Spigolature trotskiste

Bruno Maffi (1948)


Il presente articolo, pubblicato nel maggio del 1948 sul numero 9 della rivista Prometeo (Serie I), è stato trascritto per il web dalla redazione di Battaglia Comunista e dalla Libreria Internazionale della Sinistra Comunista.

 

I

Più si seguono le evoluzioni tattiche del trotskismo, più ci si accorge della estrema fragilità dei motivi che lo differenziano dallo stalinismo. Si direbbe che fra le due correnti si svolga un’affannosa corsa ad inseguimento, in cui la staffetta sia destinata ad essere continuamente raggiunta dalla retroguardia e a cederle gli stendardi che sembrava dover portare alti e immacolati al traguardo. In altre parole, il trotskismo figura come il battistrada di un’evoluzione che lo stalinismo compie con ferrea logica anche se in lieve ritardo sulle scorrerie del suo presunto ma fittizio rivale, e che lo porta ad allinearsi con questo, senza scosse e senza turbamenti, nelle svolte fondamentali della storia più recente del capitalismo. Ciò spiega tanto le difficoltà che il trotskismo incontra a differenziare concretamente il suo programma e la sua tattica dal programma e dalla tattica dello stalinismo, quanto il caratteristico procedere a sbalzi della sua organizzazione, a volta a volta ingigantita ed assottigliata a seconda della distanza che fra i due corridori si è venuta determinando.

E tuttavia, anche questa impressione risulta, ad un’analisi più attenta, sbagliata. Più che rappresentare il campo sperimentale delle evoluzioni dello stalinismo, la tattica trotskista suggerisce la immagine di un “enfant prodige” le cui avventure in zone e su terreni pericolosi, perfettamente tollerate dalla madre, hanno lo straordinario potere di ricondurre all’ovile le pecorelle smarrite, e riconquistare all’autorità superiore della famiglia chi aveva per un momento creduto di sottrarsi al suo giogo. Non è infatti soltanto vero che il trotskismo anticipa nella tattica quelle che sono necessariamente per essere le manovre dello stalinismo, ma è anche vero che, dopo rapide e temerarie incursioni nella “zona del fuoco”, esso ritorna fatalmente al punto in cui la sua via s’era separata da quella dell’altro.

È questo, evidentemente, il destino di tutte le posizioni intermedie, che non è soltanto di essere continuamente divorate dalle posizioni dichiaratamente riformiste, ma di ricondurre al loro minimo comun denominatore le eventuali ed incerte eresie germinate sul loro tronco. È perciò una logica storica ferrea quella che, al termine di violenti contrasti, porta regolarmente il trotskismo a riaffiancarsi alle formazioni più tipicamente reazionarie del riformismo e a regger la coda ai fronti popolari a alla guerra. Poco importa che si rifiutino determinati strumenti dell’armamentario classico e ormai tradizionale del trotskismo, come la “difesa della URSS”: la conclusione è sempre e fatalmente la stessa, né si può dire che deponga a favore della coerenza degli “antidifesisti” l’abbandono di quella tesi e il mantenimento integrale del programma transitorio.

II

Una delle più caratteristiche pietre d’inciampo del trotskismo è, come si sa, la questione delle lotte d’indipendenza dei paesi semicoloniali e coloniali, intendendosi con questo termine non soltanto i paesi su cui si esercita da oltre un secolo il colonialismo borghese, ma anche i paesi ad alto sviluppo industriale che la seconda guerra imperialistica ha sottoposto al controllo ferreo e allo sfruttamento integrale delle grandi potenze vincitrici. Di fronte a queste lotte, la posizione costante del trotskismo è di appoggiare ogni moto di cosiddetta indipendenza delle borghesie indigene come fattori suscettibili d’indebolire la impalcatura internazionale dell’imperialismo colonizzatore. L’appoggio è, beninteso, condizionato nel senso del mantenimento di una distanza, sul terreno organizzativo, fra i partiti borghesi dell’indipendenza e quelli proletari dello antimperialismo, ma si traduce in un sostanziale parallelismo nei programmi e perciò anche nella tattica. Le rivendicazioni poste alla base della “politica coloniale” del trotskismo non hanno perciò nulla che le differenzi da quelle che agitano, o potrebbero essere portati ad agitare, i partiti nazionalisti del radicalismo borghese: sono rivendicazioni transitorie, che ruotano intorno ai pilastri delle libertà democratiche o della indipendenza nazionale. Orbene, su questo terreno, lo stalinismo può ben differenziarsi temporaneamente per un modo più guardingo di porre gli stessi problemi e magari di tacerli; ma è inevitabile che, nel corso del suo sviluppo, sia portato non soltanto a farli suoi, ma a far sue le parole d’ordine che i trotskisti avevano poco prima lanciate come loro particolare scoperta. È bastato ad esempio che divampasse il contrasto imperialistico fra Russia e Stati Uniti, perché la parola d’ordine dell’“indipendenza nazionale” divenisse, dopo il contributo offerto allo stritolamento collettivo di tutta una serie di illustri indipendenze nazionali, il grido di battaglia e di raccolta del nazionalcomunismo, con l’inevitabile corteggio di parole di ordine democratiche presentate come tappe transitorie verso il socialismo. E, ancora una volta, trotskismo e stalinismo si confondono.

Leggete il Messaggio della IV Internazionale ai Lavoratori Giapponesi [1]. La critica allo stalinismo si risolve nella critica non ad una impostazione generale controrivoluzionaria del suo programma, ma ad un suo particolare e temporaneo aspetto, l’appoggio dato al mantenimento dell’istituto imperiale (appoggio cui lo stalinismo ha ormai rinunciato senza essere per questo meno reazionario): la tattica si risolve nella “richiesta” del “ritiro delle truppe di occupazione e del diritto del popolo a disporre di se stesso” — parola d’ordine ormai diventata il leit-motiv di tutti i Fronti Popolari e, dal punto di vista marxista, del tutto vuota e antistorica, come se il ritiro delle truppe, in regime internazionale d’imperialismo, potesse mai significare libertà per un “popolo” (e che cos’è, marxisticamente, popolo?) di disporre di se stesso, come se un popolo potesse mai, in regime capitalista, scegliere il proprio destino! —, e, una volta ritirate queste truppe, nella “richiesta” di “libere elezioni ad un’Assemblea Costituente nella quale il popolo possa determinare senza coercizioni il tipo di Stato e di Costituzione che realmente desidera” (dunque, per i marxisti della IV Internazionale, il parlamento borghese non rappresenta una forma di coazione). Nella lotta contro l’inflazione e l’alto costo della vita, la IV Internazionale lotta per “la scala mobile dei salari aggiustata all’alto costo della vita, per il controllo sulla produzione esercitato da consigli di fabbrica democraticamente eletti, per il controllo dei prezzi e della distribuzione dei generi di prima necessità da parte dei sindacati e di comitati liberamente eletti di massaie e di contadini poveri”, schierandosi così, da una parte, con tutti i Terracini, dall’altra con tutti i Di Vittorio del mondo; infine (e qui viene la commedia) propugna la “creazione di governi di operai e contadini senza ministri borghesi” (quest’ultima aggiunta vale da sola un Perù) con la meta finale, cui né socialisti riformisti né nazionalcomunisti hanno mai rinunciato, della “completa abolizione del capitalismo”. Mettete un operaio giapponese di fronte alla scelta fra questo pasticcio di rivendicazioni democratiche e di lontane postulazioni rivoluzionarie, ed un programma di indipendenza nazionale e di democrazia progressiva condensato negli stessi obiettivi minimi ma appoggiato alla forza militare della Russia, e sfidatelo a non scegliere per quest’ultimo, tanto più quando il Segretariato della IV Internazionale si affanna a dimostrargli che la burocrazia staliniana ha tradito il programma fondamentale del socialismo, ma che intanto, in caso di guerra, la sua causa dovrà comunque trovare il suo appoggio, sia pure in forma condizionata (sparare… sotto condizione), in difesa delle conquiste progressive e rivoluzionarie dell’economia nazionalizzata e della pianificazione ad opera dello Stato!

III

Ma c’è, in campo trotskista, chi non digerisce la capitolazione di fronte al palese tradimento della causa internazionalista e rivoluzionaria del proletariato da parte della Russia “progressista” di Stalin. L’ala dissidente di Shachtman è, negli Stati Uniti, su questa posizione. Ma anche per questo ramo dissidente del trotskismo internazionale, l’intermedismo rimane la legge, e l’intermedismo è l’anticamera dello stalinismo.

Il piano Marshall è, per accezione comune, un piano di colonizzazione imperialistica dell’Europa. Lo dicono anche gli staliniani, che imperniano anzi su questa constatazione la loro propaganda, non soltanto elettorale, in Europa. Lo dicono anche i trotskisti, come lo diciamo noi: ma quali conclusioni ne traggono? Le stesse di quegli staliniani che la corrente Shachtman è la più violenta nell’attaccare, cioè queste (leggasi Labor Action del 17 nov. 1947): bisogna accettare gli aiuti all’Europa, ma esigere che non diventino un’arma per lo assoggettamento del Vecchio Mondo all’imperialismo del Nuovo. In altre parole, chiedere all’imperialismo che faccia della beneficenza, protestare anzi perché ne fa troppo poca, meno di quella che potrebbe fare, e pretendere che gli aiuti concessi siano dati senza contropartita, per cristiana pietà, e non creino vincoli di dipendenza per chi li riceve (per questi marxisti, si può essere debitori e indipendenti, schiavi e liberi!). Programma pratico:

  1. “pieno completo aiuto materiale, finanziario, morale (anche morale, per grazia di Dio!), da estendersi alla classe operaia, ai popoli d’Europa: Labor Action, lungi dall’opporvisi, crede che molto di più potrebbe essere fatto anche dalla America capitalista, per aiutare l’Europa, di quanto non sia proposto dal piano Marshall” (sotto, dunque, capitalisti!);

  2. “Ci opponiamo a tutti i vincoli e le condizioni connesse ad un programma di aiuti che, in qualsiasi modo, faciliti l’intervento imperialista americano negli affari interni dei paesi aiutati… così come all’imposizione di interessi, alla insistenza per un trattamento preferenziale e agli altri notissimi metodi di intervento imperialistico” (per i trotskisti come per gli staliniani, che sostengono la stessa tesi, l’intervento non è tutt’uno col fatto di anticipare capitali, materie prime, ma è legato a particolari clausole, che possono anche non esserci senza per questo determinare rapporti meno ferrei di sudditanza; per gli uni e per gli altri, benvenuti i soccorsi dei padroni, ma che non ci facciano pagare gli interessi!);

  3. e qui viene il grottesco — ma Togliatti, al VI Congresso, ha sfiorato l’argomento con le stesse o con somigliantissime parole — “siamo contrari all’amministrazione del piano da parte di trust e corporazioni finanziarie… e proponiamo che le organizzazioni sindacali dei rispettivi paesi abbiano il diritto di salvaguardare e proteggere gli interessi dei loro lavoratori in modo che nessun fondo, prestito ecc. sia usato ai fini del loro sfruttamento” (le industrie europee dovranno dunque accettare prestiti, ma non sfruttare gli operai, cioè cessar di funzionare come industrie capitalistiche, e chi anticipa il danaro cederà all’operaio, attraverso le sue organizzazioni di difesa, il diritto di rendere improduttivi i capitali prestati!).

Dove si vede che, difesisti o no, le conclusioni sono le stesse: accettare la democrazia e rifiutarne le conseguenze; giocare alla indipendenza con le armi dell’imperialismo; controriformare le più sottili manovre di consolidamento dell’edificio capitalistico internazionale e gabellarle per misure progressiste. Lo imperialismo non ha ché da rallegrarsene: le condizioni gli interessano poco, l’essenziale è aver garantito l’appoggio di quella stessa classe che, tradizionalmente, considerava sua avversaria. State tranquilli, trotskisti di destra o di sinistra: l’imperialismo americano non avrà bisogno di imporre clausole per realizzare, attraverso la politica degli aiuti da voi e dai cugini staliniani benedetti, l’asservimento dell’Europa occidentale ai suoi piani!

IV

Infine, c’è una varietà di trotskisti che, indipendentemente dall’accettazione o meno della parola d’ordine della difesa dell’URSS, si sono convinti che la tattica dell’appoggio ai moti d’indipendenza nazionale o coloniale è, nei termini in cui tradizionalmente la pone il trotskismo, rovinosa. The New International (organo di Shachtman) riporta [2] la risoluzione di un gruppo di trotskisti cinesi che si staccarono dalla organizzazione ufficiale perché questa aveva continuato ad appoggiare il Kuomingtang pur dopo che “aveva cessato da tempo di condurre una lotta indipendente, anti-imperialistica contro il Giappone” (e quando mai l’aveva condotta?).

I dissidenti cinesi si sono accorti delle conseguenze fallimentari della politica di appoggio incondizionato a tutti i moti di emancipazione coloniale, e riconoscono che la bandiera dell’“indipendenza dall’imperialismo x” (nella fattispecie, dall’imperialismo giapponese) è sempre soltanto servita a giustificare la repressione dei moti operai e il massacro dei proletari. Ma da questa prima constatazione non derivano una revisione critica del problema nel senso di riconoscere che ogni cosiddetto moto di indipendenza coloniale ha, oggi soprattutto, un fondo imperialistico e che, d’altro canto, non si pone più per le colonie il problema di una rivoluzione borghese, per cui, sia dal punto di vista della lotta contro lo sfruttamento imperialistico, sia da quello interno della lotta fra le classi, può porsi soltanto la questione della rivoluzione proletaria: ne derivano tutta una casistica che, mentre pretende di liquidare gli “errori” del passato, riconduce le lotte operaie sul binario di tutte le sconfitte che il proletariato dei paesi coloniali ha subito. Il fondo dell’atteggiamento trotskista di fronte ai moti coloniali è sempre quello:

“partecipare alla guerra, mantenendo però completa indipendenza di azione e di politica […] un movimento di emancipazione nazionale guidato dalla borghesia “nazionale” dei paesi coloniali può assumere carattere progressivo solo se le masse che vi partecipano godono di piena libertà di propaganda, di organizzazione e di azione.”

Si chiede cioè l’impossibile. Un moto borghese può essere o non essere progressivo e, in base alla valutazione della sua progressività, lo si dovrà o meno appoggiare. Esempio:

“Le guerre anti-imperialiste condotte dalla borghesia coloniale non sono state e non saranno invariabilmente progressive in ogni condizione e in ogni tempo. Il loro carattere deve sempre essere deciso in base a fattori interni ed internazionali. Interni: se la guerra è condotta a prezzo di una terribile oppressione degli operai e contadini indigeni (ve la figurate una guerra che non opprime, o che, poiché sembra sia un problema di gradi, opprima poco contadini e operai?) allora, per quanto possa sembrare che abbia un ruolo progressivo nella lotta contro la potenza imperialista, è però reazionaria… Internazionali: se la guerra si svolge fra un paese coloniale da una parte e una potenza imperialista dall’altra, essa è progressiva; se invece è condotta (o in ultima analisi finisce per esserlo) fra due potenze imperialistiche diviene perciò parte della guerra imperialista… perde il carattere progressista che aveva alle origini.”

Come se nell’èra dell’imperialismo monopolistico ed accentratore, una nazione coloniale potesse mai condurre una “guerra coloniale pura” e non essere, sul piano borghese, pedina di un’altra grande potenza imperialistica. Risultato finale: i trotskisti si batteranno per l’indipendenza coloniale anche nei quadri di una guerra condotta dalla rispettiva borghesia sfruttatrice, rivendicando il diritto di essere ad un tempo soldati disciplinati e rivoluzionari intransigenti.

È bene che le posizioni trotskiste vengano portate all’assurdo, come in questo caso, nello sforzo di portarle alle loro conclusioni logiche. L’assurdo, in realtà, è alla base dell’intermedismo, di quest’affannosa ricerca di tappe e conquiste progressive in una società che non ha più nulla da dare al proletariato oltre alla guerra. Messi su quel piano inclinato, si va in fondo: o si abbraccia la guerra senza condizioni, o si sfoglia la margherita per decidere se la guerra è o non è progressista, se farà o no soffrire i proletari, se sarà fatta fra potenze imperialiste o fra coloni e colonizzatori. E, poiché la risposta della margherita non è mai precisa, ci si butta nella guerra, salvando la faccia con la dichiarazione che si conserva la propria fisionomia indipendente… col risultato di fungere da carne da macello per la propria borghesia o per la “sesta parte socialista del mondo”, e di riceverne come ricompensa finale, oltre il danno, le beffe.

Le quali sono, in fondo, meritate, giacché, se il problema è di trovare con la lampada di Diogene gli anelli intermedi del “progresso” in regime borghese, a che pro un doppione di quella “democrazia progressiva” che lo stalinismo ha smerciato in tutti i porti del mondo?

NOTE:


[1]In Fourth International, sett.-ott. 1947, p. 242: Open Letter to Workers and Peasants of Japan..

[2]Numero di ott. 1947, p. 253..

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Ultima modifica 06.05.2010