L’on. De Nicola, nella sua esposizione dei motivi che hanno determinato nella presente lotta elettorale la convergenza di una parte notevole delle forze democratiche e liberali col movimento fascista, non ha potuto dare una spiegazione desunta dal punto di vista della portata teorica e storica dei due movimenti. Egli si è limitato ai noti argomenti della necessità di evitare la esasperazione del fenomeno fascista e di inalvearlo nelle vie costituzionali e della particolare situazione del movimento liberale del Mezzogiorno. Questi argomenti non hanno offerto all’insigne oratore, una base sufficiente per potersi spingere a precisare la sua attitudine dinnanzi ai caratteri salienti del fascismo, all’aperto, confessato, tutt’ora minacciato illegalismo, all’uso sistematico della violenza civile, all’ambiente nel quale si svolgono le attuali elezioni. E nulla egli ci ha detto sul problema costituzionale se non delle contingenze piccine che possono aver avuto peso nel mondo delle coulisse parlamentari.
Tenteremo noi, dal punto di vista della nostra dottrina marxista, opposta a quella dei liberali, come a quella dei fascisti, di arrivare alla spiegazione delle convergenze suaccennate, per noi del tutto logiche e naturali.
Il liberalismo dottrinario, classico, della evoluzione democratica e borghese viene da noi considerato come un grandioso inganno. La eguaglianza e la libertà politica vengono proclamate dalle classi capitalistiche, giunte al potere con l’abbattimento del potere feudale, perché corrispondono ai loro interessi e consentono, sotto la loro maschera, la fondazione di nuovi privilegi e le disuguaglianze di classe. Non occorre ripetere i termini di questi criteri ben noti; basta ricordare che, nella fase iniziale del suo dominio, la borghesia si mantiene ostinatamente fedele a questa sua fisionomia liberale, la quale, nella accettazione ortodossa della teoria, esclude la esistenza di partiti organizzati al di là della funzione parlamentare. Da questo risulta per noi ben spiegato, senza scendere alle molte considerazioni particolari, perché il liberalismo non abbia una organizzazione in Italia e perché esso abbia maggior forza nel Nord, paesi di borghesia molto avanzata.
L’oratore liberale col suo inno al fascismo non ha potuto parare in minima parte i colpi che ad esso sono portati dalla storia.
Non è più solo la nostra critica teoretica e l’indirizzo moderno della avanguardia proletaria verso metodi e fini che superano e condannano l’illusione democratica, ma è la stessa classe borghese che scatena un movimento antiparlamentare, non pure in una critica dottrinale, ma in manifestazioni irruenti e in violazioni spietate la cui evidenza è bene al di sopra di ogni eloquente contraddizione.
E che cosa è il fascismo? Esso non ci presenta una dottrina così classica, elaborata come quella che anima l’ideologia politica dell’on. De Nicola, ma questo non ci toglie il modo di intenderlo. Una offensiva delle classi capitalistiche contro la minaccia di rivoluzione, anzi contro lo stesso tenore di vita delle classi lavoratrici, è oggi fatto mondiale che si impone come conseguenza della guerra e dei suoi incalcolabili danni economici. Il proletariato dei vari paesi e del nostro, non poteva non attaccare con programma di massima conquista. Il capitalismo doveva ugualmente muovere contro tutte le manifestazioni dell’attività proletaria, essendo una condizione della sua resistenza alla grande crisi la depressione della remunerazione del lavoro. In questa fase le classi dominanti, laddove ha più squisito sviluppo l’economia borghese, non esitano a contraddire la dottrina liberale ed a porre, in modo finalmente esplicito, il problema delle forze, riconoscendo così nei fatti la verità della lotta di classe. La ideologia liberale-parlamentare è buttata via, ma siccome la borghesia non rinuncerà mai, anche quando spiega la più brutale violenza, a tentare di mobilitare a suo favore la ideologia delle altre classi, così viene ritentata una nuova dissimulazione della lotta di classe con le formule prese a prestito dalla dottrina relativamente recente del nazionalismo imperialista.
In Italia il fascismo non dà
soluzioni troppo brillanti del problema teorico, ma, liberandosi di ogni pudore
democratico, presenta una soluzione poderosa del problema organizzativo. Si
tratta di uno dei due metodi per la difesa dello stesso regime. La loro
applicazione si distingue per contingenze storiche e geografiche, ma, anche in
un paese più moderno e più omogeneo socialmente del nostro, i due metodi, lungi
dall’escludersi, possono e devono alternarsi e addirittura integrarsi. Nulla vi
è dunque di strano che il fascismo si adatti a un riconoscimento esteriore dei
principi democratici e costituzionali, non potendo arrivare a compiute
conseguenze dei principi teorici originali, e che il liberalismo si inserisca
nella potente rete organizzativa del movimento fascista. Nulla vi è di strano
alla condizione che si ammetta nel campo della discussione come affermata
definitivamente la validità della critica marxista, contro i tentativi di
spiegazione delle altre scuole, sia la liberale-democratica, sia la
nazionale-fascista.
Invece liberali e nazionalisti ricusano tutt’ora di essere gli esponenti della grande borghesia; non solo. Gli uni vogliono anche parlare alle classi proletarie in nome dell’idilliaca evoluzione democratica e progressista; i secondi, in nome degli interessi e dei destini nazionali. Su di essi non ci tratterremo ulteriormente. Ma è caratteristico che gli uni e gli altri ci si vogliano presentare come i partiti capaci di inquadrare il movimento sociale delle classi medie e dell’intelligenza.
Notiamo anzitutto come le due affermazioni si distruggano a vicenda: il fascismo vuol parlare in nome di una nuova classe dirigente, formata da reduci di guerra e che spodesta la vecchia borghesia parassitaria della industria, della banca e dell’agricoltura. Giolitti e i liberali, e persino De Nicola, affermano, alla loro volta, di difendere quei ceti e reclamano alla funzione della media borghesia intellettuale, tutta la tradizione storica del liberalismo italiano. In realtà gli avvenimenti contemporanei in Italia dimostrano ancora una volta la impossibilità di una funzione autonoma dei ceti intermedi. Questi non hanno saputo, in tanti anni di storia parlamentare, giungere al governo democratico-socialista e sottrarsi all’effettiva potenza degli industriali, agrari e banchieri, cui hanno dato solo il servizievole personale dei professionisti della politica. Poi hanno rinculato con orrore dinanzi alla minaccia della dittatura del proletariato, scioccamente da essi confuso col governo della società da parte dell’ignoranza e della incompetenza. E hanno questi ceti medi creduto di trovare un loro sbocco nel fascismo, credendo di far cosa originale e indipendente. Ma il fascismo si presenta oggi come il partito dei grandi ceti profittatori tra loro alleati, che in una organizzazione unitaria e di straordinaria saldezza, hanno inquadrato e mobilitato per sé, con tutti i mezzi fortissimi contingenti delle altre classi e soprattutto di quelle intermedie. Se questo non fosse dimostrato da tutti – nessuno escluso – gli atti del potere fascista in tutti i campi della sua tumultuosa attività; se non fosse evidente in tutti che la lista nazionale è la lista dei grandi banchieri, degli alti speculatori, dei grandi industriali, dei siderurgici, degli armatori, dei grandi latifondisti e dei capitalisti agrari, non si spiegherebbe, da parte delle classi medie, l’atteggiamento ostile che esse hanno assunto verso il governo e la lista fascista nelle regioni meridionali, dove è evidentemente più difficile il predominio assoluto dei più elevati strati borghesi.
Noi non attendiamo dai liberali la reazione contro la sopraffazione fascista e non conteniamo la nostra accusa ai fascisti sul fatto che essi hanno bistrattato la democrazia. Noi sappiamo che una libertà fondata soltanto sui canoni giuridici e su consultazioni schedaiole non è che una nuova minaccia impotente a garantire altro che il cittadino ideale della Repubblica borghese, quello che ha nella biblioteca i classici dell’enciclopedia e nel grosso gonfio portafoglio i titoli di possesso fondiario e le azioni delle grandi anonime. Noi non chiediamo ai democratici e liberali la difesa della libertà e del diritto alla vita di chi possiede solo la forza del suo braccio e della sua mente. Non rifiutiamo al fascismo il sollazzevole funerale dell’istituto parlamentare ed elettorale, ma la nostra condanna della democrazia non suona all’unisono con quella fascista oltre che per tutto il nostro orientamento critico e storico anche per questo; che noi non abbiamo chiesto che si immolassero all’ideale della democrazia milioni di vittime, così come hanno fatto i fautori della guerra democratica ai quali il fascismo riporta la tradizione delle sue origini. Noi non abbiamo bandito una crociata contro il Kaiser per farci poi propugnatori del suo metodo politico di governo: noi, se fossimo in condizioni ben diverse dalle attuali, non maschereremmo sotto menzogna di perequazione giuridica tra i cittadini e anche tra gli italiani, l’aperta dittatura di una classe vincitrice.
Ma voi, si risponderà, che pretendete erigervi a critici altrui, siete oggi sconfitti e condannati; su voi pesano due fallimenti; quello della costruzione socialista in Russia e quello della rivoluzione in Italia. Non è qui possibile svolgere ampiamente il tema della posizione politica del nostro partito internazionale, e all’infuori della responsabilità di queste sconfitte, le sconfitte sono o contengono in potenza i mezzi per capovolgerle un giorno. Qui diciamo solo questo; che innanzi al preteso nostro fallimento, cui si contrappone per la Russia la invincibilità dello Stato rivoluzionario e delle sue potenti armate e per l’Italia una fede che non dovete illudervi sia uscita dai cuori proletari, ben altro fallimento si presenta: quello mondiale del sistema economico capitalistico di cui le manifestazioni sono evidenti da un capo all’altro di Europa e del mondo, e del quale sono ben lungi dall’essere una smentita le effettive condizioni del nostro paese, guardato al di fuori del bluff elettorale. E nostro conforto, oltre i risultati inconfutabili dell’esame della situazione del dopoguerra, la gravità della cui lesione ha lo stesso on. De Nicola voluto, è la storia di tutto il movimento proletario, il quale ha, cento volte, da amare prove e dure disfatte, tratta l’esperienza e la forza per l’ulteriore riscossa, sempre ricongiungendosi a se stesso, al di sopra delle barriere tra i popoli e delle parentesi truculente di controrivoluzione, nella continuità di una missione che nessuna forza potrà attraversare.
1. Erano i primissimi giorni dell’aprile 1924: la ricorrenza elettorale cadeva quando già da un anno e mezzo il fascismo si trovava al potere, tutti i partiti borghesi e le personalità di spicco facevano quadrato attorno ad esso per sferrare, anche da un punto di vista democratico-legalitario, l’ultimo definitivo attacco al movimento proletario ed al suo partito e suggellare quella dittatura di classe che avrebbe permesso alla borghesia di mantenere saldo il potere politico ed economico, scongiurando il pericolo di futuri attacchi rivoluzionari.
La nuova legge elettorale, che aveva preso il nome da Acerbo, approvata nel pieno rispetto delle prerogative democratiche, era stata preparata in modo tale da dover dare comunque la vittoria alla lista di governo. Come nella lista presentata dal governo fascista, accanto a famigerati "ras" incendiari ed assassini, figuravano i più bei nomi della tradizione liberal-democratica, anche le elezioni si svolsero in un clima che vide ben amalgamato il formalismo democratico e legalitario con la violenza brutale per impedire la partecipazione al voto degli oppositori e raccogliere suffragi a suon di manganello.
Questo clima di violenza e di intimidazione, peraltro già ampiamente sperimentato dai vecchi santoni del liberalismo classico – Giolitti in testa – aveva spinto la nuova dirigenza centrista del PCd’I a caldeggiare la tattica dell’astensionismo camuffandosi dietro argomentazioni che, a seconda dei casi, tentavano di appropriarsi delle tesi della Sinistra o piagnucolavano sulla mancata libertà di espressione. Come se in pieno regime di democrazia e di libertà le elezioni riproducessero la effettiva volontà delle masse. La sinistra comunista rifuggì invece dalle critiche moralistiche alla violenza fascista, e scrisse: «Chi ha la forza di fare imposizioni e truffe elettorali, viola i canoni della democrazia, ma si dimostra attrezzato a lottare su altri terreni, con efficienza che i rivoluzionari dovranno ben calcolare. In altri termini non ci scandalizzano le violenze e le pastette elettorali del fascismo (...) La concezione comunista della tattica elettorale e parlamentare, logicamente non esclude neppure da parte nostra la pastetta. Se potessimo fare ’pastette’ e fugare elettori avversari dalle urne, sarebbe confortante, perché saremmo più vicini a poter spiegare forze mature per l’offensiva (...) La democrazia ha fatto il suo tempo (...) lungi dal restaurare gli ideali su cui piangono i vari Amendola e Turati, la rivoluzione delle grandi masse di occidente li farà assistere ad una satanica girandola di calci nel culo a Santa Democrazia, mai vergine e sempre martire. E soltanto quella si potrà chiamare liberazione» ("L’Unità", 16 aprile 1924). In quel frangente, fu proprio la Sinistra, convinta assertrice della tattica dell’astensionismo rivoluzionario, a spingere la centrale a raccogliere la sfida dello Stato demo-fascista ed a praticare l’azione leninista del parlamentarismo rivoluzionario.
Ultima modifica 6.2.2004