Scritto
nel gennaio 1973
Pubblicato per la prima volta su Lotta Comunista, N°44
Trascritto per internet da Antonio Maggio,
febbraio 2002
"Senza rivoluzione violenta è impossibile sostituire lo Stato proletario allo Stato borghese ... La necessità d'inculcare sistematicamente alle masse questa idea... della rivoluzione violenta è alla base di tutta la dottrina di Marx e di Engels", afferma perentoriamente Lenin in "Stato e rivoluzione".
Senza possibilità di equivoci, le chiarissime parole di Lenin colpiscono come un pesante maglio ogni forma di opportunismo che osi chiamarsi marxista e leninista, mentre ne rigetta in blocco tutta la dottrina.Lenin, come sempre, presenta la teoria marxista, che nelle mani dei sofisti intellettuali e degli eclettici opportunisti diventa una aggrovigliata spirale di astruserie, nella sua cristallina essenza: la base di tutta la teoria marxista è nell'inculcare alle masse l'idea della rivoluzione violenta.
In altre parole: tutta la scienza marxista si concretizza nell'agitazione sistematica per la rivoluzione violenta del proletariato. E' inutile aggiungere che proprio i termini impiegati da Lenin ("tutta" e "violenta") eliminano ogni possibilità di discussione in merito e rendono un grande servizio. O si è d'accordo con Lenin o si è contro il marxismo.
E' necessario, invece, un richiamo preciso e testuale a quei termini per sbarazzare, una volta per tutte, il cumulo di mistificazioni che da decenni si è andato formando sul rapporto riforme e rivoluzione.
Se per rivoluzione si intende quello che indica Lenin e se per riforme si intende la lotta per gli interessi immediati del proletariato occorre subito ribadire che non esiste alcun antagonismo tra questi due tipi di lotta. Anzi, la loro stretta unità rappresenta il pilastro della strategia rivoluzionaria leninista.
La questione è che per l'opportunismo le riforme sono ben altra cosa, che gli interessi immediati del proletariato. Ne sono la negazione. Sono il tentativo di superare le contraddizioni dell'imperialismo perfezionandolo, rendendolo più efficiente.
L'opportunismo si manifesta, come sempre, con l'azione per le riforme, cioè tenta di collegarsi ad un processo oggettivo qual'è quello che esprime gli interessi immediati del proletariato per utilizzarlo politicamente a fini che non sono quelli del soddisfacimento di questi interessi immediati stessi. Data l'unità inscindibile tra interessi immediati e interessi storici del proletariato, chi non lotta contemporaneamente per gli interessi immediati e per la rivoluzione violenta proletaria finisce inevitabilmente con l'agire contro la classe operaia, sia nell'immediato che nel futuro.
L'azione per le riforme portata avanti dall'opportunismo nell'attuale contingenza dimostra la giustezza e la validità della tesi leninista sulla indivisibilità della lotta di classe per gli interessi immediati e per la rivoluzione violenta.
Siccome l'opportunismo deve combattere anche sul fronte teorico la tesi marxista e leninista, sui due tipi di lotta di classe organicamente integrati nella strategia rivoluzionaria è costretto a spiegare la sua azione pratica con una serie di tesi teoriche antagonistiche a quelle marxiste. Spinto da una azione pratica che non corrisponde agli interessi immediati del proletariato, l'opportunismo è costretto ad elaborare tesi che, anche in campo teorico, non possono più collegarsi a tali interessi.
Il marxismo ci insegna che non è la teoria a guidare l'opportunismo, come qualsiasi altro fenomeno sociale, ma che è la pratica quotidiana a creargli la necessità di una teorizzazione riformista. Quindi non si può spiegare l'opportunismo con il fatto che esiste una teorizzazione riformista; viceversa, si deve spiegare la teorizzazione con il fatto concreto della pratica sociale opportunistica. Di conseguenza, l'originalità dell'opportunismo contemporaneo non risiede nelle sue teorie, ma nel rapporto particolare che si è andato determinando tra la sua pratica e le sue teorie.
Nell'attuale fase di sviluppo imperialistico che vede acuite le contraddizioni nella società capitalistica italiana, la pratica sociale dell'opportunismo è strettamente determinata da un movimento strutturale sempre più in squilibrio con le sue sovrastrutture. Questo squilibrio sempre più accentuato costringe l'opportunismo a mutare spesso le sue teorie.
Classico esempio di questo specifico carattere dell'opportunismo contemporaneo è il PCI. A voler raccogliere le tesi con cui di volta in volta ha cercato di giustificare, negli ultimi decenni, la sua azione politica per le riforme c'è da compilare una antologia umoristica, e mostruosa nello stesso tempo, nella quale possono essere passate in rassegna tutte le varietà e tutte le specie e sottospecie dell'opportunismo. La giustificazione teorica con la quale si portavano ieri le masse nell'azione per le riforme non è più valida oggi quando se ne presenta un'altra come frutto di ulteriore elaborazione; domani, magari, si ripresenterà quella di ieri presentandola come novità e così via.
Ma abbiamo già detto che l'azione opportunista non può essere spiegata con le sue teorie, così come quella della Chiesa con la teologia. Perciò non possiamo spiegare lo zig-zag teorico del PCI, ad esempio, con una presunta sua incoerenza teorica, perchè l'opportunismo non ha bisogno di una coerenza teorica in quanto una sua coerenza ce l'ha ed è la coerenza della pratica controrivoluzionaria.
Per spiegare i mutamenti teorici del PCI occorre, invece, analizzare, i movimenti reali nella struttura e nella lotta tra le classi e tra le frazioni della classe dominante, cioè i processi oggettivi sempre mutevoli, in generale, e mutevolissimi in questo momento, in modo particolare .
Se ha poco interesse e, soprattutto, poca utilità vedere la storia dell'opportunismo attraverso la storia delle sue teorizzazioni ha, invece, un interesse pratico e rivoluzionario vedere quali teorizzazioni l'opportunismo escogita nella sua attuale azione politica.
L'attuale teorico cavallo di battaglia del PCI è la tesi dell'intreccio inestricabile del profitto con la rendita. Il senso della tesi sostanzialmente sarebbe questo: siccome rendita e profitto sono talmente intrecciati da non poter essere separati, la lotta per le riforme è rivoluzionaria perchè colpendo la rendita colpisce anche il profitto, divenuto ormai una specie di fratello siamese, e viene così colpito il sistema nel suo complesso. Con questa trovata più furbesca che solida ed originale, come vedremo, si pensa di prendere più piccioni con una fava (e misera fava resta davvero!).
Intanto si pensa di dare il colpo al primo piccione: la distinzione tra le riforme della fase ascensiva della borghesia e le riforme della fase imperialistica, distinzione posta da Marx e sviluppata da Lenin. Le riforme sono rivoluzionarie quando la borghesia al potere deve vincere e liquidare i residui feudali, poichè eliminando questi viene assicurato lo sviluppo delle forze produttive e, quindi, del proletariato e della lotta di classe. La classe operaia, di conseguenza, deve, nella piena autonomia teorica-politica-organizzativa, appoggiare queste riforme perchè ciò rientra nella sua strategia rivoluzionaria. La fase imperialistica si caratterizza, invece, per uno sviluppo di forze produttive che prepara una più vasta ed immane distruzione delle forze produttive stesse nelle crisi, nei contrasti interimperialistici, nelle guerre localizzate e mondiali. Ogni riforma è rafforzamento del meccanismo imperialistico.
Il PCI nel 1944 giustificava la sua collaborazione di classe con la tesi che in Italia bisognava completare la rivoluzione borghese perchè vi era ancora il "residuo feudale" della rendita. Solo completando la rivoluzione borghese, diceva Togliatti, la classe operaia porta avanti la rivoluzione socialista. Oggi il PCI non può, ovviamente, ripetere la tesi della rendita "residuo feudale", tesi che non solo rigettava il giudizio di Lenin sulle riforme nella fase imperialistica ma, addirittura, ripudiava, la teoria di Marx sulla trasformazione della rendita feudale in rendita borghese. Perciò il PCI inventa una nuova caratteristica alla rendita.
Con ciò spera di papparsi un secondo piccione: la lotta operaia contro il profitto. La logica dei padri teorici del mostricciattolo rendita-profitto con una sola pancia (partorito, però, come Giove partorì Minerva) dovrebbe essere ineccepibile. Se profitto e rendita hanno una stessa pancia diamo legnate sulla rendita e faremo sputare anche il profitto! E se a dar legnate oltre agli operai ci sono altri, meglio ancora, la pancia si affloscia prima! E' un po' quello che deve avere pensato Di Giulio quando ha scritto, su Rinascita, che l'autunno 1972 è più forte dell'autunno 1969. Gli operai possono pensare che sono entrati più elementi in lotta, che la lotta si è estesa anche alle piccole fabbriche, il ghetto di milioni di salariati. No! L'autunno 1972 è più forte perchè ha "stabilito in modo ampio ed esplicito un collegamento tra lotte contrattuali ed azione per le riforme".
Gli operai possono pensare che, essendosi allargata alle riforme, la lotta contrattuale può essere accentuata. No!
Gli operai sbagliano ancora una volta: il successo contrattuale "non si raggiunge in una corsa all'esasperazione dello scontro", come ingenuamente potevano ritenere, ma con "il consolidamento delle alleanze, l'isolamento dell'avversario". Finalmente sono arrivati gli alleati a menar colpi sulla rendita e così non c'è bisogno di esasperare lo scontro col profitto, poichè "Rinascita" sa che basta colpire bene la rendita, per togliere respiro anche al profitto. Ma chi sono gli alleati che danno all'autunno 1972 un vantaggio su quello del 1969? Ce lo dice subito Di Giulio: insegnanti? statali e contadini, i quali ultimi sono, appunto, scesi in lotta a novembre. Prima che finisca l'inverno, può darsi che i teorici di "Rinascita" ci forniscano una loro elaborazione originale sulla totale inversione del ciclo produttivo nelle campagne italiane. Noi, in cambio, forniremo loro calcoli più dettagliati possibili sulle perdite subite dalla rendita sotto i colpi terribili dei burocrati e degli insegnanti.
Il fatto è che sotto questi colpi finisce anche con lo zoppicare la logica dei teorici del PCI. Difatti deve sempre più appoggiarsi sulle malconce stampelle della sociologia borghese per tentare di afferrare il terzo piccione con la solita fava: l'eliminazione della lotta delle frazioni borghesi per la ripartizione del plusvalore Infatti, se rendita e profitto fossero così intrecciati come dicono non ci sarebbe più una base oggettiva per la differenziazione delle frazioni borghesi e, al limite, non esisterebbero più le frazioni stesse. E' quello che vogliono far credere i teorici del PCI e come prova indicano i monopoli ed i monopolisti come persone. Che una società per azioni o un singolo azionista possano avere nel portafoglio quote di profitto e quote di rendita è cosa che Marx sapeva perfettamente perchè aveva sotto gli occhi innumerevoli esempi. Non per questo rinunciava a definire scientificamente i rispettivi e specifici ruoli della rendita e del profitto nel processo di produzione e di circolazione del capitale. Se il capitale nella forma denaro include profitto e rendita, il denaro quando si trasforma in capitale nel processo di produzione non può più essere rendita. In altre parole, la rendita, come tale, non è capitale del processo di produzione del plusvalore. La rendita, come tale, è solo reddito e, in questa qualità, espressione della ripartizione del plusvalore. Che poi questo reddito assuma la forma di capitale monetario e in quanto capitale bancario diventi capitale industriale non cambia assolutamente niente alla natura del processo di produzione.
Il carattere della rendita ed il suo ruolo nel processo di produzione e di circolazione del capitale non variano con lo sviluppo del capitale finanziario, cioè della fusione tra capitale bancario e capitale industriale, come ha chiaramente indicato Lenin.
La variazione può riguardare il suo peso, ma non la sua natura.
Chi invece affermava il contrario era Kautsky e vediamo subito il perchè. Avevamo detto che la tesi del PCI è poco originale. Difatti, nel 1911, Kautsky diceva che, dal 1890 al 1910, "il capitale industriale si è trasformato in capitale finanziario, si è unificato con i monopolisti terrieri".
Anche nelle conclusioni il PCI copia il vecchio Kautsky il quale afferma: "Le riforme sociali sono state completamente abbandonate". Teorico massimo dell'unificazione profitto-rendita, Kautsky sarà massimo sostenitore controrivoluzionario dell'azione per le riforme sociali che la borghesia, unificata nel capitale finanziario, avrebbe abbandonate completamente.
Lenin non solo combatte a fondo questa tesi Kautskyana ma demolisce pure, implacabilmente, ogni tesi della sinistra che possa minimamente offrire appigli al centrismo di Kautsky.
Commentando nei "Quaderni sull'imperialismo" nel 1915, un articolo di Anton Pannekoek, uno dei massimi esponenti della sinistra rivoluzionaria, scrive: "Unità della lotta per il socialismo e per le riforme" oppure "e per gli interessi immediati degli operai"? E che cosa è la lotta per il socialismo? Nella formula di Pannekoek è elusa, cancellata, eliminata, la differenza tra sinistra e "centro". La formula . . . di Pannekoek può essere sottoscritta anche da K. Kautsky. . . Questa formula è errata. La lotta per il socialismo consiste nell'unità della lotta per gli interessi immediati degli operai (propriamente per le riforme) e della lotta rivoluzionaria per il potere, per l'espropriazione della borghesia, per l'abbattimento del governo borghese e della borghesia. Bisogna unire non la lotta per le riforme + le frasi sul socialismo, la lotta "per il socialismo", ma due tipi di lotta".
Unità organica di due tipi di lotta, lotta per gli interessi immediati degli operai e lotta rivoluzionaria per l'abbattimento della borghesia: ecco la chiara e sempre attuale indicazione strategica leninista, per il nostro intervento contingente. Ecco come noi affrontiamo il problema delle riforme, non dal punto di vista delle frazioni borghesi ma dal punto di vista degli interessi immediati del proletariato. I proletari hanno sì il problema della casa perchè gli affitti aumentano: ebbene debbono lottare perchè aumenti il salario. I proletari hanno sì il problema del trasporto perchè perdono ore di tempo per recarsi al lavoro: ebbene debbono lottare perchè, ad eguale salario, diminuiscano le ore lavorative ed i ritmi di lavoro. I proletari hanno sì il problema della scuola perchè occorre che, nei loro figli, si riproduca il valore della loro forza-lavoro: ebbene debbono lottare per un salario integrativo per tale valorizzazione.
La lotta per gli interessi immediati del proletariato deve essere condotta contro il capitale ed è lotta per il salario più alto e per condizioni di lavoro migliori, da un lato, e deve essere diretta contro lo Stato delle frazioni borghesi, dall'altro.
Ultima modifica 26.2.2002