione, la quale non contiene a priori principii costitutivi se non soltanto relativamente alla facoltà di desiderare, è stato assicurato il suo possesso nella critica della ragion pratica.

Ora, se il Giudizio, che nell’ordine delle nostre facoltà di conoscere fa come da termine medio tra l’intelletto e la ragione, abbia anche per se stesso principii a priori; se questi principii siano costitutivi o semplicemente regolativi (e perciò non attestino un proprio dominio); e se il Giudizio dia a priori la regola al sentimento di piacere o dispiacere, come al termine medio tra la facoltà di conoscere e la facoltà di desiderare (proprio come l’intelletto prescrive leggi a priori alla prima, e la ragione alla seconda): ecco ciò di cui si occupa la presente critica del Giudizio.

Una critica della ragion pura, cioè della nostra facoltà di giudicare secondo principii a priori, sarebbe incompleta, se non fosse trattata come una parte speciale di essa la critica del Giudizio, che, in quanto facoltà di conoscenza, pretende anch’esso di giudicare secondo principii a priori; sebbene i principii del Giudizio non possano costituire, in un sistema della filosofia pura, una parte speciale tra la parte teoretica e la pratica, e si possano invece includere occasionalmente, in caso di necessità, nell’una o nell’altra. Poiché se, sotto il nome generale di metafisica, un tale sistema (che è possibile di compiere interamente ed è della più alta importanza per l’uso della ragione, sotto ogni riguardo) dovrà essere compiuto, bisogna che prima la critica abbia esplorato il terreno per questo edilìzio, tanto profondamente da scoprire i primi fondamenti della facoltà dei principii indipendenti dalla esperienza, perché esso non crolli da qualche parte, la qual cosa porterebbe inevitabilmente alla rovina del tutto.

Intanto, si può facilmente concludere dalla natura del Giudizio (il cui retto uso è tanto necessario e tanto generalmente richiesto che sotto il nome di sano intelletto non s’intende altro se non per l’appunto tale facoltà), che s’incontreranno gravi difficoltà nel ricercare un suo proprio principio (poiché ne deve contenere qualcuno a priori, altrimenti non sarebbe, come una particolar facoltà di conoscere, esposto alla critica anche più ordinaria); e questo principio tuttavia non può essere derivato da concetti a priori, perché questi appartengono all’intelletto, mentre il Giudizio non riguarda se non la loro applicazione. Sicché il Giudizio deve fornire da sé un concetto col quale veramente nessuna cosa sia conosciuta, ma che serva di regola soltanto ad esso Giudizio medesimo: non però come regola oggettiva, alla quale essa facoltà possa adattare il suo giudizio, perché allora sarebbe necessaria un’altra facoltà di giudizio, per decidere se sia o no il caso in cui la regola si applica.

Questo imbarazzo circa un principio (soggettivo od oggettivo che sia) si trova sopratutto in quei giudizii che si dicono estetici, e che riguardano il bello e il sublime della natura o dell’arte. E parimenti l’esame critico di un principio del Giudizio in essi, è la parte più importante di una critica di tale facoltà. Perché, sebbene per se medesimi questi giudizii non contribuiscano per nulla alla conoscenza delle cose, appartengono nondimeno unicamente alla “facoltà di conoscere e rivelano un’immediata relazione di questa facoltà col sentimento di piacere o dispiacere, fondata su qualche principio a priori, da non confondersi con ciò che può essere il fondamento della determinazione della facoltà di desiderare, perché questa ha i suoi principii a priori in concetti della ragione. — Ma, per ciò che concerne il giudizio logico della natura, — quando cioè l’esperienza ci presenta nelle cose una regolarità a intendere o spiegare la quale non basta più il concetto universale intellettivo del sensibile, e la facoltà del giudizio può trarre da se stessa un principio del rapporto dell’oggetto naturale col soprasensibile che non può esser conosciuto, un principio di cui può anche servirsi soltanto in vista di se stessa per la conoscenza della natura, — allora può e deve essere applicato a priori tale principio alla conoscenza degli esseri che sono nel mondo, ed esso ci apre nello stesso tempo vedute vantaggiose per la ragion pratica; ma non ha alcun rapporto immediato col sentimento di piacere o dispiacere. Questo rapporto è proprio ciò che v’ha di enimmatico nel principio della facoltà del giudizio e che rende necessaria nella critica una sezione particolare per questa facoltà, poiché il giudizio logico mediante concetti (da cui non si può mai trarre immediatamente una conseguenza circa il sentimento di piacere o dispiacere) si sarebbe potuto riattaccare in ogni caso alla parte teoretica della filosofia, insieme con la determinazione critica dei limiti di tali concetti.

Poiché lo studio del gusto, in quanto facoltà del giudizio estetico, non è intrapreso qui allo scopo di educarlo e coltivarlo (siffatta cultura può continuare a far di meno di queste speculazioni), ma soltanto per uno scopo trascendentale, esso sarà giudicato, spero, con indulgenza riguardo'alla sua insufficienza circa quel primo scopo. Ma, per ciò che concerne il punto di vista trascendentale, esso deve fondarsi sull’esame più rigoroso. Anche qui però la grande difficoltà di risolvere un problema, che la natura ha tanto complicato, spero che potrà servire a scusarmi di una certa oscurità non interamente evitabile nella soluzione di esso, sol che sia dimostrato con bastevole chiarezza che il principio è stato indicato con esattezza; posto che la deduzione del fenomeno del Giudizio da quel principio non abbia tutta la chiarezza che con ragione si può esigere altrove, cioè in una conoscenza mediante concetti, e che io credo di aver raggiunta anche nella seconda parte di questa opera.

Con ciò io termino dunque il mio assunto critico. Passerò senza indugio alla parte dottrinale, per strappare, se è possibile, alla mia crescente vecchiezza il tempo che potrebbe essere ancora in qualche modo favorevole a tale lavoro. S’intende facilmente che pel Giudizio non vi sarà una sezione speciale nella parte dottrinale, perché ad esso la critica tien luogo di teoria; ma che, secondo la divisione della filosofia in teoretica e pratica, e della filosofia pura nelle stesse parti, la metafisica della natura e quella dei costumi dovranno costituire il lavoro medesimo.


Note del traduttore

1. Questa prefazione precedeva la prima edizione del 1790, e fu conservata da Kant in tutte le posteriori [T.].

2. Nel testo «Begehrungsvermögen», cioè propriamente facoltà di appetire o di tendere. Abbiamo preferito «facoltà di desiderare», perché appetito e tendenza hanno per noi un significato inconciliabile con le determinazioni volontarie, alle quali pure si applica il termine usato da Kant [T.].

3. «Urtheil», giudizio; «Urtheilskraft», facoltà del giudizio. «Giudizio» vale per noi la facoltà o l’atto indifferentemente; seguendo l’esempio del trad. francese, useremo l’iniziale maiuscola quando si tratta della facoltà, per non ripetere sempre «facoltà del giudizio», e per evitare in pari tempo ogni confusione [T.].



Ultima modifica 2024.01