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Punti Fermi

Arrigo Cervetto (1987-1988)

 


Trascritto per internet da Antonio Maggio (Primo Maggio), agosto 2001

 

SECONDA PARTE

i tempi della socialdemocratizzazione
i tempi della internazionalizzazione
i tempi del ritardo irrimediabile
i tempi dell’imputridimento
i tempi della battaglia delle telecomunicazioni
i tempi dela crisi del parlamentarismo
i tempi dei fattori esterni condizionanti
i tempi internazionali dello Stato
i tempi del mercato elettorale
i tempi del riformismo mediterraneo
momenti di analisi dello sviluppo italiano
i tempi del capitalismo di Stato a base di massa piccolo-borghese
i tempi della accumulazione per il capitalismo di Stato
i tempi del togliattismo
i tempi della concretezza leninista
forze e forme dei mutamenti sociali
forze e forme del pluralismo

I TEMPI DEL RIFORMISMO MEDITERRANEO

(LC 208 – DIC.1987)

Il materialismo storico abitua a concepire i problemi contingenti nell'arco dei tempi del le lotte sociali.

Il presente è stato preparato dal passato e prepara il futuro.

Anche la riflessione su precedenti elaborazioni e giudizi si richiama ad una visione d'insieme dove l'ieri si collega all'oggi.

Su "L'Impulso" del 25 dicembre 1956, a pochi giorni dalla celebrazione dell'VIII congresso del PCI, analizzavamo la politica economica emersa da quella assise.

La tesi centrale sostenuta nell'articolo, sotto il titolo "Riformismo vecchio e nuovo", era che la linea economica del PCI si caratterizzava oramai "come organica espressione dello sviluppo statale del capitalismo".

Essa assumeva "il nuovo carattere del riformismo nell'epoca imperialistica, cioè di un riformismo che non può più essere una tendenza del movimento operaio... ma che è necessariamente espressione del capitalismo finanziario più avanzato.

Questa tesi era l'applicazione del metodo marxista di analisi del "mutamento", nel campo specifico dell'opportunismo.

Non c'è concezione scientifica senza l'analisi dello sviluppo e delle variazioni e mutazioni del corpo sociale, delle sue forze economiche e delle sue forme politiche.

Il riformismo era considerato come "forma storica dell'opportunismo". Storicamente determinati sono i suoi contenuti mutevoli.

Il "nuovo riformismo", si diceva, non è più solamente quello derivante dalla corruzione borghese diffusa nel movimento operaio con tutti i mezzi economici, politici e sociali ma "è un metodo di direzione borghese delle masse lavoratrici, operato tramite alcuni gruppi politici legati a queste masse ".

Scopo del "nuovo riformismo", si proseguiva, non è di riformare alcuni aspetti della condizione operaia ma di rimediare agli aspetti più caotici del capitalismo. Erano queste le vere novità del "partito nuovo" di Togliatti.

Non si trattava perciò di rincorrere l'illusoria rigenerazione di un organismo malato di corruzione ma di condurre una battaglia teorica e politica per "gettare nelle fabbriche e nei sindacati i primi nuclei operai del partito di classe e dell'opposizione rivoluzionaria".

L'analisi delle forme dello sviluppo riformista faceva parte integrante dello studio delle tendenze di sviluppo del capitalismo italiano.

La tendenza all' "accentramento economico statale, ultimo stadio della conservazione dell'economia di profitto" stava rapidamente prendendo corpo negli anni '50, in un crescendo di iniziative: dalla costituzione dell'ENI (1953) allo sganciamento dell'IRI dalla Confindustria (1954), dal lancio del Piano Vanoni (1955) alla creazione del ministero delle Partecipazioni Statali (1956).

Con questo processo si veniva ad intrecciare l'opportunismo del PCI, allenato in trent'anni di adorazione del feticcio "socialista" del capitalismo di Stato russo.

Si constatava che alcuni settori della borghesia osteggiavano questa tendenza di sviluppo, incapaci di armonizzare i loro interessi particolaristici nel quadro dell'interesse generale del loro sistema sociale.

Il contrasto tra gruppi avanzati e gruppi arretrati della classe dominante, si osservava, non è nuovo nella storia del capitalismo, "anzi ne contrassegna anche drammaticamente ogni singola fase". Anche nel momento del trionfo politico della borghesia, durante la Rivoluzione Francese, mentre alcune frazioni borghesi innalzano la ghigliottina, altre tessono compromessi con la morente aristocrazia.

L'analisi delle contraddizioni generate dallo sviluppo nella classe dominante e nella classe dominata è condizione per la crescita del partito rivoluzionario.

Ci sono stati momenti storici in cui il movimento sindacale ha raggiunto delle vette nella lotta per la sua emancipazione, trascinato dai suoi settori più avanzati, come il cartismo. Vi sono poi state ricadute, crolli, stentate risalite, legati alle fasi dello sviluppo capitalistico.

Non a caso i leninisti hanno sempre propugnato il primato del partito politico sul l'organizzazione sindacale, il primato della scienza rispetto al movimento oscillatorio della classe.

Oggi si verifica, in alcuni settori del movimento operaio, un arretramento rispetto alla forma organizzativa della Confederazione sindacale, un rigurgito di aziendalismo contrapposto alla coalizione confederata che è una conquista della classe operaia. E uno scivolamento verso i vecchi sindacati di mestiere, effetto della ristrutturazione sociale, che parte dal pubblico impiego e dai trasporti, ma che già lambisce le fabbriche.

Non c'è analisi strategica che possa prescindere dallo studio dello sviluppo delle frazioni borghesi e delle stratificazioni dei salariati, delle correnti universalistiche e delle correnti particolaristiche delle classi fondamentali.

Il limite di Trotsky sta proprio nella sua mancanza di una valida teoria dello sviluppo capitalistico. Ciò non gli permette di comprendere che il "nuovo" che si va affermando nella società russa è il capitalismo di Stato e, in definitiva, gli impedisce di avere una strategia.

La formula dello "Stato operaio degenerato" non era in grado di sciogliere nè tanto menodi tranciare teoricamente il nodo gordiano dello stalinismo.

Ritorniamo all'articolo del 1956. Si prendeva in esame, come esempio chiarificatore della natura del "nuovo riformismo", la parte della risoluzione del l'VIII Congresso riguardante la politica economica "mediterranea" proposta dal PCI.

Il PCI, si affermava, indica "una politica che, tenuto conto del moto di indipendenza dei popoli arabi e musulmani, si inserisca, come espansione economica italiana, nella lotta di conquista del mercato mediorientale".

Solo i più grossi complessi monopolistici e l'industria di Stato, si notava, possono concorrere alla penetrazione di quel mercato "oggi in palio fra Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania".

La recente crisi di Suez, si diceva, aveva portato alla superficie la lotta sotterranea che da anni i gruppi imperialistici stavano svolgendo in quell'area. "Per ora -si constatava - i gruppi anglo-francesi hanno avuto la peggio e la penetrazione statunitense ha dilagato. La stessa Germania di Bonn si è inserita in modo considerevole nella conquista di quel mercato".

In questa intensa battaglia interimperialistica, i grandi gruppi italiani si inserivano in posizione subordinata, tentando di utilizzare la posizione geopolitica della penisola nel Mediterraneo.

I progetti di industrializzazione del Mezzogiorno--altra bandiera dell'agitazione rifor mista--assumevano in questo contesto un carattere ben diverso dal preteso completamento del Risorgimento incompiuto.

Si delineava infatti "un tentativo tedesco di investimento capitalistico nel nostro meridione", "una compenetrazione d'investimenti italo-tedeschi nella industrializzazione meridionale" che prefigura va la costituzione nel Sud di "un attrezzato trampolino di lancio per la conquista del mercato mediorientale".

Si intravedeva dietro l'alternarsi di iniziative diplomatiche e accordi commerciali la formazione di "un blocco economico-commerciale... sotto l'egida d'interessi nord-americani coincidenti con necessità d'esportazione imperialistica tedesca a cui, in ultimo, vengono ad accodarsi i gruppi monopolistici e statali del capitalismo italiano".

La linea mediterranea del PCI si conformava dunque alle tendenze di sviluppo di queste frazioni borghesi, ma senza comprendere la complessa trama dii alleanze imperialistiche a cui tali tendenze si collegavano.

Infatti, mentre esecrava l'imperialismo americano e vituperava il rinato "militarismo tedesco", l'opportunismo, in nome degli "interessi nazionali", caldeggiava una politica mediterranea che proprio nei gruppi statunitensi e germanici aveva i suoi necessari propulsori.

L'individuazione, nello sviluppo del capitalismo di Stato italiano, del fondamento economico del "nuovo riformismo" permise al nascente gruppo leninista di cogliere anche i limiti della recente crisi del partito togliattiano.

Il PCI superò, sostanzialmente indenne, il "terribile 1956", nonostante gli scossoni della destalinizzazione kruscioviana e dell'insanguinato autunno ungherese.

Al contrario, la ristrutturazione industriale e finanziaria dell'ultimo decennio, ridimensionando il sistema capitalistico-statale, ha gravemente incrinato questo pilastro dell'opportunismo "neo-riformista".

E uno dei motivi per cui la lunga gelata che affligge il PCI permane e si aggrava, malgrado i progressi registrati dal barometro di Mosca.

 

MOMENTI DI ANALISI DELLO SVILUPPO ITALIANO

(LC 209 – GEN.1988)

Il superamento dell'oggettivismo si presenta nell'esperienza dell'avanguardia rivoluzionaria come necessità politica, prima ancora che come esigenza teorica.

L'analisi dello sviluppo economico e sociale è per il marxismo analisi militante, inscindibile perciò dalla critica politica.

Questa discriminante caratterizza un articolo scritto su "L'Impulso" nel settembre 1954, che, a nove anni dal termine della seconda guerra mondiale, traccia un consuntivo delle tendenze delineatesi nell'evoluzione del capitalismo italiano.

Si assumeva come base di riflessione la Relazione svolta nel maggio di quell'anno dal Governatore della Banca d'Italia, Donato Menichella. In essa la situazione economica del 1953 veniva confrontata con quella prebellica del 1938.

Era un primo bilancio che permetteva di misurarsi con la vacuità dei vati della "pianificazione" e con gli apprendisti stregoni dei "Piani di Lavoro".

La "dialettica delle cose", si osservava, aveva percorso un cammino diverso da quello della "logica delle parole". Aveva disegnato scenari interpretabili più sulla scorta delle vecchie pagine della scienza marxista che dei recenti copioni delle corride parlamentaristiche dei Vanoni e dei Pella, degli Scoccimarro e dei Pesenti, dei La Malfa e dei Di Vittorio.

In primo luogo, si prendeva in esame lo sviluppo dell'agricoltura. All'epoca, la questione agraria in Italia era fondamentale: le campagne rappresentavano ancora il 40% della popolazione attiva e più di un quinto del prodotto lordo. Si poneva quindi, in termini politici, il rapporto tra classe operaia e contadini.

Il confronto con il 1938 era per l'agricoltura particolarmente significativo, essendo quello l'anno culminante della autarchica "battaglia del grano".

Fatta 100 la produzione agricola del 1938, nel 1953 l'indice era salito a 117 e a 106 il prodotto agricolo per abitante. La superficie cerealicola si era ridotta del 6% ma il rendimento per ettaro era aumentato del 23%.

L'analisi delle altre produzioni agricole indicava un incremento della barbabietola da zucchero del 92%, dell'uva del 25%, della patata e degli ortaggi del 35%, della frutta del 67%.

La popolazione agricola si era ridotta nel quindicennio dell'11%, ma la produttività della terra era stata innalzata grazie al maggiore consumo di concimi azotati (da 1.119.000 quintali a 1.813.000) e dalla triplicazione dei trattori impiegati (36.000 nel 1936,101.000 nel 1953).

Ne emerge -si notava- "la caratterizzazione prettamente capitalistica dell'agricoltura italiana", sotto tre aspetti.

Primo. Era aumentato l'investimento di capitale nell'agricoltura e si era accresciuta la dipendenza delle coltivazioni dalla sezione capitalistica dei mezzi di produzione, in particolare da Montecatini e FIAT.

Secondo. Era fortemente diminuita l'occupazione agricola e si era infoltito l'esercito dei disoccupati. Era l'inizio di un lungo processo di disgregazione contadina che nei decenni successivi dispiegherà i suoi profondi effetti sociali con le migrazioni, le mutazioni della piccola borghesia agricola, lo sfaldamento del modello di famiglia contadina.

Terzo. Procedeva a ritmi superiori alla media la produzione dei prodotti agricoli destinati alla trasformazione industriale, come la barbabietola, incentivando la concentrazione dell'industria alimentare e, in particolare, di quella saccarifera.

Questa analisi entrava in rotta di collisione con le tesi degli economisti del PCI, secondo i quali il peso dei rapporti feudali o semifeudali nelle campagne italiane era tale da impedirne lo sviluppo. L'analisi dimostrava che malgrado forme spurie, come la mezzadria, l'avanzata del capitalismo nelle campagne non era stata frenata.

In realtà, l'opportunismo stalinista dilatava il peso dei cosiddetti residui precapitalistici per ingigantire il proprio ruolo "riformatore". La lotta al presunto feudalesimo per lo sviluppo della moderna azienda agricola era un anticipo delle teorie sottosviluppiste e terzomondiste del PCI, diffuse negli anni Sessanta.

Si proseguiva la lettura critica della Relazione di Menichella esaminando i dati relativi all'industria.

L'indice della produzione industriale era salito tra il 1938 e il 1953 da 100 a 156, e da 100 a 142 il prodotto industriale per abitante. Il ritmo più che triplo rispetto a quello agricolo era la conferma perentoria del carattere chiaramente capitalistico della struttura italiana, sia sotto l'aspetto della classica preponderanza del settore industriale che sotto quello di uno sviluppo ineguale e squilibrato.

L'analisi oggettiva smentiva perciò un'altra teoria dell'opportunismo, quella della particolarità italiana.

Lo squilibrio tra agricoltura e industria, la crescita della massa della miseria e della precarietà non erano conseguenze del mancato sviluppo capitalistico o addirittura della colonizzazione economica lamentati per anni dallo stalinismo, ma al contrario erano il risultato di uno sviluppo in pieno svolgimento. La politica economica del PCI traeva dal presunto decadimento e regresso dell'economia la necessità delle "riforme di struttura", un programma di collaborazione di classe all'inseguimento di un impossibile sviluppo equilibrato.

"Le riforme di struttura--si commentava--in seno al regime capitalista le ha fatte il capitalismo stesso proseguendo per la sola via storicamente possibile: la monopolizzazione".

La nostra successiva analisi dell'imperialismo italiano ha mantenuto ferma questa critica: non sono le riforme a mancare nello sviluppo capitalistico; manca, piuttosto, uno Stato imperialistico adeguato alle "riforme di struttura" già compiute ad opera della concentrazione e della centralizzazione del capitale.

Il governatore della Banca d'Italia, esaminando l'andamento dei consumi, lamentava un pericolo di eccessi e invocava un loro contenimento o regolazione. Menichella si riferiva esplicitamente al rischio che l'aumento dei consumi andasse a vantaggio delle importazioni.

E singolare l'analogia del dibattito recente sui consumi, in una fase di piena maturazione imperialistica dell'Italia.

La Confindustria indica nello sviluppo dei consumi pubblici e degli investimenti in infrastrutture la propria linea economica, mentre la Confcommercio mira all'ulteriore incremento dei consumi individuali.

La Confindustria sostiene che un'ulteriore evoluzione dei consumi non favorirebbe la produzione nazionale ma i produttori esteri più rispondenti alle fasce elevate di reddito e alla richiesta di consumi più sofisticati.

Il profitto commerciale, nel dibattito sui consumi, si rivela più cosmopolita del profitto industriale, perchè il commercio si trova al capolinea di ogni merce, indipendentemente dal suo paese d'origine.

Proprio sulla distinzione dei tipi di consumo si fondava nel 1953 la critica alla tesi della Banca d'Italia. Si notava infatti che mentre l'indice della produzione alimentare era passato nel quindicennio trattato da 100 a 149 e quello degli altri beni di consumo da 100 a 113, l'indice dei beni di investimento era salito a 179 con una formidabile accelerazione nel triennio 1950-1953.

La produzione destinata al consumo produttivo si accresceva con rapidità superiore a quella destinata al consumo individuale. Si accentuava quindi la tendenza all'aumento della produttività, già nettamente descritta dalla forbice tra produzione e occupazione operaia: la prima era salita, nel periodo 1938-1953, del 76%, la seconda solo del 21%.

I teorici dei "Piani del lavoro", mentre versavano il loro obolo di chiacchiere alle esigenze produttivistiche del capitale, rinunciavano--e lo si denunciava--all'unica risposta di classe possibile, la lotta per la riduzione dell'orario di lavoro.

In determinati settori (estrattivo non metallurgico, chimico, elettrico) la produzione era raddoppiata e perfino triplicata (automobili e veicoli industriali) se non addirittura sestuplicata (come nei trattori).

Agli aspiranti riformatori non restava che la magra soddisfazione di aver portato acqua a un mulino che girava già vivacemente per conto suo.

Merito di quella analisi di trentacinque anni fa era individuare le essenziali direttrici di marcia dell'economia italiana, con una battaglia di minoranza esigua e in controtendenza, in un momento storico in cui il "boom economico" non si era ancora manifestato nei suoi aspetti più plateali e di massa: sia il lancio dell'utilitaria che l'invasione di elettrodomestici e televisori vennero nei successivi anni cinquanta.

Individuando il mutamento in corso si usciva dalle secche dell'attendismo o della sterile contrapposizione massimalistica con il riformismo. Pietra di paragone non era la diatriba accademica o il torneo delle parole d'ordine, ma la "dialettica delle cose" e la comprensione della sua dinamica.

Fu un momento di lotta nella storia della costruzione del partito-scienza in Italia.

 

I TEMPI DEL CAPITALISMO DI STATO A BASE DI MASSA PICCOLO-BORGHESE

(LC 210 – FEB.1988)

Uno dei compiti della lotta teorica è la scoperta dell'essenziale nelle formule ideologiche, del nesso cioè che lega le ideologie al corso della vita reale.

Senza questa caratterizzazione, la lotta contro le ideologie si riduce a una riaffermazione di principi oppure a inconcludente polemica con le mode di turno.

L'ottavo congresso del PCI, nel 1956, si svolse in un momento di acute lotte internazionali delle classi e di definizione delle fondamentali linee di sviluppo dell'imperialismo italiano.

Con quali forze sociali si sarebbe collegato l'opportunismo, e sotto quali vesti politiche e ideologiche? Abbiamo già visto, riconsiderando la prima parte dell'articolo "Riformismo vecchio e nuovo" scritto su "L'Impulso" del 25 dicembre 1956, quale significato assumesse la politica mediterranea e l'ideologia meridionalistica del l'ottavo congresso.

Nella seconda parte dell'articolo si analizzava il contenuto di alcune formule della politica economica opportunistica, ed in particolare della dichiarazione di "lotta contro i monopoli".

La tesi centrale della nostra analisi del 1956 era che la "lotta antimonopolistica" del PCI mirava alla formazione di un fronte unito tra classe operaia, capitalismo statale ed alcuni settori di capitale privato, contro altre frazioni borghesi.

Si precisava intanto che quella del PCI "non è una lotta contro tutti i monopoli, ma una lotta contro determinati monopoli". In secondo luogo, si osservava che per il PCI non si trattava di eliminare quei monopoli ma "nei casi estremi" di nazionalizzarli, ossia di riorganizzarli sotto gestione statale.

La linea del PCI, dietro il velo antimonopolista, era al contrario tesa "all'assestamento, al rafforzamento, al coordinamento pianificatore delle varie branche capitalistiche ".

Venivano individuate quattro specie di aziende interessate in va rio modo all'intervento regolatoredello Stato: private, private-statali, monopolistiche a partecipazione statale, statali, corrispondenti ciascuna ad uno specifico rapporto di proprietà dei mezzi di produzione.

"Il PCI -si sottolineava- non è solo in questa lotta, ma, oltre agli organismi dirigenti dell'IRI e dell'ENI, vi sono dei gruppi capitalistici privati che, coscienti della necessità della pianificazione statale, perseguono, con sfumature più o meno diverse, identici obiettivi".

La FIAT, ad esempio, in quegli anni appoggiò la realizzazione del piano Sinigaglia di sviluppo di una siderurgia pubblica e più tardi la nazionalizzazione dell'energia elettrica.

Sotto certi aspetti, con queste analisi volevamo affrontare il riformismo in un modo poco usuale per l'epoca. La tradizionale critica contro il riformismo era di denuncia generica della "collaborazione di classe". Il dibattito sulle alleanze svoltosi nella Prima Internazionale non era ben presente in Italia. Vi si erano confrontate le posizioni di Liebknecht disponibile, in qual che modo, verso la borghesia industriale per contrastare il predominio degli junkers prussiani, e di Lassalle che sostenne la convergenza tra proletariato e Stato contro la borghesia industriale.

La critica massimalista alle alleanze si riduceva ad un rifiuto dei "cedimenti". L'insufficienza di tale critica era pari alla miseria teorico-strategica della fallita alleanza giolittiana-turatiana tentata tra la crisi di fine secolo e la prima guerra mondiale.

La conoscenza, anche se solo nei termini generali, del dibattito sulle alleanze della Prima Internazionale nel partito tedesco ci permise un'analisi dell'opportunismo agganciata alle linee delle frazioni borghesi.

Si constatava che il PCI, nel collegarsi alle tendenze statalistiche emergenti nella società italiana, vi apportava anche tutta l'ambivalenza di partito parlamentaristico e di partito russo.

Il PCI inseriva infatti nella sua strategia gli strati intermedi, necessari interlocutori elettorali e clientelari.

Le tesi dell'ottavo congresso non solo proclamavano la coesistenza tra socialismo e piccola produzione agricola, industriale e artigianale. Garantivano anche la sopravvivenza della piccola proprietà contadina, andando oltre le stesse teorie classiche borghesi o le tesi riformiste di Kautsky che prevedevano la nazionalizzazione delle terre e l'abolizione della rendita assoluta.

Analogalmente, il PCI difendeva la rete commerciale fondata sulla piccola distribuzione, mentre i settori più avanzati della borghesia indicavano l'urgenza di una concentrazione del commercio, in grado di assecondare il decollo dei consumi di massa.

Era palese la contraddizione del PCI: "da un lato, appoggio dello sviluppo del capitalismo statale in funzione progressiva di sinistra borghese, dall'altro appoggio della piccola proprietà e della piccola produzione in funzione reazionaria di ritardo economico ".

Tale contraddizione non era enon è specifica del PCI. Il capitalismo di Stato italiano non formò un proprio partito ma operò attraverso correnti in tutti i partiti.

In questo modello partitico era in parte anticipato il futuro corso delle lotte e delle combinazioni sociali, con il rafforzamento del capitalismo di Stato a base di massa piccolo-borghese, il manifestarsi di un'insanabile crisi di squilibrio, la tendenza al bipartitismo.

La contraddizione aggiuntiva del PCI era di essere partito russo. Fu questo il principale motivo per cui il PCI non potè svolgere il ruolo di comprimario ma solo la parte del fiancheggiatore in quella che l'articolo citato definiva "la grande tendenza neogiolittiana del capitalismo italiano le cui prime manifestazioni sono state il proposito dell'unificazione socialista e sindacale, cioè il proposito ben definito di creare un blocco industriale-operaio sul piano del compromesso di classe, degli alti salari, della collaborazione aziendalistica, della socialdemocratizzazione delle masse".

La formula ideologica escogitata dal PCI per esprimere una linea di raccordo tra alcuni gruppi privati e i gnuppi capitalistico-statali fu "il controllo democratico dei monopoli".

Non era certo un obiettivo credibile per la classe operaia, ma era il segnale di demarcazione tra gruppi da nazionalizzare ed altri da "controllare democraticamente".

In sostanza gli stati maggiori del PCI riprendevano i temi lanciati dalla stampa liberalradicale come "L'Espresso", "Il Mondo", "Il Giorno", tanto da meritare la sarcastica degradazione di Ernesto Rossi da "giacobini" a "giacomini", ossia servi stolti ed incoerenti.

La tendenza storica allo sviluppo del capitalismo di Stato, si affermava, ha tre ragioni principali: "a) la necessità della pianificazione per cercare di superare o almeno controllare il caos della produzione; b) la possibilità di un maggiore incremento del ritmo di sviluppo, data dal maggiore coordinamento e dalle maggiori disponibilità di incanalare gli investimenti attraverso gli istituti bancari statali; c) la maggiore possibilità di accumulazione dei capitali nel processo produttivo, che con le nuove tecniche richiede un'enorme massa di capitale costante indispensabile alla installazione di attrezzature sempre più moderne".

La ristrutturazione mondiale sopravvenuta negli anni '70 ha determinato nei paesi imperialistici una battuta d'arresto della tendenza storica al capitalismo di Stato, da noi ritenuta più rapida e lineare di quanto doveva essere.

Non è lecito però parlare di inversione della tendenza generale perché le privatizzazioni di una serie di imprese pubbliche sono legate a fenomeni di diversa portata: la nuova ripartizione internazionale del lavoro, come nel settore siderurgico; le politiche finanziarie delle metropoli che preferiscono cedere determinate aziende risanate piuttosto che appesantire le imposte; la tendenza alla burocratizzazione delle grandi aziende, che però riguarda anche l'industria privata.

Nel 1955-1956 la prova sperimentale che la linea capital-statale rappresentasse l'interesse generale del sistema sociale era data dallo schema Vanoni, "il piano più moderno e più organico del capitalismo italiano".

Ezio Vanoni, allievo della scuola statalista di Scienza delle Finanze di Benvenuto Griziotti, affidava all'IRI e all'ENI il ruolo di maggiori propulsori dell'economia per il decennio 1955-1964.

Il piano ricevette l'approvazione dei paladini delle nazionalizzazioni e dei propugnatori della libera iniziativa, della Banca d'Italia e della Confindustria, della Confida e delle Confederazioni sindacali, delle ACLI e del PCI.

Il parlamento approvò la costituzione del ministero delle Partecipazioni statali, con l'appoggio delle correnti confindustriali e con il voto coadiuvante del PCI.

La stessa politica sindacale dei partiti maggiori si adeguava alla tendenza generale. Il PCI indicava al sindacato una linea di cogestione-legittimazione, attribuendo allo Stato l'illusoria funzione di socio-garante, attraverso la formula trinitaria: "democrazia industriale", "partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese "in special modo di quelle IRI, "riconoscimento giuridico del le Commissioni Interne".

Salvo parziali modifiche e adattamenti, negli anni successivi il Pa non si discostò sostanzialmente dalle linee dell'ottavo congresso. Il nodo irrisolto della crisi di squilibrio e la ristrutturazione mondiale hanno ristretto lo spazio del PCI, difensore della spesa pubblica e del burocratismo capitalistico-statale.

Sorte bizzarra delle ideologie: lo spregiudicato "gioco a tutto campo" di Occhetto avrà probabilmente vita più difficile della "lotta antimonopolistica" di Togliatti.

 

I TEMPI DELLA ACCUMULAZIONE PER IL CAPITALISMO DI STATO

(LC 211 – MAR.1988)

L'esame dello sviluppo capitalistico-statale ebbe, nel corso degli anni 50, una duplice funzione.

Da un lato, fu un tentativo di analisi strategica del settore più dinamico della ricostruzione imperialistica e delle forme che andava assumendo il meccanismo di accumulazione e di ripartizione del plusvalore in Italia. Dall'altro, fu terreno di lotta politica immediata contro l'opportunismo stalinista che adoperava il modello statalistico come ingranaggio di raccordo tra la sua matrice russa e il suo carattere nazionale-interclassista.

In un articolo su "Azione Comunista" del 31 luglio 1957, dal titolo redazionale "Lo sviluppo del capitalismo", veniva analizzata la struttura della Finsider, "uno dei principali strumenti del capitalismo statale... ottimo osservatorio per conoscere non solo lo sviluppo ma pure le forme di sviluppo del capitalismo italiano".

All'epoca la Finsider aveva un capitale di 50,5 miliardi e un fatturato vicino ai 300 miliardi, pari a circa il 2% del PIL. Il gruppo FIAT superava di appena il 19% il fatturato Finsider. Tale rapporto, rimasto sostanzialmente inalterato negli anni '50 e '60, in seguito si modificò radicalmente. Dalla crisi del 1974-75 i due gruppi uscirono con un rapporto di 2 a 1 a favore della FIAT, ulteriormente peggiorato per la Finsider negli ultimi anni '70, in concomitanza con l'accentuata diversificazione produttiva della FIAT e con la tragicommedia del quinto centro siderurgico di Gioia Tauro.

Oggi la Finsider, con 10.000 miliardi di fatturato, ha solo un terzo del peso del gruppo FIAT, il quale rappresenta il 3% del PIL.

Fu perciò vincente, sul lungo periodo, la scelta di Vittorio Valletta di trent'anni fa di rinunciare al programmato raddoppio della capacità siderurgica del gruppo torinese.

Nell'articolo citato, in base al bilancio del 1956 della Finsider, venivano indicati alcuni aspetti salienti dello sviluppo capitalistico-statale.

In primo luogo, il gruppo siderurgico cresceva ad un ritmo superiore a quello medio industriale (7% nel 1956): la sua produzione di ghisa era aumentata del 19,5% a seguito della messa in marcia del secondo altoforno Ilva di Piombino; la produzione di acciaio grezzo era aumentata del 7,7% e quella di laminati a caldo del 9,5%. Il fatturato Finsider era salito del 17% contro un incremento del 10% della FIAT.

Ancora più spiccata risultava la dinamica dell'investimento: con 67 miliardi nel 1956, la Finsider rappresentava il 7% dell'investimento industriale nazionale con una crescita reale del 22%.

Si ribadiva dunque che "nello sviluppo industriale italiano la tendenza dominante è quella del capitalismo di Stato. Non è perciò una prerogativa socialista quella degli alti ritmi di incremento dell'industria pesante, ma semplicemente una prerogativa del capitalismo di Stato".

In secondo luogo, il tipo di sviluppo del gruppo siderurgico denunciava il carattere imperialistico del capitalismo di Stato.

Per la prima volta nella storia della siderurgia italiana, le esportazioni superavano le importazioni: "anche nell'esportazione dei prodotti dell'industria pesante, tipica esportazione imperialistica che sino a ieri gli "esperti" stalinisti rimproveravano agli Stati Uniti perchè avveniva verso l'Italia, la tendenza dominante è quella del capitalismo di Stato".

Pure nell'esportazione di capitali la Finsider faceva da battistrada, acquisendo il diritto di prelievo della metà del minerale prodotto nelle miniere Goa dell'India portoghese e acquistando il 15% delle miniere di ferro della Mauritania francese.

Infine, si osserva che malgrado il tentativo degli opportunisti e dei manager pubblici di attribuire un carattere sociale al capitalismo statale, anche la Finsider finalizzava la sua attività al conseguimento di un profitto e alla distribuzione di un dividendo: i suoi utili furono nel 1956 di 4,8 miliardi (incremento del 26% dopo ammortamenti di oltre 20 miliardi, e le sue azioni fruttarono dividendi del 9%.

Si poneva il quesito: chi beneficiava dei profitti della Finsider, a quali strati sociali giovava lo sviluppo del capitalismo di Stato? La questione era analizzata in un articolo di "Azione Comunista" del 15 febbraio 1958, dal titolo redazionale "Capitalismo 'popolare"'.

In aperta polemica con il PCI, il PSI, la CGL, si diceva che "non solo neghiamo che vi siano degli interessi nazionali che riguardino il proletariato, ma neghiamo pure che il capitalismo di Stato possa avere una funzione nazionale".

E si precisava: "Lo sviluppo, più o meno 'democratico' del capitalismo statale italiano serve esclusivamente gli interessi dei 'cedolisti' di obbligazioni alla Borsa di Milano o di New York".

E la chiara enunciazione di una costante della nostra analisi degli anni 50, ossia la tesi del capitalismo di Stato a base di massa piccolo-borghese.

Era stato da poco annunciato un piano quadriennale dell'IRI per investimenti di 1.000 miliardi, con la raccolta sul mercato finanziario di 250 miliardi l'anno, al posto dei 120 miliardi fino allora rastrellati annualmente attraverso prestiti, buoni, obbligazioni.

Già all'inizio del 1957, i gruppi capitalistico statali avevano lanciato una serie di nuove emissioni obbligazionarie ventennali che si andavano ad aggiungere alla lunga lista di vecchie obbligazioni circolanti. Attraverso la collocazione borsistica di quote delle aziende pubbliche e tramite la forma obbligazionaria, una massa di piccoli e medi borghesi veniva legata al sistema capitalistico statale e attivamente cointeressata alle sue sorti.

Il capitalismo statale, si affermava, è in sostanza "una enorme società anonima dove un nuovo tipo di capitalista privato fornisce--con azioni, obbligazioni o prestiti statali-capitale allo Stato che glielo restituisce con un interesse, cioè con una parte di salario non pagato agli operai dalle aziende statali".

Possono cambiare le forme, si sottolineava, e si può avere, come in URSS, un capitalismo di Stato non alimentato da azioni e obbligazioni ma da prestiti statali o da depositi bancari: "la sostanza rimane sempre la stessa".

La formula adottata, del capitalismo statale come capitalismo imprenditoriale di Stato rifornito dal capitalismo rentier, ricercava un carattere di originalità e si differenziava dalle formule di Bucharin o di Bordiga che privilegiavano piuttosto gli aspetti tecnico-organizzativi del capitalismo di Stato e la subordinazione della borghesia al proprio Stato.

Recentemente, nel volume "Potenza nazionale e commercio estero", sono stati ripubblicati alcuni saggi del 1947 e 1948 di Albert Hirschman, nei quali l'economista tedesco-americano, dall'osservatorio del Federal Reserve Board, analizzava la politica economica italiana di allora.

Hirschman rilevava la continuità, sotto alcuni aspetti, tra linea liberista del dopoguerra e politica monetaria del fascismo. In particolare, indicava il controllo dei cambi attraverso la consegna obbligatoria della metà degli incassi in valuta forte, imposta da Epicarmo Corbino sul modello dei provvedimenti del 1937 e la reintroduzione, da parte di Luigi Einaudi, della riserva obbligatoria sui depositi bancari, norma introdotta nel 1926.

Ma a Hirschman pare sfuggire il notevole aspetto di continuità tra le due politiche, ossia la difesa della lira tesa alla ripresa del meccanismo, inceppato dalla guerra, di un capitalismo di Stato a base di massa piccolo-borghese.

Secondo Hirschman, l'Italia rinunciò nel 1947 al cambio del la moneta e a "una riforma monetaria più lungimirante " a causa del "potere politico dei contadini, i quali, come si sa, hanno tesaurizzato ingenti quantità di banconote". I forti finanziamenti del Tesoro all'IRI nel 1948 sono invece visti come una "singolare incongruità" della politica restrittiva di Einaudi. "E certo curioso constatare -annota Hirschman- come la politica "ortodossa" di Einaudi abbia, in realtà, condotto ad un maggiore intervento e controllo dello Stato sulla vita economica italiana".

Si possono, invece, vedere questi due aspetti della politica economica del dopoguerra--difesa della moneta e ripresa della formula IRI-- come complementari nella politica deflazionistica di Luigi Einaudi: la cartamoneta e i depositi accumulati dalla piccola borghesia contadina e commerciale furono salvaguardati per poter essere riciclati nel finanziamento del risorgente capitalismo di Stato.

La nostra analisi della forma capitalistico-statale proseguiva, nell'articolo del 1958, con la critica alla formula "capitalismo monopolitistico di Stato". Tale espressione, si diceva, "starebbe a significare l'attività economica dello Stato che, in ultima analisi, sarebbe rivolta a sostenere il monopolio privato ". Era cioè un tentativo di accreditare una distinzione tra un capitalismo di Stato asservito ai monopoli e il "vero capitalismo di Stato", presunta "anticamera del socialismo".

Tale distinzione era una posizione opportunista che tendeva ad annacquare la critica alla natura sociale dell'URSS.

Da parte nostra, si sosteneva D che il "nuovo capitalismo" statale ha una funzione propria, interessi propri solidali a quelli dei suoi tagliacedole e "non muta assolutamente il classico rapporto tra capitale e salario, come non muta la legge del valore e del profitto sulla quale si basa".

Alla FIAT come alla Finsider, in Italia come in URSS l'essenza del sistema sociale è quella analizzata da Marx. Sono identiche le cellule costitutive di questi corpi sociali anche se essi assumono sembianze esteriori differenti, come avviene anche tra gli individui della stessa specie biologica.

Nella battaglia per ridare voce al leninismo, la critica al capitalismo di Stato italiano e russo era una linea obbligata di demarcazione.

 

I TEMPI DEL TOGLIATTISMO

(LC 212 – APR.1988)

All'indomani della morte di Togliatti indicavamo il metodo con il quale noi marxisti ci ponevamo verso lo scomparso capo dell'opportunismo.

"L'uomo Togliatti -si scriveva nel settembre 1964 su "Azione Comunista"- ci interessa pochissimo... Le agiografie molto probabilmente saranno seppellite dalle scomuniche". Il problema storico, teorico, politico che il proletariato doveva chiarirsi non era Togliatti ma il "togliattismo, la variante italiana dello stalinismo".

Con lo stesso criterio era stata affrontata nel marzo 1956, su "L'Impulso", la questione di Stalin e della svolta avviata dal XX Congresso del PCUS.

Solo non fermandoci allo Stalin e all'anti-Stalin saremo in grado di conoscere quali sono i veri termini della nuova svolta sovietica". Solo analizzando a fondo "la natura sociale dell'Unione Sovietica e le sue spinte imperialistiche" sarebbe stato possibile districare la matassa dello stalinismo. "Questo gravoso compito, Togliatti non lo assolverà mai" si affermava.

Il 4 giugno successivo, il "New York Times" diffuse il Rapporto integrale di Kruscev con le rivelazioni sui crimini staliniani. L" 'Unità" e gli altri giornali del PCI non lo pubblicarono che cinque anni più tardi, e solo parzialmente.

Togliatti prese posizione con un'intervista alla rivista "Nuovi Argomenti". In tre articoli su "L'Impulso", tra luglio e settembre 1956, analizzammo le tesi di Togliatti.

La critica togliattiana allo stalinismo--si constatava--sfiorava appena la superficie del grande fenomeno controrivoluzionarto.

Non ricercando nella struttura sociale sovietica la radice dello stalinismo, Togliatti non solo si poneva fuori dal materialismo storico ma faceva un passo indietro rispetto allo stesso idealismo borghese, la cui componente storicistica-crociana ammette un certo rapporto tra politica ed economia. L'interpretazione togliattiana non conteneva il minimo tentativo di correlare la struttura e la sovrastruttura della società sovietica, riducendosi a "puro e semplice "manicheismo" di scolastica e medievale memoria ".

La politologia borghese andava oltre le reticenze di Togliatti. Si ricordava, come esempio, I'impostazione di Walter Lippman che identificava lo stalinismo nel "regime che forza la industrializzazione in un paese agricolo e primitivo": interpretazione ancora insufficiente ma più impegnativa di quella togliattiana.

Togliatti giustificava il suo plauso pubblico ai processi di Mosca, adducendo la non conoscenza dei retroscena e della profondità del fenomeno. L'ex membro dell'Esecutivo cominternista, vissuto per venti anni nei vertici di Mosca, cadeva nella stessa malafede degli sconfitti di Norimberga, che si erano rifugiati dietro l'ipocrita "non conoscenza" dei campi di sterminio. In realtà, si diceva, Togliatti aveva appoggiato Stalin, difendendo consapevolmente il capitalismo di Stato e la sua necessità di bruciare le tappe dello sviluppo, schiacciando nella repressione sistematica ogni possibile espressione e resistenza del già sfinito proletariato russo.

Togliatti riprendeva maldestramente la tesi di Trotsky sulla degenerazione dello Stato sovietico. Il "potere personale" di Stalin aveva generato, secondo il segretario del PCI, "burocratizzazione", "stagnazione", "degenerazione ".

La tesi, si osservava, era un'arma spuntata già vent'anni prima, quando Trotsky l'aveva formulata. "Lo sviluppo della società feudale russa verso l'economia del capitalismo di Stato" si precisava "è un progresso e non una degenerazione".

Togliatti abbandonò questo argomento quando Kruscev negò l'esistenza di fenomeni degenerativi nella società sovietica. Questa tesi non era infatti funzionale alla logica della "destalinizzazione", "espressione di un capitalismo di Stato consolidatosi" deciso ad uscire dall'immobilismo dei "due mercati" contrapposti per affrontare i rischi della "competizione" imperialistica.

Nell'ottobre e dicembre 1961, su "Azione Comunista", in due articoli di commento al XXII Congresso del PCUS, si approfondiva l'analisi della "destalinizzazione". In particolare erano esaminate le esitazioni del PCI di fronte a quel processo e l'uso socialdemocratico della critica allo stalinismo. Il PCdI si era legato a Mosca, attraverso Togliatti, nel 1926. La svolta di quell'anno vide sia Gramsci che Togliatti contrapposti alla sinistra rivoluzionaria. Oggi, Craxi conduce la danza nel travaglio interno del PCI, dando i voti ai vivi e ai morti. Il leader del PSI distingue tra Gramsci e Togliatti presentando il primo come un precursore del l'antistalinismo. In realtà, la differenziazione tra i due dirigenti del PCdI non avvenne su quella questione di fondo ma sulla tattica del "socialfascismo", condivisa da Togliatti, mentre Gramsci respingeva quel tipo di attacco alla socialdemocrazia.

Lo stalinismo, si diceva, aveva rappresentato "la condizione economica dell' "accerchiamento imperialistico", cioè di un capitalismo di Stato che si sviluppa in gran parte autarchicamente". Era stato "la strategia di un capitalismo di Stato isolato che usava il movimento operaio occidentale e le rivoluzioni coloniali come supporto tattico" ma che "aveva un limite ristretto e nazionale e perciò non poteva ancora essere compiutamente imperialista".

La "destalinizzazione" e la "coesistenza pacifica", si affermava, "corrispondono alla tendenza dell'URSS ormai giunta alla maturazione imperialistica di partecipare alla suddivisione pacifica del mercato mondiale e delle sfere di influenza economiche e politiche con le altre potenze imperialistiche e in particolare con gli Stati Uniti".

Questa esigenza imperialistica dell'URSS, si notava, era destinata ad approfondire il contrasto con la Cina.

Nelle metropoli imperialistiche la presa dello stalinismo era condannata a saltare in aria con l'acutizzazione della lotta di classe, come la socialdemocrazia era crollata nella crisi del primo dopoguerra.

Alla nuova strategia russa non serviva più un semplice uso strumentale dei PC e dei proletariati occidentali. Avanzava, si sosteneva, un processo "lento e contraddittorio di occidentalizzazione" delle intese e dei contrasti tra imperialismo russo e le altre potenze che avrebbe richiesto la trasformazione dei fedeli esecutori e propagandisti del capitalismo di Stato russo in abili interpreti e promotori di convergenze.

Questo mutamento, si prevedeva, "investirà, a breve e a lunga scadenza, anche il PCI". Svolte e controsvolte, strappi e rammendi del PCI possono essere ricondotti a questa "occidentalizzazione" del legame con l'URSS.

A questi mutamenti di forma veniva collegato, negli articoli del 1961, l'emergere delle correnti dentro il PCI. Vi si confrontavano due posizioni principali, non antitetiche ma affini, "complementari nella loro essenza": la linea di Togliatti e quella di Giorgio Amendola.

Amendola, si notava, "precorre i tempi ed è troppo avanti". Egli rilanciava l'ipotesi del "policentrismo" esposta da Togliatti nel 1956 e chiedeva la liberalizzazione interna al PCI con la "formazione di volta in volta di minoranze e maggioranze ".

Il tentativo di intrecciare "destalinizzazione" e "socialdemocratizzazione" sarà ripreso da Amendola nel novembre 1964 dopo la morte di Togliatti e l'esautoramento di Kruscev con la proposta della "formazione di un grande partito unico del movimento operaio".

Anche astraendo dalla miopia bipolaristica del gruppo dirigente del PCI, la rapida conversione socialdemocratica o laburista suggerita da Amendola, parzialmente favorita dalla estesa proletarizzazione, era però ostacolata da un modello sociale il cui elemento equilibratore era ancora la compressione salariale.

Le forme e i tempi del togliattismo erano condizionati dai tempi di maturazione della me tropoli italiana e dai tempi di formazione di una aristocrazia operaia.

L'articolo citato del 1964, intitolato "L'era dei Togliatti", tirava le somme dell'analisi del togliattismo.

L'ascesa e il successo di Togliatti, si ribadiva, erano coincisi con il prevalere delle forze controrivoluzionarie su scala internazionale e con la demolizione del movimento rivoluzionario.

Il togliattismo travalicava le capacità, i difetti, la personalità dell'uomo Togliatti proprio perché rappresentava l'aderenza di una linea politica alla fase controrivoluzionaria.

Nel suo memoriale di Yalta, Togliatti era tornato sui suoi passi in tema di 'policentrismo", auspicando una composizione dei contrasti tra i diversi PC e un controllo delle tendenze centrifughe della zona di influenza russa.

Togliatti si confermava fino all'ultimo uno dei migliori interpreti del capitalismo di Stato russo e della sua duplice esigenza di preparare "nuove forme di integrazione e di alleanza tra l'URSS e certe potenze occidentali" e di frenare "la disgregazione del blocco sovietico" determinata da "profondi contrasti economici ed incapacità oggettiva a risolverli".

Craxi riapre il bubbone di Togliatti stalinista. Il contemporaneo accordo petrolchimico di ENI e Montedison con l'URSS suggerisce che l' "era dei Togliatti" non ha esaurito tutte le sue risorse.

La riabilitazione di Bukharin ha dato al PSI l'occasione di riaprire il libro della responsabilità di Togliatti nelle repressioni staliniane.

Craxi ha usato il "caso Togliatti" per lanciare una nuova incursione tra le fila scompaginate del PCI e per minare i ponti di collegamento tra DC e Pa durante la crisi di governo. E stata un'operazione di guerriglia parlamentar-elettorale che non ha portato alcun serio contributo di analisi.

 

I TEMPI DELLA CONCRETEZZA LENINISTA

(LC 213 – MAG.1988)

L'analisi dello sviluppo capitalistico in Italia e delle sue forme costituì, tra il 1955 e il 1963 nel periodo del "boom economico", uno dei maggiori impegni nella lotta per affermare la concezione leninista del partito-strategia e per superare la sterilità di una opposizione puramente propagandistica contro l'opportunismo.

Un primo bilancio di questa analisi era esposto nell'articolo di "Azione Comunista" del maggio 1963, "L'opposizione di Sua Maestà il Centro Sinistra".

I mutamenti sociali di fondo erano, in quella fase, da una parte il processo generale di disgregazione contadina e il parallelo spopolamento delle campagne; dall'altra, la progressiva proletarizzazione.

L'intensità di questi processi, si diceva, era stata tale "che ha travolto le stesse reazionarie linee piccolo-borghesi su cui era attestato un fronte che arrivava sino al PCI".

Di fronte ai profondi fenomeni dello sviluppo, il PCI si presentava con due facce: la faccia capitalistico-statale che si collegava alla forma più dinamica dell'economia, propagandata con l'ideologia stalinista; la faccia reazionaria (dal punto di vista della crescita delle forze produttive) di resistenza alla disgregazione della piccola borghesia contadina.

"Questo processo - si scriveva - è iniziato malgrado la posizione reazionaria dell'opportunismo, malgrado la politica agraria della Bonomiana e del PCI".

La concentrazione capitalistica stava ottenendo una storica vittoria a danno della piccola produzione. La convergenza in questa lotta tra correnti della DC e del PCI era espressione di frazioni borghesi e piccolo-borghesi, non certamente un incontro tra scuole di pensiero.

Si sosteneva che, tuttavia, il processo di disgregazione delle campagne "è ancora ad una fase intermedia e, per tutta una serie di fattori, non ha ancora raggiunto la fase più intensa. Milioni di contadini dovranno ancora abbandonare le campagne".

L'opportunismo, si osservava, avrebbe potuto frenare questo mutamento, coadiuvato da crisi contingenti ma il processo, descritto nelle sue linee generali dall'analisi scientifica di Marx, si sarebbe affermato.

E' quanto si verificò. Nel decennio 1951-1961 gli occupati permanenti e marginali dell'agricoltura si erano ridotti di circa 2,4 milioni di unità. Nel decennio successivo il processo avanzò inesorabilmente con la perdita di altri 2,6 milioni di occupati agricoli.

La nostra analisi della spontaneità operaia si collegava a questa gigantesca ristrutturazione sociale. Il massimalismo, viceversa, idealizzava romanticamente questa spontaneità, attribuendole contenuti rivoluzionari che non aveva, né poteva avere, autocondannandosi così all'impotenza dell'immaginario e alla successiva disperazione per il mito perduto.

Dal punto di vista marxista, la sconfitta dell'opportunismo di fronte alle leggi dell'economia capitalistica aveva un rilevante significato politico. Si ricordava infatti che "nella sua propaganda, nella sua giustificazione, nella sua continua polemica contro i marxisti e i rivoluzionari, l'opportunismo si presenta come una forza "concreta" che "incide" sulla realtà e che la "modifica"".

Proprio il confronto con la realtà aveva dimostrato l'evanescenza della presunta "concretezza" opportunista.

L'opportunismo non determina ma subisce lo sviluppo delle forze produttive. Aspira a modificare il meccanismo di accumulazione e non fa che adattarvisi. Ambisce di stare al timone della macchina capitalistica e ne diventa la ruota di scorta. Si proclama avanguardia, eppure il caotico sviluppo capitalistico lo coglie sempre in ritardo, lo trascina e lo scompagina. Pretende di riformare, programmare e pianificare, di imbrigliare e cavalcare l'economia borghese e ne diventa il triste Ronzinante.

Veniva posta una questione di metodo: può un movimento operaio a direzione rivoluzionaria cambiare le leggi dell'economia?

Si rispondeva: "La lotta operaia non può "modificare" il corso delle leggi economiche del capitalismo se non al momento della rottura rivoluzionaria".

Non era, né è, una tesi scontata. Lo spontaneismo e l'intermedismo hanno sovente pensato di regolare i conti con il riformismo, accusandolo di "dire" ma di "non fare", di "non agire", di mancare di "volontà politica".

Ma i mutamenti sociali non sono creati dalla volontà dei rivoluzionari, né possono essere arrestati dalla non volontà dei riformisti. Sul terreno del volontarismo il movimento operaio è perdente. La volontà militante è tale se obbedisce alla disciplina della strategia, non quella che si illude di surrogarla.

Fuori dalla condizione della crisi rivoluzionaria, cioè della crisi della struttura economica e della sovrastruttura politica, un movimento di classe a direzione rivoluzionaria non può attendere passivamente che il capitalismo compia il suo ciclo. Come agire concretamente?

"Il vecchio Marx - si rispondeva - ha tracciato un chiarissimo programma di azione "pratica" e "concreta"...: lotta per la riduzione della giornata lavorativa e lotta per l'aumento del salario. La lotta di classe, guidata su questo piano strategico, "incide" veramente sulla realtà capitalistica e realmente "modifica" il rapporto tra capitale costante e capitale variabile".

Il capitalista sarà costretto da questa lotta ad elevare il livello tecnologico per aumentare la produttività della forza lavoro, divenuta più costosa.

Ne risulterà una più alta composizione organica, una più alta concentrazione, una maggiore disoccupazione, una classe operaia più concentrata e combattiva. Il capitalismo, premuto dalle lotte operaie, tenderà a concentrare tutte le sue branche e ridurre le quote di plusvalore destinate alla piccola borghesia, all'interesse e alla rendita, rivelandosi in tutta la sua articolazione contraddittoria.

Questo schema, abbozzato da Marx e ripreso da Lenin nelle "Due tattiche" del 1905 e nelle "Tesi di Aprile" del 1917, segna la direttrice di marcia del partito rivoluzionario che "utilizza e strumentalizza le lotte economiche immediate... in una strategia che prepara il "salto" e la "rottura dell'anello più debole" della catena imperialistica".

In questo modello, il partito opera nelle tendenze oggettive, con la consapevolezza strategica che la lotta di classe è un potente motore di sviluppo delle forze produttive e un fattore della lotta tra le frazioni borghesi.

La proletarizzazione in Italia si era estesa in quantità e qualità. I lavoratori dipendenti, si notava, erano passati da 8,4 milioni nel 1954 a 10,2 milioni nel 1961, su un totale di 19,9 milioni di occupati.

Era rapidamente cresciuto il proletariato giovanile e femminile in tutte le aree regionali. Il proletariato agricolo, grazie alla meccanizzazione, si avvicinava alla tipologia del proletariato industriale.

Due altre forme, veniva sottolineato, stavano emergendo: "la più alta percentuale di impiegati (i cosiddetti "white collars") e l'estensione del salariato nel settore terziario".

Collocavamo i due fenomeni all'interno del processo di proletarizzazione. Era una tesi controcorrente rispetto a quelle di moda. Si precisava infatti, che "nel 1956 queste due forme furono definite dalla marea opportunista dilagante come un fenomeno di crescenza di un non meglio identificato "ceto medio"... Esistono un'infinità di teorizzazioni di questo tipo: dai neocapitalisti dichiarati al PSI, al PCI e ai vari gruppetti".

I marxisti hanno sempre distinto tra collocazione oggettiva delle classi e loro connotazione soggettiva, ideologica. All'interno di determinati settori della classe operaia penetrano le mentalità, gli stili di vita, i comportamenti piccolo-borghesi, si diffonde la socialdemocratizzazione.

Non per questo il partito leninista regala questi reparti della classe al magma filisteo del "ceto-medio", ma ne fa terreno di lotta ideologica e politica.

Le forme della proletarizzazione erano viste all'interno di una linea generale dello sviluppo capitalistico che "non poteva che ricalcare quella anglosassone". In particolare, si sosteneva, il capitalismo italiano seguirà il modello del capitalismo americano, principale potenza ascendente e immagine avanzata per le società più arretrate, come l'Inghilterra lo era stata ai tempi di Marx. Questo procedimento scientifico è sempre stato rifiutato dagli opportunisti che invece sottolineano le particolarità nazionali, non per cogliere le forme specifiche di un processo universale, ma per negare la validità di leggi economiche generali.

Quali effetti aveva la proletarizzazione sulla superficie politica? La concezione spontaneista e meccanicista dava una risposta semplicistica, ipotizzando una crescita parallela di proletarizzazione e di lotta anticapitalistica: più proletari, più rivoluzione.

La nostra è un'impostazione dialettica. Sostenevamo: "Più si vanno accumulando le "sostanze infiammabili della rivoluzione", più i partiti riformisti si adoperano per annegarle nel mare della democrazia, dell'elettoralismo e del parlamentarismo". Il centro-sinistra, sotto questo aspetto, non era una novità. Esso rappresentava "la politica economica del grande capitale privato e statale tesa all'allargamento del mercato interno ed estero in un piano che prevede, tramite le "cinghie di trasmissione" costituite dai sindacati e da PSDI-PSI-PCI, una intensa politica riformista verso un proletariato in espansione".

Il PCI poteva assolvere questo ruolo di diga di contenimento anche grazie al suo predominio politico ed in parte economico sulle tre regioni centrali a forte composizione sociale piccolo-borghese.

In assenza di una direzione rivoluzionaria, la classe operaia convertì la sua forza accresciuta e la sua spontaneità nella moneta adulterata del voto all'opportunismo.

 

FORZE E FORME DEI MUTAMENTI SOCIALI

(LC 214 – GIU.1988)

La crisi politica che investì il PCI nel 1956, dopo il XX Congresso del PCUS e i fatti d'Ungheria, incrinò i legami tra lo stalinismo italiano e alcune correnti intellettuali.

Il maggiore esponente nel PCI di queste correnti, Antonio Giolitti, espose i motivi del suo dissenso nel saggio "Riforme e rivoluzione", suscitando un certo dibattito dentro e fuori il partito. Con l'articolo "Appunti per Giolitti" del 15 maggio 1957, intervenimmo su "Azione Comunista" in quel dibattito.

Venivano precisate due questioni di metodo.

In primo luogo veniva rifiutato il metodo stalinista di attribuire qualifiche di "destra" o di "sinistra" alle posizioni di critica. Questo metodo, si diceva, era funzionale a Togliatti che adoperava il meschino artificio delle etichette di topografia politica per garantirsi una dominante collocazione di "centro".

In secondo luogo si respingeva il metodo massimalistico della condanna morale e programmatica del revisionismo. Nel confronto con il revisionismo si vedeva una opportuna e necessaria occasione di approfondimento da parte marxista dei grandi temi della strategia rivoluzionaria.

"Non temiamo il revisionismo quando si presenta chiaramente come tale", si diceva, e si richiamava il dibattito che a cavallo del secolo impegnò il movimento operaio, in particolare attorno al la tesi revisioniste di Eduard Bernstein.

Si notava che in quella storica polemica tra "revisionisti", "ortodossi" e "rivoluzionari", nessuno dei contendenti aveva confuso il "socialismo" con la "nazionalizzazione" dei mezzi di produzione.

Lo stalinismo, espressione del capitalismo di Stato russo, compì questa sovrapposizione mistificatoria, creando un disorientamento senza precedenti nel movimento operaio.

Gli intellettuali dissidenti del 1956 mostrarono il loro limite proprio davanti a questa semplice distinzione di fondo. Più per calcolo che per ignoranza dei termini della questione, scansarono la prova di fuoco della natura sociale dell'URSS, restando nel campo della polemica interimperialistica, in cui i contrapposti schieramenti, per diversi motivi, erano cointeressati ad accreditare un carattere socialista al la potenza sovietica.

Giolitti indicava nella "teoria del crollo" il nocciolo del dibattito svolto attorno al 1900.

Noi obbiettavamo che, in realtà, la polemica sulla "teoria del crollo" era solo un'appendice di quella disputa, incentrata piuttosto sulla teoria della crisi e del ciclo economico. Ma, soprattutto, si sottolineava che il riformismo attuale non era e non è più l'espressione di una corrente di pensiero interna al movimento operaio, fondata su una qualsivoglia teoria, ma "l'esercizio della egemonia capitalistica sul proletariato... una gigantesca catena di interessi e di condizioni sociali a cui sono legati gruppi di professionisti della politica, del sindacalismo, del cooperativismo".

Sotto la pelle del riformismo, si ricordava, non si celano elevate dottrine ma il sovrapprofitto imperialistico, la burocratizzazione, il capitalismo di Stato.

Nel dibattito con il revisionismo, i rivoluzionari trassero chiarezza teorica e svilupparono l'analisi marxista delle "forze" e delle "forme" del modo capitalistico di produzione.

Il capitalismo è un susseguirsi di mutamenti di "forme". Marx, nel "Capitale", analizza il rivoluzionamento delle "forme" del capitalismo, dai primi stadi della divisione del lavoro e della cooperazione alla manifattura e alla grande industria.

Il capitale 'forza sociale concentrata" si evolve nella sua tendenza alla concentrazione, in varie "forme", fino alla suprema configurazione di capitalismo di Stato.

Tutti i revisionisti seri, si affermava, fondarono la loro opera sulla presunta scoperta di mutamenti fondamentali nella struttura del sistema capitalistico. In realtà, confusero le "forme" con le "forze" dello sviluppo capitalistico.

Bernstein aveva documentato statisticamente che, contrariamente alle previsioni di Marx, la piccola proprietà agricola era aumentata.

La tesi di Bernstein fu smentita nel lungo periodo dalla trasformazione capitalistica delle campagne. Ma quella tesi, si rammentava, diede subito ai marxisti la spinta ad approfondire le caratteristiche della penetrazione capitalistica nell'agricoltura: essi scoprirono la crescente dipendenza della proprietà contadina dal capitale bancario, la capillare egemonia del capitale finanziario sulla massa dei piccoli capitalisti della terra, attraverso il credito, l'interesse, l'ipoteca.

L'errore dei revisionisti, più ancora che nell'analisi della piccola produzione, si manifestava sul piano del metodo, come rifiuto della dialettica e come tentativo di analizzare un fenomeno sociale in sè. La dialettica è l'analisi delle connessioni tra le diverse facce della vita reale, è la scoperta dei rapporti tra i fenomeni.

Nel suo procedimento, il revisionismo rifletteva la visione del mondo della borghesia, interessata alla conservazione e non più alla critica della formazione economico-sociale nel suo complesso.

Da questa visione scaturisce il positivismo, metodo di analisi pseudo-scientifica dei singoli fenomeni a sé stanti di una realtà "scientificamente" spezzettata e, perciò, mutilata della sua contraddittoria totalità.

Si proseguiva: "Se oggi si è giunti ad una concezione scientifica sul fenomeno del capitalismo di Stato lo si deve anche all'attacco revisionista che stimolò i rivoluzionari ad interpretare conseguentemente la critica economica di Marx come critica dei rapporti di produzione e non come critica delle forme giuridiche della proprietà, confinate da Marx stesso--nella risposta a Proudhon -- nella sovrastruttura ideologica".

Perciò, se c'era qualcosa di cui rammaricarsi, non era l'emergere di un nuovo tentativo di revisione del marxismo, ma la esiguità dei suoi argomenti. Giolitti, si obiettava, "neppure le statistiche adoperate dal Bernstein ci porta, nemmeno quelle statistiche che, secondo Lenin, data la complessità e il caos della vita economica del capitalismo, possono servire per una tesi e per la corrispondente confutazione".

Al dunque del suo ragionamento, Giolitti indicava come mutamento del modo di produzione capitalistico le innovazioni tecniche, l'atomo, l'automazione.

Si rispondeva: "Energia atomica e automazione, nuove "forme" di produzione sono il prodotto della concentrazione capitalistica e della tendenza al capitalismo di Stato, già individuata da Lenin nel suo "Imperialismo"".

Uno dei mutamenti incessanti delle "forme" del capitalismo, si notava, è dato dall'estrema differenziazione e specializzazione dei processi produttivi che accompagnano l'evoluzione tecnologica e determinano diverse proporzioni e "forme" del consumo produttivo, dei modelli di consumo individuale, della struttura della classe operaia.

Una mappa dettagliata delle quote del mercato italiano per settori, recentemente elaborata dalla Banca Commerciale e da Prometeia, evidenzia, ad esempio, una struttura di consumi profondamente mutata rispetto a quelle di trent'anni fa: la quota dei metalli non ferrosi supera in valore la quota siderurgica, gli elettrodomestici bruni hanno una fetta di mercato circa tre volte superiore a quella degli elettrodomestici bianchi, il settore stampa-editoria supera abbondantemente quello delle calzature, il settore dolciario sopravanza quello dei cereali e pasta, i prodotti da forno superano la conserviera.

Accanto all'industria automobilistica estremamente concentrata, pullulano migliaia di imprese di abbigliamento.

"In ogni modo--si sosteneva nell'articolo del 1957-tutto ciò non annulla un grande fatto economico, che per se stesso rappresenta la maturità delle basi materiali dell'economia socialista: la presenza sociale ed economica di un vasto proletariato, con o senza "colletto bianco", con o senza pregiudizi e pretese piccolo-borghesi, ma comunque immesso come condizione nel ciclo della produzione capitalistica e legato ai suoi sviluppi e alle sue crisi".

Davanti al caleidoscopio delle "forme" del capitalismo che stupisce i suoi servizievoli apologeti, i marxisti affinano i propri strumenti teorici.

Il confronto con le correnti di pensiero, revisioniste o borghesi, che accompagnano lo sviluppo, le ristrutturazioni, le crisi del capitalismo è compito permanente del partito leninista.

Nell'analisi delle nuove forme dell'economia borghese e della sua sovrastruttura politica e ideologica il partito collauda le sue forze e perfeziona le forme della sua lotta contro il Leviatano dominante.

 

FORZE E FORME DEL PLURALISMO

(LC 215 – LUG.1988)

La forma democratica e la forma pluralistica dello Stato mutano il loro contenuto sociale con lo sviluppo contraddittorio della formazione economico-sociale capitalistica.

In un editoriale del maggio 1979 di "Lotta Comunista" veniva precisata la nostra tesi sulla "democrazia imperialistica" in contrapposizione a una tesi di Bucharin. Si diceva: "Bucharin immaginava che la concentrazione economica ed il corrispondente centralismo politico si fondessero in un unico trust capitalistico-statale, ossia in uno Stato imperialistico che assumeva il massimo di potenza economica e di potere politico da scagliare contro analoghi Stati imperialisti concorrenti. In realtà non è così. La centralizzazione del capitale e la concentrazione dei mezzi di produzione dà luogo ad una pluralità di grandi imprese in concorrenza e tale concorrenza dà luogo, a livello sovrastrutturale, a un pluralismo politico".

Non si ha, quindi, una meccanicistica concatenazione del tipo concentrazione economica-centralizzazione politica-sovrastruttura autoritaria. Si determina, invece, la trasformazione dell'originaria sovrastruttura pluralistica, corrispondente alla fase della libera concorrenza, in pluralismo imperialista, caratterizzato dalla più acuta competizione politica.

"Questo pluralismo politico --si affermava--non è la democrazia diretta dei piccoli produttori bensì la democrazia imperialista dei grandi produttori di alcune centinaia di grandi imprese altamente concentrate".

La ristrutturazione economica e sociale dell'ultimo decennio ha determinato a livello mondiale spostamenti di vasta portata del le classi sociali, delle produzioni, delle proporzioni di capitale, dei rapporti di forza tra le potenze, tra i giovani capitalismi, tra i grandi gruppi.

In Italia, la ristrutturazione ha agito sul corpo sociale in profondità ed estensione. Il quadro tracciato dalla Relazione annuale della Banca d'Italia evidenzia la perdita di un milione di addetti industriali e l'incremento di due milioni di addetti nei servizi, in un decennio.

Questo saldo è però l'esito di flussi sociali ben più estesi che hanno modificato la collocazione di circa il 30% della popolazione.

I risultati elettorali come i saldi sociali sono istantanee che colgono solo la forma esteriore del mutamento. La dinamica sociale, politica, ideologica è più complessa e articolata.

La sola analisi dei dati e dei flussi elettorali fornisce delle indicazioni sui mutamenti dei rapporti quantitativi tra i partiti ma astrae dal fatto che gli stessi partiti mutano forme e contenuti dietro l'apparente continuità dei loro simboli tradizionali.

Il rapido cambiamento di col locazione sociale modifica gli interessi materiali, le attese, le forme ideologiche di determinati settori dell'elettorato. Da questo punto di vista, i movimenti elettorali forniscono segnali sul grado di adattamento dei partiti parlamentari ai movimenti sociali.

Nella ristrutturazione della metropoli italiana il dato principale è la riduzione del peso complessivo del capitale di Stato, anche se con andamenti settoriali diversificati: accanto ai settori in crisi come la siderurgia, la cantieristica o l'elettromeccanica, ci sono settori in sviluppo come le telecomunicazioni e altri che hanno cambiato forma proprietaria, come l'Alfa Romeo, finita nel serraglio della FIAT.

A questo mutamento di fondo della struttura economica italiana hanno corrisposto tre fenomeni nella sovrastruttura politica.

Il partito principale del capitalismo di Stato, la DC, è riuscito a conformarsi al ridimensionamento del sistema delle partecipazioni statali, esprimendo un liberismo cattolico.

Il secondo partito del capitale di Stato, il PCI, non ha invece saputo adeguare la propria linea alle nuove condizioni.

La diversa flessibilità dei due maggiori partiti italiani ha mol teplici cause. Nel caso specifico è significativo che per il partito democristiano l'impresa pubblica rientri nell'ideologia generale del solidarismo cattolico senza costituire un principio a sè stante. Al contrario, per il PCI il capitalismo di Stato costituisce un pilastro della propria identità ideologica, essendo la forma del presunto socialismo sovietico.

Infine, dalla ristrutturazione è emersa la forma politica del craxismo, legato in misura minore al capitale di Stato e perciò più mobile e spregiudicato verso la riorganizzazione delle imprese pubbliche: ha favorito la privatizzazione della Montedison mentre ha attaccato la tentata privatizzazione della holding alimentare SME; ha assalito il monopolio della RAI-TV ma ha caldeggiato la creazione del polo chimico sotto l'egida dell'ENI e del polo delle telecomunicazioni sotto l'ala dell'Italtel.

Da alcuni anni il PCI continua a cedere posizioni verso il liberismo cattolico e verso il craxismo.

La polemica su questo fenomeno si accentua nella contingenza elettorale. In occasione dell'ultimo voto amministrativo parziale, la campagna giornalistica ha puntato i riflettori sul travaso dal PCI al PSI e sull'ipotesi del prossimo sorpasso del PSI sul PCI. Sono aspetti parziali di un complesso fenomeno, ma la concentrazione di fuoco sull'inversione di tendenza tra i due partiti aggrava il disorientamento del PCI, incoraggia gli incerti a puntare sul cavallo vincente, scuote il quartier generale opportunista.

Gianfranco Pasquino valuta che i due terzi dei voti perduti dal PCI siano andati al PSI. Il rimanente terzo è andato alle leghe regionali ed ambientaliste e, in alcune aree, come nella zona del Golfo, è massicciamente trasmigrato verso la DC e i partiti laici che controllano il "partito degli assessori".

Craxi sostiene che è in corso un' "onda lunga" che si alimenta dal riequilibrio elettorale tra PCI e PSI. In un quarantennio la somma elettorale dei due partiti ha oscillato attorno al 40%. Nel 1946, il PSI raccolse il 21% dei voti e il PCI il 19%. Oggi hanno rispettivamente il 18% e il 22%.

Un corollario della tesi dell' "onda lunga" è che, con il riequilibrio, la "sinistra" acquisirebbe una marcia in più che le permetterebbe di conquistare la maggioranza elettorale. Si tratta di una forzatura ideologica.

Una coalizione di "sinistra" può varcare elettoralmente la soglia del 50%, solo se pesa politicamente per il 50% nella bilancia del pluralismo imperialista.

E possibile immaginare alcuni scenari entro i quali una operazione politica del genere può prendere corpo.

In primo luogo, si può ipotizzare che il cosiddetto riequilibrio -avanzi fino a ridurre il PCI al 15% o al 10%, con un PSI dilatato al 25% o al 30%, configurando una situazione di tipo francese.

Una seconda ipotesi può essere l'unificazione dei due partiti auspicata nel 1964 da Giorgio Amendola.

In un terzo scenario si può ipotizzare una DC ridotta di un terzo, ma in nessuna delle metropoli europee si è verificato un tale tracollo del partito "conservatore" con una perdita di un decimo dell'elettorato votante.

In una quarta ipotesi teorica si può collocare la totale eclissi del terzo partito, ma è una eventualità impraticabile per il ruolo correttivo, condizionante e di equilibrio che il terzo partito assume nel modello europeo di pluralismo politico delle grandi imprese.

Lo scenario più probabile è piuttosto l'alleanza del craxismo, egemone in una colazione di "sinistra" con il terzo partito. E il modello funzionante nella Germania Federale in cui la piccola FDP ha permesso alla socialdemocrazia di reggere il governo per quasi un quindicennio, per poi mandarla all'opposizione quando alcuni settori della SPD tentennarono sulla scelta liberista e atlantista. E il modello che Mitterrand cerca di adottare in Francia.

In tutte le metropoli il pluralismo politico dei grandi gruppi si esprime con forze elettorali del 40%, mentre forze del 50% comprometterebbero lo stesso meccanismo pluralista. A maggior ragione il meccanismo vale in Italia dove la riserva mobilitabile delle astensioni è inferiore rispetto a Londra o a Parigi.

Nella metropoli americana, per il suo carattere multistatale e bioceanico, l'equilibrio dei poteri si manifesta diversamente, attraverso una dialettica costante tra Presidenza e Congresso.

E infine ipotizzabile un sesto scenario, con un quarto partito che assuma un ruolo decisivo nella bilancia del pluralismo. Nell'ultimo decennio è osservabile nelle metropoli europee la tendenza alla formazione di un quarto polo. In Gran Bretagna fu creato attraverso una rottura del partito laburista che facilitò la vittoria del thatcherismo. Nella Germania Federale è emerso il partito dei verdi che ha avuto una funzione analoga sui social democratici. In Francia, il fenomeno Le Pen, incoraggiato da Mitterrand, tramite l'adozione della proporzionale, si è affermato nelle elezioni presidenziali calamitando voti xenofobi dalla "destra" ma anche dal PCF.

In Italia un ruolo analogo non può essere svolto dal MSI, mentre le leghe locali possono assumere una funzione di questo tipo.

Il craxismo non si può imporre unicamente assorbendo l'emorragia elettorale del PCI. Questo meccanismo probabilmente potrà permettere la promozione del PSI da terzo a secondo partito.

Il PCI, trasformato, potrebbe svolgere il ruolo di terzo partito, ma per il momento ondeggia tra l'angoscia di un interminabile "ciclo moderato" e il miraggio di un provvidenziale "ciclo progressista".

Craxi esprime maggiore consapevolezza circa le complicazioni e i nodi ancora irrisolti del "caso italiano", quando afferma di non possedere i quadri all'altezza della situazione.

Non è una considerazione da poco, in una metropoli in cui la presunzione e l'ignoranza massimalista hanno proclamato per un quarantennio innumerevoli quanto inesistenti vittorie.

 

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Ultima modifica 12.09.2001