Antonio Gramsci 1925
Relazione al C.C. dell’11-12 maggio 1925;
Pubblicato per la prima volta ne "L’Unità", 3 luglio 1925
Trascritto per Internet da Antonio Maggio - Primo Maggio.
Nella sua ultima riunione, l’Esecutivo allargato dell’Internazionale comunista non aveva da risolvere quistioni di principio o di tattica sorta fra l’insieme del Partito italiano e l’Internazionale. Un tal fatto si verifica per la prima volta nella successione delle riunioni dell’Internazionale. Perciò i compagni più autorevoli dell’Esecutivo dell’Internazionale comunista avrebbero preferito che non si parlasse neppure di una commissione italiana: dato che non esisteva una crisi generale del partito italiano, non esisteva neppure una "quistione italiana".
In realtà occorre subito dire che il nostro partito, pur avendo già prima del congresso, ma specialmente dopo, modificato i suoi atteggiamenti tattici per accostarsi alla linea leninista dell’Internazionale comunista, non ha tuttavia subito nessuna crisi nelle file dei suoi soci e di fronte alle masse: tutt’altro. Avendo saputo porre i suoi nuovi atteggiamenti tattici in relazione alla situazione generale del paese creatasi dopo le elezioni del 6 aprile e specialmente dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, il partito è riuscito ad ingrandirsi come organizzazione e a estendere in modo notevolissimo la sua influenza tra le masse operaie e contadine.
Il nostro partito è uno dei pochi, se non forse il solo partito dell’Internazionale, che può affermare un successo simile in una situazione così difficile come quella che si è venuta creando in tutti i paesi, specialmente europei, in rapporto alla relativa stabilizzazione del capitalismo ed al relativo rafforzarsi dei governi borghesi e della socialdemocrazia, che del sistema borghese è diventata una parte sempre più essenziale. Occorre dire, almeno tra parentesi, che è appunto per il costituirsi di una tale situazione ed in rapporto alle conseguenze che essa ha avuto non solo in mezzo alle grandi masse lavoratrici, ma anche nel seno dei partiti comunisti, che si deve affrontare il problema della bolscevizzazione.
Le crisi attraversate da tutti i partiti dell’Internazionale dal 1921 ad oggi, cioè dall’inizio del periodo caratterizzato da un rallentamento del ritmo rivoluzionario, hanno mostrato come la composizione generale dei partiti non fosse molto solida ideologicamente. I partiti stessi oscillavano con spostamenti spesso fortissimi dalla destra all’estrema sinistra con ripercussioni gravissime su tutta l’organizzazione e con crisi generali nei collegamenti tra i partiti e le masse.
La fase attuale attraversata dai partiti dell’Internazionale è caratterizzata invece dal fatto che in ognuno di essi si è andato formando attraverso le esperienze politiche di questi ultimi anni, e si è consolidato, un nucleo fondamentale il quale determina una stabilizzazione leninista della composizione ideologica dei partiti e assicura che essi non saranno più attraversati da crisi e da oscillazioni troppo profonde e troppo larghe.
Ponendo così il problema generale della bolscevizzazione sia nel dominio dell’organizzazione che in quello della formazione ideologica, l’Esecutivo allargato ha affermato che le nostre forze internazionali sono giunte al punto risolutivo della crisi. In questo senso, l’Esecutivo allargato è un punto di arrivo, e la constatazione dei grandissimi progressi compiuti nel consolidamento delle basi organizzative e ideologiche dei partiti è un punto di partenza, in quanto tali progressi devono essere coordinati, sistematizzati, devono cioè diventare coscienza diffusa operante di tutta la massa. Per alcuni aspetti, i partiti rivoluzionari dell’Europa occidentale si trovano solo oggi nelle condizioni in cui i bolscevichi russi si erano trovati già fin dalla formazione del loro partito.
In Russia, non esistevano prima della guerra le grandi organizzazioni dei lavoratori che invece hanno caratterizzato tutto il periodo europeo della II Internazionale prima della guerra. In Russia, il partito, non solo come affermazione teorica generale, ma anche come necessità pratica di organizzazione e di lotta, riassumeva in sé tutti gli interessi vitali della classe operaia; la cellula di fabbrica e di strada guidava la massa sia nella lotta per le rivendicazioni sindacali come nella lotta politica per il rovesciamento dello zarismo.
Nell’Europa occidentale invece si venne sempre più costituendo una divisione del lavoro tra organizzazione sindacale e organizzazione politica della classe operaia. Nel campo sindacale andò sviluppandosi con ritmo sempre più accelerato la tendenza riformista e pacifista; cioè andò sempre più intensificandosi l’influenza della borghesia sul proletariato.
Per la stessa ragione nei partiti politici l’attività si spostò sempre più verso il campo parlamentare, verso cioè forme che non si distinguevano per nulla da quelle della democrazia borghese. Nel periodo della guerra e in quello del dopoguerra immediatamente precedente alla costituzione dell’Internazionale comunista ed alle scissioni nel campo socialista, che portarono alla formazione dei nostri partiti, la tendenza sindacalista-riformista andò consolidandosi come organizzazione dirigente nei sindacati. Si è venuta così a determinare una situazione generale che appunto pone anche i partiti comunisti dell’Europa occidentale nelle condizioni in cui si trovava il Partito bolscevico in Russia prima della guerra.
Osserviamo ciò che avviene in Italia. Attraverso l’azione repressiva del fascismo, i sindacati erano venuti a perdere, nel nostro paese, ogni efficienza sia numerica che combattiva. Approfittando di questa situazione, i riformisti si impadronirono completamente del loro meccanismo centrale, escogitando tutte le misure e le disposizioni che possono impedire a una minoranza di formarsi, di organizzarsi, di svilupparsi e diventare maggioranza fino a conquistare il centro dirigente. Ma la grande massa vuole, ed a ragione, l’unità e riflette questo sentimento unitario nell’organizzazione sindacale tradizionale italiana: la Confederazione Generale del Lavoro. La massa vuole lottare e organizzarsi, ma vuole lottare con la Confederazione generale del lavoro e vuole organizzarsi nella Confederazione generale del lavoro.
I riformisti si oppongono all’organizzazione delle masse. Ricordate il discorso di D’Aragona nel recente congresso federale in cui affermò che non più di un milione di organizzati deve costituire la Confederazione. Se si tiene conto che la Confederazione stessa sostiene di essere l’organismo unitario di tutti i lavoratori italiani, cioè non solo degli operai industriali ed agricoli ma anche dei contadini, e che in Italia ci sono almeno quindici milioni di lavoratori organizzati, appare che la Confederazione vuole, per programma, organizzare un quindicesimo, cioè il 7,50 per cento, dei lavoratori italiani, mentre noi vorremmo che nei sindacati e nelle organizzazioni contadine fossero organizzati il cento per cento dei lavoratori. Ma se la Confederazione vuole per ragioni di politica interna confederale, cioè per mantenere la dirigenza confederale nelle mani dei riformisti, che solo il 7,50 per cento dei lavoratori italiani siano organizzati, essa vuole anche - per ragioni di politica generale, cioè perché il partito riformista possa collaborare efficacemente in un governo democratico borghese - che la Confederazione, nel suo complesso, abbia un’influenza sulla massa disorganizzata degli operai industriali ed agricoli e vuole, impedendo l’organizzazione dei contadini, che i partiti democratici con i quali intende collaborare mantengano la loro base sociale.
Essa allora manovra nel campo specialmente delle commissioni interne che sono elette da tutta la massa degli organizzati e dei disorganizzati. Essa, cioè, vorrebbe impedire che gli operai organizzati, all’infuori di quelli della tendenza riformista, presentassero liste di candidati per le commissioni interne, vorrebbe che i comunisti, anche dove sono in maggioranza nell’organizzazione sindacale locale e tra gli organizzati delle singole officine votassero per disciplina le liste della minoranza riformista.
Se questo programma organizzativo fosse da noi accettato, si arriverebbe di fatto all’assorbimento del nostro partito da parte del partito riformista, e nostra sola attività rimarrebbe l’attività parlamentare.
D’altronde come possiamo noi lottare contro l’applicazione e l’organizzazione di un tale programma senza determinare una scissione che noi assolutamente non vogliamo determinare? Per ottenere ciò non c’è altra via d’uscita che l’organizzazione delle cellule e il loro sviluppo nello stesso senso in cui esse si svilupparono in Russia prima della guerra.
Come frazione sindacale, i riformisti ci impediscono, mettendoci alla gola la pistola della disciplina, di centralizzare le masse rivoluzionarie sia per la lotta sindacale che per la lotta politica. E’ evidente allora che le nostre cellule devono lottare direttamente nelle fabbriche per centralizzare attorno al partito le masse, spingendole a rafforzare le commissioni interne dove esse esistono, a creare comitati di agitazione nelle fabbriche dove non esistono commissioni interne o dove esse non assolvono ai loro compiti, spingendole a volere la centralizzazione delle istituzioni di fabbrica come organismi di massa non solamente sindacali, ma di lotta generale contro il capitalismo e il suo regime politico.
E’ certo che la situazione in cui noi ci troviamo è molto più difficile di quella in cui si trovavano i bolscevichi russi, perché noi dobbiamo lottare non solo contro la reazione dello Stato fascista, ma anche contro la reazione dei riformisti nei sindacati. Appunto perché è più difficile la situazione, più forti devono essere le nostre cellule sia organizzativamente che ideologicamente. In ogni caso, la bolscevizzazione per ciò che ha riflesso nel campo organizzativo è una necessità imprescindibile. Nessuno oserà dire che i criteri leninisti di organizzazione del partito siano propri della situazione russa e che sia un fatto puramente meccanico la loro applicazione all’Europa occidentale.
Opporsi all’organizzazione del partito per cellula significa ancora essere legati alle vecchie concezioni socialdemocratiche, significa trovarsi realmente in un terreno di destra, cioè in un terreno nel quale non si vuole lottare contro la socialdemocrazia.
La commissione che avrebbe dovuto discutere specialmente col compagno Bordiga, ha in sua assenza fissato la linea che il partito deve seguire per risolvere la quistione delle tendenze e delle possibili frazioni che da esse possono nascere, cioè per far trionfare nel nostro partito la concezione bolscevica. Se esaminiamo la situazione generale del nostro partito, alla stregua delle cinque qualità fondamentali che il compagno Lenin poneva come condizioni necessarie per la efficienza del partito rivoluzionario del proletariato nel periodo della preparazione rivoluzionaria e cioè:
1) ogni comunista deve essere marxista;
2) ogni comunista deve essere in prima linea nelle lotte proletarie;
3) ogni comunista deve aborrire dalle pose rivoluzionarie e dalle frasi superficialmente scarlatte, cioè deve essere non solo un rivoluzionario, ma anche un politico realista;
4) ogni comunista deve sentire sempre di essere subordinato alla volontà del suo partito e deve giudicare tutto dal punto di vista del suo partito, cioè deve essere settario nel senso migliore che questa parola può avere;
5) ogni comunista deve essere internazionalista.
Se esaminiamo la situazione generale del nostro partito alla stregua di questi cinque punti osserviamo che, se si può affermare per il nostro partito che la seconda qualità forma uno dei suoi tratti caratteristici, non altrettanto si può affermare per le altre quattro. Manca nel nostro partito una profonda conoscenza della dottrina del marxismo e quindi anche del leninismo. Sappiamo che ciò è legato alle tradizioni del movimento socialista italiano, nel seno del quale mancò ogni discussione teorica che interessasse le masse e contribuisse alla loro formazione ideologica.
E’ anche vero però che il nostro partito non contribuì affatto a distruggere questo stato di cose, e che anzi il compagno Bordiga, confondendo la tendenza riformista a sostituire una generica attività culturale all’azione politica rivoluzionaria delle masse con l’attività interna di partito diretta ad elevare il livello di tutti i suoi membri fino alla completa consapevolezza dei fini immediati e lontani del movimento rivoluzionario, contribuì a mantenerlo.
Il nostro partito ha abbastanza sviluppato il senso della disciplina, e cioè ogni socio riconosce la sua subordinazione al complesso del partito, ma non altrettanto si può dire per ciò che riguarda i rapporti con l’Internazionale comunista, cioè per ciò che riguarda la coscienza di appartenere al partito mondiale. In questo senso solamente bisogna dire che lo spirito internazionalista non è molto praticato, non certo nel senso generale della solidarietà internazionale. Era questa una situazione esistente nel Partito socialista e che si rifletté a nostro danno al Congresso di Livorno.
Continuò a sussistere in parte sotto altre forme per la tendenza suscitata dal compagno Bordiga a ritener speciale titolo di nobiltà di dirsi seguaci di una cosiddetta "sinistra italiana". In questo campo il compagno Bordiga ha ricreato una situazione simile a quella creata dal compagno Serrati dopo il II Congresso e che portò all’esclusione dei massimalisti dall’Internazionale comunista. Egli cioè crea una specie di patriottismo di partito che rifugge dall’inquadrarsi in una organizzazione mondiale. Ma la debolezza massima del nostro partito è quella caratterizzata dal compagno Lenin nel punto terzo: l’amore per le pose rivoluzionarie e per le superficiali frasi scarlatte è il tratto più rilevante non del Bordiga stesso, ma degli elementi che dicono di seguirlo.
Naturalmente, il fenomeno dell’estremismo bordighiano non è campato in aria. Esso ha una duplice giustificazione. Da una parte è legato alla situazione generale della lotta di classe nel nostro paese, e cioè al fatto che la classe operaia è la minoranza della popolazione lavoratrice e che essa è agglomerata prevalentemente in una sola zona del paese. In una tale situazione, il partito della classe operaia può essere corrotto da infiltrazioni delle classi piccolo-borghesi che, pur avendo interessi contrari come massa agli interessi del capitalismo, non vogliono però condurre la lotta fino alle sue estreme conseguenze.
Dall’altro ha contribuito a consolidare l’ideologia di Bordiga la situazione in cui venne a trovarsi il Partito socialista fino a Livorno e che Lenin caratterizzò così nel suo libro "L’estremismo come malattia infantile del comunismo": "In un partito dove c’è un Turati e c’è un Serrati che non lotta contro Turati è naturale che ci sia un Bordiga". Non è però naturale che il compagno Bordiga si sia cristallizzato nella sua ideologia anche quando Turati non era più nel partito, non vi era lo stesso Serrati, e Bordiga in persona conduceva la lotta contro l’uno o contro l’altro.
Evidentemente, l’elemento della situazione nazionale era preponderante nella formazione politica del compagno Bordiga e aveva cristallizzato in lui uno stato permanente di pessimismo sulla possibilità che il proletariato e il suo partito potessero rimaner immuni da infiltrazioni di ideologie piccolo-borghesi senza l’applicazione di una tattica politica estremamente settaria che rendeva impossibile l’applicazione e la realizzazione dei due principi politici che caratterizzarono il bolscevismo: l’alleanza tra operai e contadini e l’egemonia del proletariato nel movimento rivoluzionario anticapitalista.
La linea da adottare per combattere queste debolezze del nostro partito è quella della lotta per la bolscevizzazione. La campagna da farsi deve essere prevalentemente ideologica. Essa però deve diventare politica per ciò che riguarda l’estrema sinistra, cioè la tendenza rappresentata dal compagno Bordiga, che dal frazionismo latente passerà necessariamente all’aperto frazionismo e nel congresso cercherà di mutare l’indirizzo politico dell’Internazionale.
Esistono nel nostro partito altre tendenze? Qual è il loro carattere e quale pericolo possono rappresentare? Se esaminiamo da questo punto di vista la situazione interna del nostro partito, dobbiamo riconoscere che esso non solo non ha raggiunto il grado di maturità politica rivoluzionario che riassumiamo nella parola "bolscevizzazione", ma che non ha raggiunto neanche la completa unificazione delle varie parti che influirono alla sua composizione.
A ciò ha contribuito l’assenza di ogni largo dibattito che purtroppo ha caratterizzato il partito fin dalla sua fondazione. Se teniamo conto degli elementi che al Congresso di Livorno si schierarono per l’Internazionale comunista possiamo constatare che delle tre correnti che costituirono il Partito comunista:
1) gli astensionisti della frazione Bordiga;
2) gli elementi raggruppatisi intorno all’"Ordine Nuovo" e all’"Avanti!" di Torino ;
3) gli elementi di massa che seguivano il gruppo che chiameremo Gennari-Marabini, cioè i seguaci delle figure più caratteristiche dello strato dirigente del Partito socialista venute con noi, solamente due, cioè quella astensionista e quella "Ordine Nuovo" "Avanti!" torinese, avevano prima del Congresso di Livorno svolto un certo lavoro politico autonomo, avevano nel loro seno dibattuto i problemi essenziali dell’Internazionale comunista ed avevano quindi acquistato una certa capacità ed esperienza politica comunista.
Ma queste correnti, se riuscirono ad avere il sopravvento nella direzione del nuovo Partito comunista, non ne costituivano la maggioranza di base. Inoltre, di queste due correnti una sola, astensionista, fin dal 1919, cioè da due anni avanti Livorno, aveva un’organizzazione nazionale, aveva formato fra i suoi aderenti una certa esperienza organizzativa di partito, ma nel periodo preparatorio si era esclusivamente occupata di quistioni interne di partito, della specifica lotta delle frazioni, senza avere nel suo complesso attraversato esperienze politiche di massa altro che nella quistione puramente parlamentare.
La corrente costituitasi intorno all’"Ordine Nuovo" e all’"Avanti!" piemontese non aveva suscitato né una frazione nazionale e neppure una vera e propria frazione nei limiti della regione piemontese in cui era sorta e si era sviluppata. La sua attività fu prevalentemente di massa; i problemi interni di partito furono da essa sistematicamente collegati con i bisogni e le aspirazioni della lotta generale di classe, generale della popolazione lavoratrice piemontese e specialmente del proletariato di Torino: ciò, se diede ai suoi componenti una migliore preparazione politica e una capacità maggiore nei suoi singoli membri anche di massa, a guidare dei movimenti reali, la pose in condizioni di inferiorità nell’organizzazione generale del partito.
Se si eccettua il Piemonte, la grande maggioranza del nostro partito venne a costituirsi degli elementi rimasti a Livorno con l’Internazionale comunista, perché con l’Internazionale comunista erano rimasti tutta una serie di compagni del vecchio strato dirigente del Partito socialista, come Gennari, Marabini, Bombacci, Misiano, Salvadori, Graziadei, ecc.: su questa massa che per le concezioni non si differenziava in nulla dai massimalisti, s’innestarono i gruppi astensionisti locali dandole la forma dell’organizzazione del nuovo Partito comunista.
Se non si tenesse conto di questa reale formazione nel nostro partito non si comprenderebbe né la crisi che esso ha attraversato e neanche la situazione attuale. Per le necessità di lotta senza quartiere che s’imposero al nostro partito fin dalla sua origine, la quale coincise con lo sferrarsi più furioso della reazione fascista e per cui si può dire che ogni nostra organizzazione fu battezzata dal sangue dei nostri migliori compagni, le esperienze dell’Internazionale comunista, cioè non solo del partito russo ma anche degli altri partiti fratelli, non giunsero fino a noi e non furono assimilate dalla massa del partito altro che saltuariamente e episodicamente. In realtà il nostro partito si trovò ad essere staccato dal complesso internazionale, si trovò a sviluppare la sua ideologia arruffata e caotica sulla sola base delle nostre immediate esperienze nazionali, si creò cioè in Italia una nuova forma di massimalismo.
Questa situazione generale è stata aggravata l’anno scorso dall’ingresso nelle nostre file della frazione terzinternazionalista. Le debolezze che ci erano caratteristiche, esistevano in una forma ancora più grave e pericolosa in questa frazione, la quale da due anni e mezzo viveva in forma autonoma nel seno del partito massimalista, creando così vincoli interni fra i suoi aderenti che dovevano prolungarsi anche dopo la fusione. Inoltre anche la frazione terzinternazionalista, per due anni e mezzo, fu assorbita completamente dalla lotta interna con la direzione del Partito massimalista, lotta che fu prevalentemente di carattere personale e settario e solo episodicamente trattò le quistioni fondamentali sia politiche che organizzative.
E’ evidente dunque che la bolscevizzazione del partito nel campo ideologico non può solo tenere conto della situazione che riassumiamo nell’esistenza di una corrente di estrema sinistra e nell’atteggiamento personale del compagno Bordiga. Essa deve investire la situazione generale del partito, cioè deve porsi il problema di elevare il livello teorico e politico di tutti i nostri compagni. E’ certo per esempio che esiste anche una quistione Graziadei, cioè che noi dobbiamo basarci sulle sue recenti pubblicazioni per migliorare l’educazione marxista dei nostri compagni combattendo le deviazioni cosiddette scientifiche in esse sostenute.
Nessuno però può pensare che il compagno Graziadei rappresenti un pericolo politico, cioè che sulla base delle sue concezioni revisionistiche del marxismo possa nascere una vasta corrente e quindi una frazione che metta in pericolo l’unità organizzativa del partito. D’altronde non bisogna neppure dimenticare che il revisionismo di Graziadei porta ad un appoggio alle correnti di destra che, sia pure allo stato latente, esistono nel nostro partito. L’entrata in esso della frazione terzinternazionalista, cioè di un elemento politico che non ha perduto molto dei suoi caratteri massimalisti e che, come si è già detto, meccanicamente tende a prolungare oltre la sua esistenza di frazione nel seno del Partito massimalista i vincoli creatisi nel periodo precedente, può indubbiamente dare a questa potenziale corrente di destra una certa base organizzativa, ponendo dei problemi che non devono assolutamente essere trascurati.
Tuttavia non è possibile che nascano forti divergenze su questa serie di apprezzamenti; le quistioni alle quali abbiamo accennato e che nascono dalla composizione originaria del nostro partito pongono prevalentemente dei problemi ideologici fortemente legati a due necessità:
1) che la vecchia guardia del partito assorba la massa dei nuovi iscritti venuti al partito dopo il fatto Matteotti e che hanno triplicato gli effettivi del partito;
2) alla necessità di creare dei quadri organizzativi di partito che siano in grado non solo di risolvere i problemi quotidiani della vita di partito, sia come organizzazione propria sia nei suoi collegamenti coi sindacati e con le altre organizzazioni di massa, ma che siano in grado di risolvere i più complessi problemi legati alla preparazione della conquista del potere ed all’esercizio del potere conquistato.
Si può dire che potenzialmente esiste nel nostro partito un pericolo di destra. Esso è legato alla situazione generale del paese. le opposizioni costituzionali, quantunque storicamente siano scadute dalla loro funzione fin da quando hanno rigettato la nostra proposta di creare l’antiparlamento, continuano tuttavia a sussistere politicamente accanto ad un fascismo consolidato.
Poiché le perdite subite dall’opposizione, se hanno rafforzato il nostro partito, non l’hanno però rafforzato nella stessa misura in cui si è consolidato il fascismo che ha nelle mani tutto l’apparato statale, è evidente che nel nostro partito, di fronte ad una tendenza di estrema sinistra, che crede giunto ad ogni istante il momento di passare all’attacco frontale del regime che non può disgregarsi per le manovre dell’opposizione, potrà nascere se già non esiste una tendenza di destra, i cui elementi, demoralizzati dall’apparente strapotere del partito dominante, disperando che il proletariato possa rapidamente rovesciare il regime nel suo complesso, incominceranno a pensare che sia per essere migliore tattica quella che porti, se non addirittura a un blocco borghese-proletario per la eliminazione costituzionale del fascismo, per lo meno ad una tattica di passività reale, di non-intervento attivo del nostro partito, la quale permetta alla borghesia di servirsi del proletariato come di una massa di manovra elettorale contro il fascismo.
Di tutte queste possibilità e probabilità il partito deve tener conto affinché la sua giusta linea rivoluzionaria non subisca deviazioni. Il partito, se deve considerare il pericolo di destra come una possibilità da combattersi con la propaganda ideologica e con mezzi disciplinari ordinari ogni volta che ciò si dimostra necessario, deve invece considerare il pericolo di estrema sinistra come una realtà immediata, come un ostacolo allo sviluppo non solo ideologico ma politico del partito, come un pericolo che deve essere combattuto non solo con la propaganda ma anche con l’azione politica, perché immediatamente porta alla disgregazione dell’unità anche formale della nostra organizzazione, perché tende a creare un partito nel partito, una disciplina contro la disciplina del partito.
Vuol dire questo che noi si voglia giungere ad una rottura con il compagno Bordiga e con quelli che si dicono suoi amici? Vuol dire che noi vogliamo modificare la base fondamentale del partito quale si era costituita al Congresso di Livorno ed era stata conservata al Congresso di Roma? Certamente e assolutamente no. Ma la base fondamentale del partito non era un fatto puramente meccanico: essa si era costituita sull’accettazione incondizionata dei principi e della disciplina dell’Internazionale comunista.
Ma non siamo noi che abbiamo posto in discussione questi principi e questa disciplina; non sarebbe quindi da ricercare in noi la volontà di modificare la base fondamentale del partito; occorre inoltre dire che il 90 per cento se non più dei suoi membri, il partito ignora le quistioni che sono sorte tra la nostra organizzazione e l’Internazionale comunista. Se, specialmente dopo il Congresso di Roma, il partito nel suo complesso fosse stato messo in grado di conoscere la situazione dei nostri rapporti internazionali, esso probabilmente non sarebbe ora nelle condizioni di confusione in cui si trova.
In ogni caso, teniamo ad affermare con molta energia, perché sia sventato il triste gioco di alcuni elementi irresponsabili che pare trovino la loro felicità nell’inasprire le piaghe della nostra organizzazione, che noi riteniamo possibile venire ad un accordo col compagno Bordiga e pensiamo che tale sia anche la opinione del compagno Bordiga stesso.
E’ secondo questo indirizzo generale che noi riteniamo debba essere impostata la discussione per il nostro congresso. Nel periodo che abbiamo attraversato dalle ultime elezioni parlamentari, il partito ha condotto un’azione politica reale che è stata condivisa dalla grande maggioranza dei nostri compagni. Sulla base di questa azione, il partito ha triplicato il numero dei suoi soci, ha sviluppato in modo notevole la sua influenza nel proletariato, tanto che si può dire essere il nostro partito il più forte tra i partiti che hanno una base nella Confederazione generale del lavoro.
Si è riusciti in questo periodo a porre concretamente il problema fondamentale della nostra rivoluzione: quello dell’alleanza tra operai e contadini. Il nostro partito, in una parola, è diventato un fattore essenziale della situazione italiana. Su questo terreno dell’azione politica reale si è creata una certa omogeneità tra i nostri compagni. Questo elemento deve continuare a svilupparsi nella discussione del congresso e deve essere una delle determinanti essenziali della bolscevizzazione.
Ciò significa che il congresso non deve essere concepito solo come un momento della nostra politica generale, del processo attraverso il quale noi ci leghiamo alle masse e suscitiamo nuove forze per la rivoluzione. Il nucleo principale dell’attività del congresso deve essere perciò visto nelle discussioni che si faranno per stabilire quale fase della vita italiana e internazionale noi attraversiamo, cioè quali sono i rapporti attuali delle forze sociali italiane, quali sono le forze motrici della situazione, quale fase della lotta delle classi è l’attuale. Da questo esame nascono due problemi fondamentali:
1) come noi possiamo sviluppare il nostro partito in modo che esso diventi una unità capace di condurre il proletariato alla lotta, capace di vincere e di vincere permanentemente. E’ questo il problema della bolscevizzazione;
2) quale azione reale politica il nostro partito debba continuare a svolgere per determinare la coalizione di tutte le forze anticapitalistiche guidate dal proletariato (rivoluzionario) nella situazione data per rovesciare il regime capitalistico in un primo tempo e per costituire la base dello Stato operaio rivoluzionario in un secondo tempo.
Cioè, noi dobbiamo esaminare quali sono i problemi essenziali della vita italiana e quale loro soluzione favorisce e determina l’alleanza rivoluzionaria del proletariato coi contadini e realizza l’egemonia del proletariato. Il congresso quindi dovrà almeno preparare lo schema generale del nostro programma di governo. E’ questa una fase essenziale della nostra vita di partito. Perfezionare lo strumento necessario per la rivoluzione proletaria in Italia: ecco il compito maggiore del nostro congresso; ecco il lavoro al quale invitiamo tutti i compagni di buona volontà che antepongono gli interessi unitari della loro classe alle meschini e sterili lotte di frazioni.