Escerto da Giovanna Vallauri: Evemero di Messene. Testimonianze e frammenti con Introduzione e Commento, Università di Torino, Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, vol. VIII, 3, Torino 1956
Se per comprendere i limiti e il significato di una corrente filosofica o di un movimento culturale si suole risalire alla persona che ha dato a tale corrente o movimento il nome e l'origine, nel caso di Evemero e dell'evemerismo si ha l'impressione che sia stato seguito il procedimento inverso. La critica, cioè, ha generalmente preso le mosse da un concetto tardivo dell'evemerismo, da un concetto alla cui formazione contribuirono elementi diversi e influenze estranee all'ambiente in cui l'evemerismo nacque, e ha di conseguenza attribuito a Evemero la paternità di idee che, come tali, si vennero chiarendo e determinando soltanto in un periodo successivo. Su Evemero si è inevitabilmente proiettata l'ombra degli interpreti e degli escerptori, che di lui si servirono, in modo talora tendenzioso e arbitrario, come di un'arma per le loro polemiche, e tale ombra impedisce o, perlomeno, rende difficile anche a noi discernere fino a che punto si spinga il genuino pensiero dell'autore.
Di Evemero non è pervenuta nessuna testimonianza diretta. Quel poco che di lui abbiamo ci è stato conservato da altri scrittori, per la maggior parte di età alquanto più tarda.
Sulla sua patria, anzitutto, non tutte le testimonianze sono concordi. Le più antiche ed autorevoli, attinte con ogni probabilità a indicazioni contenute nella sua stessa opera, lo dicono nativo di Messene1; secondo altre, che sembrano meno degne di fede, Evemero sarebbe di Agrigento2. L'Eνήμεpoς Τεγεάτης, che ricorre nello Pseudo Plutarco3, da cui derivano Eusebio4, e lo Pseudo Galene5, e in Teodoreto6 che qui attinge a sua volta da Eusebio, sembra sia errore dello Pseudo Plutarco7, in quanto Cicerone8, Sesto Empirico9, e Teofilo10, che attingono dalla stessa fonte degli autori prima nominati, non fanno menzione della patria di Evemero. Riguardo all'affermazione di Ateneo: «Ενήμερος... ó Κώος»11, non è possibile avanzare ipotesi con una certa fondatezza.
Altrettanto indeterminata è l'epoca del nostro autore. Valendoci dei pochi indizi che ricaviamo dalla sua stessa opera, e da due accenni di Callimaco, riusciamo a fissarla soltanto entro limiti approssimativi. Non vi è comunque ragione di negar fede alla testimonianza di Diodoro12 derivante, a quanto sembra, dal proemio della Ιερά Αναγραφή. Cassandro fu re di Macedonia dal 316 al 297 a. C. e, stando a Diodoro, Evemero avrebbe intrapreso i suoi viaggi per incarico di questo sovrano. Callimaco accenna a Evemero nell'Inno a Giove13 e, più determinatamente nel primo del Giambi14. Purtroppo la cronologia delle opere di Callimaco è alquanto incerta e anzi, per datare i Giambi, i più fra gli studiosi si sono proprio valsi del richiamo a Evemero, considerando quest'ultimo come contemporaneo di Cassandre. È possibile tuttavia trarre alcuni indizi da Callimaco stesso, indizi, come vedremo, non discordi dai dati di Diodoro. L'Inno a Giove, che vuole essere un omaggio a Tolemeo Filadelfo e alle imprese da lui compiute in giovane età, dovrebbe appartenere all'inizio del periodo alessandrino di Callimaco e sarebbe perciò stato composto verso il 275 a. C. Pare chiaro che con l'esclamazione «o Cretesi menzogneri» Callimaco alluda, pur indirettamente, a Evemero15, contro il quale sfogherà poi con violenza il suo sdegno nel primo dei Giambi. Da questo componimento si deduce che il nostro autore, già vecchio (γέρων), stava attendendo proprio allora, in Alessandria verosimilmente, alla composizione della Ιερά Αναγραφή. Interessante è l'indicazione del luogo, «il tempio davanti alla mura», o «fuori mura» (τό πρό τείχενς ίρόν), che viene a gettare un po' di luce sull'ambiente in cui Evemero sarebbe vissuto una volta terminati i suoi viaggi, e viene a dare particolare valore alla testimonianza di Callimaco, il quale per l'appunto in Alessandria trascorse il periodo più significativo per la sua attività di scrittore. Manca però un dato cronologico preciso: ché, se anche il «tempio fuori mura» s'identifichi, come suggeriscono le antiche Διηγήσεις, col Serapeo di Parmenione, ciò non riesce di alcuna utilità16. Dobbiamo pertanto fondarci su indizi piuttosto vaghi. Callimaco concludendo gli Aitia manifesta, a quanto pare, il proposito di scriverei Giambi17. Gli Aitia, di cui non è possibile stabilire con esattezza la data di composizione, sono per lo più annoverati fra le prime opere di Callimaco: i Giambi, che di per sé sembrano ancora appartenere alla giovinezza del poeta dovrebbero perciò venir collocati nel periodo intorno al 270 a. C. e non oltre. Riepilogando, Evemero avrebbe dunque intrapreso i suoi viaggi verso il 300-298 a. C. e, fissata la sua dimora in Alessandria, ovvero nelle vicinanze di questa città, verso il 270 a. C., giunto ormai alla vecchiaia, avrebbe narrato le sue esperienze nella Ιερά Αναγραφή.
Prescindendo da questi dati esterni, íl contenuto stesso dell'opera di Evemero, per quel tanto che ci è dato di conoscerla, ben si inquadra nel momento politico rappresentato dal regno di Cassandro. La crisi che in Europa e in Asia segui all'improvvisa morte di Alessandro, crisi che si prolungò e si acuì nei decenni successivi, aveva generato negli animi un turbamento scuotendo la fede negli dei e nelle antiche istituzioni. L'instabilità della situazione politica e sociale, i rapidi cambiamenti di governo, l'improvvisa popolarità dei capi che con gesti demagogici suscitavano l'entusiasmo delle folle, erano elementi atti a favorire chi si facesse banditore di nuove teorie. Fino a che punto giungessero le mire di Evemero, fino a che punto egli volesse essere promotore di nuove dottrine religiose e politico-sociali, è però difficile dire, non tanto per gli scarsi frammenti della sua opera, quanto per l'impersοnalità in cui questa si mantiene. L'autore elude un'indagine metodica ed accurata; si ha via via l'impressione che qualcosa sfugga, che non sempre si riesca ad afferrare il corso dei suoi pensieri, sicchè a lettura finita, si rimane inappagati. Ma è forse torto chiedere troppo, aspettarsi da Evemero píù di quanto ci ha dato, e non accontentarsi di vedere in lui l'espressione di una tendenza del momento e nella sua opera il prodotto naturale di un'epoca.
Secondo le attestazioni di Diodoro18 e di Ateneo19, lo scritto di Evemero portava il titolo di Ιερά Αναγραφή, e a questo riguardo la maggior parte dei critici è concorde nel ritenere che il termine «αναγραφή» non indichi in particolare l'iscrizione del tempio di Zeus in Pancaia, di cui si dirà in seguito, bensì abbia un significato più largo esteso a tutta l'opera, e debba essere interpretato come «scrittura, descrizione»20. La Ιερά Αναγραφή è da noi conosciuta quasi unicamente in grazie a due ampi estratti di Diodoro21; i miseri frammenti — alcuni dei quali di dubbia autenticità — che ricorrono presso altri autori, di rado recano nuovi apporti, limitandosi in genere a ribadire luoghi comuni già noti per altra via. Di ben maggiore utilità sono i frammenti — conservati presso Lattanzio — della versione o riduzione latina della Ιερά Αναγραφή fatta da Ennio. E si affaccia qui il problema dell'Evemero latino, problema che determinò nella critica due correnti, l'una di chi sostiene che la traduzione di Ennio era in versi, l'altra di chi invece ritiene che tale traduzione fosse in prosa. A volersi basare sui dati di fatto e attenere alla tradizione, sembra di dover propendere per la seconda ipotesi. Gli argomenti di cui si valgono i sostenitori della prima opinione risultano per lo più privi di fondatezza. Tentativi di riconoscere nei frammenti tracce di versi portano a risultati poco sicuri. Il Jacoby22 osserva a ragione come sia facile lasciarsi ingannare da tali presunte tracce di versi, adducendo a prova gli esempi del Vahlen, che riscοntrò nei frammenti il ritmo giambico trocaico, del Némethy, che vi riconobbe il ritmo dattilico, e del Ten Brink, che — sempre da questi frammenti mise insieme versi settenari. La menzione di Columella «Euhemerus poeta»23 giustificata e nel contempo svalutata dal Crusius24. Columella si rifà a una discussione di Igino sui poeti e tra questi annovera erroneamente Evemero. Igino a sua volta attinge da Evemero, sicché la versione latina non entra per nulla in questione. Ancora meno indicative sembrano talune argomentazioni addotte dal Némethy25: il fatto che di Ennio non siano ricordate opere in prosa non basta a escludere la possibilità che egli ne abbia scritte, e forse le stesse Saturαe, di cui quasi niente sappiamo, erano composte parte in versi e parte in prosa. E così la menzione di Pancaia nei carmi di Lucrezio26, Virgilio27, Tibullo28 e Ovidio29 — e qui il ragionamento del Némethy davvero poco convincente30 — non implica che la traduzione di Ennio fosse in versi. Quanto dicono Varrone31 e Cicerone32 non lascia affatto presumere che Ennio avesse composto un rifacimento poetico della Ιερά Αναγραφή. L'accenno di Cicerone induce piuttosto a pensare che Ennio — cosa che troverà conferma nei frammenti riportati. da Lattanzio — pur attenendosi in linea di massima al testo di Evemero, si sia preso talora la libertà dl aggiungere alcunché di suo33.
Lattanzio infine mette più volte in risalto la veridicità e l'attendibilità della storia rispetto alle finzioni e alla futilità della poesia34, né si stanca di ripetere che egli cita Ennio alla lettera35. Il Némethy36 prende in esame le parole di Lattanzio partendo dal presupposto che la versione di Ennio sia in versi, e ritiene perciò che Lattanzio abbia usato in buona fede quale autentica una riduzione in prosa dell'Evemero enniano. Ma vedremo, dopo aver già dimostrato la poca validità delle precedenti argomentazioni del Némethy, come anche questa ipotesi sia destinata a cadere. Tutta la costruzione del Νémethy si regge su capisaldi alquanto instabili, e a questo punto poi si ha l'impressione che egli compia acrobazie di pensiero per non incorrere in contraddizione, e sostenere la sua tesi senza volersi arrendere all'evidenza dei fatti. Egli è pronto a riconoscere che le citazioni di Lattanzio hanno un indubbio sapore di autenticità, e pone anzi a confronto alcuni stralci di queste con versi degli Annali, sottolineando numerose particolarità di espressione proprie di Ennio. La conclusione però è ben diversa da quanto ci si aspetterebbe e quasi illogica37, e ben osserva a questo proposito lo Skutsch38, che chi ricorre all'ipotesi di una parafrasi in prosa, dovrebbe almeno giudicare fallito il tentativo di riconoscere in tale parafrasi tracce di versi. Ma, restando a Lattanzio e alle sue citazioni, osserviamo cοme lo stile di queste sia invece l'antico stile della prosa latina, uno stile cronachistico, semplice, in cui i periodi sono formati da frasi corte, collegate quasi sempre paratatticamente39. La supposizione che egli si sia servito di una più tarda riduzione dell'Evemero enniano apparisce pertanto del tutto ingiustificata. L'accenno di Cicerone40 induce a pensare che altri e non soltanto Ennio avessero tradotto in latino la dottrina di Evemero, risalendo pero all'originale greco, e il fatto che Cicerone ricordi costoro fuggevolmente lascia supporre che le loro opere non fossero per nulla considerate, mentre quella di Ennio godeva di un certo prestigio. Tale prestigio orbene è dovuto a un fattore psicologico, essendo legato píù che all'interesse dei Romani verso la dottrina di Evemero — come vorrebbe il Némethy, ma la ragione di tale interesse non è chiara — al nome di Ennio, il primo vate di Roma, a cui si ricollegava idealmente Virgilio. Non vi è pertanto difficoltà ad ammettere che la versione di Ennio sia potuta giungere per via diretta o, più probabilmente indiretta tramite Varrone, sino a Lattanzio41.
Per quanto concerne il titolo della versione latina della Ιερά Αναγραφή, si ha l'impressione, stando a Lattanzio, che esso fosse Sacra Historia42. Lattanzio infatti allorchè introduce una citazione da Ennio quasi sempre premette «Ennius in sacra historia»43, o richiama semplicemente la «sacra historia» senza nominarne l'autore44. Anche il Jacoby, che in un primo tempo sosteneva la forma Euhemerus - Sacra Scriptio45, dove con «Euhemerus» sarebbe stato indicato l'autore46, mentre il «sacra scriptio» avrebbe riprodotto esattamente il greco «Ιερά Αναγραφή» , nella sua edizione dei frammenti di Evemero sembra accettare il Sacra Historia47. A parte il fatto che il «sacra scriptio» ricorre un'unica volta in Lattanzio ovvero in Ennio48, il titolo Sacra Historia sembra meglio adeguarsi al contenuto dell'opera. Per quanto riguarda infatti lo scritto greco di Evemero, è innegabile che il titolo Ιερά Αναγραφή, pur se lo si intende in senso largo, conservi un legame con la famosa iscrizione a cui deve ovviamente l'origine. Ciò che però è giustificato nell'opera originale, dove l'autore è colpito dall'arcano dell'iscrizione da lui scoperta, non ha ragione di esistere di riflesso nella traduzione dell'opera, dove l'iscrizione, sempre conservando un ruolo di primo piano, diventa tuttavia un documento considerato a freddo insieme agli altri dati che costituiscono la trama della Ιερά Αναγραφή.
Per la conoscenza della dottrina di Evemero i frammenti di Ennio recano un notevole contributo. Essi sono a noi soprattutto utili per la parte riguardante la storia degli dèi, parte che interessa a Lattanzio come sostegno per le sue argomentazioni, e della quale da Diodoro ci è conservato un breve sunto. I passi di Ennio vengono pertanto a ampliare e in certo modo a completare le notizie di Diodoro, e i punti di contatto fra i due testi aiutano il tentativo di ricostruire — entro i limiti del possibile — l'intelaiatura della Ιερά Αναγραφή. L'unica contraddizione che si riscontra fra Diodoro e Lattanzio riguarda il dio Urano e il nome di questo. Secondo Diοdοrο49 Urano fu così chiamato per la sua conoscenza degli astri e per l'avere per primo offerto sacrifici agli dèi celesti. Secondo Lattanzio50 fu invece Giove a imporre al cielo il nome dell'avo, nell'atto di immolare una vittima in onore di quest'ultimo. I tentativi di conciliare le due diverse versioni del fatto portano a risultati poco convincenti. Il «διό καì Oύρανόν προσαγορευϑήναι» ha un significato immediato ben chiaro, e non sembra per nulla probabile che Ennio abbia potuto intendere con Oύρανόν il cielo anzichè il dio, né un tale voluto mutamento di interpretazione da parte di Ennio sarebbe d'altro canto spiegabile51. Il Kaerst52 cerca di risolvere la questione mediante l'ipotesi di una corruttela del testo di Diodoro che potrebbe essere integrato con l'aggiunta di un τόν κόσμον, sì da assumere un significato concorde alla versione dell'episodio data da Ennio, versione che egli ritiene conforme al pensiero di Evemero. Ma se ci atteniamo ai dati di fatto, senza ricorrere a ipotesi più o meno verosimili, sembra inevitabile ammettere la contraddizione fra i due testi e altrettanto inevitabile rinunziare a spiegare tale contraddizione. Che Ennio si sia lasciato prendere la mano dalle dottrine esposte nell'Epicarmο e abbia travasato nella Sacra Historia alcuni concetti propri dell'interpretazione fisica della mitologia53, sembra poco probabile, tanto più se si tien conto dell'opposizione tra la dottrina di Epicarmo e quella di Evemero, che entrambe sono esposte da Ennio non con interesse diretto, bensì proprio con l'intendimento di mettere in risalto due sistemi diversi.
Resta pertanto da esaminare chi fra Diodoro e Lattanzio riproduca più veracemente il pensiero di Evemero, nè vale per questo ricorrere a testi di altri evemeristi, perché in essi troviamo attestata indifferentemente sia l'una sia l'altra versione54. La maggior parte dei critici è d'accordo nell'attribuire ad Evemero la distinzione degli dèi in dèi celesti ed eterni e in dèi terreni55. Difficile è però precisare quale parte abbiano nel sistema del nostro le divinità del primo gruppo, perchè, se è vero che l'interesse di Evemero converge sugli dèí terreni, da un attento esame dei frammenti si riporta tuttavia l'impressione che il riconoscimento e l'ammissione degli dèi celesti sia qualcosa di più di una vacua premessa, di un omaggio reso verbalmente alla tradizione. La divinità dei corpi celesti, la potenza degli astri — non si deve qui dimenticare che l'astrologia come scienza e religione stava affermandosi anche nel mondo occidentale — è riconosciuta da Evemero che fa rendere ad essi da Urano sacrifici. Ed è appunto questo atto di omaggio compiuto da Urano, capostipite degli dèí terreni, verso gli dèi celesti, — omaggio a cui fa riscontro quello di Zeus verso Urano — che viene a sottrarre questi ultimi al loro isolamento e che è il filo, seppure esile, che collega il cielo alla terra. Di conseguenza apparisce ben più logico ritenere che Urano, uomo divinizzato per i suoi meriti, abbia avuto l'onore di ricevere il nome dal cielo, anziché pensare che sia il cielo, sede delle divinità eterne, a portare il nome di Urano.
Scarsi contributi alla conoscenza di Evemero recano le testimonianze e le citazioni — in gran parte di seconda mano — che troviamo presso altri scrittori. Il fatto che questi seguano una determinata direzione di pensiero agevola il nostro orientamento. Distinguiamo gli scrittori ecclesiastici che, come già Lattanzio, si valgono di Evemero, scrittore pagano, proprio per dare maggiore evidenza alla loro confutazione della religione e dei culti pagani: Clemente Alessandrino56, da cui deriva Arnobio57, e Agostino58 che tocca i principi fondamentali della dottrina di Evemero. Contro Evemero in difesa della religione pagana tradizionale si levano Callimaco59, Eratostene60, Polibio61 e Plutarco62, che tacciano l'autore della Ιερά Αναγραφή di fatuità. Un ulteriore gruppo è rappresentato dagli scrittori latini, che attingono dalla versione di Ennio: Varrone63, Feste64, Cicerone65; per non dire dei fugaci accenni di Lucrezio66, Virgilio67 e Ovidio68. Le testimonianze e citazioni isolate che infine troviamo presso altri autori, si riferiscono generalmente a questioni particolari, a singoli punti della dottrina evemerea69.
La Ιερά Αναγραφή, stando a quanto si deduce dai due estratti di Diodoro e dai frammenti conservati da Lattanzio, doveva essere un'opera organica che abbracciava, in conformità del gusto e delle tendenze del tempo, molteplici interessi. Proprio per la versatilità di cui diede prova, Evemero fu da taluno considerato filologo, da altri storico, da altri ancora geografo, senza che in realtà nessuno di questi campi fosse da lui particolarmente approfondito. I critici sono peró concordi nel riconoscere nell'abilità letteraria del nostro autore il segreto del successo della sua dottrina e della rapida diffusione della sua opera.
Questa si inizia per noi con il primo ampio estratto di Diodoro. Il nome di Evemero non è qui fatti espressamente, come invece accade per altri autori dai cui scritti Diodoro introduce citazioni, ma dal confronto con il passo del libro sesto, in cui è ricordato l'autore della Ιερά Αναγραφή, e dall'esplicito richiamo di questo secondo passo al precedente, risulta con certezza che entrambi i brani fanno parte della stessa opera.
Soffermiamoci un momento sul primo. Si ha la netta impressione che Diodoro parafrasi o meglio stralci il testo di Evemero, omettendo forse talune notizie e indugiando invece su quelle particolarità descrittive che rispondevano al gusto e alla curiosità per l'esotico. Secondo alcuni ragguagli di Diodoro tratti probabilmente dal proemio stesso della Ιερά Αναγραφή, il nostro autore avrebbe intrapreso per incarico di Cassandro dei viaggi verso il mezzogiorno spingendosi sin nel mare arabico e nell'oceano indiano; quanto egli narra risponderebbe perciò a visione diretta. Senza negare ogni fede a questa affermazione, non si vorrà peró attribuirle un valore assoluto. Se nulla infatti vieta di pensare che Evemero abbia preso parte a una delle tante spedizioni condotte dagli ammiragli di Alessandro in India e in Arabia, è tuttavia chiaro che molto di quanto è narrato nella Ιερά Αναγραφή, è frutto di fantasia o perlomeno elaborazione di osservazioni personali. Vano è il tentativo di identificare le tre isole descritte da Evemero con terre altrimenti note. Il nostro autore — ed ecco un primo saggio della sua abilità — dà l'illusione di determinare la posizione geografica di queste tre isole, ne riferisce la grandezza, misura la distanza della prima dalla seconda e della terza dalla prima, ma non dice in quale direzione tale distanza sia calcolata. I dati a nostra disposizione risultano pertanto insufficenti e le tre isole, sperdute nel gruppo numeroso di cui fanno parte, non sono per noi altro che tre nomi70. Sulla terza, Pancaia, si sofferma soprattutto l'attenzione di Evemero. La descrizione di quest'isola, delle sue rare bellezze naturali, del suo ordinamento politico, del tempio di Zeus sino alla famosa iscrizione, doveva costituire la parte principale dell'opera. L'ambito del racconto, quale riusciamo a individuarlo seguendo le tracce di Diodoro, si veniva di grado in grado restringendo e la stele dedicata da Zeus alle sue imprese, a quelle dei suoi avi e dei suoi discendenti, ne rappresentava il punto culminante. Diodoro non si attiene fedelmente al testo di Evemero, coglie qua e là alcuni particolari, indugia su quei dati che gli sembrano interessanti, ne lascia sfuggire altri per poi cercar di riprenderli, in modo che l'ordinamento logico dell'opera risulta turbato. Alquanto ampia e diffusa è la descrizione della pianura che circonda il tempio, fertile terra cosparsa di fiori, di alberi da frutto, e di piante ornamentali e irrigata dalle acque dotate di potere salutare che sgorgano da un'abbondante sorgente all'estremità dello stadio costruito presso il tempio stesso. Di quest'ultimo, del quale lo scrittore tornerà a parlare quando menzionerà la famosa iscrizione, sono messi in rilievo l'imponenza della costruzione e i pregi che derivano dall'antichità e dall'arte.
Indefinita è invece la posizione di Panara, città che — a quanto sembra — costituiva un'oasi privilegiata nell'isola di Pancaia. Probabilmente essa faceva parte della sacra zona che circondava il tempio di Zeus e che, essendo molto estesa, comprendeva oltre il sacrario vero e proprio, lo stadio, la lussureggiante pianura, i cui proventi erano devoluti in offerte e sacrifici in onore degli dèi, e il mente Olimpo. L'appellativo stesso degli abitanti di Panara ικέται του Διός του Τριφυλίου, venendo a indicare che essi, quasi come una casta sacerdotale, erano particolarmente legati al culto divino, nοnchè la loro autonomia e indipendenza da un sovrano esterno, convalidano la nostra opinione.
Meno chiara ancora è la distinzione degli abitanti dell'isola in varie tribù. Quasi all'inizio del passo Evemero ricorda, oltre gli autottoni Pancai, gli immigrati Oceaniti, Sciti, Indi, e Cretesi. Più avanti pero spiega che al monte Olimpo, già detto sede di Urano, fu dato l'appellativo di Trifilio, perché tre erano le tribù abitatrici del luogo: quella dei Pancai, quella degli Oceaniti e quella dei Doi. Forse più che di una sottodivisione delle tribù — poiché in tal caso parrebbe strano che due tribù fossero le medesime di prima, e l'appellativo di Olimpo Trifilio messo in relazione con quello di Zeus Trifilio meglio si riferirebbe agli abitanti di tutta l'isola che non a quelli di una regione circoscritta — si tratta qui di una sovrapposizione di eventi, i quali, mentre vengono descritti da Diodoro come contemporanei o quasi, si svolsero in realtà in un lasso di tempo alquanto ampio, che si inizia con la fondazione del tempio da parte di Zeus, allorché visse tra i mortali. Evemero, mirando a documentare la Ιερά Αναγραφή, si era certo preoccupato di fissare la storia dell'isola nei suoi fatti principali, e se di questi soltanto alcuni vengono ricordati o anche appena accennati, la colpa è da attribuirsi non a lui bensì a Diodoro. Delle altre tre celebri città dell'isola di Pancaia non sappiamo che il nome, e l'ultimo 'Ωκεανίδα, con evidente richiamo alla tribù degli Oceaniti, ci fa pensare che anche gli altri due nomi derivassero da tribù, come pure quello della distrutta Doa deriverebbe dalla tribù dei Doi.
Di particolare interesse é l'ordinamento politico-sociale dell'isola di Pancaia. Troviamo qui applicati i principi razionalistici caratteristici ,del tempo, quei medesimi principi di cui — come vedremo in seguito — sarà frutto la dottrina di Evemero sugli dèi. La costituzione di Pancaia, osserva a ragione il Jacoby71 richiamandosi a quanto il nostro autore dice sulla stirpe dei sacerdoti, che da Zeus, allorché regnava tra i mortali, furono condotti da Creta in Pancaia, appare essere di origine monarchica. Ben inteso però, soltanto di origine: ed è per questo (ci riferiamo sempre a quanto dice il Jacoby), che di nessun sovrano viene fatta menzione. La stirpe dei sacerdoti è l'erede legittima di Zeus, ad essa spettano i compiti e le prerogative sovrane72, ed essa rappresenta la suprema indiscussa autorità anche per gli abitanti di Panava, che cοstituivanο nell'isola di Pancaia una piccola comunità privilegiata e autonoma. Il fatto che la classe dei sacerdoti venga posta sullo stesso piano delle altre, e che ad essa venga associata quella degli artigiani, come alla classe dei soldati verrà associata quella dei pastori, non pregiudica nulla, poiché tale ordinamento ha in Pancaia un valore puramente amministrativo. Raggruppando a due a due categorie così diverse come sacerdoti e artigiani, soldati e pastori, si mirava ovviamente a ottenere un pareggio nel numero dei componenti ciascuna delle tre classi, che, data la natura e la produttività di Pancaia, l'agricoltura doveva dar lavoro a una gran parte degli abitanti dell'isola. Inoltre attività di immediato rendimento materiale, come quelle degli artigiani e dei pastori, venivano a compensare l'attività dei sacerdoti e dei soldati che, svolgendosi nei ranghi direttivi o di difesa dello stato, aveva un valore ideale o perlomeno privo di qualsiasi concreta funzione produttiva. Organizzazione tecnica dunque quella di Pancaia, ben rispondente allo spirito che domina nell'età ellenistica73. A ognuno è assegnato il proprio compito, ognuno coopera al vantaggio comune dei suoi concittadini, versando i proventi del proprio lavoro interamente allo stato, e dai sacerdoti, che ne sono i rappresentanti, riceve la parte che gli spetta. Il collettivismo delineato da Evemero non è così radicale da sfociare in un comunismo : la proprietà privata limitata allo stretto fabbisogno, casa e giardino, esiste e i sacerdoti, in quanto classe dirigente, godono di una posizione privilegiata. Nella distribuzione dei beni poi, non viene seguito un criterio assoluto, anzi si cerca di promuovere l'iniziativa individuale, mediante premi che vengono conferiti a coloro che hanno saputo lavorare con il maggior rendimento74. Amministrazione saggia che, coadiuvata dalle ricchezze naturali dell'isola — in Pancaia oltre ai fertili campi ci sono pure ricche miniere d'oro, argento e altri metalli — crea uno stato di benessere generale. È difficile giudicare se Evemero, tracciando la costituzione di Pan-caia, si sia proposto uno scopo didattico o se invece si sia limitato a dare — pure restando nei limiti del possibile e del realizzabile — la visione utopistica di uno stato ideale. Difficile soprattutto perché, come già osservammo, con i frammenti della Ιερά Αναγραφή, che ci sono giunti per via tosi Indiretta, noi riusciamo in parte a rimettere insieme una dοttrińa oggettivamente, ma non sempre riusciamo a prospettarci il punto di vista dell'autore.
Dottrine politiche che mostrino una certa analogia con quella di Evemero ne troviamo sia in Oriente sia in Grecia, ed è possibile che il nostro autore abbia avuto presenti e le une e le altre. Volere del resto stabilire in età ellenistica una netta divisione tra Oriente e Grecia sarebbe assurdo e antistorico, perché contrario agli ideali a cui si ispirò la politica dei governatori dell'epoca. La stessa divisione sistematica dei cittadini in classi, a seconda dell'attività da essi esercitata, considerata come base dell'amministrazione di uno stato, è frutto del pensiero greco, che giunse però all'elaborazione di tale teoria osservando le condizioni di paesi orientali, in cui la vita si svolgeva, sin da tempi antichissimi, secondo relazioni ben circoscritte e definite75. Non si deve inoltre dimenticare che le notizie sui popoli dell'Oriente, alle quali noi ci riferiamo per confronti con Evemero, ci sono tramandate — quasi sempre di seconda mano — da scrittori greci, e che questi di rado sono immuni da tendenziosità o inesattezze. Così Megastene76, allorché ricorda che la popolazione dell'India è divisa in sette classi, confonde probabilmente le caste, a cui i cittadini appartenevano per privilegio di nascita, con le classi, in cui erano invece raggruppati a seconda dell'attività che esercitavano. Maggior affinità con la costituzione tripartita di Evemero presenta l'ordinamento social-economico dell'Egitto — e non fa d'uopo ricordare qui l'importanza che ha l'Egitto nella storia della cultura classica — quale ci è noto attraverso il racconto di Ecateo77. A proposito di questo scrittore in particolare, si deve tenere presente che è un tipico rappresentante dell'età ellenistica e che i suoi rendiconti, su cui sono proiettati ideali greci, non sempre rispondono a verità78. Secondo Ecateo la massa del popolo è divisa nelle tre classi dei pastori, agricoltori e artigiani: le categorie dei sacerdoti e dei soldati sono considerate a parte. Anch'egli, come già Megastene per l'India, sottolinea il fatto che ciascuno deve esercitare l'ufficio che gli é stato assegnato e che ha ereditato dagli avi, senza cambiare occupazione e senza dedicarsi contemporaneamente a piú attività, si da evitare un'inutile dispersione di energie79.
Venendo alla Grecia, Ippodamo di Mileto80 propone in pochi cenni una costituzione che, a detta del Jacoby81, si accorda in modo sorprendente con quella della Ιερά Αναγραφή. Si intuisce a prima vista che il sistema di Ippodamo vuole essere estremamente funzionale, rispondendo a quei medesimi principi razionalistici, da cui è dettata la costituzione tripartita di Evemero. L'unica sostanziale differenza fra Evemero e Ippodamo riguarda i sacerdoti, di cui Ippodamo non fa cenno. È proprio questo il punto dove il nostro autore si avvicina con assoluta evidenza al mondo orientale. In Grecia mancava un clero professionale, né i sacerdoti costituivano fra i cittadini una categoria speciale82. Quanto Evemero poi riferisce sulla foggia del vestire, sugli ornamenti, sulle forme di culto praticate dai sacerdoti di Pancaia, richiama senza dubbio usi e costumi orientali. La proibizione di uscire dal sacro recinto, imposta ai sacerdoti pena la morte, corrisponde a quanto Strabone riferisce sui re dei Sabei83. La struttura stessa del tempio con la sua grandiosità e magnificenza, le preziose offerte d'oro e d'argento che si accumulano con gli anni, non essendo lecito asportare nulla di quanto si ricava dalle ricche miniere locali84, richiamano il lusso e il fasto dell'Oriente.
Nella Ιερά Αναγραφή c'è insomma una contaminazione, di elementi greci con elementi orientali, e tale contaminazione la possiamo rilevare sia nei particolari sia nelle linee generali dell'opera. Sempre riguardo ai sacerdoti osserviamo infatti che essi nell'assolvimento delle pratiche religiose, di quei compiti cioè più inerenti alla loro posizione sacerdotale, mostrano molti punti di contatto con i ministri di culti stranieri; sono però oriundi di Creta, si vantano della loro origine greca e rivelano la duttilità dello spirito greco nell'esercizio delle loro funzioni direttive. Si ha l'impressione che Evemero abbia voluto in definitiva inquadrare nella sua opera — e non importa qui, se e fino a che punto sia entrata in giuoco la fantasia — un mondo governato da principi greci, in ambiente orientale85. Anche in questo egli si rivela figlio del suo tempo, di quel tempo in cui lo spirito greco a contatto con le civiltà dell'Oriente esercita su di esse il suo influsso, ma a sua volta lo subisce, seppure in modo non del tutto passivo. Alessandro medesimo, che era dotato di una spiccata personalità e di un fascino poco comune, non riesce a vincere il peso di tradizioni antichissime né a sottrarsi a esse. Soltanto tenendo presente questa reciprocità di rapporti fra Oriente e Grecia, questa posizione spirituale, per cui sorgono nuove esigenze in contrasto con un passato che minaccia di crollare, è possibile dare ai principali problemi che vertono sulla Ιερά Αναγραφή la loro giusta impostazione. Anche la dottrina di Evemero sugli dèi apparirà in tal modo come un prodotto del tempo e anche per essa non si vorrà sopravvalutare l'apporto del mondo orientale.
Con la teologia tocchiamo l'evemerismο vero e proprio, la dottrina audace e sovvertitrice che costituì e costituisce l'interesse principale della Ιερά Αναγραφή, in quanto fu la prima scintilla dell'incendio che divampò a distruggere tradizioni secolari. Per formulare la sua dottrina Evemero prende lo spunto dal ritrovamento della stele d'oro nel sacrario del tempio di Pancaia, sulla quale si legge la famosa iscrizione di mano di Zeus. Secondo questa iscrizione gli dèi della mitologia sono antichi re, che in virtù dei benefici compiuti verso l'umanità furono elevati agli onori divini86. Senza lasciarci trarre in inganno dai numerosi paralleli che riguardo a questa dottrina si riscontrano fra Evemero ed Ecateo87, poichè Ecateo, come gi si è detto, spesso rivela un orientamento di idee che non ha nulla di egizio, possiamo anche qui osservare come taluni elementi siano più propriamente greci, altri invece stranieri. Così la menzione della tomba di Zeus a Creta88, a cui fa riscontro in Ecateo quella della tomba di Iside a Menfi o a Nisa89, è di origine greca, pοichè la tradizione egiziana non conosce alcuna tomba della dea90. Viceversa il particolare della proibizione del cannibalismo in Grecia da parte di Zeus91 e in Egitto da parte di Osiride92, deve essere ricondotto al mondo egizio, essendo in Grecia sconosciuto il cannibalismo anche negli stadi primitivi di vita93.
Mentre Ecateo aveva limitato la sua dottrina alle divinità dell'Egitto identificate con quelle della Grecia, Evemero fa un decisivo passo avanti e la applica alle divinità vere e proprie dei Greci. Egli trovò il terreno preparato e non fece altro che trarre le logiche conseguenze delle tendenze religiose, spirituali e politiche del tempo94. L'evemerismo deve infatti essere messo in relazione con il culto dei sovrani, poichè, se anche questo non fu causa immediata di quello o viceversa, sia everismo sia culto dei sovrani sono espressioni parallele del razionalismo. Fu questa corrente filosofica a dare l'impronta fondamentale a tutto il pensiero dell'epoca. Essa esaltando le capacità umane, considerando la civiltà e il progresso come frutto dell'agire consapevole e intenzionato di alcune personalità particolarmente dotate, e attribuendo agli antichi re i ritrovati a vantaggio dell'umanità, favoriva il principio monarchico. E proprio secondo il concetto della monarchia ellenistica il sovrano ha diritto alla dignità regale solo in quanto è in grado di beneficare i suoi sudditi e dà prova di sagacia e avvedutezza, manifestandosi in lui la forza della ragione. Egli rappresenta per lo stato ciò che prima era il dio95, e i mutevoli eventi politici rendendo i potenti arbitri della situazione, contribuiscono all'affermarsi di questo concetto96. Le prestazioni a vantaggio del popolo sono la prova più manifesta di una potenza divina operante nel sovrano, e il riconoscere in un uomo il divino non crea per l'uomo difficoltà, poiché il divino è piegato alle esigenze della ragione97, è la norma ispirata a suprema saggezza che regola la condotta di un individuo. Il culto dei sovrani è pertanto un prodotto dell'ellenismo98 e non ha propriamente e originariamente niente a che fare con il culto che veniva tributato in Egitto ai Faraoni, culto che al di fuori dei confini egizi non aveva né significato né ragione di esistere. In Grecia è considerata divina la personalità del sovrano: è la personalità di chi regna a prevalere sull'istituzione monarchica, mentre in Egitto accade il fenomeno opposto99. Anche le più lontane radici del culto ellenistico dei sovrani vanno ricercate nel mondo greco, nel culto degli eroi e degli dèi, senza tuttavia dimenticare che in Egitto la tradizione aveva posto all'inizio della storia dèi-re, e che questo fatto fu di importanza capitale e determinante non solo entro il raggio del potere degli antichi Faraoni. A tradurre in realtà un corso di idee eminentemente greco intervenne quindi un impulso esterno, poiché pure l'atto vero e proprio dell'apoteosi è un'istituzione egizia100.
Un rapporto pressapoco analogo a quello che abbiamo riscontrato fra il culto ellenistico dei sovrani e il culto egizio dei faraoni, intercorre fra evemerismo e culto — naturalmente ellenistico — dei sovrani. Tutti i principi fondamentali della dottrina di Evemero trovano infatti appoggio nelle vicende degli dèi, quali ci sono note attraverso le antiche tradizioni mitologiche101; il passo decisivo però, la deduzione da fatti singoli di una teoria sistematica di generale applicazione, Evemero lo compi soltanto perché indotto dalla realtà, da una realtà in cui egli vedeva attuabile, o — meglio ancora diremo — attuato il suo pensiero. È il presente che si riflette sul passato piuttosto che il passato sul presente, e per questo sembra più giusto esprimere la relazione fra evemerismo e culto dei sovrani con la formula secondo la quale, come i recenti sovrani venivano innalzati al rango di divinità, così gli antichi dèi della mitologia potevano essere debitori all'apoteosi degli onori divini102, anziché seguire il ragionamento inverso, vale a dire che, come gli dèi erano stati antichi sovrani, così potevano gli odierni sovrani essere veri dèi103. Se nel culto dei sovrani trovava sfogo e appagamento lo spirito religioso dell'epoca, sempre in stretto rapporto con le condizioni politiche, pure in questo senso devo essere interpretata la teologia di Evemero, che non era affatto diretta contro la religione popolare, bensì era un tentativo di spiegare l'origine dell'Olimpo pagano, dando — in modo conforme ai tempi — una interpretazione storico-razionalistica di esso104.
Così, sembra, deve essere guardata la Ιερά Αναγραφή, e così all'incirca si può chiarire la genesi dell'opera, senza però attribuire al ragionamento testé addotto un valore assoluto, nè trarre da esso le estreme conseguenze. Nella Ιερά Αναγραφή c'è infatti un indubbio riflesso della realtà, ma soltanto un riflesso, e certo fu lungi da Evemero l'intenzione di rispecchiare nella sua opera — a scopo satirico o elogiativo — semplicemente le vicende della monarchia di Alessandro e dei suoi successori105. L'attualità della Ιερά Αναγραφή — e su questa attualità nessuno ardirà avanzare restrizioni — è dall'autore sapientemente celata, in quanto tutti i punti essenziali della sua dottrina hanno riscontro nel recente culto dei sovrani o con più precisione nella storia di Alessandro, ma lo hanno pure, come si è detto, nel culto e nelle vicende degli antichi dèi. Proprio per questa posizione un po' ambigua, siamo costretti ad ammettere di non riuscire ad afferrare il fine ultimo di Evemero, di restare dubbiosi di fronte ad alcuni particolari106, chiedendoci se sia stata la contemplazione della realtà presente a far sì che Evemero vedesse in modo realistico ciò che prima era circondato dall'alone della fantasia, o non sia la riflessione critica esercitata sullo stesso passato ormai morto a indurre il nostri autore a ritrovarlo adombrato in un presente in cui stava verificandosi il medesimo processo. Comunque, ciò che più conta è le spirito di Evemero, e questo spirito si rivela, nell'uno e nell'altro caso, moderno, strettamente radicato nel tempo, nel quale solo poteva trovare la ragione di essere tale.
Quali che fossero poi le intenzioni di Evemero, è facile constatare che nella Ιερά Αναγραφή la religione popolare trovava una spiegazione, ma molto perdeva del suo prestigio. Gli dèi sono posti al livello di comuni mortali e la stessa figura di Zeus, di uno Zeus che vaga di terra in terra distribuendo potere e ricchezze a parenti e ad amici, che invecchia e che muore, appare alquanto imborghesita. Anche il ricorso all'autodivinizzazione, mediante la costruzione da parte degli dèi di templi in proprio onore, rientra in quest'ordine di idee e, pur volendo essere un'affermazione di potenza, risulta di fatto un espediente molto umano, che vuole esercitare violenza sul sentimento del popolo. La religione viene così ad essere ridotta a un simbolo, a servire alla ragione di stato, ed è per questo che Evemero assegna il primo posto ai sacerdoti nella costituzione di Pancaia, e conserva a un culto, il cui oggetto molto aveva perduto del suo valore intrinseco, tutto il fasto esteriore. Evemero aveva intuito le conseguenze alle quali poteva portare la sua dottrina; di qui la premessa sugli dèi celesti ed eterni identificati con le forze della natura. In tal modo il principio era salvo, ma vano risultava il tentativo di garantire con l'esistenza degli dèi superiori l'esistenza e la divinità di questi altri dèi che troppo avevano di umano; e per il mondo del mito, in cui lo spirito religioso dei Greci aveva trovato la più genuina espressione, l'evemerismo era una nuova minaccia, un nuovo colpo che ne avrebbe accelerato il processo di disgregazione.
1. ENNIO ap. LACT. Div. inst. I, 11, 33; EUS. Pr. ev. II, 2, 52; STRAB. I, 3, 1; II, 4, 2; PLUT. De Is. et Os. 23 p. 360 A; AELIAN. V. H. II, 31; Etym. magn. 215, 37; Schol. Clem. Alex. Protr. Il, 24, 2. Impossibile è individuare se si tratti, come perlopiù si ritiene, della Messene sicula, piuttosto che di quella peloponnesiaca.↩
2. CLEM. Protr. II, 24, 2: dal commento dello scoliaste a questo passo si è indotti a pensare che l'opinione di coloro che ritenevano Messene patria di Evemero, fosse la più fondata e diffusa; ARN; Adv. nat. IV, 29.↩
3. Plac. I, 7, 1.↩
4. Pr. ev. XIV, 16.↩
5. Hist. Philos. 35.↩
6. Graec. aff. cur. II, 112; III, 4.↩
7. V. a questo proposito DIΕLS, Doxographi Graeci, Berlin 1879 p. 58; ΝÉMETHY, Euhemeri reliquiae, Budapest 1889 p. 3 sg.; v. GILS, Quaestiones euhemereae, Kerkrade-Heerlen 1902 p. 99; JACOBY in PAULY-WISSOWA, Real-encycl. VI, col. 952 sgg.↩
8. De n. d. I, 119.↩
9. Adv. math. IX, 50.↩
10. Ad Autol. III, 7.↩
11. XIV, 658 E.↩
12. VI, Ι, 1. Il JACOBY, o. c. col. 953 ritiene invece che tanto il viaggio di Evemero quanto il richiamo a Cassandro non siano che una finzione, e del medesimo parere è HERTER in PAULY-WISSOWA, Real-encycl. Suppl. 5, col. 426.↩
13. v. 9.↩
14. V. PFEIFFER, Callimachus, Oxford 1949. Vol. I, p. 162, Fr. 191.↩
15. Secondo il Némethy o. c. p. 7, l'allusione di Callimaco va riferita a Evemero, in quanto fu Evemero a interpretare in modo empio le favole dei Cretesi altrimenti innocue.↩
16. Il PFEIFFER, Cαllimαchus, Oxford 1953, Vol. II, p. XXXIX, osserva che il Serapeo a cui allude Callimaco non può essere uno dei templi a noi noti dedicati a Serapide, in quanto questi si trovavano entro la cerchia delle mura di Alessandria.↩
17. Fr. 112. 840 in PFEIFFER o. c. Vol. I, p. 125.↩
18. VΙ, Ι.↩
19. XIV, 658 Ε.↩
20. V. JACOBY ο. c. col. 953.↩
21. V, 41-46; ap. ΕUS. Pr. ev. II, 2, 52-62.↩
22. o. c. col. 955.↩
23. De r. r. IX, 2.↩
24. Rh. Mus. XLVIΙ, 1892, 63 sg.↩
25. o. c. p. 19.↩
26. II, 417.↩
27. Georg. II, 139; IV, 379.↩
28. III, 23.↩
29. Met. X, 307, 310.↩
30. A questo proposito cfr. v. GILS, o. c. p. 68.↩
31. De r. r. III, 48.↩
32. De n. d. I, 42, 119.↩
33. V. ad es. la spiegazione latina del nome Pluto in LACT. Div. inst. I, 14, 1; l'etimologia dì Latium, ibid. I, 14, 10, la cui fonte è un verso che secondo il Jacoby fa parte degli Annali e che il Némethy colloca invece tra i frammenti incerti; la menzione di Enea, ibid. I, 17, 9.↩
34. Div. inst. I, 11, 17; Ι, 11, 23; I, 11, 36; I, 11, 47; I, 14, 1.↩
35. Div. inst. I, 11, 33; I, 11, 44; Ι, 11, 63 ; I, 13, 14; I, 14, 1.↩
36. o. e. p. 22 sgg. ↩
37. ΝÉMETHY, o. c. p. 24.↩
38. PAULY-WISSOWA, Real-encycl. V, col. 2600 sgg.↩
39. Caratteristico a questo proposito è il passo in cui è esposta la storia di Saturno, Titano e Giove, LACT. Div. inst. I, 14, 1.↩
40. De n. d. I, 119.↩
41. Il fatto che Lattanzio citando Evemero riporti di peso il giudizio di Cicerone, eliminando il «praeter ceteros», non solo induce a pensare che ai suoi tempi l'unica versione nota della Ιερά Αναγραφή fosse quella di Ennio, bensì anche che egli non conoscesse l'originale greco, e valendo ricondurre Ennio alla sua fonte facesse appello al giudizio di Cicerone. Forse pure le notizie premesse su Evemero, Lattanzio le attingeva dalla versione di Ennio.↩
42. RUPPRECHT, Philologus, LXXX, 1925, 350 sgg.↩
43. Div. inst. I, 11, 14; I, 11, 63.↩
44. Div. inst. I, 11, 63; I, 13, 2; I, 14, 1; I, 17, 9; I, 22, 21.↩
45. o. c. col. 955.↩
46. SKUTSCH, o. c.↩
47. JACOBY, Die Fragmente der Griechischen Historiker, Erster Teil, Berlín 1923, p. 309.↩
48. Il passo in cui è narrata la genealogia di Giove, ricavata dall'iscrizione sulla stele del tempio di Zeus in Pancaia, si conclude così: in hunc modum nobis ex sacra scriptione traditum est (LACT. Div. inst. I, 14, 1 sgg.). Si tratta ivi primo luogo di vedere se tale osservazione vada attribuita a Lattanzio ovvero a Ennio. Il Jacoby, evidentemente indotto da questa a pensare al «sacra scriptio» come possibile titolo della Ιερά Αναγραφή, la ritiene di Lattanzio, e in tal caso il «sacra scriptio» si riferirebbe senza dubbio allo scritto di Ennio, poichè, non avendo Lattanzio fatto che un generico accenno — allorchè iniziò a parlare di Evemero — alle iscrizioni di cui questi si servì per comporre la sua opera, difficilmente si richiamerebbe qui, quasi di punto in bianco, all'iscrizione del tempio di Zeus in Pancaia. Se però si attribuisce la frase in questione a Ennio — e a ciò siamo propensi non solo per il raffronto con le altre citazioni di Lattanzio da Ennio, dove il richiamo del primo al secondo compare sempre e unicamente all'inizio della citazione, e dopo la cui fine Lattanzio passa invece direttamente ad argomentazioni sue, ma anche perchè sembra ben giustificato da parte di Ennio il voler sottolineare, come già aveva fatto Evemero, l'importante particolare che fonte delle notizie su Saturno e Giove era la sacra iscrizione di Pancaia — senza dubbio il «sacra scriptio» non può che indicare la iscrizione vera e propria, e non ha nulla a vedere con il titolo dell'opera in generale. Passando a considerazioni stilistiche, l'«hunc» all'inizio della frase in questione, riprendendo l'«haec» della frase precedente, ben risponde allo stile enniano, e in particolare il costrutto «in hunc modum» sembra essere proprio di Ennio piuttosto che di Lattanzio. Sempre in questo passo di Ennio troviamo infatti l'analogo costrutto ιι ad eundem modum » (Div. inst. I, 14, 5) e più avanti, dove Lattanzio parafrasa il testo di Ennio leggiamo : «in eundem modum» (Div. inst. I, 22, 23). Nelle Divine institutiones il costrutto «in hunc modem» ricorre una sola volta nel testo vero e proprio di Lattanzio e mai troviamo costrutti simili. Dato che quest'unica eccezione la riscontriamo in un passo che segue immediatamente una citazione da Ennio (Div. inst. I, 11, 36), è facile attribuirla all'influsso di quest'ultimo. A togliere ogni dubbio dovrebbe poi bastare il confronto con l'analogo passo dell'Epitome, dove in hunc modum nobis ex sacra scriptione traditum est fa incontestabilmente parte della citazione da Ennio (LACT. Epit. ad Pent. 13, 3).↩
49. VI, 1, 8.↩
50. Div. inst. I, 11, 63.↩
51. Il JACOBY, o. c. col. 957 ritiene la frase διό καί Ούρανόv προσαγορευϑήναι ambigua in quanto può essere interpretata variamente a seconda che si legga Oύρανόν oppure oύρανόν.↩
52. Κ. I. KAERST, Geschichte des hellenistischen Zeitalters, Berlin 1909, p. 231.↩
53. ΝÉMETHY, o. c. p. 25.↩
54. DIODORO (Ι, 13, 1) esponendo l'ateologia degli Egizi secondo Ecateo, dice che alcuni degli dèi terreni portano lo stesso nome degli dèi celesti e cita l'esempio di Helios che fu il primo sovrano dell'Egitto e ricevette appunto il fame dall'astro. V. a questo proposito JACOBY, o. c. col. 969.
Sempre in DIODORO (III, 56, 5) in un passo derivante da Dionisio Skytobrachion, si legge invece che il cielo fu così chiamato dal nome del re Urano che conosceva gli astri e i loro movimenti.↩
55. Prima di esporre il contenuto della Ιερά Αναγραφή, Diodoro (ap. Eus. Pr. ev. II, 2, 52-54) premette alcuni cenni introduttivi sulla teologia di Evemero, ed è appunto Diodaro, non Evemero, che ci parla della distinzione degli dèi in due classi. Si deve però osservare, come ben dice il v. GILS (o. e. p. 94) che le parole sono di Diodoro, ma il pensiero è di Evemero. ↩
56. Protr. ΙΙ, 24, 2.↩
57. Adv. nat. IV, 29.↩
58. De civ. dei VI, 7; VII, 27; De cons. ev. Ι, 23; echi della dottrina evemerea, senza che il nostro autore sia nominato, si riscontranο in molti altri passi degli scritti di Agostino.↩
59. frg. 191 (ed. Pfeiffer) ; Hymn. Ι, ν. 8-9.↩
60. STRAB. Ι, 3, 1; ΙΙ, 4, 2.↩
61. STRAB. ΙΙ, 4, 2.↩
62. De Is. et Os. 23 Ρ. 360 Α.↩
63. R. r. Ι, 48, 2.↩
64. p . 310 Μ .↩
65. De n. d. Ι, 118, 119 sgg.↩
66. ΙΙ, 417.↩
67. Georg. ΙΙ, 319; IV, 379.↩
68. Met. Χ, 309, 478.↩
69. DIOG. Prov. ΙΙ, 67. HYG. Poet. astr. ΙΙ, 42; ΙΙ, 12; ΙΙ, 13. Et. m. 215, 37. ATHEN. XIV, 658 Ε F.↩
70. Le nozioni degli antichi sull'Arabia erano piuttosto vaghe e generiche. Parlando di questa regione sia Artemidoro (STRAB. XVI, 4, 18) sia Arriano (Anab. VII, 20) accennano a numerose isole che si trovano nelle sue adiacenze.↩
71. V. o. c. col. 962.↩
72. Si confronti. quanto Evemero dice a proposito dei sacerdoti di Pancaia, con il precedente breve accenno (DIOD. V, 42, 1) al re dell'isola 'Ιερά, il quale re possiede la parte migliore della regione e preleva la decima da tutti i prodotti dell'isola. E proprio il fatto che l'isola 'Ιερά, la quale per le sue caratteristiche naturali sembra essere un paese mitico ed arcano, sia governata da un sovrano, lascia pensare che forse secondo Evemero la costituzione monarchica era un qualche cosa di storicamente superato.↩
73. KAERST, ο. c. p. 168 sgg.↩
74. ΡOEHLMANN, Geschichte der sozialen Frage und des Sozialismus in der antiken Welt, Muenchen 1912, Vο1. ΙΙ, ρ. 380.↩
75. KAΕRST, o. c. p. 172 sgg.↩
76. STRAB. XV, 39 sgg.↩
77. DIOD. I, 73 sgg.↩
78. WENDLAND, Die hellenistisch-rοemische Kultur, Tuebingen 1907, p. 14 sgg. SCHWARTZ, Rh. Mus. XL, 1885, 223 sgg.↩
79. Diversa da quella presentata da Ecateo è la costituzione egizia ricordata da Eratostene (STRAB. XVΙΙ, 1, 3). Al vertice sta il re a cui vengano consegnate tutte le rendite, e la popolazione è divisa in tre classi: soldati, agricoltori, sacerdoti. Con gli agricoltori sono compresi anche gli artigiani.↩
80. ARIST. Pol. II, 8, 1267.↩
81. o. c. col. 963.↩
82. FΕSΤUGΙÈRΕ, Les inscriptiοns d'Asoka et l'idéal du roi hellénistique (Recherches de science religieuse, 1951-52, Tomes XΧΧΙΧ-XL).↩
83. XVI, 4, 19.↩
84. Il divieto per il commercio con l'estero, indubbia fonte di guadagno e incremento alla produzione, sembra contrastare con i criteri moderni a cui è ispirata l'amministrazione di Pancaia.↩
85. Non si deve dimenticare che Pancaia, pur restando approssimativa la sua posizione geografica, appartiene più al mondo orientale che al greco, e Quindi deve conservare necessariamente qualche caratteristica orientale.↩
86. Su questo punto fondamentale dell'evemerismo non è possibile avanzare dubbi. I benefici resi all'umanità, la potenza raggiunta con la forza e l'accortezza — potenza che si dovrà esplicare proprio a favore dell'umanità — sono la base necessaria della divinizzazione. Pertanto non è chiaro il pensiero del VAN DER MEER (Euhemerus van Messene, Amsterdam 1949, ρ. 54, 84) il quale ritiene che le cause della divinizazzione tanto di Urano quanto di Zeus siano da ricercarsi nella loro fede e nella loro pietà verso gli dèi eterni. Questi dèi, la cui potenza si manifestò ad Urano in grazie ai suoi studi sull'astronomia, sarebbero rappresentati — sempre secondo il v. der Meer — essenzialmente dal sole, che in Pancaia, ancora al tempo di Evernero, era ritenuto sacro perchè simbolo della vita. Il v. der Meer vuole vedere un'identità fra la religione di Urano e Zeus e quella degli abitanti di Pancaia dell'età di Evemero, ma falsa la dottrina del nostro, che perde così ogni legame con la realtà del momento e ogni valore di attualità. Secondo Evemero invece (cfr. p. 11) tra la religione di Urano e di Zeus e quella di Pancaia c'è non già un'identità ma una continuità, perchè soltanto così è possibile mantenere la distanza o meglio la gradazione che esiste fra gli dèi delle due classi: Urano e Zeus vengono in certo modo ad essere dei mediatori per l'uomo.ì rispetto agli dèi eterni, senza però prenderne mai il posto, come accadrebbe in fondo secondo la teoria del v. der Meer.↩
87. V. a questo proposito JACOBY, o. c. col. 969.↩
88. LACT. Div. inst. I, 11, 47.↩
89. DIOD. I, 21; I, 27.↩
90. LEXA, L'homne grec de Kumé sur la déesse Isis (Archiv. Orientalni, Praha, 1930, II, 138).↩
91. LACT. Div. inst. I, 13, 2.↩
92. DIOD. I, 14, 1.↩
93. LEXA, o. c. ; HARDER (Karpokrates von Chalkis und die memphitische Isispropaganda, Berlin 1944) dice che gli accenni isolati al cannibalismo che troviamo in miti greci, relegano questo fatto ai limiti delle possibilità umane e lo considerano un caso patologico. Nel tragico Moschione il cannibalismo appare, dietro influsso di culti religiosi orientali, quale sommo grado del primitivo stadio di vita dominato dalla forza bruta, ma anche qui manca il tratto decisivo, la proibizione cioè del cannibalismo da parte di un dio.↩
94. KAERST, o. c. p. 219.↩
95. WUNDT, Geschichte der griechischen Ethik, Zweiter Banid: Der Hellenismus, Leipzig 1911, p. 41.↩
96. KAERST, o. c. p. 69.↩
97. È chiaro il nesso con il pensiero della sofistica, per cui il mondo divino altro non era che un riflesso di necessità e di interessi umani.↩
98. KAERST, o. c. p. 340.↩
99. KAERST, o. c. p. 209, 376.↩
100. SCHWARTZ, o. c.↩
101. Il PFISTER (Der Reliquienkult im Atertum, Giessen, 1909-12, p. 380 sgg.) riduce la dottrina di Evemero ai suoi punti essenziali: peregrinazioni degli dèi, ritrovati, fondazioni di città, templi e tombe, e osserva come tutti questi punti siano a noi già noti non solo dalle leggende degli eroi, ma trovino anche appoggio nella fede popolare negli dèi, particolarmente riferendosi a Demetra e Dioniso.↩
102. KAΕRST, o. c. p. 216.↩
103. NILSSON, Geschichte der griechischen Religiοn, Muenchen, 1950, Zweiter Band, p. 171.↩
104. L'accusa di ateismo mossa ad Evemero già nei tempi antichi andrebbe se mai rivolta non contro la sua dottrina in particolare, bensì contro il razionalismo in genere, pοichè è il razionalismo che in sè e per sè è contrario a ogni religione, la quale ammetta l'esistenza di un principio soprannaturale, che sfugga alle capacità dell'intelletto umano.↩
105. Tale è invece l'opinione di v. GILS (o. c. p. 34) : «Immo nostro iudicio Euhemerus ficta narratione usus, Alexandri res gestas refert quasi sint ipsius Iοvis res gestae». V. ancora SCHWARTZ (Fünf Vortrage über den griechischen Roman, Berlin 1896, p. 106) : «Das scheint allerdings vor Euhemerus keiner gewagt zu haben dio Theogonie, die Göttersage in eine Reihe historischer Vorgänge aufzulösen, welche, mit verblüffender Deutlichkeit die Geschichte Alexanders und seiner Nachfolger wiederspiegelnd, die Götterverehrung daher ableiten, dass Könige zu ihren Lebzeiten aus politischen Grunden ihren Unterthanen und Bundesgenossen befehlen ihnen Tempel zu errichten und Opfer darzubringen».↩
106. Dall'accostamento «culto dei sovrani e evemerismo» quest'ultimo sembra in sostanza favorevole al principio monarchico, e vien fatto di chiedersi come mai la costituzione di Pancaia non risponda a tale principio. Vedere però nella Ιερά Αναγραφή una satira della monarchia di Alessandro soltanto per giustificare questa contraddizione, è forse ipotesi azzardata, che presupporrebbe un legame troppo stretto fra realtà storica e prodotto letterario. Evemero non facendo menzione di sovrani contemporanei, volle probabilmente evitare che si avvicinasse il presente al passato, e che si intendesse il suo pensiero — anche se questa era la realtà non importa — come una conseguenza immediata della recente apoteosi, perché la sua dottrina ne sarebbe in tal caso risultata di molto sminuita. Inoltre il lasso di tempo intercorso fra l'età a cui si riferisce la teoria religiosa di Evemero e l'età più recente di Pancaia, poteva giustificare appieno un mutamento delle esigenze politiche (cfr. p. 15).↩
Ultima modifica 2020.01.27